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Stenografico 9 maggio 1998


GIORNATE IN MEMORIA DI ALDO MORO
9 maggio 1998

Indice

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I lavori cominciano alle 9,15

(Sul banco che fu dell'onorevole Aldo Moro è deposto un fascio di rose rosse).

Seguito degli interventi dei rappresentanti delle assemblee elettive di regioni, province e comuni e di esponenti della società civile.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare Emma Bassani, presidente del consiglio provinciale di Milano. Ne ha facoltà.

EMMA BASSANI, Presidente del consiglio provinciale di Milano. Signor Presidente, signore e signori, ho il piacere di intervenire in questo consesso in qualità di presidente del consiglio della provincia di Milano, di cui porto il saluto. Vorrei per prima cosa ribadire l'importanza che anche per me riveste la concomitanza della riflessione sul ruolo delle assemblee elettive e della commemorazione dell'omicidio dell'onorevole Moro.
Quella tragedia che colpì il paese ci obbligò tutti a riflettere sulla qualità della democrazia che era stata costruita dal dopoguerra: era stato rapito e poi ucciso un primo ministro che si accingeva a dare vita e a presentare un nuovo Governo alla Camera, cioè per importanza alla prima assemblea elettiva del paese. Forze oscure ed esterne e giochi antidemocratici erano quindi riusciti nell'intento di impedire alla democrazia di esprimersi attraverso i canali regolari: se oggi ci ritroviamo qui a riflettere sul ruolo delle assemblee elettive, lo dobbiamo anche a quel processo di rinnovamento delle istituzioni democratiche che ebbe avvio proprio in quegli anni e che ancora non si è concluso.
Ancora adesso i cittadini che noi rappresentiamo nelle istituzioni chiedono di conoscere la verità ed i retroscena del rapimento Moro ma, oltre a farmi portavoce di questa richiesta alle autorità oggi qui presenti, vorrei affrontare in questo breve intervento il tema dello statuto delle minoranze, poiché a mio avviso è anche attraverso tale strumento che si rafforzano le istituzioni democratiche e si garantisce ad esse quella trasparenza che ormai gli elettori chiedono a gran voce e che in passato troppe volte, purtroppo, è stata disattesa. Laddove esiste un'assemblea elettiva, a qualsiasi livello istituzionale appartenga, a qualsiasi sistema elettorale si riferisca, è indispensabile che essa si doti di uno statuto delle minoranze. È questo uno strumento che deve essere costruito in modo tale da permettere effettivamente alle minoranze di esercitare il proprio ruolo di controllo sull'attività della maggioranza.
Negli enti locali, le nuove leggi hanno assegnato ai consigli il ruolo di controllo e quello di indirizzo: pare evidente che ai consiglieri della maggioranza si addice maggiormente il ruolo di indirizzo della giunta, mentre ai consiglieri dell'opposizione si confà soprattutto il ruolo di controllo. Ma per svolgere al meglio questo fondamentale ruolo democratico occorre che i gruppi di minoranza siano tutelati nel loro diritto di avere idonei strumenti e adeguati spazi istituzionali; è giusto allora che lo statuto delle minoranze individui una presenza delle minoranze nell'ufficio di presidenza del consiglio,

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adeguati spazi di intervento in aula, una presenza delle minoranze all'interno delle commissioni consiliari, così come dovranno prevedere il rispetto delle minoranze in tutti quei ruoli di controllo che sono presenti negli enti locali, a cominciare, per esempio, dal collegio dei revisori dei conti. Tuttavia, al fine di evitare che la possibilità di esercitare un ruolo di controllo da parte della minoranza rimanga solo una bella enunciazione teorica, ritengo che nello statuto delle minoranze andrebbero evidenziati chiaramente tutti gli strumenti che l'ente locale mette a disposizione dei propri gruppi di minoranza, affinché questi possano esercitare effettivamente la loro funzione. Mi riferisco quindi alla garanzia, anche per i gruppi di minoranza, di avere degli uffici a disposizione per riunirsi, uffici dotati di personale di segreteria qualificato, al quale potersi rivolgere per ogni necessità, anche quelle di accesso agli atti, di mezzi tecnici quali telefono, fax, computer, di un archivio degli atti di giunta e di consiglio, di accesso alle informazioni relative a tutte le attività che si svolgono all'interno dell'ente locale e di accesso agli uffici. Infine vorrei ricordare che in alcune realtà locali la maggioranza, oltre a disporre del numero di consiglieri previsto dal premio di maggioranza, può far conto su gruppi consiliari che sono entrati in maggioranza dopo il ballottaggio: in questo caso, per le minoranze diventa impossibile avere un numero sufficiente di consiglieri per poter chiedere la convocazione del consiglio, e questa è un'anomalia che va sanata. Per concludere, ritengo che per avere effettivamente una democrazia compiuta, dove la trasparenza sia un valore da perseguire e dove la minoranza abbia un ruolo fondamentale, non basti enunciare nello statuto dei principi generici rispetto a tali questioni, ma occorra arrivare ad elaborare uno statuto delle minoranze che entri anche nei dettagli tecnici e concreti, in modo tale da rendere effettivamente perseguibile il principio democratico. Ricordo che in democrazie più antiche, come quella britannica, si arrivava a dotare le minoranze di fondi tali che le permettevano di costruire governi ombra veri e propri. Non credo che a livello locale sia necessario arrivare a tanto, ma su tali questioni è sempre meglio peccare per eccesso che per difetto. Se peccheremo per eccesso, avremo maggiori garanzie che i nostri figli e nipoti non debbano più confrontarsi con tragedie oscure come quella a cui noi rivolgiamo il nostro ricordo addolorato. Grazie (Applausi).

PRESIDENTE. Grazie, presidente Bassani.

È iscritto a parlare Marcuccio Marcucci, consigliere comunale di Viterbo. Ne ha facoltà.

MARCUCCIO MARCUCCI, Consigliere comunale di Viterbo. (Intervento depositato). Signor Presidente, signore e signori, è con orgoglio, ma anche con tanta emozione, che intervengo in questo consesso, in rappresentanza anche dei colleghi di Viterbo. Penso sia la prima volta che un consigliere comunale può portare la sua voce nel Parlamento italiano.
È la prima volta che può esternare i suoi problemi, che può esternare le frustrazioni di una larga parte di amministrazioni comunali, senza distinzione di ruolo o di appartenenza politica, perché una riforma incompiuta, e forse anche poco compresa, ha finito per trasformare il ruolo del consigliere comunale, relegandolo quasi a rappresentare una comparsa, comparsa alla quale è richiesta solo una espressione di voto, che deve quasi sempre coincidere con un «sì» o con un «no», a seconda che gli ordini provengano dalla maggioranza o dalla minoranza.
Sindacato di controllo e organo di proposizione politica, il consiglio comunale risulta nei fatti un organismo senza potere, in cui si scontrano e collidono la forza dei numeri e quella delle idee, che sono comunque destinate a soccombere. Questa, onorevole Presidente, signore e signori, è una amara realtà che scaturisce da una vissuta sofferenza che vede concordi,

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sul tema, i consiglieri sia di maggioranza che di minoranza.
Quella che doveva essere la riforma per la sottrazione di spazi di potere ai partiti che li avevano illecitamente ed illegittimamente occupati, si sta, di fatto, rivelando come un ulteriore rafforzamento della presenza dei partiti nella vita pubblica.
Il sindaco inamovibile, forza il ricorso alle elezioni anticipate, ha, di fatto, ingessato il sistema delle autonomie locali. Nessuna maggioranza permetterebbe il ricorso ad elezioni anticipate, conscia che questo potrebbe significare la perdita della guida amministrativa della città.
Tale situazione è, a parere del sottoscritto, peggiore di quanto accadeva in passato, ove almeno esisteva la possibilità di modificare gli aspetti e sostituire gli uomini nel corso del mandato amministrativo. La impossibilità di operare modifiche ha sclerotizzato il sistema, impedendo qualsiasi innovazione a beneficio delle popolazioni amministrate.
Di fatto l'amministrazione del sindaco potrebbe rivelarsi contraria agli interessi cittadini, ma inamovibile. I programmi potrebbero essere ottimi, ma inadatti quelli che dovrebbero attuarli.
Perché allora non pensare al governo delle maggioranze di programma?
Parlavo all'inizio del mio intervento di una riforma incompiuta e forse non ben compresa, senza giustificare esaustivamente il mio dire.
Alla riforma del sistema elettorale non ha corrisposto una adeguata modifica delle abitudini e dei modi di fare dei consiglieri, specialmente se appartenenti alla maggioranza.
L'istituzione consiglio comunale viene considerata come una fastidiosa necessità prevista dalla legge, della quale liberarsi quanto prima.
Il consiglio comunale non è visto come snodo centrale e articolazione basilare della nostra democrazia, quasi che possa ammettersi una vera democrazia compiuta senza la difesa e la protezione delle assemblee elettive esprimenti la base del pluralismo politico. La dialettica politica dovrebbe sempre e comunque rappresentare la cartina di tornasole delle scelte, sempre trasparenti, delle amministrazioni locali.
La funzionalità dei consigli comunali, quasi si trattasse di un corpo estraneo, viene costantemente sabotata con tutta una serie di negazioni e condizionamenti.
Il consiglio ed i gruppi consiliari non debbono avere una propria vita autonoma.
L'ufficio di presidenza, il presidente debbono mendicare riconoscimenti ed autonomia organizzativa, economica e finanziaria. Questa situazione rischia di innescare un processo di regressione, estremamente pericoloso per la democrazia e le istituzioni: Partendo da queste poche considerazioni, che un tempo necessariamente breve ha consentito, chiediamo una serie di iniziative, anche legislative, che educhino gli amministratori ad una forma di partecipazione, necessaria ad un sempre maggiore sviluppo della democrazia.
Se sapremo interpretare in nuovo modo la partecipazione, potremo lasciare un'eredità migliore a coloro che ci seguiranno.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare Vittorio Prodi, presidente della provincia di Bologna. Ne ha facoltà.

