RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 30
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La seduta comincia alle 11.20.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
Comunico che la senatrice Dentamaro, relatrice sul Parlamento e le fonti normative, ed il deputato D'Amico, relatore sulla partecipazione dell'Italia all'Unione europea, hanno presentato le proprie relazioni, che contengono anche ipotesi di articolato (v. allegato Commissione bicamerale).
Do ora la parola alla relatrice Dentamaro.
MARIDA DENTAMARO, Relatrice sul Parlamento e le fonti normative. Signor presidente, onorevoli colleghi, se dovessi cedere alla tentazione di celebrare per intero il rituale dei ringraziamenti, dovrei cominciare da lontano e dilungarmi, perché non si tratterebbe di consumare una formalità, ma di esprimere viva gratitudine a tutti coloro che, dentro e fuori la Commissione, mi hanno accordato la fiducia e l'onore di parteciparvi, investita di questa funzione, ed ai colleghi che ne hanno finora accompagnato lo svolgimento.
L'intensità dell'impegno che ancora ci attende e la brevità del tempo a disposizione me ne dissuadono, ma non posso omettere di rivolgere almeno un sentito grazie al presidente D'Alema, soprattutto per l'onere non lieve che si è assunto di una significativa funzione di raccordo non solo formale dei lavori dei quattro Comitati; alla presidente Salvato per la saggezza, la linearità e la discrezione con cui ha condotto i lavori del Comitato Parlamento e fonti normative; ed infine ai colleghi che in questi mesi di impegno comune nel Comitato hanno svolto un'opera preziosa di riflessione e di approfondimento, di proposta sia politica sia di soluzioni tecniche, in un confronto dialettico sempre positivo e costruttivo.
Questi contributi hanno reso possibile l'elaborazione meditata e graduale di un modello di Parlamento in gran parte già noto a voi e all'esterno, rinnovato nella struttura e nelle funzioni delle due Camere, nonché nelle procedure, un modello che ambisce a collocarsi armonicamente nel quadro di insieme della riforma costituzionale, dando risposta alle istanze diverse e complesse che i mutamenti progettati lasciano emergere. Questo modello propongo oggi alla vostra valutazione, ripercorrendo brevemente l'itinerario delle riflessioni che hanno condotto al suo progressivo sviluppo.
La scelta stessa di attribuire l'istruttoria sul Parlamento ad un Comitato ad hoc, piuttosto che farne appendice della trattazione di altre parti della Costituzione, non poteva e non può essere considerata soltanto una scelta organizzativa o di metodo, implicando invece una valutazione sostanziale di autonomia nella cultura istituzionale e nel dibattito politico della riflessione e delle scelte riguardanti il Parlamento. Vi sono cioè opzioni di valore sul ruolo dell'organo rappresentativo nel sistema costituzionale che restano valide, indipendentemente dalla diversità dei modelli possibili di forma di governo e forma di Stato, in relazione ai quali semmai le scelte politiche di valore sul
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Parlamento sono suscettibili di tradursi in diverse soluzioni tecnico-istituzionali.
Preliminare, quindi, è stata una riflessione sulla posizione e sul ruolo del Parlamento nel nuovo assetto costituzionale che si va delineando, nel diverso equilibrio in via di definizione tra istituzioni, poteri ed organi; una riflessione che ha condotto con larga condivisione all'opzione di fondo per la salvaguardia delle istanze irrinunciabili della democrazia rappresentativa e partecipativa, che nel Parlamento si esprimono.
Di fronte alla crisi riconosciuta della forma di governo parlamentare, si tratta di rinnovare, senza rinnegarlo, il ruolo dell'organo rappresentativo e i modi della sua esplicazione per adeguarli ad un contesto politico, istituzionale e sociale profondamente trasformato rispetto all'età del parlamentarismo classico ed a quella della sua degenerazione. In tale contesto le coordinate di riferimento sono ovvie: un sistema di democrazia dell'alternanza, fortemente orientato in senso maggioritario, in cui l'asse dell'equilibrio istituzionale si sposta in favore di un governo più forte, stabile ed efficiente, nel decidere e nell'agire; un sistema delle autonomie che si trasforma in ordinamento federale della Repubblica.
A queste linee direttrici corrisponde evidentemente l'esigenza di calibrare i relativi meccanismi di bilanciamento e contrappeso. Ad un governo forte ed a enti territoriali titolari di sovranità, deve affiancarsi un Parlamento nazionale anch'esso forte ed autorevole. In particolare, il sistema maggioritario e la rafforzata posizione del governo, non solo come esecutivo, ma anche come partecipe del legislativo, implicano necessariamente una valorizzazione della funzione di controllo democratico sull'operato del governo stesso; implicano inoltre specifiche garanzie politico-istituzionali, soprattutto per quei settori che, attenendo a situazioni, interessi e valori di rilevanza costituzionale, non possono essere lasciati alla disponibilità piena ed esclusiva della maggioranza di governo, ove non si voglia accettare l'involuzione del sistema nel senso di una democrazia di pura delega.
L'assetto federale della Repubblica poi implica da un lato la necessaria garanzia delle autonomie rispetto alle politiche del governo centrale, dall'altro la garanzia dei diritti fondamentali di tutti i soggetti dell'ordinamento, anche nei confronti delle entità federate o comunque delle istituzioni; esso presuppone infine un nucleo intangibile di poteri collegati alle esigenze ed agli interessi di carattere unitario a presidio del riaffermato valore costituzionale dell'unità nazionale.
Queste considerazioni, evidenziando - per difetto, in verità - alcuni aspetti della forte complessità del sistema politico-istituzionale, sono a fondamento della scelta per il mantenimento di un sistema bicamerale, in linea con la maggior parte dei paesi industrializzati di democrazia matura ad alta densità di popolazione, come l'Italia (l'unica proposta in senso monocameralista, formulata e ribadita dal gruppo di rifondazione comunista, è stata accantonata fin dall'inizio dei lavori del Comitato). Democrazia complessa e pluralità di centri istituzionali sono un binomio indissolubile; l'evoluzione annunciata del sistema sconsiglia largamente - così è parso - di rinunciare a quella importante funzione di garanzia che in sé il bicameralismo assolve, consentendo una rappresentanza diversificata, un più ampio confronto politico, una più approfondita riflessione sulla produzione legislativa, un sicuro rafforzamento della funzione di controllo.
