RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 28

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La seduta comincia alle 11.25.


(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).


Seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
Do la parola al senatore Salvi, relatore sulla forma di governo, che ha presentato due distinti articolati, riferiti l'uno al governo del primo ministro, e l'altro al sistema semipresidenziale (vedi allegato Commissione bicamerale).

CESARE SALVI, Relatore sulla forma di governo. Signor presidente, onorevoli colleghi, fin dall'inizio dei lavori della Commissione bicamerale si è giustamente individuata nel tema della forma di governo una questione di grande rilevanza non solo istituzionale, ma anche politica.
È una materia la cui definizione non può essere, a mio avviso, espressione di una maggioranza risicata, ma deve essere tale da consentire la formazione di un ampio consenso parlamentare. La nuova forma di governo che l'Italia dovrà darsi, infatti, per essere solida, per avere piena legittimazione democratica, dovrà essere largamente condivisa dalle maggiori forze politiche parlamentari e dai cittadini che in quelle forze si riconoscono.
Per raggiungere questo obiettivo abbiamo tenacemente lavorato nei mesi scorsi, nel Comitato (ringrazio tutti i colleghi, in particolare il presidente Tatarella, per la collaborazione che hanno dato al non agevole compito che mi è stato affidato), nelle sedute plenarie della Commissione, negli incontri e nei colloqui che ho avuto nell'adempimento del mio mandato con i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari.
La Commissione ha avuto modo di discutere il tema anzitutto nella discussione generale che si è svolta a febbraio; il Comitato forma di governo ha tenuto da marzo a maggio undici sedute, nel corso delle quali abbiamo anche avuto modo di svolgere audizioni con autorevoli studiosi, i professori Sartori, Cheli, Rodotà, Barbera e Galeotti; tutti hanno offerto un importante contributo.
I lavori del Comitato, ovviamente, sono partiti dall'esame delle molteplici proposte di legge presentate dai singoli o dai gruppi. Esse hanno sottoposto alla nostra attenzione diverse ipotesi di riforma, tali da coprire l'intero arco delle soluzioni adottate nelle moderne democrazie: dal cancellierato al semipresidenzialismo, dalle diverse varianti di governo neoparlamentare o del primo ministro, al semipresidenzialismo. Il lavoro di approfondimento ha consentito di restringere l'arco delle scelte più largamente condivise - anche se vi sono colleghi e gruppi che legittimamente mantengono una loro diversa posizione - fino a ridurle a due: un semipresidenzialismo che, partendo dal modello francese, tenesse conto sia dei punti di debolezza manifestati da quel sistema nella sua stessa patria d'origine, sia della necessità comunque di adattarlo alle caratteristiche e alle ragioni peculiari del nostro paese; un modello di governo del primo ministro che, partendo dalle


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varie esperienze neoparlamentari predominanti nelle democrazie europee, in particolare quella britannica, si proponesse tuttavia, anche in questo caso, un adattamento dell'evoluzione recente, e che è tuttora in corso, della democrazia italiana.
È sembrato a quel punto al presidente della Commissione - e condivido il suo giudizio - che fosse possibile trovare ulteriori motivi di convergenza sul secondo modello da parte di un'ampia maggioranza. Tuttavia, nella seduta plenaria del 15 maggio si è ritenuto necessario un ulteriore approfondimento da parte del Comitato e del relatore su entrambi i modelli, con la definizione di due ipotesi di articolato da sottoporre al giudizio della Commissione; ho adempiuto a tale mandato anzitutto nella seduta del Comitato del 22 maggio. Sono sostanzialmente quei due progetti, anche se con modifiche non fondamentali ma neppure irrilevanti, come dirò, che presento oggi all'esame della Commissione.
Nell'ulteriore elaborazione dei due modelli ho tenuto conto delle osservazioni formulate nella riunione del Comitato ed anche in consultazioni successive. Naturalmente, ho ritenuto nello svolgimento di tale mandato di tenere maggior conto, per così dire, delle osservazioni formulate a ciascun modello dai sostenitori del medesimo. Ciò non toglie che, quale che sia il testo che la Commissione dovesse scegliere, esso non potrà che essere aperto alle ragioni e alle proposte di chi abbia optato per l'altro modello. Ciò per ragioni non soltanto istituzionali, connesse alla procedura emendativa ed ai voti che ne seguiranno, ma anche politiche, che sono legate alla ricerca di quell'ampia convergenza di cui parlavo all'inizio, che è il presupposto stesso del nostro lavoro.
Inoltre, non solo credo che si tratti in entrambi i casi di buone soluzioni del problema italiano, ma ritengo anche che non si tratti di soluzioni basate su principi confliggenti; anzi, come si sa, qualcuno ha anche avanzato l'ipotesi della ricerca di un modello originale, in grado di tener conto di elementi desumibili da entrambi i modelli. Si tratta comunque di soluzioni che muovono sostanzialmente verso gli stessi obiettivi di fondo, ed entrambe contengono qualcosa che è anche simbolicamente rispondente alle posizioni di partenza di ciascuno. Ciò perché, come dirò più avanti, si è manifestata in tutti i gruppi presenti in questa Commissione la volontà di una ricerca comune verso obiettivi convergenti e non divaricanti. Bisogna infatti dare atto a tutti i gruppi parlamentari presenti in Commissione di non essere rimasti abbarbicati alle proprie posizioni di partenza, ma di aver compiuto passi in avanti rispetto a quelle degli altri. Quel tanto di simbolico di cui dicevo, la cui rilevanza politica non deve sfuggire a nessuno, non deve tuttavia diventare elemento prevaricante rispetto alla ricerca di una soluzione largamente condivisa.
Ci sono insomma le condizioni perché si esca politicamente senza vincitori né vinti: saremo tutti vincitori se sapremo dare una risposta positiva ed efficace alla crisi italiana. Semmai il vero rischio è quello che la Commissione faccia la fine del famoso asino di Buridano, esito inglorioso ma evitabile se vi saranno l'impegno e soprattutto la volontà politica di far prevalere le ragioni del costruire su quelle del distruggere. Mai come in questa materia distruggere è facile: basta aggrapparsi ad un singolo aspetto, a un dettaglio, ingigantirlo fino a farlo diventare dirimente e decisivo, basta irridere le posizioni altrui.
Del resto, chi come me si occupa di questi temi da qualche anno vede tornare gli stessi problemi, gli stessi dilemmi (come recita l'Ecclesiaste: niente di nuovo sotto il sole). Ma chi ha visto - a me è capitato - accordi ad un passo dalla conclusione saltare per ragioni probabilmente relative più che al merito all'ideologia o al venir meno di volontà politiche, ricorda anche un altro versetto dell'Ecclesiaste: c'è un tempo per demolire e un tempo per costruire. Questo è davvero il tempo per costruire.
Un'ulteriore avvertenza rivolgo alla cortesia dei colleghi. Nei testi ho cercato di inserire tutti gli elementi essenziali