VITTORIO PRODI, Presidente della provincia di Bologna. Grazie, onorevole Presidente Violante, in particolare per aver organizzato questa riunione che vedo di grande utilità per fare il punto sulle nostre assemblee elettive e per approfondire assieme gli aspetti di innovazione necessari per tenerle al passo con le richieste dei cittadini e dei vari attori nelle autonomie. Mi è anche di grande significato farlo nella memoria di Aldo Moro, riportandolo così nel Parlamento, come ha ricordato ieri la figlia Agnese in modo tanto suggestivo. Il suo sacrificio è

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stato ed è per me fra le maggiori motivazioni per il mio impegno politico.
Desidero qui offrire un piccolo contributo, riferendomi ad una nostra esperienza nella provincia di Bologna, sottolineando come le assemblee elettive abbiano bisogno di un confronto dinamico e, quindi, di cogliere le sfide molto precise che ci stanno davanti. Già ieri la presentazione del professor Burns è stata molto interessante, da questo punto di vista, per gli spazi che ha delineato nell'azione e nelle interazioni delle assemblee elettive con tutto il resto del mondo, direi.
Vorrei sottolineare la necessità delle assemblee elettive di confrontarsi con le autonomie territoriali. La nostra esperienza, di cui parlavo prima, consiste in un sistema bicamerale molto sui generis che, accanto al consiglio provinciale, ha visto la conferenza metropolitana dei sindaci. È un'esperienza a livello volontario che, però, è risultata estremamente interessante per la ricerca del consenso e che ci ha permesso di raggiungere risultati che, altrimenti, non sarebbero stati possibili. Quindi, qui vi è la potenzialità per arrivare assieme ad un coagulo di consenso che, credo, sia da riportare al centro della nostra attenzione. Sottolineo ciò in una visione generale di federalismo cooperativo, in cui, cioè, abbiamo vari livelli di autonomia ma non abbiamo dei livelli sovraordinati: evidentemente vi è differente complessità, ma noi dobbiamo cercare di coinvolgere, per esempio nel governo della provincia, tutte le comunità municipali. Questo permette di essere estremamente propositivi e credo che sia anche una sfida per il consiglio provinciale, proprio perché la presenza di un altro attore non sia percepita come concorrenza ma come rafforzamento reciproco.
È una sinergia forte che abbiamo utilizzato per predisporre, ad esempio, uno schema direttore metropolitano, ossia linee guida di sviluppo urbanistico e territoriale condivise da tutto il territorio, per attuare quelle grandi opere che ora stanno interessando tutto il territorio della provincia di Bologna, come il quadruplicamento ferroviario, la variante di valico, che altrimenti avrebbero richiesto evidentemente ben altre fatiche.
Ma questa conferenza metropolitana dei sindaci è stata un ambito già preparato in cui ulteriori questioni sono state affrontate e rapidamente risolte; mi rifaccio anche alla razionalizzazione della rete scolastica.
Questo per dire che le assemblee elettive dovrebbero guardare con apertura a questa sfida e cogliere l'effetto positivo di sinergia presente nel coinvolgimento, per esempio, nel governo della provincia e di tutte le autonomie locali. Questo modello si sta cercando di attuare in Emilia-Romagna a livello regionale, con il coinvolgimento sia dei comuni sia delle province; attualmente esiste una commissione di concertazione, ma noi vorremmo una camera delle autonomie locali. Ugualmente ci auguriamo...

PRESIDENTE. Dovrebbe concludere, presidente Prodi.

VITTORIO PRODI, Presidente della provincia di Bologna. ...che questo modello possa essere adottato a livello nazionale con una seconda Camera la quale sia effettivamente rappresentante delle autonomie e che in questa dialettica la prima e la seconda Camera possano dialogare con grande efficacia (Applausi).

PRESIDENTE. La ringrazio, presidente Prodi. È iscritto a parlare Massimo De Carolis, presidente del consiglio comunale di Milano.

MASSIMO DE CAROLIS, Presidente del consiglio comunale di Milano. Ripetiamo spesso, ed è vero, che le assemblee elettive, in particolare locali, sono una grande ricchezza della democrazia italiana ed una ricchezza tipicamente italiana; un sistema che è entrato in crisi agli inizi degli anni ottanta, per la verità contemporaneamente al deflagrare di altri fenomeni involutivi della democrazia italiana.

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Su questa situazione difficile è calata la riforma dell'elezione diretta dei sindaci, che certo ha condotto ad un recupero della capacità decisionale, anche se non apprezzo totalmente non dico il concetto ma, soprattutto, l'espressione di democrazia decidente perché presuppone l'esistenza di una democrazia diversa.
Ma piuttosto il problema si è posto come recupero complessivo della politica negli ambiti locali. Anche la nascita del cosiddetto partito dei sindaci, che certamente ha per altri versi aspetti positivi, non sembra essere la risposta all'esigenza di una rivitalizzazione complessiva della vita democratica diffusa del paese.
Comunque, con la riforma si è posto il problema complesso del raccordo tra esecutivo ed assemblea degli enti locali, un problema essenziale. Due realtà, che nel sistema precedente trovavano un raccordo quanto meno nel quadro delle maggioranze che si costituivano nelle assemblee, oggi pongono un problema più complesso di coordinamento. È stato realizzato tale coordinamento tra i due grandi momenti della vita dell'autonomia locale dalle leggi che si sono succedute dal 1990 in poi? Vediamo. Non credo si possa ridurre, come spesso purtroppo si fa - l'abbiamo sentito anche in quest'aula - tutto il problema alla competenza di indirizzo e di controllo che i consigli comunali e provinciali possono avere nei confronti dell'esecutivo. Lo ripetiamo spesso, ma non possiamo dimenticare che il potere di indirizzo non è ben regolamentato; probabilmente la regolamentazione è ricavabile dalle disposizioni di legge, ma comunque esiste incertezza anche sul modo concreto di manifestarsi del potere di indirizzo.
Per quanto riguarda il controllo, stiamo nella completa mancanza di norme; non credo che il controllo possa essere inteso come controllo politico. Il controllo presuppone necessariamente il potere di intervento sull'atto soggetto a controllo. Qui non esistono disposizioni di legge e non esistono sostanzialmente norme statutarie o regolamentari. Porre l'accento essenzialmente sui poteri di indirizzo e di controllo dei consigli significa ridurre e limitare il potere dei consigli stessi a due entità di difficile concretizzazione: non è semplice, nel caso dell'indirizzo ed è pressoché impossibile nel caso del controllo.
Va inoltre ricordato che la debolezza che a questo punto ha colto i consigli ha penalizzato soprattutto le opposizioni. Questo non è un bene e non è un fatto positivo. Credo che nessuno possa apprezzare, indipendentemente dalle opinioni politiche, che la riforma ed il nuovo modo di porsi delle assemblee locali ponga in una posizione di netto svantaggio soprattutto le opposizioni. A ciò si è giunti anche con la limitazione dei poteri di controllo di organi superiori sulla legittimità degli atti dei comuni; questo ha certamente causato una serie di problemi, sui quali sarebbe necessaria una riflessione.
Il problema forse più delicato è però quello della competenza dei consigli nelle materie fondamentali. Esso comporta un potere di iniziativa consiliare, concorrente all'eguale potere della giunta, ed una complessità nell'esercizio della iniziativa consiliare che penalizza poi i consigli privi di strumenti.
Quale comune in Italia potrebbe prestare ai consiglieri comunali un aiuto tecnico per la proposta di una variante del piano regolatore?
Il problema si sposta allora sulla regolamentazione dell'organizzazione dei servizi e dei mezzi messi a disposizione delle assemblee locali. Oggi, se non sono gli statuti (e ve ne sono pochissimi e con nome sempre molto sintetiche), l'unico spunto è ricavabile dal un articolo della «Bassanini due», che per la verità si riferisce al controllo di legittimità sugli atti del consiglio comunale. Domani qualcosa di più emergerà dalla proposta di riforma della legge n. 142 all'esame della Camera; ma anche questo avverrà in modo estremamente sintetico! D'altra parte, la realizzazione di un sistema compiuto dell'autonomia locale resta essenziale, soprattutto se si restituirà ai consigli

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il loro potere complessivo di indirizzo sulla politica dell'ente locale (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare Angelo Passaleva, presidente del consiglio regionale della Toscana. Ne ha facoltà.