Questa notazione dovrebbe contribuire a fugare qualche equivoco cui si è dato luogo nel dibattito esterno, come sempre accade quando si discute intorno a definizioni necessariamente approssimative (al punto da diventare slogan) come quella di «Senato delle garanzie». Qui «garanzia» indica evidentemente un ruolo di contrappeso istituzionale rispetto ad altri centri di potere e non indica né un connotato di arbitrio nel potere che viene bilanciato né alcuna confusione con il sistema delle garanzie giurisdizionali. È un Senato collocato in una forma di bicameralismo che, attraverso una differenziazione di funzioni, accentua e qualifica quel generale ruolo di garanzia politico-istituzionale che di per sé deriva
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dall'esistenza di due Camere rappresentative. Una simile funzione non può essere affidata soltanto a meccanismi di natura giurisdizionale (non potendosi trasformare la Corte costituzionale in un sistematico arbitro di conflitti politici, se non a pena di snaturarne la funzione propria e fondamentale) né a strumenti di democrazia diretta la cui attivazione sistematica - oltre ad essere difficoltosa in un paese ad elevata consistenza demografica - rischierebbe di depotenziare il principio rappresentativo, irrinunciabile per un funzionamento fisiologico della democrazia; in ogni caso gli uni e gli altri avrebbero carattere necessariamente saltuario, se non eccezionale. Si parla, quindi, di garanzie e riequilibri interni al sistema delle istituzioni politiche.
La seconda opzione riguarda la struttura rappresentativa delle due Camere, ed in particolare del Senato, di fronte a proposte e voci anche autorevoli - all'interno ed all'esterno della Commissione - che ne reclamano la trasformazione in Senato delle regioni ed eventualmente delle autonomie locali, caratterizzato da una rappresentanza territoriale e non politica, composto cioè ad elezione di secondo grado da esponenti degli esecutivi regionali e locali. Il Comitato ha molto riflettuto su questa possibile soluzione, pervenendo alla conclusione di escluderne l'opportunità. In proposito mi limito a riassumere argomenti già più volte emersi anche nel dibattito in Commissione plenaria. Una simile scelta, anche in base all'esperienza di altri ordinamenti federali (soprattutto quello tedesco), sarebbe coerente soltanto con un modello di federalismo prevalentemente amministrativo e pienamente cooperativo, verso il quale non è orientato il percorso seguito sul tema della forma di Stato; si tratta di un modello che, implicando ampie aree di codecisione piena, non appare appropriato in un contesto geo-socio-economico caratterizzato da una profonda frattura tra aree forti ed aree deboli, la quale determinerebbe facilmente situazioni di grave conflittualità tra istituzioni rappresentative di aree territoriali diverse del paese.
Una composizione equilibrata di un Senato delle autonomie sarebbe, poi, sostanzialmente impossibile da realizzare in un sistema connotato da una pluralità di livelli istituzionali forti e da massima frammentazione ed eterogeneità delle realtà comunali. Ad una sicura confusione istituzionale si aggiungerebbe inevitabilmente una prevalenza delle regioni, ponendosi così serie premesse per realizzare quel neocentralismo regionale da cui tutti - o quasi - dicono di rifuggire perché in contrasto con la nostra tradizione dei municipi e con l'affermazione del principio di sussidiarietà. Un Senato delle autonomie con funzioni decisionali piene, poi, non consente un'imputazione chiara delle decisioni e quindi altera gravemente il funzionamento del principio di responsabilità politica, cardine della democrazia dell'alternanza.
È maturata, dunque, la scelta per l'elezione anche del Senato a suffragio universale e diretto, che assicura un tasso più elevato di democraticità ed autorevolezza della rappresentanza, più adeguato al migliore assolvimento di un complessivo ruolo di garanzia politico-istituzionale. La garanzia nei confronti degli enti territoriali opera con la partecipazione dei medesimi alle procedure legislative che più direttamente coinvolgono i loro interessi, innanzitutto quelle in materia di bilancio, finanziarie e tributarie, che riflettono peraltro le politiche economiche, sociali, di perequazione e di solidarietà in tutte le loro specificazioni. La partecipazione si attua mediante una commissione speciale, composta per la metà da senatori, per un quarto dai presidenti delle regioni, per un quarto da rappresentanti degli enti locali. Ciò consente la rappresentazione contestuale degli interessi delle istituzioni locali ed il confronto dialettico tra le stesse, con la garanzia costituita da una rappresentanza politica nazionale paritaria rispetto a quelle regionali e locali e con la salvaguardia del potere di decisione politica (e conseguente responsabilità della maggioranza di Governo).
La proposta scaturita dalla discussione in seno al Comitato - quale si è sviluppata sino a tutta la scorsa settimana - prevede che sulle leggi anzidette, attribuite in prima lettura alla Camera dei deputati, la commissione speciale all'interno del
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Senato abbia funzione referente: il testo da essa approvato può essere modificato dall'Assemblea solo a maggioranza assoluta dei componenti; la decisione definitiva è attribuita alla Camera dei deputati per la strettissima inerenza della materia al programma di governo. In caso di approvazione definitiva di un testo diverso da quello adottato dalla Commissione, inoltre, le regioni possono impugnare dinanzi alla Corte costituzionale le parti difformi, per violazione dell'ambito della potestà legislativa, amministrativa e finanziaria delle regioni stesse.
Nell'ultima riunione del Comitato - tenutasi appena ieri l'altro - è stata prospettata da più forze politiche, anche a modifica di precedenti orientamenti, l'esigenza di potenziare il ruolo della commissione speciale attribuendo ad essa funzione deliberante. Nella fedeltà al compito di relatrice - come da me inteso fin dal primo momento - di sintesi ed elaborazione delle proposte più aggreganti, su questo punto specifico ho predisposto un testo alternativo (che troverete nell'ultima pagina dell'articolato in distribuzione). L'alternativa riguarda l'articolo 84, sulle procedure per l'approvazione delle leggi di bilancio, finanziarie e tributarie, anche in questo caso attribuite in prima lettura alla Camera dei deputati. I testi da questa approvati sono trasmessi al Senato ed esaminati dalla speciale commissione che esprime voto deliberante nelle disposizioni riguardanti: finanza regionale e locale; istituzione, disciplina e ripartizione di fondi perequativi. La Camera dei deputati conserva anche in questo schema il potere di deliberazione definitiva, in ossequio al principio di responsabilità collegato primariamente alle politiche di bilancio.
Entrambi gli schemi evidentemente sono adattabili, nelle loro applicazioni, anche in relazione al necessario coordinamento con gli sviluppi e gli affinamenti che si avranno in ordine alla forma dello Stato. Di questa possibile estensione vi è traccia nell'ultimo comma del testo alternativo dell'articolo 84.
Infine, nell'intento di non lasciare prive di riscontro indicazioni di segno ancora diverso ma non antitetico pure emerse nell'ultima seduta del Comitato, ritengo doveroso segnalare l'ipotesi formulata dal senatore Salvi di una composizione del Senato che, ferma restando la maggioranza di componenti elettivi, veda una vera e propria integrazione di questo ramo del Parlamento con rappresentanti delle regioni e del pianeta delle autonomie locali in generale.
Non vi sono state le condizioni per tradurre questa ipotesi in un testo alternativo, poiché la recentissima prospettazione non ne poteva consentire una maturazione anche appena sufficiente, attraverso un confronto di posizioni all'interno del Comitato. Questo potrà svolgersi eventualmente in sede plenaria ma, in questo caso, credo ci si dovrà far carico molto attentamente di prendere nella dovuta considerazione i noti inconvenienti che un modello simile determina nell'esperienza spagnola in via di superamento.