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delle proposte; sono rimaste però delle lacune, in parte sfuggite, immagino per mia responsabilità, in parte dovute alla scelta di concentrarsi in questa fase sull'essenziale.
Esistono anche le note esigenze di coordinamento tra i cinque testi base. Un esempio per tutti: quando mi riferisco al Parlamento uso la parola «Parlamento»; è implicito peraltro il riferimento alla Camera cosiddetta politica, se sarà confermato l'orientamento secondo il quale il rapporto fiduciario con il governo sarà attribuito ad una sola delle due Camere.
Ritengo insomma, per le ragioni che ho detto e per le altre che dirò nell'esposizione dei due testi, che vi siano le condizioni di un positivo risultato comune, non un compromesso deteriore, ma quel compromesso democratico che, come ha insegnato Hans Kelsen, è l'essenza della democrazia, soprattutto nelle fasi costituenti quale vogliamo sia la presente.
Ritengo di dover dire questo partendo da un dato che considero molto importante, al quale ho già fatto un accenno in precedenza. In effetti, già i progetti di legge costituzionale in questa materia che sono stati presentati all'esame della Commissione indicano in larga misura finalità comuni: quelle di rendere più incisivo il potere degli elettori di scegliere chi deve governare (certamente la maggioranza parlamentare, ma anche la persona titolare delle azioni di governo e che ne assume la responsabilità davanti al paese), la democrazia dell'alternanza, l'autorevolezza della rappresentanza parlamentare, un ragionevole equilibrio tra governabilità e rappresentanza. Sono tutte esigenze presenti nel paese, nell'opinione pubblica, nell'evoluzione del nostro sistema politico come è avvertita nella sensibilità popolare, e in pressoché tutte le proposte presentate al nostro esame.
Naturalmente, esistevano, soprattutto all'inizio, e permangono differenze notevoli, soluzioni diverse, accentuazioni di un aspetto o di un altro. Non è mia intenzione sottovalutarlo. Credo però sia importante sottolineare che tali differenze riguardano le scelte tecnico-istituzionali e non i valori democratici. Ritengo che questo sia molto rilevante perché il modello di democrazia rappresentativa, il principio di responsabilità personale di chi deve governare, la logica della democrazia dell'alternanza sono largamente condivisi. Le differenze non vanno sottovalutate, ma è importante aver sgombrato il campo da un ostacolo che invece vi è stato fino ad un passato recente, cioè il contrasto sui valori, sulle finalità di fondo. C'è stato un tempo in cui chi proponeva il presidenzialismo veniva additato come nemico della democrazia, chi difendeva le ragioni del Parlamento come corresponsabile di un assemblearismo consociativo e deteriore. Vi è stato poi in questo paese un referendum in cui certamente l'alternativa era netta, tra il principio maggioritario e il principio proporzionale nella legge elettorale. Oggi non siamo più a questo tipo di scelta; l'adozione di un modello rispetto ad un altro - essendo largamente condivise quelle finalità cui facevo riferimento - potrà dipendere non dalla soluzione di una questione di principio, ma dal giudizio che si formulerà sulla maggiore adattabilità ad una situazione come quella italiana, caratterizzata da un passaggio, lento e faticoso ma forte e consolidato nei cittadini, da un multipartitismo frazionato ad una tendenza bipolare.
Una tendenza bipolare che deve tener conto della presenza e del peso di forze politiche, a volte con notevole seguito elettorale, che o non sono coalizzate o non sono organicamente presenti in uno dei due schieramenti bipolari, oltre che delle ragioni di pluralismo che esistono all'interno di entrambi i poli. Questa specificità italiana è sullo sfondo e ne dobbiamo tener conto. Quindi, il tentativo di tenere insieme governabilità, potere degli elettori, pluralismo della rappresentanza non può essere compiuto in astratto - ne sono consapevole - ma tenendo conto di come concretamente è organizzato e funziona il sistema politico italiano, e della direzione verso la quale vogliamo guidare l'evoluzione.

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Possiamo convenire che non esistono modelli precostituiti. Del resto anche la letteratura offre opinioni diverse; gli stessi esperti e studiosi ascoltati non solo non hanno fornito soluzioni univoche, ma hanno anzi, in taluni casi, manifestato una virulenza polemica superiore a quella delle stesse forze parlamentari nel sostenere le proprie posizioni e contestare quelle altrui.
Vi sono altri punti comuni, oltre quelli di fondo cui facevo riferimento, che riguardano l'esigenza di rafforzare la stabilità dell'esecutivo, il rafforzamento dei poteri del governo e del primo ministro in particolare; sono posizioni presenti anche nelle proposte più schiettamente parlamentariste. C'è anche una larga convergenza sul riconoscimento costituzionale del ruolo dell'opposizione.
Come ricordavo nelle proposte iniziali, erano presenti (non è stato difficile schematizzarli all'inizio del nostro lavoro) tre modelli classici del governo presidenziale, del governo semipresidenziale e di quello parlamentare. Sappiamo tuttavia che questi tre grandi modelli possono tradursi concretamente in effetti e pratiche di governo assai distanti, in relazione al combinarsi diverso delle regole ma anche alla cultura politica ed alla costituzione materiale delle diverse nazioni. Basti considerare la larga convergenza sul fatto che il presidenzialismo statunitense, che è certamente un modello democratico, non è stato da nessuna forza politica sostenuto nei nostri lavori, nella consapevolezza che la trasposizione di quel modello in una realtà europea, in particolare in una come quella italiana, avrebbe potuto comportare esiti diversi e probabilmente contrastanti con quelli avuti nella sua patria d'origine.
L'obiezione principale ai sistemi che prevedano l'elezione del capo del governo separata rispetto all'elezione del Parlamento è un'obiezione di efficienza più che di democrazia: il rischio del governo diviso. È lo stesso rischio del governo diviso che ha condotto ad accantonare l'ipotesi dell'elezione del primo ministro separata, anche se temporalmente contestuale rispetto all'elezione del Parlamento. Siamo già qui - il riferimento è al modello israeliano - nell'ambito di proposte che in senso tecnico non sono presidenzialiste, perché prevedono la necessità del rapporto fiduciario tra governo e Parlamento; tuttavia il rischio del Governo diviso ha indotto a preferire il meccanismo, nell'ambito del modello neoparlamentare, che consenta l'elezione contestuale, con un unico voto, del primo ministro e della sua maggioranza. È il testo A, consegnato al vostro esame, sul quale tornerò tra un momento.
Questo modello è stato accettato anche da quei gruppi politici - in particolare i popolari e i verdi ma in una certa misura anche la sinistra democratica che aveva formulato una proposta con caratteristiche diverse, nella quale meno incisivo e rilevante era l'elemento dell'elezione diretta del primo ministro - che si muovevano in una logica nella quale l'elezione popolare era esclusivamente o prevalentemente l'elezione dei parlamentari.
Mi auguro che anche il gruppo di rifondazione comunista, che in questo dibattito ha compiuto scelte innovative rispetto alle proposte inizialmente avanzate, possa rendersi conto che, pur senza riconoscersi in tutte le sue articolazioni, non ci sono ragioni di fondo per contrastare l'ipotesi proposta.
Certo, questo modello pone il problema delle garanzie, nel corso della legislatura, del patto che davanti ai cittadini il premier e i candidati al Parlamento a lui collegati avevano assunto; problema che esiste in tutti i modelli neoparlamentari. Nello stesso sistema israeliano, al di là del dibattito pur in corso in quel paese su nuove modifiche da introdurre, è prevista la rimozione da parte della Knesset, con la maggioranza dei due terzi, del primo ministro eletto direttamente, senza che ciò dia luogo allo scioglimento del Parlamento.
Al problema al quale ho fatto riferimento sono state proposte diverse soluzioni: alcune propongono vincoli molto rigidi, che si traducono nel ricorso automatico alle elezioni ogni qualvolta il