ANGELO PASSALEVA, Presidente del consiglio regionale della Toscana. Signor Presidente, colleghi e colleghe dei consigli comunali, provinciali e regionali, vorrei prima di tutto rivolgere un ringraziamento non formale alla Presidenza della Camera per avere ideato e realizzato questa splendida iniziativa che - come ha già detto la presidente Amati - sarei molto felice se si potesse ripetere anche negli anni a venire.
Il ruolo delle assemblee elettive è progressivamente mutato negli ultimi decenni, coerentemente con l'evolversi della situazione politica ed istituzionale del paese. Da un lato, si è arrivati alla chiara individuazione delle loro attribuzioni nelle funzioni legislative e regolamentari, di indirizzo e di controllo; dall'altro lato, si è fatta strada l'esigenza di esercitare tali funzioni con piena efficacia, affermando sia politicamente sia proceduralmente la centralità della propria posizione. Ciò vale, scontate le pur ovvie differenze, per i consigli comunali e provinciali, come per i consigli regionali e per il Parlamento nazionale.
Pare opportuno quindi focalizzare l'attenzione sul «come» tali funzioni debbano essere esercitate, sviluppando alcune osservazioni che ruotano essenzialmente attorno a due temi: la qualità delle scelte delle istituzioni e quindi dei prodotti di tali scelte; ed il ruolo che a tal fine può essere svolto dalle opposizioni.
Il formarsi delle decisioni nelle assemblee contemporanee appare ancora limitato a due momenti essenziali: la funzione di iniziativa, prevalentemente esercitata dagli esecutivi; ed il confronto dialettico delle posizioni. Oggi si ritiene più consono un percorso più articolato e compiuto attraverso il quale arrivare alla manifestazione della volontà istituzionale. Tale percorso ideale potrà essere sommariamente descritto come una successione di attività che comprendono: l'esercizio del potere di iniziativa; la valutazione degli effetti che le proposte sono suscettibili di produrre e la verifica della loro compatibilità giuridico-legislativa; il dibattito sui contenuti, sino all'adozione formale dei provvedimenti; la verifica dei risultati effettivamente conseguiti; lo sviluppo delle ulteriori determinazioni per il progressivo e costante miglioramento delle politiche e delle leggi che le sottendono.
Il ruolo delle assemblee esce esaltato da tali attività e deve essere tanto più rafforzato, anche con norme costituzionali, quanto più si rafforza il ruolo degli esecutivi, ad esempio con l'elezione diretta del Presidente della Repubblica o dei presidenti delle giunte regionali. Per l'elezione di questi ultimi occorre, secondo i presidenti dei consigli, lasciare piena autonomia alle regioni, alle quali dovrà essere riconosciuto il diritto di scegliere la forma di governo ritenuta più opportuna, senza ricorrere all'introduzione di norme costituzionali - neppure transitorie - che rappresenterebbero comunque un condizionamento o una sorta di indirizzo per le scelte successive. Va quindi garantito a tutte le assemblee l'esercizio della funzione di controllo per la verifica degli effetti prodotti dalle decisioni, l'esercizio della funzione di indirizzo per l'attuazione ed il costante miglioramento delle decisioni politiche e l'esercizio ottimale della funzione legislativa e regolamentare attraverso la realizzazione della produzione normativa.
Il perseguimento dell'obiettivo di porre in essere un circolo virtuoso di tale natura, comprensivo della produzione di decisioni politiche, della loro verifica e della loro riproduzione evolutiva, comporta l'impiego di tecnologie, strutture e risorse professionalmente adeguate (si può andare da agenzie del tipo di quelle che supportano il Congresso degli Stati Uniti, il General accounting office ed il Congressional budget office, ad interventi analitici multidisciplinari svolti ad hoc per ogni atto), e l'adozione di procedure e metodologie di lavoro che troviamo sempre più

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diffuse nella società civile. Le moderne tecniche legislative possono supportare tale percorso sia nella fase di progettazione sia in quella di valutazione ex ante ed in quella ex post.
Il controllo di gestione è una dei queste, ed assume nel presente contesto una peculiare importanza. Le assemblee dedicano uno spazio di tempo ancora troppo limitato alla valutazione di ciò che è successo per effetto delle scelte operate attraverso i propri atti. Il controllo di gestione istituzionale deve essere lo strumento attraverso il quale effettuare la valutazione ed acquisire la consapevolezza degli effetti delle decisioni assunte.
Le soluzioni tecniche esistono quindi, ma risultano inefficaci se non le si pongono a supporto di soluzioni istituzionali altrettanto idonee. Voglio ricordare che lo scorso 11 novembre 1997, il Consiglio regionale della Toscana ha approvato un nuovo Statuto, nel quale è prevista, tra l'altro, l'istituzione di una commissione permanente di vigilanza sugli atti di attuazione della programmazione e di gestione del bilancio e del patrimonio; ad essa è affidata inoltre la formulazione di pareri sulle proposte di atti relativi alla stesse materie, con potere di rinvio alla giunta con richiesta motivata di modifiche. La commissione, di cui si prevede una rapida istituzione operativa, svolgerà funzioni di verifica della coerenza degli atti con i documenti programmatici generali, di verifica della attuabilità degli stessi e di verifica dell'attuazione delle politiche settoriali. Tutto ciò mediante analisi, ricerche, indagini ed il monitoraggio di indicatori economico-finanziari. Essa rappresenta quindi una soluzione istituzionale innovativa per la realizzazione di quel percorso ideale precedentemente descritto. La presidenza di tale commissione è affidata alle opposizioni, introducendo così un elemento, anch'esso innovativo, di valorizzazione dell'attività delle minoranze nell'ambito dell'assemblea.
Ciò consente di passare sinteticamente al secondo tema: il ruolo delle opposizioni nell'ambito delle assemblee elettive, in particolare per la formazione di qualificate decisioni politiche ed istituzionali. Questo ruolo appare oggi di rilevante importanza per l'affermazione definitiva di una democrazia compiuta.
Alcuni esempi di particolare rilievo, oltre a quello comunque significativo della nostra regione, testimoniano del corretto indirizzo intrapreso.
Nelle modifiche alla parte seconda della Costituzione si viene prefigurando una soluzione analoga, ma di portata generale. All'articolo 83 della proposta della bicamerale si è previsto, tra l'altro, che: «Il regolamento della Camera dei deputati garantisce i diritti delle opposizioni in ogni fase dell'attività parlamentare; disciplina la designazione da parte delle stesse dei presidenti delle Commissioni aventi funzioni di controllo o di garanzia». Inoltre il nuovo regolamento della Camera dei deputati - che lei ha voluto, signor Presidente - in vigore dal 1 gennaio 1998 ha previsto la costituzione di un Comitato per la legislazione composto da otto deputati in modo che sia garantita la rappresentanza paritaria della maggioranza delle opposizioni.
È evidente come i due temi - appena accennati per motivi di tempo - ritrovano una propria unitarietà. La qualità delle decisioni e degli atti normativi va collegata alla valorizzazione del ruolo delle opposizioni. Svolgere al meglio il proprio compito istituzionale significa per le assemblee adottare norme generali e regole chiare, attuabili e verificabili nei loro effetti. In ultima analisi, dunque, il beneficio maggiore lo otterrebbero proprio i cittadini, ai quali la razionalizzazione e la qualificazione delle decisioni delle istituzioni porterebbe maggiori possibilità di comprensione e quindi maggiore consapevolezza circa le azioni da questi intraprese. La democrazia del paese ne uscirebbe qualificata, rafforzando quell'autorevolezza che in ambito europeo ed internazionale l'Italia ha già conquistato e sta conquistando in altri settori (Applausi).

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare Pino Greco, presidente del consiglio provinciale di Crotone. Ne ha facoltà.