Concluse queste indispensabili precisazioni, torno al disegno generale e sottolineo subito che scegliere un Parlamento composto da due Camere elette a suffragio universale e diretto non significa riprodurre l'attuale bicameralismo perfetto. L'esperienza suggerisce semmai soluzioni che ne superino gli inconvenienti, conservandone invece il pregio, cioè la funzione di garanzia ripensata e riqualificata all'interno del nuovo sistema e in coerenza con esso. Il ridotto numero di componenti (la proposta è di 400 deputati e 200 senatori) dovrebbe accrescere l'autorevolezza della rappresentanza e l'efficienza nel funzionamento, mentre si allarga la base rappresentativa con l'estensione dell'elettorato attivo anche per il Senato ai cittadini che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età.
Sempre con l'obiettivo di elevare il tasso di democraticità dell'ordinamento e migliorare la qualità stessa della democrazia, colmando un deficit che nessuno oggi può onestamente disconoscere, si pone una norma intesa a promuovere l'equilibrio della rappresentanza tra i sessi, rinviando alla legge ordinaria la determinazione dei relativi strumenti e modalità, con riferimento non solo all'intervento diretto in sede di legge elettorale, ma anche a strumenti indiretti che possono introdursi in qualsiasi scelta legislativa.
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La previsione dei senatori a vita è conservata solo per quelli di diritto nella persona degli ex Presidenti della Repubblica, mentre si sopprime l'anacronistico istituto della nomina presidenziale, facendo salve con norma transitoria le precedenti nomine dei senatori attualmente in carica.
Quanto alle funzioni, il Parlamento conserva il primato nell'esercizio della funzione legislativa che viene interamente ridisciplinata. Riparto di competenza materiale tra le due Camere e procedure radicalmente diverse da quelle vigenti, improntate a istanze di rapidità e agilità, dovrebbero consentire lo svolgimento di una dialettica più serrata e proficua con il Governo, imponendosi anche al Parlamento di compiere scelte chiare in tempi ragionevoli, rendendosi più difficile il ricorso a strumenti ostruzionistici e dilatori e garantendosi per contro spazi da riservare alle iniziative delle opposizioni e dei singoli parlamentari.
In questo modo l'istanza di governabilità non si traduce in una perdita di autorevolezza del Parlamento o in un sostanziale disconoscimento della democraticità della funzione normativa assicurata dal principio rappresentativo, bensì nella previsione, accanto a nuovi modi di formazione del Governo, di strumenti procedurali che inducano un rapporto chiaro e corretto tra legislativo ed esecutivo e tra le diverse forze politiche all'interno delle Assemblee rappresentative. Nella ricerca di un equilibrio certamente delicato tra governabilità e garanzia del principio democratico e rappresentativo, le due Camere hanno quindi funzioni e ruolo politico differenziati, con una più specifica funzione incardinata nel Senato di contrappeso istituzionale rispetto al continuum Governo-maggioranza parlamentare nella Camera politica.
Il modello proposto attribuisce infatti il rapporto di fiducia alla sola Camera dei deputati, in cui si concentra il sostegno parlamentare alla realizzazione del programma di governo nella dialettica del confronto tra maggioranza e opposizione. Alla Camera quindi è attribuita tutta la legislazione strettamente riferibile all'indirizzo politico governativo, rispetto alla quale il Senato opera soltanto come camera di riflessione. Il Senato svolge un ruolo politico diverso, partecipando al procedimento legislativo con potestà decisionale piena in un'area di attribuzioni non esclusivamente riferibile al programma di governo, nelle quali dunque risalta meno la dialettica maggioranza opposizione, privilegiandosi invece un'esigenza di rappresentatività più piena e di consenso tra le forze politiche con scelte meno vincolate alla politica governativa e con una più marcata operatività di quella garanzia di confronto più ampio, di riflessione più approfondita e pluralistica che deriva dall'articolazione bicamerale dell'organo rappresentativo e delle procedure di decisione.
Si tratta - tento qui di chiarire la ratio di un catalogo che ha impegnato a lungo il Comitato per la sua definizione e che ancora oggi ho ritoccato (articolo 68) - delle materie «di sistema», che riguardano la collettività o la persona in quanto tali: gli apparati di vertice dell'ordinamento costituzionale, gli organismi neutrali, la determinazione delle regole del confronto politico (in particolare le leggi elettorali), i diritti fondamentali civili e politici, le libertà inviolabili della persona (qui si connette la codificazione in materia penale) e infine quegli strumenti essenziali e delicatissimi delle moderne democrazie quali l'informazione e la diffusione radiotelevisiva; tutte materie la cui gestione non serve e non deve servire come strumento per governare, sicché la previsione di un procedimento legislativo diverso e sottratto al vincolo della fiducia non può mai costituire intralcio alla realizzazione di un programma di governo.
Il criterio di riparto, insomma, corrisponde ad un'interpretazione del bicameralismo in senso funzionale e non meramente materiale, come viceversa avrebbero preferito quei colleghi che hanno espresso preoccupazione per un ridimensionamento ritenuto eccessivo sia della posizione istituzionale del Parlamento nel suo complesso sia del ruolo del Senato, che determinerebbe negativi squilibri tra i diversi organi costituzionali e tra i poteri delle due Camere. In particolare il dibattito si è incentrato sull'opportunità di
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conservare l'istituto della fiducia come istituto bicamerale. È parso però che un semplice riparto di competenza materiale avrebbe un significato poco più che organizzativo, mentre il criterio funzionale proposto risponde meglio alla radice stessa del bicameralismo e al ruolo specifico e significativo che esso può svolgere nel nuovo sistema costituzionale; consentire di coniugare effettivamente governabilità e rappresentanza, efficienza e riflessione pluralistica, facendo sì che ciascuno di questi principi operi con pienezza nel terreno suo proprio: da una parte la realizzazione di un programma di governo, dall'altra garanzie per la determinazione delle regole del gioco e per quei diritti fondamentali che devono restare indisponibili per la maggioranza.
Una simile differenziazione di competenze è anche strumento utile a migliorare la qualità della progettazione legislativa e del prodotto parlamentare, poiché impedisce di confondere - per così dire - sacro e profano, grandi temi di civiltà giuridica e contingenze della politica quotidiana in un sistema di democrazia bipolare che può conoscere anche momenti di conflittualità accentuata.
I procedimenti legislativi sono dunque diversi, sempre però improntati all'istanza di efficienza, snellezza e rapidità nella decisione.
Per le materie bicamerali il procedimento inizia davanti al Senato e una commissione di conciliazione entra in causa qualora la Camera adotti delle modificazioni. La proposta di legge è approvata quando il testo licenziato dalla commissione, non ulteriormente emendabile, sia approvato articolo per articolo e poi con voto finale dalle due Assemblee; diversamente è respinto.