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primo ministro eletto dai cittadini, per qualsiasi ragione, cessi dalla sua carica.
La domanda posta è se non si tratti di un deterrente eccessivo e come si debba intervenire per evitare che la scelta popolare sia successivamente tradita nel corso delle vicende della legislatura.
Varianti esistono anche per la questione, strettamente connessa, del potere di scioglimento del Parlamento; anche in questo caso nelle proposte di partenza si andava da ipotesi di attribuzione piena e incondizionata di tale potere al primo ministro, fino ad ipotesi nelle quali il potere arbitrario di scioglimento è comunque e in ogni caso rimesso al Presidente della Repubblica (come dirò nell'illustrazione del testo è possibile a tale quesito formulare risposte diverse).
Vorrei però dire che la questione del potere di scioglimento, come altre riguardanti la forma di governo, si pongono anche per il semipresidenzialismo. Non è un caso che anche questo punto, il potere di scioglimento del Parlamento da parte del presidente della Repubblica nel sistema semipresidenziale, è stato discusso nel Comitato e già nelle proposte semipresidenzialiste sottoposte al nostro esame erano formulate soluzioni diverse. È un punto delicato in tutte le democrazie moderne. A chi esprime legittime preoccupazioni per i rischi derivanti dal troppo ampio ricorso al potere di scioglimento, al di là della questione di chi ne debba essere titolare, che evidentemente è diversa nei due modelli di governo, vorrei ricordare che in Italia abbiamo un vuoto normativo in questo campo. La formula costituzionale vigente non detta criteri e contenuti per l'esercizio del potere presidenziale. Per questo, forse, questa discussione colpisce nel nostro paese, soprattutto per chi nutre una legittima attenzione e sensibilità alle prerogative del Parlamento, perché la materia finora non è stata in realtà normata; anzi, fino a pochissimi anni or sono, la decisione era affidata al sistema dei partiti, nella Costituzione materiale.
Altre democrazie, che si sono date testi costituzionali negli ultimi anni, hanno affrontato la questione regolamentandola in modi diversi, i quali tutti - in un modo o nell'altro - rimettono la scelta, pur circondandola di garanzie, di meccanismi e di procedure, al titolare del potere di indirizzo politico, presidente della Repubblica, governo, primo ministro, a seconda della forma di governo adottata.
Dicevo che anche il semipresidenzialismo non è privo di problemi; se mi pare largamente superata, e comunque affrontabile con le tecniche che proporrò nel testo B sottoposto al vostro esame, o superabile l'obiezione sui rischi di un possibile autoritarismo o plebiscitarismo, rimangono i temi dei rischi di conflitto in un esecutivo duale, la diarchia di cui parla la dottrina francese, tra primo ministro e Presidente della Repubblica; del rischio connesso a quella che viene definita, nel linguaggio corrente, la tematica della coabitazione; dell'eccessiva compressione delle prerogative parlamentari nel rapporto con il governo.
Dopo queste considerazioni introduttive, passo alla illustrazione dei due testi seguendo questo ordine: il testo che riguarda la forma di governo del primo ministro; l'altro modello; e infine alcune questioni comuni ad entrambi i testi.
L'articolo 1 del testo A affronta la questione che, nel dibattito politico corrente, e ne comprendo le ragioni, viene definita come quesito sul fatto se si tratti di elezione diretta o meno del primo ministro. Come ho premesso, l'orientamento del Comitato è stato quello, largamente condiviso, di prevedere non l'elezione del primo ministro separata dall'elezione del parlamento, ma l'elezione insieme, con lo stesso voto, del primo ministro e della sua maggioranza.
Questo è di fatto ciò che accade in molte democrazie europee e nel sistema britannico. Dico subito che per ragioni di brevità, alle quali spero che i colleghi mi saranno grati, non mi soffermerò su analogie e differenze; se uso queste espressioni in forma sincopata è per rispetto dei tempi degli ascoltatori, non per insufficiente comprensione delle differenze, delle