PINO GRECO, Presidente del consiglio provinciale di Crotone. È significativo che il forum sulle assemblee elettive si tenga in occasione delle giornate in ricordo dell'onorevole Aldo Moro e si svolga nella sede istituzionale più autorevole: un doppio significato che avvia concretamente una riflessione sul futuro e sul ruolo che le istituzioni avranno nel nostro paese alla luce dei cambiamenti che stanno avvenendo. Cambiamenti e nuove regole dovranno avere sempre come obiettivo l'evoluzione - intesa come rafforzamento - della democrazia quale bene supremo per cui uomini e donne hanno immolato la propria esistenza. Oggi le democrazie nel mondo esprimono livelli di complessità sempre più sofisticati ed impegnativi. Oltre alla politica, i nuovi scenari tecnologici, culturali ed antropologici rimettono talvolta in discussione anche l'essenza del concetto di democrazia. Il dialogo con il nuovo resta la scelta prioritaria, perché la democrazia si è sempre affermata nella ricerca del possibile e nella tutela ed affermazione del principio assoluto di libertà.
Tuttavia parlare oggi del nesso tra politica, società e democrazia significa, a fronte della complessità, aprire il campo nuovo dell'impegno per le autonomie. Nel concetto di autonomia si intrecciano identità e territorio, pluralismo e soluzione dei problemi, accettazione dell'altro e del conflitto, ma anche una mediazione positiva e propositiva. Pertanto oggi si pone all'ordine del giorno la questione dei punti di contatto tra democrazia e società, istituzione e cittadini, come sforzo per allestire - prima ancora che una rete - i luoghi del confronto ed i modi dell'accesso. Con questo voglio riferirmi ad una ripresa della discussione sul modello dei consigli, in quanto espressione di una pluralità di interessi, di culture e di realtà, che superi l'oscillazione tra le inconcludenze dell'assemblearismo e la subalternità al decisionismo. Ciò che chiede la società non è più esecutivo, ma più legislativo, per cui il disegno della democrazia possibile in Italia non può conciliarsi con una visione verticistica dell'architettura costituzionale, ma deve affermare con forza che non vi è caos in un equilibrato bilanciamento dei poteri istituzionali sul territorio.
Un aspetto fondamentale della vita democratica, della sua evoluzione ed - oserei dire - della stessa legittimità ed autorevolezza delle istituzioni nel Mezzogiorno d'Italia è senz'altro quello del lavoro. In una provincia giovane come quella di Crotone, nata appena tre anni fa, il 30 per cento di disoccupati rappresenta un forte pericolo per la tenuta del tessuto democratico; si corre il rischio reale di una netta separazione tra aree del paese e possono facilmente prevalere egoismi, sopraffazione, invadenza dei fenomeni criminali e mafiosi. Occorre quindi un impegno forte delle istituzioni ai vari livelli per strappare tanti giovani al ricatto malavitoso. La provincia ed il consiglio provinciale di Crotone sono diventati un punto di riferimento per le nostre popolazioni; all'interno delle assemblee degli eletti hanno convissuto gli interessi, le aspettative, le contraddizioni ma anche le prospettive delle popolazioni amministrate delle quali il consiglio è il rappresentante.
In tal modo un'assemblea elettiva può concretamente e con piena legittimità inserirsi e contribuire all'evoluzione della democrazia. Questo significa misurarsi e operare, oltre che sul versante dello sviluppo e dell'occupazione, anche su quello sociale e culturale, che contribuisce a far nascere ed a rendere visibile una nuova classe dirigente nel Mezzogiorno, in grado di affrontare e di governare i processi di cambiamento senza collusioni e connivenze con quei poteri che nel sud hanno impedito per troppo tempo l'avvio di una vera politica di rilancio e di rinascita.
Dobbiamo dire che grazie a questo impegno qualcosa comincia a muoversi. Si stanno creando quelle occasioni che consentirebbero di poter dare le prime risposte al dramma della disoccupazione e per la prima volta non si tratta di soli

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interventi centralistici. Per esempio alcune imprese locali si stanno cimentando in processi di reindustrializzazione di importanti settori produttivi come la Pertusola Sud, fuori dalle logiche dell'assistenzialismo, misurandosi progettualmente nello scenario europeo. Ma tutto questo non basta se i consigli vengono svuotati sempre di più di funzioni e poteri, se man mano viene offuscata la loro rappresentatività, se di volta in volta il loro ruolo diventa esclusivamente quello di un consiglio di amministrazione chiamato solo ad approvare un bilancio, se addirittura non dovesse essere previsto nella legge la figura del presidente dell'assemblea ma demandata agli statuti come un optional.
Sono convinto e concludo che non ci può essere evoluzione nella democrazia se non c'è evoluzione democratica nei consigli, se essi non diventano i centri propulsori di aggregazione sociale capaci anche di favorire ogni intervento che promuova lo sviluppo partendo da quelle che sono le esigenze locali.
Antonio Bassolino in un suo intervento affermava che l'Italia federalista non nascerà dalla penna di una commissione o di una assemblea costituente ma dall'esperienza amministrativa quotidiana che impegnerà le migliori energie del paese nei prossimi anni. Signor Presidente, è questo secondo me l'impegno che ci è richiesto nello sforzo per l'evoluzione della democrazia in Italia. La ringrazio (Applausi).

PRESIDENTE. La ringrazio, presidente Greco.

È iscritta a parlare Luisa Laurelli, presidente del consiglio comunale di Roma.

LUISA LAURELLI, Presidente del consiglio comunale di Roma. Presidente, la ringrazio per questa iniziativa che ci consente un confronto ampio ed approfondito sul ruolo delle assemblee elettive.
Siamo al centro di una stagione di riforme che consentono, in particolare per i comuni, valutazioni e decisioni che possono basarsi su un'esperienza ormai abbastanza consolidata. Abbiamo sindaci fortemente riconosciuti, Governi stabili ed esecutivi forti. Più marginali appaiono i consigli comunali ed è perciò ora che si discuta della funzionalità delle assemblee elettive: si discuta allora, come dice assai bene lei, Presidente, della democrazia decidente (lo trovo un termine sintetico e chiarissimo). Occorre coniugare efficienza e democrazia, approfondire il tema della rappresentanza e quello della responsabilità degli eletti. C'è una insofferenza degli esecutivi verso aule ritenute ingombranti, lente e se possibile da baipassare.
È lo stesso spirito che impronta l'azione dei nostri funzionari e della burocrazia. Credo che ciò risponda non solo alla gelosa custodia della prerogativa della giunta o delle sue funzioni ma anche alla consapevolezza che alle richieste dei cittadini occorre rispondere presto e se è possibile bene.
Le siamo grati perciò, Presidente, di aver posto con questa iniziativa il tema dell'autonomia delle assemblee elettive. Essa viene rafforzata da iniziative come queste. Autonomia vuol dire esercizio pieno delle funzioni di indirizzo e di controllo e vuol dire anche riconoscimento dei diversi ruoli delle assemblee elettive e delle giunte.
L'autonomia va rivendicata unitariamente e deve essere riconosciuta dai sindaci e dalle giunte. Questo riconoscimento deve stare dentro ad atti concreti, politici, economici ed organizzativi.
Occorre dare gli strumenti per l'esercizio della democrazia ai gruppi consiliari, alle commissioni, ai presidenti e ai loro uffici (e sono molti i casi in cui siamo assai lontani da ciò).
Siamo molto interessati al lavoro che farà la Camera sul disegno di legge del ministro Napolitano. Dai piccoli ai grandi comuni si può arrivare al collasso delle attività politiche e amministrative degli eletti. Nelle grandi città i consiglieri di circoscrizione non sentono l'utilità della loro azione anche perché hanno uno status che non riconosce la dignità del loro lavoro; non hanno piena libertà di