Nella restante legislazione, il Senato svolge un ruolo di camera di riflessione entro un termine breve, al massimo 45 giorni, esercitando un potere di richiamo e proponendo modifiche su cui la Camera delibera in via definitiva. Nell'uno e nell'altro caso quindi non si supera il limite delle tre letture e si riduce fortemente il rischio dell'introduzione di emendamenti non coerenti con il testo nel suo insieme.
È soppresso il procedimento in commissione deliberante, che non ha più ragion d'essere a fronte di procedure ordinarie assai più snelle e in presenza di una complessiva riduzione dell'area di competenza legislativa del Parlamento, che si verificherà sicuramente a beneficio delle competenze dell'Unione europea, delle regioni e probabilmente del governo.
Modificazioni sono apportate alla disciplina sostanziale della materia del bilancio: previsione del bilancio complessivo della pubblica amministrazione e dei rendiconti consuntivi, finanziari e patrimoniali, passando così da una considerazione del bilancio dello Stato in senso stretto ad un quadro più ampio e significativo del settore pubblico allargato; rispetto dei vincoli derivanti dall'adesione ai trattati internazionali; qualificazione delle leggi di attuazione e della disciplina costituzionale sul bilancio, come normativa interposta; affermazione generalizzata del principio della compensazione; favor per il controllo di efficienza e di economicità; precisazione dei limiti per nuove spese e nuove entrate, con riferimento alla copertura per l'intero periodo di applicazione, e al rispetto dei limiti per il ricorso all'indebitamento autorizzati con la legge di approvazione del bilancio. Il governo può opporsi ad emendamenti che comportino nuovi o maggiori oneri, anche se provvisti di copertura, e in tal caso la Camera può approvarli solo a maggioranza assoluta dei componenti.
Altre modifiche riguardano la materia dei trattati e dei rapporti internazionali, per la quale è previsto un raccordo necessario e costante del Governo con il Parlamento; per l'autorizzazione alla ratifica si segue il procedimento legislativo - monocamerale o bicamerale - richiesto in base alla materia oggetto del trattato. Infine, è previsto il parere obbligatorio delle regioni interessate prima della sottoscrizione di trattati che incidano direttamente sulla loro condizione.
Ancora in tema di procedimento legislativo, si introduce un criterio di favor per l'iniziativa legislativa del governo, prevedendo il potere dell'esecutivo di determinare le priorità nel calendario e nell'ordine del giorno delle Camere e di
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dichiarare l'urgenza di disegni di legge presentati o progetti accettati, con rinvio ai regolamenti per la disciplina di termini e procedure per la deliberazione finale. Questa disposizione ha suscitato alcune perplessità in ordine ad una possibile lesione delle prerogative del Parlamento; mi pare innegabile però che rappresenti uno strumento importante per l'efficienza e la rapidità dell'azione di governo. Per contro, a bilanciamento, è prevista l'assegnazione di tempi all'iniziativa legislativa parlamentare e una riserva per le proposte e le iniziative delle opposizioni, sempre con rinvio ai regolamenti (tecnica utilizzata ampiamente per evitare di irrigidire in Costituzione discipline troppo dettagliate).
Segnalo per esempio all'articolo 61 il rinvio pieno ai regolamenti quanto ai requisiti per la validità delle sedute e per l'approvazione delle deliberazioni. Infatti, quorum rigidamente fissati in Costituzione potrebbero male adattarsi ad assemblee elette con sistemi maggioritari o prevalentemente maggioritari.
Altri istituti contribuiscono a delineare una forma di statuto dell'opposizione, da definire ulteriormente, come è ovvio, in coordinamento con il testo sulla forma di governo: maggioranze qualificate per l'elezione dei presidenti delle assemblee e l'approvazione dei regolamenti parlamentari; impugnazione costituzionale di testi di legge a istanza di minoranze qualificate per vizi del procedimento e per violazione delle norme in materia finanziaria e di copertura della spesa (per questi motivi è legittimata anche la Corte dei conti); istituzione di commissioni di inchiesta ad iniziativa di minoranze qualificate. Vi è sinfine una clausola generale per la quale i regolamenti garantiscono i diritti delle opposizioni.
In tema di decretazione d'urgenza - articolo 79 - si propone di limitare l'adozione dei provvedimenti urgenti a presupposti tassativamente individuati e di imporre limiti di contenuto nonché un'efficacia limitata nel tempo delle disposizioni introdotte con decreto-legge; una disciplina molto restrittiva, quindi, di questo strumento, evidentemente bilanciata dalla maggiore incisività dei poteri del governo rispetto ai lavori parlamentari ordinari. Le leggi di delegazione - articolo 78 - seguono il procedimento (monocamerale o bicamerale) richiesto in base alla materia che ne forma oggetto.
Il tema della funzione normativa del governo si completa con una più puntuale disciplina del potere regolamentare; anche qui sarà necessario uno stretto coordinamento con le scelte in tema di forma di governo. Questo testo prevede: riserva di legge solo relativa per l'organizzazione costituzionale del governo; riserva regolamentare piena per l'organizzazione della pubblica organizzazione statale; regolamenti indipendenti per le materie non coperte da riserva di legge; costituzionalizzazione del principio di delegificazione; regolamenti di attuazione.
Nel quadro di una funzione di controllo complessivamente potenziata con l'attribuzione del potere di inchiesta ad iniziativa di minoranze qualificate nelle due Camere, al Senato è attribuito il potere di proporre misure, all'esito del controllo, alla Camera dei deputati, al Presidente della Repubblica e al Governo. È una previsione di iniziative strumentali alla maggiore responsabilizzazione politica degli organi costituzionali nell'esercizio dei rispettivi poteri, in linea con una concezione moderna del controllo parlamentare, efficace non tanto in relazione alla possibile sanzione della sfiducia quanto perché operato in costante congiunzione con l'opinione pubblica.
È prevista inoltre una penetrante attività conoscitiva in sede di commissioni permanenti. Sono poi riservate al Senato, proprio in considerazione dell'assenza del rapporto politico di fiducia, le nomine di attribuzione parlamentare: una quota dei giudici della Corte costituzionale, dei componenti del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro; inoltre, le nomine di nuova introduzione delle autorità amministrative indipendenti, nonché l'espressione di parere su nomine, proposte o designazioni dei funzionari dello Stato e degli amministratori di istituti ed enti pubblici. Preciso che non di tutte le nomine si tratta, bensì soltanto di alcune, per la cui individuazione si rinvia ad una
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legge bicamerale; resteranno naturalmente escluse, cioè, quelle nomine che devono essere necessariamente fiduciarie da parte del governo.
Brevemente, in tema di referendum, le novità introdotte intendono potenziare la carica democratica dell'istituto, impedendone usi distorti attraverso la tecnica del ritaglio manipolativo del testo di legge, imponendo l'omogeneità delle disposizioni normative sottoposte a referendum e la formulazione dei quesiti in modo da renderne chiaro il contenuto, sopprimendo il divieto per le leggi di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali e introducendo poi il referendum approvativo per le proposte di iniziativa popolare presentate da almeno un milione di elettori, quando il Parlamento non si pronunci entro 18 mesi dalla presentazione.
