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MICHELE SALVATI, Deputato. Con la riforma federale e con alcune sue prime formulazioni a livello costituzionale è stato messo in moto un processo che è ormai inarrestabile e che nello stesso tempo, come economista e cittadino convinto della necessità del federalismo, trovo soddisfacente e preoccupante. I motivi di soddisfazione potete immaginarli, per cui li tralascio; mi soffermo sui motivi di preoccupazione.
Il processo di innovazione federale dello Stato e di innovazione amministrativa (le due cose, onorevole Tremonti, vanno considerate insieme, anche se naturalmente dobbiamo tenere separata la legislazione dall’amministrazione) non è una routine pacifica in cui, essendo noto il punto di partenza ed essendo note e condivise le tappe intermedie, conosciamo anche i punti di arrivo. E’, invece, un processo conflittuale, come i fatti hanno dimostrato, in cui i conflitti nascono sia da diverse visioni del federalismo, spesso trasversali tra forze politiche; sia da diversi interessi istituzionali (ricordo, ad esempio, in Bicamerale, la strenua difesa dell’attuale ruolo delle province o del bicameralismo così com’è ora); sia da diverse situazioni di sviluppo economico (vi sono ancora forti preoccupazioni circa i presunti effetti negativi che il federalismo potrebbe avere nel Mezzogiorno), sia da diverse appartenenze politico-partitiche. Vi sono dunque almeno quattro fonti di conflitto.
Mi devo affidare alla vostra capacità intuitiva, data la ristrettezza dei tempi, per capire gli effetti dirompenti dell’intersezione di queste fonti di conflitto. Il rischio di rissosità che evocava Lombardi è presente; con esso, vi è il rischio, assai più grave, di un federalismo costoso, inefficiente, incompreso dai cittadini. La riforma federale può invece avere effetti positivi straordinari, sia in termini di democrazia, sia di sviluppo economico. Per questo ho apprezzato molto l’iniziativa del Presidente Violante: questo non è un seminario; è innanzitutto il riconoscimento di una necessaria parità di interlocuzione tra due livelli legislativi nell’imminenza di due processi politici decisivi, quello degli statuti e quello della discussione, più volte evocata in questa sede, del progetto di legge di modifica del titolo V, parte seconda, della Costituzione. Questo è il test vero della “voglia di federalismo” esistente tra i ceti politici del nostro paese.
Mi limito a fare due osservazioni. La prima è la seguente. Dei quattro conflitti che ho evocato prima, tre sono inevitabili ed utili: diverse visioni, spesso trasversali; diversi interessi istituzionali, diversi interessi economici. Questi conflitti vanno composti e non vi può essere un dominus che impone la composizione ottimale. Ma uno di quei conflitti non è necessario né utile: il conflitto politico-partitico, cioè l’uso strumentale, per avvantaggiare nel breve periodo la propria parte, delle tensioni inerenti al processo di transizione federale. Esso rischia infatti di rendere impossibile la composizione necessaria degli interessi e delle visioni, cioè degli altri tre conflitti. Io non demonizzo il conflitto politico e neppure l’intersezione di esso con tematiche federali. Basta guardare ciò che avviene in Germania per rendersi conto di quanto il conflitto politico sia importante, di quanto la strumentalità politica sia legittima e non dannosa.
Ma la Germania è uno Stato federale assestato: il conflitto partigiano può essere dannoso in una situazione di statu nascenti, quando il quadro istituzionale non è ancora assestato. Questo, lo statu nascenti, è invece proprio la situazione nella quale ci troviamo, una situazione in cui un atteggiamento bipartisan, non contingente, non partigiano, dovrebbe prevalere e lasciare giocare gli altri tre conflitti senza sovrapporvi tensioni partigiane e contingenti, perché anche all’interno dei partiti maggiori, nei Democratici di sinistra e in Forza Italia, esistono forze con diverse concezioni del federalismo e una diversa voglia di arrivare ad uno stato federale. Questo lo abbiamo sperimentato e visto abbastanza bene nella Commissione Bicamerale.
La seconda considerazione che voglio fare riguarda lo stato finale delle nostre riforme, che è ancora lontano e dovrebbe guidarci come stella polare. Efficienza economica e federalismo vanno d’accordo quando poteri e responsabilità delle diverse autonomie e dei diversi livelli di autonomia sono stabili, perfettamente noti e introiettati dai cittadini. In altre parole, quando i diversi enti autonomi, politicamente e legislativamente, non hanno alcuna possibilità di scaricare le loro responsabilità su altre autonomie, lo Stato sulle regioni (è successo anche di recente) e le regioni sullo Stato (anche questo si è verificato recentemente), quando i cittadini, nel valutare un governo che è durato una legislatura, sia esso regionale o statale, lo possono riferire a responsabilità proprie e i governi non possono schermarsi credibilmente dietro la scusa che gli è stato impedito di lavorare, che la colpa è di un altro livello istituzionale che non ha fatto il suo dovere. Queste scuse purtroppo, a tutti i livelli, regionale, comunale e provinciale, sono credibili e vengono invocate di continuo, il più delle volte giustamente, spesso capziosamente per evitare le proprie responsabilità.
E’ necessario, credo, arrivare sia ad un assetto normativo stabile, sia ad una divisione dei poteri e delle competenze accettata e condivisa, sia ad una consapevolezza diffusa tra i cittadini di quell’assetto e quella divisione di competenze: i cittadini devono sapere quali sono i compiti dei diversi livelli di autogoverno per poter dare un giudizio politico appropriato. In condizioni di conflittualità e di incertezza, l’esito sicuro è l’inefficienza, lo scarico di responsabilità, l’insoddisfazione dei cittadini, il “piove, governo (di Roma) ladro”: specie da parte dei livelli di governo inferiori la tentazione (spesso giustificata) di “dare la colpa” ai livelli superiori è molto forte, in una situazione storica di federalismo ancora poco sentito dai cittadini, in cui la percezione che se le cose vanno male la colpa è di “Roma”, è ancora dominante. Non ci sono vie facili di uscita, ma credo che un accordo onesto per definire le responsabilità con precisione, per consentire ai cittadini di giudicare senza che i diversi livelli di governo abbiano la possibilità di schermarsi dietro la scusa dell’inadempienza altrui, sia la stella polare che ci deve guidare nel processo che è ancora a venire (Applausi).