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azione nell'esercizio delle funzioni. Ciò può portare ad un immiserimento della politica e ad un calo della qualità degli eletti nelle assemblee elettive più decentrate e perciò più esposte.
Stiamo gestendo assemblee frustrate, inefficienti, sempre in ritardo rispetto ai bisogni della città. Sono convinta però che l'autonomia deve essere anche una conquista e non solo una concessione. La qualità delle assemblee sta anche nell'esercitare pienamente il proprio ruolo di indirizzo e di controllo custodendo gelosamente tale funzione. I fenomeni di assenteismo, la disattenzione delle assemblee e il calendario delle conferenze dei capigruppo che mettono sempre in fondo le proposte di iniziativa consiliare, le mozioni e via dicendo, non aiutano l'affermazione dell'autonomia degli esecutivi. Ci sono ritardi legislativi che vanno colmati assai celermente.
Da ultimo vorrei fare una riflessione sugli effetti della preferenza unica che, nata per motivi nobili in tempi di proporzionale, oggi porta ad uno stile di lavoro così individuale da rendere difficile il buon funzionamento di istanze collegiali che vanno dagli schieramenti politici alle sedi istituzionali delle assemblee e delle commissioni. Ciò in tempi di maggioritario affermatosi fortemente e del sempre più esteso senso di appartenenza agli schieramenti, oltre che ai partiti, da parte dello stesso elettorato. La preferenza unica poi seleziona i più forti ed emargina i più deboli, come le donne, che rischiano di uscire dalla politica e dalle istituzioni assai rapidamente.
Non ho una soluzione; dico solo che a ciò si deve pensare, sapendo che oggi è più logico lo scontro elettorale contro un candidato di un altro schieramento. Per me è insopportabile la battaglia contro il candidato della mia stessa lista e, una volta eletta, un lavoro tutto individuale (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare Giuseppe Cotturri, per l'Accademia di studi storici Aldo Moro. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE COTTURRI, per l'Accademia di studi storici Aldo Moro. Signor Presidente, signore e signori, voglio anzitutto ringraziare l'Accademia di studi storici Aldo Moro per l'opportunità che ha dato a me, presidente del movimento federativo democratico, così come al collega Riccardi, della comunità di sant'Egidio, di portare la voce di movimenti della cittadinanza attiva in questa occasione e in questa sede. Naturalmente ringrazio lei, Presidente, per aver preso tale iniziativa.
Il tema scelto per queste giornate rende certamente onore alla memoria di Aldo Moro, che, tra i politici italiani, come hanno ricordato Scoppola e lo stesso Riccardi, fu quello che più tempestivamente e acutamente colse l'insufficienza del sistema partitico parlamentare dato in rapporto ai mutamenti sociali.
Questa tematizzazione era ed è certamente più cospicua di quella che fin dal 1975, per impulso della commissione trilatera, convinse le classi dirigenti dei paesi più avanzati a cercare di ridurre la capacità delle democrazie di dare voce ad ogni domanda sociale. Ricordiamo il sovraccarico di domanda, l'ingovernabilità, il rafforzamento dell'autonomia decisionale degli esecutivi (ieri Amato ha ripreso questi temi), le procedure consensuali troppo pesanti, troppo negoziali, troppo paralizzanti. Tutto questo è vero, ma si tratta solo di una parte dei problemi.
Se attività così essenziali per l'integrazione sociale vengono allontanate dalle istituzioni di una democrazia che si vuole decidente, o troviamo il modo di ridislocarle in una sfera nuova, pur essa di rilevanza pubblica, e allora avrà senso, come rilevava il professor Burns, vigilare su di essa ma allo stesso tempo renderla in qualche modo influente, oppure qualcosa della democrazia stessa si rompe.
La dottrina della ingovernabilità nutre sfiducia nella democrazia perché sottende un'antropologia negativa. Gli uomini e le donne comuni sarebbero capaci solo di desideri smisurati, di spinte egoistiche, di chiusure corporative. Se invece riflettiamo sulla nostra stessa recente esperienza (quattro pesanti manovre finanziarie in dieci mesi, senza i disordini temuti, ha ricordato il Presidente

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Violante), vediamo che attraverso la democrazia, e non malgrado essa, è possibile che maturino convincimento e adesione popolare anche ad una via di sacrifici. L'autolimite è possibile nelle democrazie; vi può essere autogoverno di comunità nazionali e territoriali. E non si tratta solo della virtù dei governanti; il fatto è che maturano autonome e diffuse culture della solidarietà, crescono soggetti critici verso il dissennato consumismo di mercato ed anche verso lo statalismo pesante, costoso, in qualche misura autoritario.
Dagli anni settanta vi è tutto un universo di soggetti che chiamiamo, per questo, terzo settore. A questo punto, si deve riflettere sul fatto che nella formazione delle società dalla metà di questo secolo è cambiato qualcosa di fondo, è cresciuta concretamente la capacità di autodeterminazione dei popoli e delle persone, la capacità e necessità quotidiana degli individui di autoregolarsi nei bisogni e nei desideri, di adattarsi e di innovare. Mai come ora è vero che la democrazia è un regime dell'apprendimento. Dietro questa crescita vi è l'enorme sviluppo delle comunicazioni di massa, ma soprattutto una pratica sempre più larga di cittadinanza attiva, resa possibile dalla diffusione delle conoscenze.
La domanda che incombe a questo punto è se quel che anche Kelsen chiamava artificio, il macchinoso sistema della rappresentanza, regge ancora, in tempi in cui le soggettività anche individuali sono così potenziate e la telecomunicazione tra esse così rapida e pregnante (si pensi ad Internet). È una domanda radicale, tuttavia pertinente ed anzi cruciale. Nella relazione svolta ieri dal professor Burns questo dubbio è stato espresso molto chiaramente. Egli ha ragione: non singoli cittadini potranno essere protagonisti, ma nuove organizzazioni sociali intermedie. Tuttavia, è la inedita centralità degli individui concreti, non rappresentati, non sostituiti, della loro crescita come protagonisti diretti nelle forme della cittadinanza attiva e dei poteri popolari diretti che sposta le cose.
Di governi e di governanti avremo sempre bisogno, soprattutto per le dimensioni vaste e lontane, sovranazionali come nazionali, ma è sempre più evidente, almeno nella dimensione civica, che la cittadinanza può fare da sé sempre più cose e sarà lunghissimo il cammino della trasformazione, della piena maturità e della autonomia sociale come centro di gravità di un sistema. Ma è sulla tendenza di fondo che dobbiamo tutti interrogarci.
In questa linea di sviluppo avranno successo le organizzazioni capaci di molta espressività, aperte e progressive, al cui interno gli individui stessi sentano di crescere. Forse la causa più profonda della crisi dei partiti politici quali noi li conosciamo è nella carenza in ciò. Essi, infatti, storicamente si sono determinati come strumento di capitalizzazione dei consensi. Hanno culture generaliste, sono produttori più di obbedienza civile che di sviluppo della persona. Quindi, per loro intrinseca logica, essi hanno prodotto e sempre riproducono gerarchie, burocrazie, sistemi di autorità.
La questione che ora si pone è quella di un riequilibrio tra possibilità di azioni dirette e momenti di autorità riconosciuta. Questo è il cuore della questione costituente aperta in Europa come in Italia. Per la formazione e la selezione delle nuove classi dirigenti non basta più, dunque, porre problemi di legittimazione e di controllo. Questi termini si fissano al prima e al dopo dell'esercizio di potere. Valgono per la politica delegata: un voto favorevole prima e poi eventualmente un voto contro. Ma questo non basta.
Nessuna politica materiale va a buon fine se l'attività delle istituzioni non si incontra e non si sposa con l'autonomo fare politica dei cittadini. Pensiamo alle politiche sociali di cura, alle politiche culturali, a quelle ambientali e a tant'altro. Senza l'intervento attivo dei cittadini, le scelte di governo, ancorché in astratto buone, non producono gli effetti sperati. Quello che conta è il durante del rapporto cittadinanza-Governo.
La scelta culturale e strategica, dunque, è spostare l'attenzione da un meccanismo

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che suppone debole e intermittente la politica dei cittadini al processo ormai effettuale e permanente di interazione Governo-cittadinanza. È questo il concetto di governance come sistema allargato di governo cui si è richiamato Burns. Stefano Rodotà parla di democrazia continua, possibile con le tecnologie telematiche appunto per segnalare la fine dei tempi della politica intermittente dei cittadini soltanto elettori.
Se vogliamo, dunque, cercare di migliorare le istituzioni, non dovremo solo occuparci dei rafforzamenti possibili nei sistemi di legittimazione e di controllo, i quali certo hanno la loro importanza. La vera innovazione strategica dovrà riguardare l'affinamento della capacità di ascolto dell'istituzione e la conseguente idoneità a produrre un consenso attivo in corso di governo. Esattamente il contrario della ricetta della governabilità basata sulla riduzione dei canali democratici, sulla autonomia dei decisori.
Fra gli studiosi contemporanei della democrazia, uno dei più autorevoli, lo statunitense Robert Dahl, ha ipotizzato, in conclusione del suo maggiore lavoro, l'istituzione di parlamenti paralleli, un mini-populus di mille cittadini non eletti, ma sorteggiati, indicativi della generalità, e chiamato a discutere su questioni specifiche, magari per un anno, onde fornire alle assemblee elettive le basi di conoscenza e di indirizzi cui attenere le decisioni di loro competenza.
Non è il caso di insistere in questa sede sulle proposte, vale l'indicazione di metodo: la combinazione tra poteri legittimati da criteri di maggioranza e volontà formate con pratiche discorsive. Qualcosa del genere, peraltro, già è nelle pratiche quotidiane delle nostre istituzioni, sia locali che nazionali: è il metodo delle audizioni. In esse non conta chiedersi dell'interlocutore esterno quanti cittadini e quanti voti rappresenti, ma quali ragioni porti, perché l'ascolto di queste ragioni consente all'azione pubblica di acquistare in qualità.
Anche la bicamerale ha praticato il metodo delle audizioni tra marzo ed aprile 1997, ma non ha chiuso il cerchio del confronto. L'intenzione di sottoporre il testo finale ad un secondo giro non è stata mantenuta. Burns sostiene che si debba costituzionalizzare una cittadinanza delle organizzazioni. Ebbene, tra le cose richieste questo è stato formalmente proposto in una delle audizioni, ma non è stato raccolto, non è stato riformato in tal senso il CNEL. Si è avuta così una nuova restrizione del percorso di riforma alle sole forze politiche, forse nella convinzione di poter concludere più facilmente il cammino. Invece, stando alla cronaca quotidiana, si deve constatare che la cultura della riduzione dei soggetti non procura governabilità. Se si vuole il consenso popolare alla riforma bisognerà superare i confini dei soggetti partitici. Non nascerà nel nostro paese un federalismo come cultura civile se non si riesce a coinvolgere e ad ascoltare i soggetti sociali che portano le ragioni e i diritti eguali della cittadinanza. Non ci sarà consenso nel Mezzogiorno senza questo processo, questa crescita. Anche per questo, l'occasione ed il richiamo ad Aldo Moro sono oggi così pregnanti. C'era un metodo nel suo far politica, un'intelligenza protesa nell'ascolto degli avvenimenti. È stato detto che forse nessuna delle sue ipotesi di allora può essere ripresa; troppe cose sono cambiate. Ma quel metodo, quell'attitudine, hanno ancora tanto da insegnare (Applausi).