Infine, è introdotta un'esplicita clausola di salvaguardia della volontà espressa con il voto referendario per la durata della legislatura e comunque nei tre anni successivi alla consultazione popolare. Il numero di firme necessarie per la richiesta è elevato ad 800 mila per adeguarlo all'incremento demografico intervenuto negli ultimi 50 anni. Il giudizio di ammissibilità è anticipato alla raccolta delle prime 200 mila firme.
Da ultimo, la revisione costituzionale. Tre le novità. La necessaria approvazione di almeno tre quinti delle assemblee legislative regionali quando le modifiche investano il titolo V della Costituzione o ciò che lo sostituirà; l'esplicita affermazione della immodificabilità, oltre che della forma repubblicana, dei principi supremi dell'ordinamento e dei diritti inviolabili; la previsione del ricorso con effetti sospensivi alla Corte costituzionale da parte di minoranze qualificate per il giudizio di conformità alle disposizioni sulla revisione.
Signor presidente, onorevoli colleghi, mi scuso se vi ho intrattenuto a lungo nel tentativo di rendervi partecipi di un percorso di riflessione maturato in questi mesi, ma ho motivo di confidare che questa Commissione non sia una qualsiasi sede in cui si fa politica; è il luogo in cui ci siamo impegnati, di fronte alla nazione, a ridisegnare il volto della nostra democrazia.
Se riterrete di condividere le scelte di valore che questa proposta intende esprimere, pur con limiti e lacune che la riflessione in sede plenaria potrà superare, sarò onorata di proseguire in questo impegno al servizio della Commissione, del Parlamento e del paese.
FRANCESCO SERVELLO. Signor presidente, vorrei per completezza fare una domanda alla relatrice, che è stata così attenta e scrupolosa.
Quando ha illustrato un testo alternativo all'articolo 84, forse la relatrice ha dimenticato - chiedo comunque una precisazione al riguardo - l'esistenza di una proposta Elia istitutiva di una Commissione permanente nell'ambito del Senato. Mi pare che nella relazione non ci sia traccia di giudizio sull'ammissibilità di detta Commissione o comunque di una valutazione sull'ipotesi. Non ho deciso di appoggiare quest'ultima, ma è singolare che vi sia un testo alternativo all'articolo 84 sull'istituzione di una Commissione speciale per una determinata materia, mentre questa proposta che riguarda l'intelaiatura della seconda Camera mi pare sia stata in qualche modo disattesa nell'elencazione delle varie proposte.
MARIDA DENTAMARO, Relatrice sul Parlamento e le fonti normative. Il testo alternativo proposto per l'articolo 84 fa riferimento ad un organo che si avvicina molto - credo che lo stesso presidente Elia potrebbe verificarlo - alla proposta da lui formulata. Ho ritenuto di darne un'indicazione molto più sintetica e di non scendere in tutti i dettagli indicati dal testo a suo tempo presentato dal presidente Elia, anche perché si tratta di un punto che dovrà essere sciolto definitivamente in correlazione con la forma di Stato.
Il carattere permanente o temporaneo di questa Commissione potrà pure essere preso in considerazione. Ho detto qualche volta in Comitato - anche prima di giungere alla formulazione di questo testo alternativo - che la Commissione speciale
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costituita per consentire in Senato la rappresentanza delle regioni e delle autonomie potrebbe avere carattere permanente, sostituendo se mai quell'organo attualmente bicamerale previsto dall'articolo 126 della Costituzione.
Del resto, un'indicazione in questa direzione è contenuta anche nell'ultimo comma dell'articolo 84, che in qualche modo ipotizza - credo di averlo detto in relazione - l'estensione delle competenze di questa Commissione, al di là delle procedure finanziarie, di bilancio e per le leggi tributarie. Credo quindi che con questa proposta alternativa si possa lavorare nelle varie direzioni possibili.
MARCO BOATO. Comunque è tutta materia del dibattito di questo pomeriggio!
PRESIDENTE. Certo, il chiarimento si considera esaurito; il resto sarà oggetto del dibattito. La relatrice ha spiegato che il testo alternativo dell'articolo 84 si ispira, nei limiti in cui la relatrice ha inteso recepire, alla proposta che era stata avanzata dal presidente Elia.
Do ora la parola al relatore D'Amico.
NATALE D'AMICO, Relatore sulla partecipazione dell'Italia all'Unione europea. La mia proposta di articolato sarà distribuita fra qualche minuto; ieri abbiamo affrontato il problema del ricompattamento del quadro politico e della riduzione dell'eccessivo frazionamento dei partiti. Non so dire nulla riguardo a questo, mentre per quanto riguarda il frazionamento dei gruppi parlamentari, il problema di quelli piccoli potrebbe essere risolto presto dalla consunzione dei loro componenti se continueremo su questi ritmi...!
Vorrei anzitutto ringraziare senza retorica la Commissione ed il suo presidente per avermi dato questo incarico: sono davvero onorato. Senza alcuna formalità, ci tengo a ringraziare tutti i componenti del Comitato Parlamento e fonti normative; un ringraziamento particolare va alla sua presidente, senatrice Salvato. Abbiamo lavorato su questo tema con impegno e se c'è qualche merito nel testo che presenterò esso appartiene senz'altro ai colleghi che hanno lavorato nel Comitato molto più che a me.
Introducendo il tema legato al tentativo di inserire il processo di costruzione europea nella nostra Costituzione, così come hanno fatto la gran parte degli altri paesi, la tentazione di cedere alla retorica è molto forte. Cercherò di evitarla ma è bene che tutti noi ricordiamo che dal punto di vista culturale, storico e politico questo paese ha svolto un ruolo importante nel processo di costruzione europea, fin dal Risorgimento, negli ideali di importanti protagonisti di quel periodo, e, quando ancora l'ultima guerra era in corso, attraverso alcuni importanti intellettuali che hanno disegnato un percorso di costruzione europea.
Tutti ricordiamo che questo è il paese che, secondo tutti i sondaggi e anche secondo le verifiche compiuti in modo più formale (ricorderete il referendum), risulta essere il più europeista d'Europa. Forse non è neanche il caso di soffermarsi sulle ragioni che rendono necessario l'intervento con disciplina costituzionale volta a conferire una maggiore «copertura» della partecipazione italiana al processo di integrazione comunitaria.
Si tratta di una strada già perseguita dalla maggior parte dei partner europei ed in relazione alla quale l'Italia deve colmare un gap che risale già all'adesione alle comunità economiche, ma che si è reso ancora più evidente con la ratifica del trattato di Maastricht.