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condizioni e delle caratteristiche del sistema britannico.
Nel sistema britannico è determinante il congiunto effetto di meccanismi elettorali e istituzionali; formalmente gli elettori in Gran Bretagna eleggono solo il deputato del loro collegio: vorrei chiedere se qualcuno di noi ritiene che vi sia un cittadino di quel paese che non ritenga di aver «eletto» Tony Blair primo ministro.
In realtà dal loro voto nasce in modo indiretto ma trasparente, esplicito e chiarissimo la scelta, l'elezione del primo ministro. Noi siamo andati oltre quella logica, proprio perché sappiamo che nelle condizioni del sistema politico italiano e del sistema costituzionale italiano occorre introdurre elementi ulteriori rispetto a quelli affidati, in Gran Bretagna, alla logica del bipartitismo e a consolidate convenzioni costituzionali.
In questa bozza si propone che il nome del primo ministro sia presente nella scheda elettorale accanto al nome del candidato al collegio per l'elezione del Parlamento; si prevede, in secondo luogo, che all'esito del voto il presidente della Repubblica nomini primo ministro, senza ulteriori passaggi e con automatismo rispetto alla proclamazione dei risultati elettorali, il candidato alla carica di primo ministro che abbia riportato il maggior numero di seggi in Parlamento.
In terzo luogo si prevede che sia necessaria la presentazione da parte del primo ministro in Parlamento, ma che non sia necessario un ulteriore voto di fiducia da parte del Parlamento (il cosiddetto meccanismo della fiducia presunta).
Non credo che se si condivide la scelta dell'elezione contestuale tra primo ministro e la maggioranza, ci possono essere meccanismi costituzionali molto diversi da questi; se peraltro ci sono formulazioni - una l'ha suggerita il collega Fisichella nel Comitato - che servano a rendere anche più evidente la sostanza di questo meccanismo, vi è la massima disponibilità ad accoglierle. Il punto è che se riteniamo necessario collegare il primo ministro ad uno schieramento parlamentare per evitare il rischio del governo diviso e, quindi, la divaricazione tra la scelta del primo ministro e quella della maggioranza parlamentare, può essere un problema di drafting, di stesura, ma non vedo meccanismi normativi davvero diversi da quelli indicati nel testo A.
Credo - e mi riferisco al seguito delle proposte che formulerò - che sia un meccanismo chiaro, con una sua linearità; si può condividerlo o meno, si può certamente perfezionarlo, ma non credo si possa parlare di pasticcio o di confusione né per la fase dell'investitura iniziale, né per i passaggi successivi, in cui vi saranno certamente nodi da sciogliere, che una volta risolti consentiranno, a mio avviso, di fornire una risposta chiara e netta.
Si è detto che queste proposte sarebbero incomplete in assenza di una contestuale regolamentazione della legge elettorale. Non ho un mandato per riferire su questo argomento e per formulare proposte, né potrei farlo, dal momento che il tema non è stato affrontato in seno al Comitato. Mi limito, pertanto, a svolgere una rapida considerazione. Il problema della legge elettorale, in termini istituzionali, si pone con riferimento ad entrambi i modelli. Del resto, dalla cronaca politica apprendiamo che anche tra i sostenitori del semipresidenzialismo vi sono diverse opinioni al riguardo. In entrambi i modelli l'obiettivo è di fare in modo che il sistema elettorale risponda ad una logica volta a favorire il bipolarismo e, contemporaneamente, di garantire la rappresentatività in Parlamento di quelle forze che non si riconoscano nei poli, per ragioni diverse, purché abbiamo ricevuto un sufficiente consenso elettorale.
Mi rendo conto che si possa ritenere di conferire maggiore importanza a questa materia con riferimento al modello di governo del premier. D'altro canto, è però anche evidente che collegare ad un sistema semipresidenziale un meccanismo elettorale proporzionale o paraproporzionale impedirebbe la logica bipolare che ha caratterizzato il sistema francese e, anzi, introdurrebbe rischi di trasformismo e di non chiarezza nelle scelte. Tali rischi non sono presenti nel sistema semipresidenziale

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per effetto non dell'elezione diretta del presidente della Repubblica da solo, bensì del combinato disposto tra quest'ultima ed un sistema elettorale che, in una certa misura, mima quello presidenziale, con il maggioritario a doppio turno nei collegi.
Se e quando riterremo di discutere su questo tema, credo che dovremmo partire da una considerazione di fondo, nel senso che dovremo individuare le ragioni per le quali riteniamo che l'attuale legge elettorale debba essere riformata. Questo è il vero quesito che dovremo porci. Oggi, come sappiamo, abbiamo una legge elettorale con una larga prevalenza del maggioritario uninominale e con una quota proporzionale. Nelle discussioni che si sono svolte, si è detto che l'esigenza fondamentale è evidentemente quella non di introdurre il maggioritario, perché già esiste, e neppure di eliminare la quota proporzionale (non mi pare che vi siano proposte in campo che vadano in questa direzione), ma di fare in modo che dal voto popolare emerga non soltanto una maggioranza certa ma anche una maggioranza coesa programmaticamente, per consentire governi stabili, governi di legislatura. Credo che sia questo oggi il vero tema, sempre che questo tema esista, della riforma elettorale (ho usato parole del collega Rebuffa).
Ho già parlato dell'elezione del primo ministro e della sua maggioranza. Al terzo comma dell'articolo 1 è previsto, sia pure in termini facoltativi (su questo punto vi è stata un'ampia discussione ed ora si tratta di stabilire se riteniamo o meno di introdurre tale ipotesi: personalmente, ho un orientamento favorevole), lo svolgimento di elezioni primarie per la candidatura alla carica di primo ministro. È stato fatto notare, infatti, che il meccanismo del governo del premier, nel collegamento che instaura tra governo e candidati al Parlamento, se presenta il vantaggio - del quale si è parlato e del quale siamo tutti convinti - di evitare il rischio di un governo diviso, potrebbe tuttavia ricondurre la scelta del primo ministro a meccanismi non democratici, di concertazione tra i partiti.
La questione delle elezioni primarie è delicata: se si tratta di svolgere elezioni primarie per una carica istituzionale, occorre che la legge non solo le preveda, ma che ne regolamenti anche fattispecie e meccanismi. D'altra parte, nel mondo vi sono esperienze di questo genere; se si riterrà di procedere in questo senso, bisognerà approfondire le caratteristiche e le modalità di un sistema di elezioni primarie.
Nel meccanismo di scelta contestuale da parte degli elettori del premier e della sua maggioranza è rinvenibile un problema delicato, legato all'esigenza di salvaguardare durante la legislatura il patto che viene posto in essere davanti agli elettori. Certo, si potrebbe pensare ad una soluzione estrema, che eliminerebbe il problema, qualora si stabilisse che per qualsiasi causa una persona non fosse più primo ministro, si debba tornare a votare. Ho l'impressione che questa sarebbe una soluzione estrema ed eccessiva. Del resto, nessun sistema di democrazia neoparlamentare (in precedenza ho fatto riferimento all'esperienza di Israele) la prevede in modo tanto drastico. Nel contempo, sono consapevole del rischio opposto, un rischio di neoconsociativismo, di trasformismo, di cambi di maggioranza immotivati, di un primo ministro debole rispetto ad una maggioranza che lo possa sostituire. Il punto è delicato ma non irrisolvibile.
Nel testo sottoposto al vostro esame sono previsti alcuni meccanismi. Come ho detto, la fiducia è presunta; tuttavia, trattandosi di una forma di governo neoparlamentare, il rapporto fiduciario deve sussistere. Sotto questo profilo, per così dire, viene invertito l'onere della prova: in sostanza, il Parlamento può sfiduciare il primo ministro ma, per far questo, deve indicare il nuovo primo ministro e deve disporre della maggioranza assoluta dei suoi componenti. In definitiva, tra le diverse varianti esaminate, si propone quella che, per comodità, è stata definita la soluzione spagnola. Sono ben consapevole