PRESIDENTE. Grazie, professor Cotturri. È iscritta a parlare Maria Grazia Omodei, presidente del consiglio provinciale di Brescia. Ne ha facoltà.

MARIA GRAZIA OMODEI, Presidente del consiglio provinciale di Brescia. Grazie, Presidente; voglio ringraziarla anche per l'occasione di confronto e di dibattito che mi è stata offerta: un'iniziativa importante quella di oggi, che va nella direzione di aprire una discussione congiunta sul diritto di cittadinanza delle assemblee elettive all'interno del nostro ordinamento.

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Un ruolo, quello delle assemblee elettive di comuni e province, che la legge n. 142 prima e la n. 81 poi hanno mortificato, come è stato evidenziato in più di un intervento. Come amministratori locali siamo tutti tesi ad un'azione di Governo che sia una reale occasione di risposta agli affanni quotidiani dei cittadini, che garantisca pari opportunità e diritto di cittadinanza per tutti. La nostra preoccupazione è rivolta costantemente alla quantità, alla qualità, ai tempi ed ai costi dei servizi e delle opere che vogliamo realizzare per i nostri cittadini, i quali da noi si aspettano risposte soddisfacenti e tempestive.
In questa direzione molto si sta facendo per il trasferimento di competenze e di risorse dal centro alla periferia; ma rispetto a tale rinnovato impegno a favore della sussidiarietà, mi pare di poter dire che altrettanto non viene fatto per un'effettiva distribuzione dei poteri sul piano istituzionale.
Nell'attuale quadro normativo ho l'impressione che il sistema politico-amministrativo si realizzi secondo la personalità o la mentalità che a livello istituzionale ognuno di noi individualmente ha ed esprime. Assistiamo infatti a casi in cui il sistema tende ad un modello di tipo verticistico, con una forte, per certi aspetti eccessiva, concentrazione dei poteri nelle mani del sindaco o del presidente sotto il profilo sia della prassi concreta sia delle normative interne. Si sono rese possibili invece esperienze nelle quali vi è una ripartizione dei ruoli, una forma di collegialità tra i diversi organi istituzionali.
Questi problemi e queste difficoltà meritano attenzione e devono trovare adeguate risposte che consentano, sì, stabilità ed efficienza agli esecutivi, ma anche un reale protagonismo delle assemblee elettive rispetto alle proprie prerogative. Al di là delle persone che sono oggi chiamate a svolgere funzioni di governo ai vari livelli, il nostro compito è anche quello di contribuire a definire regole che consolidino la natura democratica delle nostre istituzioni, compito che può essere lasciato solo in parte agli statuti.
L'attuale legislazione, per molti aspetti positiva, porta in sé i rischi insiti in un sistema maggioritario, cioè quelli di cambiare la natura della nostra democrazia, la quale - ne sono profondamente convinta - deve continuare ad essere rappresentativa e non plebiscitaria. Di più: la normativa vigente comporta anche il pericolo, a mio avviso, di creare una classe dirigente di professionisti dell'amministrazione pubblica, cioè i componenti degli esecutivi da una parte e, dall'altra, quella dei consiglieri chiamati di tanto in tanto a decidere, o meglio a ratificare in molti casi decisioni già assunte.
Credo si debba riflettere oltre tutto sul fatto che la posizione dei consiglieri provinciali (ed immagino comunali) viene spesso di fatto, e al di là delle intenzioni, mortificata; ciò da un lato genera insoddisfazione e frustrazione e dall'altro induce il singolo consigliere a ricercare spazi di protagonismo in un rapporto personale con l'esecutivo, oppure ad abbandonarsi in un circolo vizioso in cui si intrecciano pochi poteri, scarsa rappresentatività, impoverimento del dibattito.
Il rischio è quello di un livellamento verso il basso del dibattito politico che può portare a dire che la politica non serve più, che è inutile, improduttiva e che può essere sostituita da qualcosa d'altro. Come si può uscire da tale situazione in una fase come questa, in cui i problemi si accavallano e si avverte l'esigenza di fornire risposte certe e rapide? Non possiamo pensare a facili scorciatoie che sacrifichino la democrazia! E allora credo sia necessario ristabilire sul piano normativo nazionale un equilibrio di poteri e di competenze. Il nodo sta principalmente qui: oltre che prevedere un ruolo diverso, più incisivo per le diverse articolazioni consiliari e per gli strumenti di collegamento tra i livelli istituzionali e la realtà sociale, prevedere anche che le commissioni consiliari trasformino il loro potere da consultivo e propositivo in vincolante, diventando ideale cerniera tra l'esecutivo e l'assemblea consiliare. Sarebbe utile creare consulte collegate al consiglio, ma autonome nella loro operatività, capaci di

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realizzare un produttivo confronto periodico e per così dire istituzionalizzato tra enti locali ed associazionismo di base. Mi rendo conto che sono proposte, insieme a molte altre, da discutere e da delineare nei loro contorni concreti per una reale definizione dei percorsi da compiere in comune per trasformare la nostra realtà istituzionale in una democrazia compiuta (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare Rosario Condorelli, presidente del consiglio comunale di Catania. Ne ha facoltà.

ROSARIO CONDORELLI, Presidente del consiglio comunale di Catania. Signor Presidente, desidero esprimere il mio più sentito ringraziamento per lo svolgimento di questa Conferenza istituzionale che ella ha voluto svolgere sul tema delle assemblee elettive con la certezza che oggi inizia un processo che contribuirà alla crescita democratica del nostro paese. Il tema delle democrazie decidenti è diventato ormai un problema strategico per le assemblee elettive del nostro paese sia per la rapidità delle decisioni richieste alla società moderna, sia per l'adeguamento all'Europa in cui esistono paesi con una più solida tradizione decidente.
In tale contesto assume fondamentale importanza il funzionamento dei consigli comunali, il cui ruolo nel sistema delle autonomie locali ha oggi bisogno di un rafforzamento nella logica dell'equilibrio istituzionale, avviato con l'elezione diretta del sindaco, e che ha visto nella prima fase prevalere, per le esigenze di stabilità dei governi locali, il ruolo dell'esecutivo. Non solo, ma oggi più che mai vanno definitivamente superate le posizioni di coloro che hanno considerato inutili e solamente celebrativi i passaggi in consiglio comunale, così come vanno emarginati i tentativi mai sopiti di inserire forme latenti di gestione o, peggio ancora, di cogestione.
Una cosa è certa: ogni tentativo di fare un passo indietro è da considerare non solo incoerente con la riforma, ma culturalmente e politicamente inaccettabile. Ecco allora che vanno potenziate quelle funzioni di indirizzo, di programmazione e di controllo che nella vita istituzionale del nostro paese sono state spesso scatole vuote, preferendosi invece la politica del giorno per giorno, delle piccole scelte di gestione, piuttosto che quella delle grandi scelte strategiche.
Su questi temi quindi va compiuto uno sforzo da tutti i soggetti interessati affinché l'unica vera riforma in Italia sia completata attraverso l'affermazione della cultura della dualità nel rapporto governo-assemblee.
Il consiglio comunale è infatti il luogo critico dove si è spezzato il continuum assemblea-governo, ma è al tempo stesso il luogo in cui va esercitato il duplice mandato a rappresentare e a governare, e mi riferisco al governo non delle piccole scelte, ma delle grandi scelte, quelle che riguardano risorse, territorio, servizi e sviluppo.
Questo vale ancora di più nel Mezzogiorno, se è vero che gran parte di tali funzioni incidono su assetti urbanistici, localizzazione di infrastrutture, allocazione di risorse, accessi a finanziamenti e gestione di servizi, ossia tutte quelle condizioni che favoriscono il lavoro e lo sviluppo. Naturalmente questo non può e non deve essere compito di una parte, anche se maggioritaria, ma deve scaturire dalla valorizzazione dell'assemblea. Molte di queste esigenze troveranno certamente spazio nell'attività di regolamentazione interna che ciascun consiglio vuole affrontare con grande passione.
Su queste basi inoltre è anche possibile fornire un contributo alla formazione della rappresentanza politica, al ruolo dei partiti e alla ricerca del consenso. Il consenso, infatti, va cercato nelle scelte strategiche di sviluppo e di tutela e valorizzazione delle comunità e non nelle singole scelte gestionali, i cui confini, col favore e col clientelismo, tendono a rimanere indefiniti e vaghi.
È però veramente singolare che i comuni siciliani - lo voglio dire in questa Assemblea - vivano ancora una condizione di inferiorità istituzionale rispetto