La dottrina costituzionalistica più avvertita, oltre che molti operatori politici, è pressoché concorde nel ritenere che l'attuale articolo 11 della Costituzione sia stato sottoposto ad una considerevole forzature interpretativa per giustificare l'adozione di semplici leggi ordinarie per l'autorizzazione alla ratifica dei trattati istitutivi delle Comunità europee e dell'Unione europea.
Ciò detto, non ci si può nascondere le difficoltà dell'intervento anche in sede di revisione costituzionale. La principale difficoltà deriva dalla natura stessa del processo comunitario, che risulta sottoposto a continui aggiustamenti, sia attraverso mutamenti normativi sia attraverso l'opera
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«pretoria» della giurisprudenza della Corte di giustizia. Ora, mentre con riferimento alle modifiche normative, nulla impedisce che, variando i trattati, il legislatore, ordinario o costituzionale, possa intervenire tempestivamente, in sede di autorizzazione alla ratifica o di esecuzione degli impegni, al fine di determinare un assetto organizzativo interno corrispondente alle nuove necessità, assai più difficile è disciplinare i settori che sono oggetto di evoluzione giurisprudenziale. Si rischia infatti l'irrigidimento su scelte che la Corte di giustizia potrebbe, successivamente, non ritenere più del tutto necessitate dal diritto comunitario.
Dato questo quadro si è cercato di calibrare la soluzione di ogni singolo problema anche con riferimento al riflesso che essa può avere sul piano comunitario, regolando la maggiore o minore «elasticità» della disciplina interna a seconda dei contraccolpi che possono in quella sede determinarsi.
Sarebbe paradossale che, per recuperare il tempo perduto, il legislatore costituzionale italiano decidesse di ingessare oltre misura la disciplina.
Peraltro, la preclusione di un intervento di ampio respiro anche sulla prima parte della Costituzione, anziché pregiudicare l'efficacia del nostro lavoro, credo possa addirittura risolversi in una circostanza propizia al fine di evitare questo rischio. Infatti, come vedremo, si è stati costretti ad intervenire in modo chirurgico, con norme di carattere prevalentemente organizzativo, che ben possono risultare compatibili con la «flessibilità» dell'evoluzione comunitarie, senza ipotecare sviluppi futuri.
Di questo intrinseco problematicismo della disciplina dei rapporti con il diritto comunitario, vi è traccia evidente nell'articolato, che è frutto di uno sforzo - quasi equilibristico - tra rispetto degli assetti esistenti e indicazioni prescrittive che orientino gli ulteriori sviluppi dell'integrazione comunitaria e rafforzino le garanzie interne di tali processi. L'apparente complessità di alcune disposizioni non deve considerarsi esclusivamente indice dei limiti del relatore, ma anche frutto di uno sforzo di comporre le differenti variabili che entrano in gioco nella materia interessata. Conforta a questo proposito la constatazione che, sul piano comparato, una complessità analoga si riscontra nei testi costituzionali di quegli ordinamenti che più seriamente hanno affrontato tali problemi. D'altra parte, l'aver previsto più articoli credo renda più semplici gli eventuali interventi modificativi, consentendo di meglio distinguere i singoli e differenti profili.
Quelle che seguono sono alcune proposte che prendono spunto dai vari progetti presentati alla bicamerale e dal dibattito svolto in Comitato. Vorrei segnalare che, praticamente dall'inizio, il Comitato ha lavorato su di un testo presentato dal relatore e poi via via modificato.
Quanto al tipo di intervento, si è ritenuto preferibile, piuttosto che disperdere le singole norme in materia comunitaria per tutto il testo della parte seconda, concentrarle in un unico gruppo di articoli. Si tratta peraltro di una scelta maggioritaria al livello comparato (Germania, Austria, Francia, Finlandia, Svezia). Resta salva ovviamente la necessità di un coordinamento finale. A tale regola si è fatto eccezione solo per le norme che riguardano l'organizzazione della pubblica amministrazione. Il relatore si riserva di proporre un emendamento aggiuntivo al testo di riforma degli articoli 97 e 98 della Costituzione.
Il primo articolo proposto, l'articolo A (in mancanza della numerazione, si ricorre all'alfabeto) riguarda la copertura costituzionale. I problemi cominciano con riferimento alla scelta della stessa disposizione che dia all'integrazione europea una veste costituzionale, sancendo la partecipazione italiana all' Unione europea ed il trasferimento di poteri all'Unione.
Poiché il diritto comunitario pattizio è già costituito da norme vigenti che hanno acquistato efficacia interna, appare inutile, ed anzi condannabile sul piano comunitario una «trascrizione» in Costituzione dei principi - o solo di alcuni di essi - che caratterizzano l'ordinamento sovranazionale. Viceversa sembra maggiormente auspicabile introdurre un duplice tipo di disposizioni. L'uno volto a sancire che l'Italia partecipa al processo
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di integrazione che l'Unione europea si prefigge anche conferendo progressivamente ulteriori poteri e competenze purché nel rispetto dei limiti cui soggiace, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, lo stesso legislatore costituzionale. L'altro volto a precisare alcune finalità in vista delle quali l'Italia svolge la propria azione nell'Unione europea (un rafforzamento degli istituti democratici di partecipazione, un rafforzamento dello Stato di diritto, sociale, un'articolazione territoriale che tenga conto anche degli enti infrastatuali, la sussidiarietà, eccetera).
Da notare che la formula dell'indicazione di alcuni principi che qualificano la partecipazione al processo di integrazione si trova in numerosi progetti all'attenzione della Commissione ed in alcune Costituzioni straniere (per esempio, tedesca e francese).
Accanto al problema della copertura costituzionale si è posto quello della disciplina delle modifiche ai trattati. Sul piano sostanziale va preso atto che, quanto più avanzata si farà l'evoluzione comunitaria verso una prospettiva federale, tanto più le modificazioni dei trattati rischieranno di incidere sulla Costituzione. D'altra parte, però, poiché non ogni modifica ha una rilevanza costituzionale, non pare sensato procedere ad una «costituzionalizzazione» tout court delle norme di adattamento ai trattati, passati e futuri. Si avrebbe infatti una disciplina costituzionale enorme, comprendente oltre la Carta e le altre norme interne adottate con legge costituzionale, anche tutte le norme dei trattati!
Onde evitare però l'aggiramento della Costituzione, si è stabilito che qualora le nuove discipline pattizie comportino modifiche o integrazioni della Carta, si proceda contestualmente alle necessarie revisioni della Costituzione.
A tutela delle minoranze e ad ulteriore garanzia del rispetto della Costituzione si è altresì prevista la possibilità di un ricorso preventivo alla Corte costituzionale. Un sindacato costituzionale a ridosso dell'adesione ai trattati è stato peraltro sperimentato in altri ordinamenti (si pensi a Germania, Francia, Spagna, seppure con caratteristiche e modalità tra loro diverse).