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- con riferimento non solo a questo punto ma anche ad altri - che a questa soluzione possono essere mosse obiezioni di vario tipo. Io stesso, in una delle bozze che ho presentato in Comitato, avevo proposto una formulazione più vicina alla soluzione svedese. Tuttavia, dalla raccolta di opinioni alla quale ho fatto prima riferimento, è emersa, tra i sostenitori del governo del premier, una prevalenza per questo modello, che peraltro ha una sua logica ed una sua razionalità, anche perché va letto in abbinamento agli altri meccanismi del sistema.
Intanto, come prevede il primo comma dell'articolo 3, il primo ministro, sentito il Consiglio dei ministri, ma sotto la sua esclusiva responsabilità, può sciogliere il Parlamento. A fronte della richiesta, ed una volta acquisito il parere del Consiglio dei ministri, il decreto di scioglimento è un atto dovuto. Ricordavo all'inizio che si tratta di una soluzione che non credo debba suscitare eccessivi dubbi e preoccupazioni dal punto di vista della tenuta democratica del sistema. Non riprenderò le ragioni già indicate in precedenza; mi limiterò ad osservare che, come forse l'esperienza francese dimostrerà domenica prossima, quando qualcuno scioglie il Parlamento, non è che poi assume i pieni poteri e rinchiude i parlamentari in uno stadio di calcio: la parola viene data al popolo sovrano, e potrebbe verificarsi che, se la scelta non è ben calibrata, quello stesso popolo sovrano si formi anche un'idea ed esprima un giudizio sulla scelta stessa dello scioglimento, e voti di conseguenza.
Comprendo anche la necessità di individuare meccanismi che evitino il rischio opposto, quello cioè di un Parlamento che si trovi nelle mani di un primo ministro o di un titolare dell'azione di governo fino al punto da porre i parlamentari nelle condizioni di leggere una mattina sui giornali che vi è stato lo scioglimento, senza che ciò sia stato preceduto da alcun percorso o passaggio precedente. Il meccanismo che abbiamo studiato prevede quindi che il primo ministro abbia un potere di scioglimento come forte deterrente contro maggioranze rissose, coalizioni divise, contro un Parlamento che di fatto, senza sfiduciare e senza mettersi esplicitamente di traverso, magari senza respingere le leggi, renda comunque difficile ed impossibile al primo ministro di attuare il programma per il quale quest'ultimo si è assunta la responsabilità davanti ai cittadini. A quel punto il primo ministro farà una valutazione politica e deciderà, se ritiene che sia di fatto tradito il patto concluso con la maggioranza davanti agli elettori, di richiamare il sovrano, i cittadini, a dare loro la valutazione ed il giudizio decisivo.
È previsto che il potere di scioglimento venga meno nel momento in cui in Parlamento si formi una maggioranza diversa, una maggioranza in grado di esprimere un'altra persona candidata alla carica di primo ministro. Si tratta di una delle varianti possibili rispetto alla soluzione da dare al problema, che si presta sicuramente ad osservazioni e a dubbi. Vorrei ricordare che nel sistema britannico, al quale facciamo tutti riferimento, così come accade ciò che ho detto in precedenza, accade e può accadere anche che la maggioranza, assumendosi le sue responsabilità davanti agli elettori, modifichi la persona del primo ministro in corso d'opera. Anche questa, come è evidente e come ho sottolineato nell'introduzione, è comunque materia che, una volta adottato il testo base, sarà oggetto di proposte emendative che potranno essere esaminate dalla Commissione, e che vedranno nel relatore la massima disponibilità a concorrere alla ricerca delle soluzioni più persuasive.
L'articolo 4 esamina le ipotesi della morte, delle dimissioni o dell'impedimento del primo ministro. Le tre fattispecie sono considerate unitariamente non perché abbiamo le stesse caratteristiche, ma per la difficoltà che si incontra, rispetto alle dimissioni del primo ministro, che possono essere legate alle cause più diverse (da condizioni di salute che non giungano fino all'impedimento, a ragioni politiche, fino a ragioni di ordine personale, di scelte di vita diverse), di regolamentarla in