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all'intero sistema delle autonomie per l'inerzia di una regione che non ha adeguato il proprio ordinamento alle innovazioni. E mentre in tutto il paese i consigli comunali si preparano ad inaugurare una nuova fase statutaria e regolamentare, in coerenza con i provvedimenti Bassanini, in Sicilia si assiste al balletto di articoli e commi da recepire o da cassare in un contesto di scarsa propensione al cambiamento. Tutto ciò non aiuta a ripensare il ruolo delle assemblee elettive in direzione di una maggiore capacità di rappresentare e di decidere.
Naturalmente, signor Presidente, desidero anch'io associarmi alla commemorazione di Aldo Moro. Lo faccio con un ringraziamento ideale, intriso di valori storici. Forse, se oggi siamo qui a discutere sulla necessità di rendere la nostra democrazia sempre più efficente, moderna, pregiata, lo dobbiamo anche a lui (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare Gian Mario Selis, presidente del consiglio regionale della Sardegna. Ne ha facoltà.

GIAN MARIO SELIS, Presidente del consiglio regionale della Sardegna. «Lo Stato del valore umano, lo Stato fondato sul prestigio di ogni uomo, che garantisce il prestigio di ogni uomo è uno Stato in cui ogni azione è sottratta all'arbitrio e alla prepotenza, in cui ogni sfera di potere e di interesse obbedisce ad una rigida delimitazione di giustizia, ad un criterio obiettivo e per sua natura liberatore; è uno Stato in cui lo stesso potere pubblico ha la forma, la misura e il limite della legge, e la legge come disposizione generale è un atto di chiarezza, è una funzione di responsabilità, è un impegno generale ed eguale». Queste parole di Aldo Moro, signor Presidente, esprimono il valore e la missione del Parlamento, che ha radice nella centralità del cittadino e su questa misura la sua capacità, la sua legittimità, la sua forza.
Non basta ribadire che i principi e i diritti enunciati nella parte prima della Costituzione sono sacri ed intangibili. La democrazia non si fonda solo sui principi, ma sull'affermazione ed attuazione dei diritti di cittadinanza, dei quali il diritto al lavoro è il fondamento. Se il diritto al lavoro è violato, se è solo enunciato e non garantito, se è un diritto negato come ormai avviene per intere generazioni, se le popolazioni di intere regioni ne sono largamente escluse, su cosa si fonda la legittimità della nostra democrazia, del nostro Parlamento?
A che serve proclamare l'unità del paese o scandalizzarsi per i progetti secessionisti, se non si è coscienti che questo paese rischia di rompersi o forse è già rotto? Diviso e diverso, perché diverse sono le condizioni di vita, di lavoro, di sviluppo, di sicurezza, di mobilità e circolazione, di formazione e futuro tra le sue aree! Il problema non è come evitare la divisione, ma come operare la ricomposizione, la riunificazione, l'effettiva coesione del paese.
È in grado il Parlamento, siamo in grado noi, espressione delle istituzioni democratiche, di scommettere la nostra credibilità e legittimità su questi temi? Su questo metro si verifica lo stato di salute delle istituzioni, del Parlamento, della stessa democrazia.
Il paese oggi ha bisogno di un Parlamento forte: ne ha bisogno per salvaguardare la propria identità, la propria unità. Ne ha bisogno per dar vita ad un nuovo patto sociale, che dia forza alla nuova Costituzione, alle ragioni dello stare insieme, che sia garanzia di un progetto comune per la crescita, la sicurezza e la libertà. Ne ha bisogno perché le scelte, l'indirizzo di governo, le politiche non siano più guidate e legittimate da contingenze o pressioni esterne (l'Europa, l'emergenza economica o criminale, eccetera), ma siano espressione di un progetto cui concorrono con pari dignità e forza tutte le realtà del paese: politiche, sociali, economiche, ma anche territoriali, nel quale la gente riconosca le conseguenze del mandato da essa conferito. Per questo il Parlamento, come massima espressione della democrazia, deve riconquistare e riaffermare la propria

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centralità nel sistema statuale. La centralità deve trovare riscontro in un effettivo ruolo di espressione del pluralismo (delle formazioni politiche e tra formazioni politiche e realtà sociali); di centro di equilibrio tra i poteri dello Stato; di garanzia attiva e di promozione dei diritti di cittadinanza dei singoli e delle comunità.
Non si tratta né di fare del Parlamento la sede di compromesso e di scambio politico tra gruppi politici e quindi di ridurre il Governo a mero esecutore degli stessi; né viceversa di ridurre il Parlamento a sede di ratifica delle scelte del Governo e degli orientamenti delle forze che lo sostengono.
Il problema è come coniugare il bisogno di maggiore autorevolezza ed efficienza dello Stato e delle sue istituzioni con il massimo di legittimazione e di rappresentatività; come dimostrare capacità decidente senza mortificare la partecipazione e la legittimità. Per la democrazia abbiamo bisogno certamente di più governo, ma abbiamo altrettanto bisogno di più Parlamento. Il dibattito di questi anni sulla funzione di governo si è sviluppato ed ha prodotto riforme significative: l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province. Più limitato ed incerto è stato invece il dibattito sul Parlamento e le assemblee legislative e rappresentative, quasi che il loro ruolo non fosse compatibile con il rafforzamento della funzione di governo e, anzi, che questo richiedesse necessariamente una riduzione della loro autorevolezza.
Ma alla crisi del Parlamento ha anche contribuito la lentezza, l'inefficienza e persino l'ingovernabilità delle assemblee parlamentari e regionali, talvolta disorientate e confuse, quasi perse tra riti e procedure, logorate da tempi incompatibili con la dinamica delle società moderne. La crisi del Parlamento e delle assemblee elettive è allora crisi di efficienza e di rappresentanza, difficoltà di interpretare e portare a sintesi la situazione sociale, distacco tra società ed istituzioni, assenza di vero dialogo fra le forze politiche e delle forze politiche con la società, lentezza e incertezza decisionale. Ma nonostante questa crisi bisogna ricordare con forza che non c'è democrazia senza Parlamento e che un Governo forte con un Parlamento debole rischia la tentazione del regime.
L'esigenza di superare la crisi della rappresentanza pone alle assemblee legislative una molteplice sfida: promuovere nuove forme di decentramento, di competenze legislative e nuovi rapporti tra Parlamento e assemblee regionali; adottare regole e procedure idonee ad esaltare la propria funzione ed assicurarne l'efficacia; definire il loro rapporto con il governo e l'amministrazione pubblica esaltando le proprie funzioni di indirizzo e di tutori del diritto dei cittadini alla conoscenza, alla trasparenza, cioè diritto ad una democrazia consapevole.
Pensiamo ad un Parlamento più libero da competenze legislative trasferite alle regioni o delegate al Governo, più attento ed autorevole nell'elaborazione degli indirizzi di Governo e nella verifica dei risultati, più proiettato nella società, perciò direttamente consapevole dei problemi del paese, delle sue risorse e potenzialità di sviluppo, delle specificità che lo diversificano e lo arricchiscono, delle sue aree di bisogno.
Non basta assicurare alle regioni la competenza legislativa in un più vasto ambito di materie, si deve garantire loro la possibilità reale di concorrere alla definizione delle scelte fondamentali che riguardano la vita del paese. Saprà il Parlamento modificare il suo assetto e la sua organizzazione per porre in modo nuovo il suo rapporto con le regioni e le loro assemblee legislative? Ciò che a noi sembra decisivo è dar vita ad un rapporto, un circuito attivo tra Camere e realtà regionali, perché il decentramento non investa solo le funzioni legislative e amministrative, ma diventi capacità dell'intero sistema di cogliere e valorizzare il paese reale, di porlo al centro dell'attenzione, di farne un'energia capace di animare l'intero processo democratico di decisione, legislazione, indirizzo, controllo