Un intervento preventivo consentirebbe così alla Corte costituzionale di pronunziarsi sulla costituzionalità dell'adesione con legge ordinaria e sulla eventuale necessità di procedere ad una revisione costituzionale. Inoltre tale giudizio preventivo consentirebbe il tempestivo intervento della Corte qualora fossero messi a rischio principi irrivedibili (insuscettibili, cioè, di modificazione anche con procedimento di revisione: i cosiddetti principi supremi e i diritti inviolabili).
L'articolo B affronta il problema del sistema delle fonti e del primato del diritto comunitario. Se finora si è trattato degli effetti che, sull'ordinamento interno, hanno le norme comunitarie primarie (trattati e principi), bisogna considerare anche il problema delle fonti secondarie del diritto europeo (regolamenti, direttive, eccetera). Il problema si pone in due direzioni. La prima riguarda la decisione di riconoscere o meno espressamente il primato e la particolare efficacia del diritto comunitario. La seconda se sia il caso di configurare una particolare risoluzione dei conflitti internormativi. In tale caso si dovrebbero risolvere vari nodi tutt'altro che consolidati nella dottrina e nella giurisprudenza comunitari: il primato del diritto comunitario riguarda anche le norme costituzionali o, quantomeno, alcune di esse? Il rapporto tra diritto comunitario e diritto interno si pone in termini di gerarchia, di competenza, di preferenza, di specialità? I due ordinamenti sono integrati (come vuole la Corte di giustizia) o sono separati e coordinati (come vuole la Corte costituzionale)? I rapporti si presentano in termini identici per qualsiasi atto comunitario (regolamenti, direttive, decisioni, eccetera)?
Sembra evidente che sarebbe estremamente pericoloso dare una soluzione rigida a tali questioni. Non si può però ignorarne l'esistenza, immaginando un'armonia che, nei fatti, ancora non esiste. Si è ritenuto, allora, di affrontare il problema, ma cautamente. Offrendo alla giurisprudenza, interna e comunitaria, la
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possibilità di procedere ad una migliore definizione dei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, pur senza pregiudicare gli equilibri attuali.
Ci si è limitati così a riconoscere l'immediata vigenza del diritto comunitario nell'ordinamento interno, stabilendo altresì un obbligo costituzionale di integrazione ed esecuzione da parte degli organi competenti nel caso di atti comunitari non autoapplicativi. E si è altresì prevista la «prevalenza» del diritto CE, purché nei limiti delle competenze conferite all'Unione e nel rispetto dei principi supremi dell'ordinamento e dei diritti inviolabili della persona umana. Si afferma così espressamente il primato, lasciando però che sia la giurisprudenza e l'evoluzione del diritto comunitario a risolvere gli ulteriori problemi interpretativi.
L'articolo C si occupa delle garanzie del diritto comunitario contro le violazioni da parte degli atti interni. Il problema è, in parte, collegato con i precedenti e riguarda la soluzione dei conflitti tra atti interni subcostituzionali e diritto comunitario. In tal caso non vi sono dubbi che il diritto sovranazionale debba prevalere, ma possono le norme nazionali incompatibili essere oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale o esse devono venire semplicemente disapplicate dal giudice comune?
Com'è noto la Corte di giustizia ha affermato (sentenza Simmenthal del 1978) l'obbligo per qualsiasi giudice di disapplicare le norme interne incompatibili, precludendo l'intervento della Corte costituzionale ed impedendo, così, che le leggi disapplicate possano essere oggetto di un sentenza di annullamento della Corte che - a differenza della disapplicazione del singolo giudice - eliminerebbe definitivamente dall'ordinamento le norme anticomunitarie.
La Corte costituzionale dopo aver aderito all'impostazione comunitaria (negando addirittura che vi fosse un profilo di incostituzionalità nei conflitti tra diritto CE e fonti interne: sentenza n. 170 del 1984), negli ultimi tempi (confronta le sentenze 384 del 1994 e 94 del 1995) ha tentato di recuperare un po' di terreno, ammettendo il proprio sindacato nei casi in cui non sia possibile la disapplicazione da parte di un giudice, perché giudice in concreto non c'è (giudizi di legittimità costituzionale in via di azione, nei confronti di leggi regionali).
La Corte di giustizia sembra preferire il sistema della disapplicazione perché così si garantisce la possibilità di un proprio intervento attraverso la procedura di cui all'articolo 177 trattato CE, che facoltizza (o impone) ai giudici interni di rinviare pregiudizialmente alla Corte europea le questioni di interpretazione del diritto comunitario. Il giudice, quindi, se ha dei dubbi sulla compatibilità tra diritto interno e diritto comunitario, anziché adire la Corte costituzionale, deve richiedere a quella europea un intervento pregiudiziale di interpretazione della normativa sovranazionale per chiarirne l'effettiva portata. Ma è evidente che, così posta, la questione di interpretazione trasferisce, nei fatti, alla Corte europea la valutazione della compatibilità tra diritto CE e diritto nazionale.
Poiché la nostra Corte costituzionale, a sua volta, si rifiuta di richiedere alla Corte di giustizia un intervento pregiudiziale (si confronti l'ordinanza 29 dicembre 1995 n. 536 e quella del 26 luglio 1996 n. 319), è evidente che mantenere la competenza della Corte italiana a sindacare le leggi anticomunitarie, significa privare quella europea di un consistente potere. Data questa situazione ed in attesa che i trattati trasformino la Corte di giustizia in una vera e propria Corte federale, capace di annullare gli atti nazionali anticomunitari, si potrebbe forse costituzionalizzare una soluzione che renda più coerente il sistema di sindacato ed eviti le incongruenze oggi riscontrate.
Per questo motivo si propone l'adozione di una disciplina che da un lato riconosca alla Corte costituzionale il sindacato su leggi e atti aventi forza di legge incompatibili, nei casi in cui ciò sia consentito anche dal diritto comunitario, o così come interpretato dalla Corte di giustizia. Dall'altro, si prevede espressamente che - nella cooperazione con la Corte sovranazionale - il nostro giudice costituzionale possa sospendere i procedimenti pendenti davanti a sé e proporre la questione di interpretazione alla Corte del Lussemburgo.
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Malgrado la delicatezza della questione, un intervento sul punto sembra comunque indifferibile, perché l'attuale stato di cose causa notevoli inconvenienti sul piano interno. Non ultimo quello delle sentenze comunitarie di condanna dell'Italia, con la motivazione che il nostro Paese non elimina dal proprio ordinamento le norme incompatibili con il diritto comunitario (ciò che avverrebbe se la Corte costituzionale potesse essa stessa annullarle).
Gli articoli successivi D, E ed F trattano del problema dell'organizzazione e delle procedure, affrontato in numerosi progetti di legge alla nostra attenzione.