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modo diverso. Il rischio maggiore è che si tratti di dimissioni politicamente contrattate, per ottenere in cambio la ricandidatura con una maggioranza o a condizioni diverse, o qualche posto di governo. Di qui la previsione di una clausola di garanzia, in virtù della quale il primo ministro dimissionario non è immediatamente eleggibile nella stessa carica e, comunque, non può far parte del nuovo governo. In tal modo, l'intento di un primo ministro il quale si dimettesse per ricontrattare la formazione del governo o, magari, per assumere un dicastero diverso da quello ricoperto in precedenza, così come accadeva nel vecchio sistema, sarebbe vanificato.
Sia nel corso della discussione, sia nel dibattito nella pubblicistica, ci si è soffermati sul tema attinente alle modalità di elezione del primo ministro ed al potere di scioglimento. In realtà, la vera forza del primo ministro non sta solo nell'investitura popolare iniziale, o nei meccamismi, come lo scioglimento, previsti per affrontare la patologia del sistema, aspetti che pure vanno regolati; ma piuttosto nei poteri attribuitigli dalla Costituzione: in particolare, il potere di dirigere l'azione di governo, per evitare che vi siano coalizioni rissose, ed i poteri esercitabili rispetto al Parlamento. Vorrei pregare i colleghi di non sottovalutare questo aspetto.
Il primo ministro nomina e revoca, con proprio decreto, i ministri. Ciò avviene subito dopo l'elezione e prima della presentazione in Parlamento. Ripeto: al potere decisionale del primo ministro sono ricondotte sia la nomina sia la revoca dei ministri.
Ho già parlato del potere di scioglimento. Ricordo che nell'articolo 6 della bozza viene configurato un potere del primo ministro molto rilevante, quello di ottenere il voto del parlamento su una proposta del governo entro una data determinata; il riferimento è, ovviamente, ai poteri del governo in Parlamento, in ordine non solo alla determinazione dell'agenda parlamentare ma anche al diritto di giungere ad una decisione in tempi certi.
L'articolo 7 affronta il tema della riserva di regolamento, sul quale mi soffermerò al termine del mio intervento, anche perché si tratta di una proposta comune all'altra ipotesi. Vi è, insomma, una serie di poteri di cui dispone il primo ministro, alcuni dei quali esercitabili in assoluta autonomia, che gli conferiscono, così come è giusto che sia una volta ottenuta l'investitura popolare, notevoli poteri di direzione politica.
Per definire una regolamentazione, anche temporale, come sempre accade ogni qualvolta si conferiscano molti poteri ad una persona, anche se con legittimazione democratica, ho proposto una norma che prevede un limite di tre legislature per il primo ministro. Naturalmente (si tratta di un aspetto che non ho specificato perché attiene più da vicino alla riforma del Parlamento), penso ad un limite di tre legislature con riferimento all'ipotesi di una durata quadriennale. Se per la legislatura si prevedesse la durata di cinque anni, si potrebbe anche pensare ad un limite di due legislature per il mandato al premier.
Mi soffermo, infine, sulla posizione del presidente della Repubblica. Nel modello del primo ministro è importante che vi sia una netta distinzione tra i poteri di garanzia del Capo dello Stato e quelli di indirizzo politico del primo ministro, evitando il più possibile forme di cogestione dei poteri. A tal fine, è molto rilevante il modo in cui si riorganizza l'istituto della controfirma, per rendere evidente quali siano gli atti di esclusiva responsabilità del presidente della Repubblica nelle sue funzioni di garanzia. I poteri del Capo dello Stato vengono certamente ridotti in quantità, ma sono valorizzati in qualità, proprio nella misura in cui le funzioni di garanzia non solo sono aumentate, ma sono anche di esclusiva e autonoma attribuzione del presidente della Repubblica, il quale rappresenta l'unità nazionale e può esercitarli senza necessità della controfirma. È noto del resto che, così com'è configurato nella nostra Costituzione, l'istituto della controfirma è un

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relitto dello Statuto albertino, in cui serviva per coprire l'irresponsabilità politica del monarca.
Si prevede inoltre la non rieleggibilità, cui corrisponde una durata del mandato analoga a quella attuale: il settennato con non rieleggibilità sembra, infatti, la forma più congrua per queste funzioni qualificate di garanzia. Si prevede altresì di estendere il collegio elettorale del presidente della Repubblica, per consentire che la sua elezione sia espressione di una più ampia unità nazionale e non soltanto dei rapporti di forza presenti in quel momento in Parlamento; si prevede quindi che egli sia eletto da un collegio formato dai parlamentari nazionali, dai parlamentari europei eletti in Italia e da un numero di rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali pari a quello dei parlamentari nazionali. È previsto, inoltre, un sistema di elezione a conclusione «certa», con ballottaggio dopo il terzo scrutinio qualora in precedenza non sia stata raggiunta la maggioranza assoluta.
I poteri di garanzia vengono elencati nel testo. Accennerò soltanto alla questione delle nomine, che credo vada affrontata con maggiore attenzione - ne abbiamo discusso ieri nel Comitato sulla riforma del Parlamento - e probabilmente in base a una norma costituzionale, per distinguere tra le nomine che si ritiene debbano essere di pertinenza del governo (per le quali lo spoil system sia quindi palese, trasparente, previsto dalla legge, per cui tali nomine non dovrebbero essere sottoposte al vaglio di altri organi, se non nei termini di una valutazione di critica politica) e le nomine (il caso più evidente è quello delle autorità di garanzia, ma le fattispecie possono essere anche altre) che invece non si ritiene debbano essere imputate alla maggioranza di governo e possano quindi uscire dal raccordo tra il presidente della Repubblica e la seconda Camera (se andrà avanti l'ipotesi sulla quale si sta lavorando in quel Comitato), secondo un modello analogo, da questo punto di vista, al sistema americano.
Mi soffermerò ora sul testo B, che riguarda il tema del semipresidenzialismo. Nella mia introduzione ho già ricordato come esso sia un meccanismo istituzionale parlando del quale si fa giustamente riferimento alla Francia, perché ne è stata la patria, ma che comunque non è applicato soltanto in Francia. Per esempio, quello adottato in Portogallo viene considerato dalla dottrina un sistema semipresidenzailista ed anche alcune delle nuove democrazie dell'est europeo si sono orientate in questa direzione.
Il sistema francese è oggi sottoposto ad un riesame, a una riflessione critica nella sua stessa patria di origine: si è ricordato il messaggio di Chirac del 1995 e la discussione che il gruppo coordinato da Vedel ha avviato in questi giorni. Tale sistema pone alcuni problemi, che si è cercato di risolvere nella bozza presentata. Il primo di tali problemi, come dicevo all'inizio, concerne il rapporto tra l'indirizzo politico espresso dalla maggioranza parlamentare, quindi dal corpo elettorale in sede di formazione del Parlamento, e l'indirizzo politico espresso dal Presidente della Repubblica, quindi dal corpo elettorale in sede di elezione del Capo dello Stato, che richiama la tematica della coabitazione, ma non solo quello.
Il secondo problema riguarda la cosiddetta diarchia, cioè il rapporto tra i poteri del Presidente della Repubblica e quelli del primo ministro; mentre il terzo problema investe i rapporti fra governo e Parlamento; uso questa formulazione perché a volte in Italia si afferma che in Francia le ridottissime prerogative parlamentari siano conseguenza del sistema semipresidenziale, mentre in realtà sono conseguenza, da un lato, del modo in cui è organizzato il rapporto fra governo e Parlamento e, dall'altro, di meccanismi interni al sistema politico francese. Una delle proposte formulate da Vedel è quella di reintrodurre la compatibilità tra mandato di governo e mandato parlamentare e di introdurre, invece, l'incompatibilità fra il mandato parlamentare e la carica di sindaco almeno nelle città più grandi. Ricordo, al riguardo, la reazione negativa