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e garanzia. Si dovrà creare, insomma, un Parlamento diffuso, un sistema articolato di assemblee, tutte ugualmente garanti delle rappresentanze sociali e della partecipazione e per questo dotate di autonomia e dignità analoghe.
Signor Presidente, ai processi di globalizzazione dell'economia, della politica e della cultura, caratteristici della nostra epoca, corrisponde una progressiva concentrazione di potere, ricchezza e sapere in pochi soggetti e poche istituzioni pubbliche e private, che governano i destini del mondo, decidono la pace e la guerra, i mercati ed il lavoro, le idee e i sogni. La democrazia non può perciò trovare legittimazione solo in un processo di delega dai cittadini alle istituzioni, non può essere reale e completa se le istituzioni non rendono potere ai cittadini, alle comunità e alle autonomie locali, se non si affronta anche il problema della democrazia economica, cioè il problema dei diritti fondamentali dei cittadini al lavoro, alla cultura, alla sicurezza in un'economia di mercato.
Perciò la democrazia non è mai conquistata una volta per tutte, deve essere rafforzata e riformata con la partecipazione di ciascuno e di tutti, e di questa partecipazione il Parlamento è espressione e garanzia. La democrazia - Moro ci ha insegnato - è l'arte del vivere insieme, singoli e gruppi, con interessi, ideologie, culture e storie diverse. Moro ci ha insegnato che il Parlamento e le assemblee rappresentative devono essere la sede più alta, quasi il tempio di questa convivenza, il simbolo e l'immagine che offriamo al paese delle nostre capacità di confronto e di dialogo. Moro ci ha insegnato la fatica della democrazia, che si realizza nella ricerca intelligente e paziente, persino ostinata, di un punto di incontro, che possiede l'umiltà necessaria per capire le ragioni altrui senza perdere la coerenza con le proprie; ricerca che si adopera per una mediazione alta che produca strategia e progetti.
Moro parlava spesso ai giovani di vent'anni fa e ci invitava a rendere le nostre utopie non minaccia e debolezza per le istituzioni, ma forza e anima della politica e della democrazia per rendere i sogni del popolo centro dei programmi di Governo, per rendere il nostro paese ed il nostro pianeta, giorno dopo giorno, la terra promessa, una terra di uomini liberi (Applausi). PRESIDENTE. È iscritto a parlare Francesco Bisogno, membro dell'ufficio di presidenza dell'UPI. Ne ha facoltà.
FRANCESCO BISOGNO, Membro dell'ufficio di presidenza dell'UPI. Onorevole Presidente della Camera dei deputati, autorità presenti, mi associo ai saluti già fatti da chi mi ha preceduto in modo convinto e non rituale; rivolgo altresì a voi tutti e a lei, Presidente Violante, un ringraziamento particolare a nome del consiglio provinciale di Cosenza, che qui mi onoro di rappresentare, per avere fortemente voluto un confronto tra esperienze diverse ma che hanno come obiettivo unico il servire le nostre comunità. La riforma delle autonomie locali, la legge n. 142, e le leggi nn. 81, 59, 127, già ampiamente menzionate negli interventi precedenti, rispetto agli aspetti sia positivi sia negativi, hanno evidenziato l'eccezionale novità che ha interessato la stabilità e la governabilità delle istituzioni. Questo processo riformatore, ampiamente da condividere, in quanto ha comportato un miglioramento nella capacità di amministrazione degli enti, è stato a volte, però, adoperato per limitare il ruolo e le funzioni delle assemblee elettive, privilegiando l'efficientismo delle amministrazioni a discapito della rappresentanza effettiva di un intero territorio provinciale.
Mi rendo conto, considerato il tempo a disposizione, che non è possibile approfondire l'argomento come meriterebbe, ma per farlo non mancheranno sicuramente occasioni nelle quali formulare proposte che potrebbero forse recuperare il giusto rapporto tra i consiglieri, il presidente e la sua giunta. Non sfugge a nessuno, però, l'enorme conflittualità, signor Presidente, esistente tra i consigli e

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le giunte; a nessuno sfugge che l'assemblea elettiva è l'unico luogo in cui avviene il reale confronto tra una maggioranza e un'opposizione, dove dovrebbe prepararsi l'alternanza. L'evolversi effettivo dei rapporti tra presidente e consiglio, alla luce dell'esperienza in corso, e soprattutto di quella che si andrà consolidando negli anni successivi, a mio avviso, deve comportare una riflessione sugli strumenti necessari per meglio far coesistere entrambi gli organi (dotati ambedue di rappresentatività delle comunità locali) e per conciliare i principi di forte responsabilizzazione che ha il presidente eletto con quelli di rappresentanza collettiva del consiglio. E questo nella consapevolezza di come, in sede di espressione del voto popolare, il sistema elettorale oggi vigente riferito all'elezione del presidente del consiglio provinciale ponga il candidato presidente e la sua proposta programmatica in una posizione paritaria, a mio giudizio, rispetto alla composizione politica del consiglio, al fine di garantire all'esecutivo una maggioranza stabile e determinare in questo modo la stabilità del governo locale, uno degli obiettivi fondamentali della legge n. 81.
Bisogna però recuperare, attraverso una corretta dimensione e funzione del progetto politico di governo locale, un più equilibrato rapporto fra il presidente, espressione della maggioranza dei cittadini, come dicevo, ma che tutti rappresenta una volta eletto, e l'assemblea consiliare, che per la sua composizione racchiude ed esprime tutte le posizioni politiche democraticamente espresse dal voto popolare. Concludo, signor Presidente, riallacciandomi a quanto più volte affermato dal presidente del consiglio di Firenze, coordinatore dei presidenti dei consigli provinciali e dell'unione delle province italiane, il collega Scalise, da ultimo al convegno che l'unione delle province ha tenuto sullo specifico argomento nella città di Crotone, capoluogo di una delle più giovani province italiane: se un consiglio svolgesse solo funzioni consultive, o venisse convocato di tanto in tanto per avanzare richieste ad altri organi cui compete decidere, sarebbe inutile ed in forte contrasto con il nostro concetto di democrazia (Applausi).

PRESIDENTE. La ringrazio. Sono così terminati gli interventi previsti: si chiude qui la prima fase dei lavori odierni, che riprenderemo fra mezz'ora alla presenza del Capo dello Stato.
Vorrei ringraziare tutti voi, anzitutto le personalità con le quali abbiamo più strettamente collaborato, cioè il presidente Morandi, il presidente Scalise e la presidente Lastri, con la quale, assieme ad un altro gruppo di colleghi, abbiamo operato per organizzare questo incontro. Ringrazio i colleghi e gli amici dell'Accademia di studi storici Aldo Moro per il contributo sia ideale, sia strutturale che ci hanno dato.
È la prima volta che rappresentanze dei consigli comunali, provinciali e regionali sono riunite insieme, e sono riunite in quest'aula, e credo che sia emersa con evidenza la forza della rete delle assemblee elettive nella nostra democrazia. Ritengo che fosse questo il senso. Adesso si tratta di andare avanti, si comincia un lavoro che svolgerete voi, se lo riterrete. La Camera è del tutto disponibile a prestare un'opera di servizio nei confronti delle altre assemblee, se lo riterranno. Nell'arco di un mese, i nostri atti saranno pubblici e, probabilmente, la loro presentazione, con le conclusioni politiche che ciascuno potrà trarre dal complesso degli interventi che sono stati effettuati, consentirà a ciascuna assemblea di vedere poi in che modo tradurre in regole e comportamenti politici coerenti la giornata di oggi, e cosa fare per il futuro.
Tra una settimana - sabato prossimo - la Camera ospiterà circa 500 ragazzi, di tutte le province italiane, che discuteranno propri progetti di legge; contemporaneamente lo farà l'Assemblea nazionale francese e contemporaneamente, in quel giorno, in quella settimana, lo faranno molti consigli regionali, provinciali e comunali. Si tratta, anche qui, di recuperare un insegnamento di Aldo Moro: stringere un rapporto tra le assemblee elettive, la

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politica e le generazioni più giovani. Credo, nel lavoro che stiamo facendo, che questo sia un modo per continuare nell'insegnamento dell'uomo che ricordiamo in quest'aula. Si tratta di costruire un circuito attivo, come è stato detto, tra tutti coloro che rappresentano la società civile. È uno sforzo che compiamo, ciascuno con le sue idee, con le sue posizioni politiche e ideali, nel pluralismo che caratterizza il nostro paese. Vi ringrazio molto. Riprenderemo i lavori tra mezz'ora alla presenza del Capo dello Stato (Applausi).

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