Il problema è particolarmente complesso innanzitutto perché interseca il tema del cosiddetto deficit democratico comunitario, in forza del quale, come è noto, il maggiore peso decisionale in sede comunitaria risulta ancora concentrato in capo ai rappresentanti degli esecutivi nazionali (riuniti in Consiglio dei ministri) ed alla Commissione comunitaria. Di conseguenza, il coinvolgimento degli organi interni, se da una parte è cruciale, costituendo un modo per attenuare in qualche misura il deficit stesso, d'altra parte non può che riguardare principalmente la determinazione delle decisioni governative, in forza delle quali viene prevalentemente assunta la posizione italiana in seno alla Unione europea. Ciò è rafforzato dal fatto che, seppure il Parlamento europeo va assumendo un ruolo sempre più significativo, il raccordo tra dimensione nazionale e dimensione europea dovrebbe risultare, in quella sede, tendenzialmente garantito dal circuito partitico.
Il problema riguarda dunque sia la fase di formazione della volontà comunitaria (cosiddetta fase ascendente) sia la fase di attuazione del diritto sovranazionale (cosiddetta fase discendente).
Una ulteriore difficoltà deriva dalla articolazione territoriale dello Stato, cosicché, sia nella fase ascendente, che nella fase discendente, sarà necessario determinare le modalità di coinvolgimento degli enti territoriali.
Da notare che sui profili menzionati (con accentuazione dell'uno o dell'altro aspetto) si registra un'attenzione pressoché generalizzata da parte dei progetti che si fanno carico di disciplinare i rapporti con l'Unione europea.
Gli articoli D ed E tentano di compiere una distinzione all'interno delle competen-ze governative in seno all'Unione europea.
Per quanto riguarda quelle strettamente connesse con la definizione dell'indirizzo politico comunitario, è chiaro che la soluzione dipenderà dalla forma di Governo prescelta. Poiché però dalle proposte presentate, sembra difficile ritenere che l'assetto definitivo escluda una compartecipazione del Parlamento alla definizione dell'indirizzo politico nazionale, si tratta di formulare delle proposte che consentano una maggiore partecipazione di tale organo alla politica comunitaria del Governo.
A questo proposito è sembrato necessario prevedere un obbligo di costante informativa da parte del Governo alle Camere sulle linee di evoluzione della politica comunitaria del Governo.
Per rendere maggiormente efficiente il meccanismo di controllo parlamentare si è altresì prevista la possibilità per il Parlamento di istituire commissioni, anche congiunte, che esercitino i poteri dell'Assemblea in materia, così come previsto da varie costituzioni europee.
Vi sono infine le competenze del Governo relative alla nomina di membri di organi comunitari (Corte di giustizia, tribunale di primo grado, della Commissione, membri di comitati, eccetera), competenze che, com'è noto, sono attribuite ai Governi che designano di comune accordo i componenti.
In tale caso si deve ulteriormente distinguere a seconda del tipo di organo. Ad esempio, per quanto riguarda gli organi di garanzia (Corte di giustizia, tribunale di primo grado, eccetera) si sono previsti alcuni requisiti sostanziali da seguire nell'elaborazione della proposta italiana (in sostanza i requisiti di eleggibilità previsti per i giudici della Corte costituzionale).
Per ciò che riguarda l'attuazione sul piano nazionale del diritto comunitario, abbastanza soddisfacente appare il sistema della legge comunitaria istituito dalla legge n. 86 del 1989. Si può porre il problema - ne abbiamo discusso in Comitato - di una qualche copertura costituzionale di questa legge attraverso la
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previsione di una procedura particolare o attraverso il rinvio ai regolamenti parlamentari, con l'assicurazione dei tempi di approvazione, essendo il principale rischio in questa materia quello del ritardo. Ma per il momento si è preferito non costituzionalizzare la materia, ritenendo che il problema dovrebbe trovare una soluzione nell'ambito del complessivo miglioramento delle procedure decisionali del Parlamento.
Gli articoli F e G affrontano il tema delle regioni di fronte all'Unione europea.
Nello scenario di un sistema che si immagina ormai fortemente ispirato alla logica federale, si intende con tali articoli garantire le competenze regionali, nei confronti dello Stato e nei confronti degli organi comunitari.
Verso lo Stato il rischio è che con l'alibi dell'attuazione del diritto comunitario le regioni vedano erose le proprie attribuzioni. Si è così inteso precisare che le regioni mantengono la propria competenza legislativa e amministrativa anche nel caso in cui essa sia interessata dal diritto comunitario. Ad evitare però che l'eventuale inerzia delle regioni possa far sorgere una responsabilità comunitaria dello Stato, è previsto un rigoroso procedimento di sostituzione dello Stato.
C'è poi l'ultimo comma dell'articolo F relativo alla possibilità per le regioni di stipulare accordi anche con enti territoriali di altri Stati che può avere senso - come, del resto, avviene in altri ordinamenti - solo in una prospettiva veramente federale.
Nei confronti degli organi comunitari il rischio è che le regioni si trovino prive di tutela nel caso che questi adottino atti illegittimi che violano le competenze delle regioni. Si prevede così che le regioni possano provocare l'attivazione degli organi nazionali in sede comunitaria per l'impugnazione di tali atti, secondo le norme stabilite dai trattati europei.
L'articolo H, l'ultimo, affronta il problema della politica economica e della Banca d'Italia.
Tale materia costituisce forse l'unico settore in cui l'Italia può anticipare, piuttosto che inseguire, l'evoluzione comunitaria.
Si tratta cioè di precostituire il contesto istituzionale interno in vista del completamento dell'Unione monetaria. Come si vede però, data l'incertezza che caratterizza tale evoluzione, la formulazione, rinviando alla legge, consente ad essa di modulare le modalità di partecipazione italiana all'organizzazione comunitaria del settore.
È terminata così l'illustrazione dell'articolato: mi scuso per l'eccessivo tecnicismo ma uno degli obiettivi prefissati consiste proprio nella risoluzione di problemi che hanno una natura fortemente tecnica.
Il tema alla nostra attenzione ha anche un significato politico più generale. Ricordavo all'inizio che questo paese è fortemente europeista e nella vita dei cittadini l'appartenenza dell'Italia all'Unione europea ha un ruolo sempre più rilevante; ciò nonostante non vi è traccia dell'Europa nella nostra Carta costituzionale. È questo solo uno dei motivi, forse non irrilevante, per il quale la nostra Carta non vive abbastanza nella coscienza collettiva. Per questo, forse, si è potuto parlare di una Costituzione materiale diversa, addirittura contrapposta alla Costituzione formale. Il fatto che l'Europa, pur così viva nella coscienza dei cittadini e così presente nella loro vita, sia assente dalla Carta costituzionale, fa correre il rischio che al nostro europeismo non corrisponda una chiara assunzione di responsabilità da parte dei cittadini, delle forze politiche e delle istituzioni.
È importante che la nostra Commissione abbia deciso di affrontare tale tematica, così come ritengo importante che i gruppi politici, all'interno del Parlamento, si facciano carico di avvicinare i contenuti della nostra Costituzione alle esigenze avvertite dai cittadini.
PRESIDENTE. Il dibattito sulle relazioni testé svolte avrà luogo nella seduta convocata per oggi, alle ore 15.30.
La seduta termina alle 12.25.