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ed apparentemente anomala del Parlamento francese al messaggio di Chirac: il Parlamento francese non ha accolto l'invito rivoltogli dal Presidente ad autoattribuirsi maggiori poteri, a partire dall'eliminazione del sistema per cui il Parlamento francese si riunisce soltanto in sessioni temporalmente delimitate (che aveva proposto di eliminare) sulla base dell'argomento per cui, restando sempre a Parigi, i parlamentari non avrebbero potuto assolvere alla funzione di sindaco nella propria città; come è noto, infatti, la forza del parlamentare francese deriva dalla carica di sindaco molto più che da quella parlamentare. Ho accennato a questa vicenda per sottolineare che a volte le tematiche sono più complesse di quanto possa apparire a prima vista.
La quarta questione è quella dell'irresponsabilità politica del Presidente della Repubblica, su cui si è soffermato più volte il collega Elia, ricordando l'espressione del «monarca elettivo», presente nel dibattito francese. In sede di Comitato si è cercato di lavorare partendo da questi problemi, per valutare quali soluzioni dare, nell'ipotesi di introdurre in Italia il sistema semipresidenziale.
Segnalerò quindi, dando per conosciuto il modello francese, soprattutto le differenze che propongo di introdurre qualora si decidesse di adottare tale sistema. In primo luogo, si riduce la durata del mandato presidenziale da sette a cinque anni, mantenendo la rieleggibilità per una sola volta. Le ragioni sono evidenti ed anche questa è una proposta che viene dal Comitato Vedel.
Quanto alla selezione delle candidature (problema posto da tutti i meccanismi di elezione diretta), per consentire che esse siano espressione di proposte che si producono all'interno del sistema politico-istituzionale come è stato determinato dalla precedente espressione del suffragio universale, si prevede (in analogia con il sistema francese e rimettendo alla legge l'individuazione precisa del numero e delle modalità) che le candidature debbano essere presentate da chi è già stato eletto dal popolo, quindi da parlamentari, consiglieri regionali, presidenti di province e sindaci. Il meccanismo elettorale previsto per l'elezione presidenziale è quello francese.
Mi soffermerò ora sui poteri del Presidente della Repubblica, che costituiscono l'aspetto più delicato. Per quanto riguarda la presidenza del Consiglio dei ministri, si prevede la possibilità di una delega anche a tempo indeterminato, oppure per determinate materie. In questo modo, nell'ipotesi di coabitazione, il Presidente della Repubblica potrebbe delegare il primo ministro, per tutta la durata in carica di un certo governo, a svolgere le funzioni di Presidente del Consiglio dei ministri.
Per quanto concerne la nomina del primo ministro, si prevede, utilizzando un'indicazione contenuta nel sistema portoghese, che essa debba avvenire in base al criterio dell'indirizzo politico espresso dall'elettorato, quindi della composizione del Parlamento. In Francia ciò avviene nella prassi, ma non c'è una norma che lo preveda. Siccome una delle obiezioni mosse al sistema semipresidenziale è che, in una realtà istituzionale e politica diversa da quella francese, la coabitazione potrebbe comportare rischi istituzionali già nella fase della nomina del primo ministro, si indica il criterio costituzionale di valutazione al quale il Presidente della Repubblica dovrà attenersi, naturalmente mantenendo quell'ambito di libertà nella scelta della persona che consegue al modello semipresidenziale.
Non è prevista la possibilità, che il Presidente della Repubblica ha in Francia, di dichiarare lo stato di emergenza e di assumere pieni poteri.
Per quanto riguarda l'indizione del referendum popolare, la si prevede nei casi stabiliti dalla Costituzione, per cui non vi è il potere presidenziale di indire referendum, che è stato alla base di critiche sui possibili rischi plebiscitari connessi al sistema semipresidenziale francese.
Con riferimento alle preoccupazioni legate a un Presidente della Repubblica irresponsabile, si prevede che i suoi messaggi debbano essere rivolti al Parlamento

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e che possano dar luogo a un dibattito, mentre nel sistema francese è espressamente preclusa la possibilità che il Parlamento ne discuta.
Si è cercato, inoltre, di chiarire la questione del dominio diviso nella politica estera e nella politica di difesa, precisando alcuni elementi già presenti nel sistema francese; quindi, le grandi linee della politica di difesa e della politica estera restano comunque di competenza del Presidente della Repubblica, ma il controllo delle forze armate è nelle mani del governo. Pertanto, nell'ipotesi di coabitazione, la diarchia può assumere anche formalmente caratteristiche più chiare e più nette.
Non è prevista, a differenza di quanto avviene in Francia, la presidenza, da parte del Presidente della Repubblica eletto, del Consiglio superiore della magistratura. Viene altresì ipotizzata una forma di impeachement che, a differenza di quanto si prevede per il Presidente della Repubblica nell'altro modello, in cui resta la formulazione attuale, pur restando legata alla violazione di norme giuridiche (e l'istituto non può quindi configurarsi come impeachement puramente politico, in quanto presuppone la violazione di una norma costituzionale), non richiede però che ciò si debba necessariamente configurare come reato, non sussistendo quindi la necessità del giudizio da parte di un giudice terzo.
Infine, per quanto riguarda il potere di scioglimento, si è discusso tra diverse possibili varianti, e quella che ha raccolto maggiori consensi prevede che tale potere sia attribuito al Presidente della Repubblica, senza la necessità della controfirma e con il limite di un anno, come avviene oggi nel sistema francese, elevando però tale limite a due anni se l'elezione del Parlamento è avvenuta successivamente a quella del Presidente della Repubblica. Si è seguita la tesi del cosiddetto mandato elettorale più recente, secondo cui un governo uscito dalle elezioni successivamente all'elezione del Presidente della Repubblica non può essere condizionato, nell'ipotesi di indirizzi politici diversi, dal rischio di tornare dopo un solo anno al giudizio del corpo elettorale; gli si assicura, pertanto, un termine minimo più lungo, pari ad almeno 24 mesi.
Nell'articolo 5, attraverso i meccanismi della firma e della controfirma, si tende a individuare e separare le responsabilità del Presidente della Repubblica da quelle del primo ministro.
Infine, per quanto riguarda il rapporto tra governo e Parlamento, si ipotizza, a differenza del sistema francese, che il nuovo governo debba presentarsi al Parlamento per l'esposizione del programma entro un termine ravvicinato. Anche in questa ipotesi si prevede il meccanismo della fiducia presunta e della possibilità di sfiduciare; qualcuno ha proposto di introdurre il meccanismo di sfiducia costruttiva anche nel sistema semipresidenziale, ma sembra più coerente alla logica di tale modello che vi sia la possibilità della sfiducia ma che la conseguenza sia quella delle dimissioni del governo nelle mani del Presidente della Repubblica, al quale sarebbero rimesse le valutazioni successive.
Viene infine prevista, nel rapporto fra governo e Parlamento, la cosiddetta ghigliottina inglese, non quella francese; si esclude in sostanza la possibilità - che il governo ha in Francia - di ottenere l'approvazione di un disegno di legge senza un esplicito voto parlamentare in tal senso.
Passo ora a talune questioni per le quali ho previsto una regolamentazione comune in entrambi i modelli. In ambedue le ipotesi è prevista una norma che, con la tecnica della riserva di legge finalizzata, affronti una grande questione delle moderne democrazie, tanto più presente quanto più andiamo ad un sistema per il quale avremo l'elezione diretta o del Presidente della Repubblica con poteri politici o del primo ministro con la sua maggioranza. È molto rilevante la democraticità del processo di formazione del consenso. Non vorrei che tale questione fosse sottovalutata, in quanto le grandi tematiche della democrazia del futuro sono legate non tanto a quel po' di elezione diretta in più o in meno, o di

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potere di scioglimento in più o in meno, quanto ad una garanzia di equilibrio di condizioni fra i candidati nella competizione elettorale. Ciò riguarda due rilevanti aspetti: le risorse finanziarie e le presenze televisive. Si tratta di un tema che, come si sa, è al centro della discussione in Francia, negli Stati Uniti, nelle democrazie moderne; credo che si debba avere il coraggio di porre, discutere e affrontare la questione, senza avere preoccupazioni di opinione pubblica e senza ricordare vecchie divisioni e polemiche perché il tema c'è, in quanto c'è nelle moderne democrazie e non in quanto nelle precedenti competizioni elettorali sia stato candidato alla guida del governo il collega che ho il piacere di vedere qui a partecipare ai nostri lavori.
Lo stesso ragionamento vale in materia di conflitto di interessi; quello della divisione anche fra potere politico e potere economico privato è un tema delle moderne democrazie ed è un compito che spetta a chi voglia affrontare la questione di una Costituzione del 2000. È infatti uno dei grandi temi della democrazia, non soltanto in Italia e non soltanto per le ragioni che tante polemiche hanno suscitato in Italia.
Sono due importanti questioni, che riguardano in primo luogo l'equilibrio che consenta a campagne elettorali di massa, basate in larga misura, anche se non certo esclusivamente, sulle persone candidate, di avere condizioni di formazione democratica del consenso popolare e, in secondo luogo, la divisione fra potere politico e potere economico e finanziario.
In entrambi gli articolati è prevista - con una formulazione che certamente, come tante altre, dovrà essere coordinata con il lavoro in tema di funzioni legislative svolto dal Comitato per la riforma del Parlamento - la questione della riserva di regolamento, cioè della divisione delle funzioni normative fra governo e Parlamento. Si tratta di un tema molto importante, in quanto consente di rafforzare insieme i poteri tanto del governo quanto del Parlamento; del governo, perché ha una sfera normativa riservata alle sue decisioni, e del Parlamento, perché, liberato di tutta una serie di questioni nelle quali a volte troppo a lungo e in modo defatigante è occupato, ha la possibilità di concentrarsi sui temi di maggiore rilievo.
Come vedrete nella formulazione qui suggerita, si prevede di riservare al Parlamento solo la disciplina delle materie coperte da riserva assoluta di legge; nelle materie coperte da riserva non assoluta ma relativa, il Parlamento può determinare con legge le linee fondamentali della disciplina del settore. Se non esercita questo potere - e negli altri campi - il governo ha il potere di regolamentare le materie. Naturalmente, una legge organica dovrà disciplinare in via generale l'esercizio del potere regolamentare del governo, facendo chiarezza fra le diverse figure normative che già oggi vengono ricondotte al termine comune di regolamento.
Infine, per quanto riguarda lo statuto dell'opposizione, credo che un dato rilevante e significativo, del resto presente in forme diverse in gran parte delle proposte presentate, sia quello di riconoscere all'opposizione, in particolare a quella più forte, uno statuto costituzionale. Sappiamo che, per effetto di convenzioni costituzionali ma in parte anche di norme giuridiche, questo riconoscimento esiste in Gran Bretagna; certamente esso favorisce la tendenza bipolare e, in una certa misura, può concorrere anche alla questione della scelta del primo ministro da sottoporre a giudizio elettorale. Evidentemente, infatti nel momento in cui si prevede che siano i parlamentari dell'opposizione ad eleggere il loro leader, il capo dell'opposizione (ho usato il termine «capo» perché l'ho trovato in alcune proposte di legge; non mi entusiasma, ma se qualcuno ne ha uno migliore, lo proponga, visto che dobbiamo evitare di usare parole inglesi in una Costituzione italiana), in questo modo si favorisce il bipolarismo. Vorrei precisare che la norma fa riferimento anche alla possibilità di più opposizioni, perché il nostro bipolarismo è imperfetto e bisogna riconoscere diritti e poteri anche ad opposizioni che non si

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riconoscono in quella principale. Come dicevo, la scelta da parte dei parlamentari che sono all'opposizione del loro leader per combattere la battaglia di opposizione, può anche prefigurare in qualche misura - in un'evoluzione di sistema certamente lo prefigura - colui che sarà il candidato a quella carica per la successiva competizione.
Come ho detto, è ovvio che vi debba essere un riferimento al regolamento parlamentare, in questo campo; anche se propongo di costituzionalizzare un diritto di consultazione almeno nei casi più gravi, di guerra e di pericolo per la sicurezza nazionale, oltre agli altri che potranno essere previsti dalla legge. Per gli altri gruppi di opposizione, sulla base di una determinata forza e consistenza, il regolamento non potrà non attribuire minori ma non rilevanti poteri.
Vi ringrazio per l'attenzione. Ho già espresso all'inizio le mie opinioni e le mie valutazioni; credo che siamo di fronte ad una scelta certamente non facile, una scelta che ovviamente non esprime, e non dovrà esprimere, né in un caso né nell'altro, un'adesione totale a tutto ciò che è scritto nei due testi, per le ragioni sia di percorso parlamentare sia politiche, alle quali ho fatto riferimento all'inizio. Ritengo che su questa base - spero di aver dato un contributo in tal senso - si possa costruire, fin da oggi pomeriggio, un dibattito propositivo, che ci faccia arrivare preparati alle decisioni difficili e importanti che dovremo adottare nei prossimi giorni.

PRESIDENTE. Grazie, senatore Salvi.
Avverto che il dibattito sulla relazione testé svolta avrà luogo nella seduta convocata per oggi alle ore 15.30.

La seduta termina alle 12.30.


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