DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE - S1606


ONOREVOLI SENATORI. - Le polemiche che negli ultimi anni hanno scandito con costante frequenza momenti e passaggi dell'attività del Consiglio superiore della magistratura sono la spia evidente di un malessere che ha colpito questa istituzione, sia per quanto riguarda la sua efficienza e capacità di realizzare un adeguato ed autorevole governo della magistratura, che per quanto attiene all'adempimento delle sue alte funzioni nei termini indicati dall'articolo 105 della Costituzione.
Il modo con il quale il Consiglio superiore della magistratura si é posto nei rapporti con le altre istituzioni evidenzia una ricorrente tendenza alla supplenza nei confronti del Parlamento.
É pur vero che l'inerzia del potere legislativo, il quale ha ignorato il disposto della VII disposizione transitoria della Costituzione che imponeva l'emanazione di una nuova legge sull'ordinamento giudiziario conforme ai princípi della Costituzione stessa, ha reso obiettivamente necessario riempire in via interpretativa i vuoti lasciati da tale inattività. Tuttavia il Consiglio superiore della magistratura, con il continuo ricorso a risoluzioni, criteri ed indirizzi di massima, ha finito con il dare vita ad un nuovo sistema di regole funzionali ed organizzative che si sono sostituite a quelle preesistenti, arrivando anche, almeno in qualche caso, a superare lo spirito e la lettera di quelle poche leggi che il Parlamento ha approvato in questi cinquant'anni di regime repubblicano. Basti, a questo proposito, pensare alla legge sulle promozioni in corte d'appello, in relazione alla quale le nomine a ruoli aperti si erano di fatto trasformate in una regola di inamovibilità assoluta per i neo-promossi, determinando l'effetto di impedire la copertura d'ufficio dei posti vacanti nelle Corti d'appello ubicate in zone sconvolte dalla criminalità organizzata, anche in assenza di richieste da parte di magistrati in possesso della necessaria qualifica.
Cosí pure si é registrata, da parte del Consiglio superiore della magistratura, una propensione a surrogarsi al Ministro della giustizia ed al procuratore generale della corte di cassazione - titolari dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati - attraverso la promozione di una serie di inchieste, formalmente indirizzate ad accertare l'eventuale sussistenza di fattispecie di incompatibilità ambientale, ma sostanzialmente volte a colpire condotte disciplinarmente rilevanti.
Deve poi osservarsi che, alla supplenza esercitata dal Consiglio superiore della magistratura, corrisponde il piú vasto fenomeno della supplenza esercitata dai giudici nei confronti del legislatore anche per ragioni ascrivibili al modo stesso di fare le leggi, sovente caratterizzate da ambiguità, genericità e giudizi di valore dall'incerto contenuto, con la conseguenza che al singolo giudice viene spesso fatta risalire la responsabilità di scelte politiche che, in uno Stato di diritto bene ordinato, non competono alla giurisdizione. Peraltro, neppure il Parlamento si é sottratto alla supplenza nei confronti della magistratura, com'é avvenuto (ed avviene) con la continua costituzione di commissioni d'inchiesta le quali, anziché limitarsi ad indagare su materie di pubblico interesse, come dispone l'articolo 82 della Costituzione, svolgono vere e proprie indagini parallele a quelle dell'autorità giudiziaria, talvolta addirittura sovrapponendosi e sostituendosi ad esse.
La conflittualità fra il Consiglio superiore della magistratura e gli altri poteri dello Stato non si presenta facilmente risolvibile né attraverso spontanee iniziative dell'organo di governo dei magistrati né attraverso la previsione di nuovi sistemi elettorali per la componente togata, come pure da qual che parte si é proposto. In effetti, tutte le soluzioni legate esclusivamente alla modifica dei sistemi elettorali non arrivano ad incidere sul cuore del problema. Esso infatti é rappresentato da un eccesso di politicizzazione del Consiglio superiore della magistratura che deriva dalla presenza al suo interno di membri la cui elezione discende direttamente dalla appartenenza partitica; nasce da qui la commistione fra politica e governo dei giudici, causa a sua volta dei momenti di crisi dei rapporti fra l'istituzione rappresentativa della magistratura, il Presidente della Repubblica e il Parlamento.
A ben vedere il problema si incentra sull'esigenza di armonizzazione dei due princípi fondamentali che disciplinano l'assetto dell'ordinamento giudiziario e, piú latamente, della magistratura, da punti di vista apparentemente derivati da valutazioni storico - politiche assai dissimili, se non opposte.
Il primo di tali princípi é quello dell'articolo 101 della Costituzione, in forza del quale "I giudici sono soggetti soltanto alla, legge". Il secondo é quello dell'articolo 104, primo comma, alla cui stregua "La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere".
Non vi é dubbio che, ad una prima considerazione, il passaggio dall'una all'altra delle norme citate sembra essere frutto di una scelta di presupposti logico-giuridici decisamente antitetici.
L'affermazione che il giudice é soggetto soltanto alla legge inquadra e definisce una situazione del tutto individuale, caratterizzata dalla carenza di poteri di subordinazione speciale di cui il giudice possa ritenersi soggetto passivo. É il punto di vista della dottrina classica della separazione dei poteri; dottrina che nelle sue formulazioni piú lucide, muovendo dall'angolo visuale offerto da una determinata funzione, si salva da ogni sospetto di mero nominalismo, utilizzando categorie giuridico-soggettive: in altre parole, puntando direttamente sul singolo rispetto al quale la funzione é imputata.
Del tutto diverso si presenta il quadro concettuale, e prima ancora culturale, offerto dal disposto che definisce la magistratura ordine autonomo, indipendente da ogni altro potere. Qui sembra di assistere quasi ad un ritorno allo "Stato degli stati". Alla posizione del titolare di un determinato rapporto giuridico, caratterizzato come si é visto dalla relazione esclusiva tra soggetto e legge, si sostituisce la rilevanza attribuita all'"ordine": cioé, alla struttura di un tutto organico che comprende, organizzandola, una serie indefinita di piú soggetti.
Dove il concetto-chiave é proprio quello dell'organizzazione che deve essere autonoma ed indipendente da ogni altro potere.
Organizzazione, ordine (e questo é termine proprio di una pubblicistica che si sviluppa dai codici della Rivoluzione ed é accolto dal sistema napoleonico) che, nell'affermazione della propria autonomia da ogni altro potere si configura, per ció stesso, come potere. Il corollario rappresentato dal secondo comma dell'articolo 104 costituzionale, che si limita in tutto e per tutto alla menzione del Consiglio superiore della magistratura in quanto presieduto dal Presidente della Repubblica, si pone in una logica che é tipica dello "stato".
Senonché, é necessario stabilire quale tra i due princípi cosí diversamente ispirati, quello individualistico della esclusiva dipendenza dalla legge, e quello dell'"ordine", sia principio superiore rispetto al quale l'altro si ponga in chiave di strumentalità. Non c'é dubbio che il dato fondamentale é il principio racchiuso nell'articolo 101, secondo comma, della Costituzione. L'ordine, la struttura presieduta dal Consiglio superiore della magistratura é disposta puramente e semplicemente a tutela e garanzia della indipendenza del singolo.
L'apparente divario fra le due proposizioni normative é colmato dall'articolo 105 che delinea le competenze del Consiglio superiore. Questa norma rappresenta il congegno che assicura l'efficienza e l'efficacia dell'Ordine rispetto al principio sovraordinato. Ne deriva, allora, che la funzione peculiare del momento organizzativo deve essere caratterizzata, per quanto possibile, da sostanziale indipendenza rispetto a qualunque altro potere che non sia quello obiettivizzato nella e dalla legge.
Occorre, perció, mantenere inalterato il rango costituzionale dell'organo ma ridisegnandone la composizione in maniera completamente diversa da come fu immaginata dai costituenti, e cioé:

a) escludendone il Presidente della Repubblica;
b) eliminando l'influenza determinante dei partiti sulle scelte del Parlamento e attribuendo la nomina dei membri laici al Capo dello Stato e ai Presidenti delle Camere che li sceglierebbero fra avvocati e professori universitari di chiara fama. Questi ultimi - tra i quali dovrebbe essere designato il Presidente del Consiglio superiore - non andrebbero al Consiglio in rappresentanza di chi li ha nominati ma solo in rappresentanza degli interessi generali, funzionali ad una autonoma, efficiente e corretta amministrazione della giustizia di cui il Consiglio stesso rappresenta l'insostituibile centro-motore. E ció, risolvendosi in una piú elevata imparzialità e trasparenza della componente laica, metterebbe in movimento un analogo "meccanismo di liberazione" anche nella componente togata elettiva in cui troppo spesso il gioco delle correnti organizzate ha finito con il condizionare pesantemente le scelte, la responsabilità e l'obiettività dei singoli componenti.

Per quanto riguarda l'esclusione dal Consiglio superiore della magistratura del Capo dello Stato va ricordato che i costituenti avevano voluto porre alla presidenza dell'organo il Presidente della Repubblica per assicurare il collegamento tra il potere giudiziario e il potere politico (anche se altri si erano espressi per l'attribuzione della carica di presidente al primo presidente della Corte di cassazione). Secondo Mortati la funzione del Presidente della Repubblica al vertice del Consiglio superiore della magistratura consiste nel riportare l'organo di governo della magistratura nell'alveo delle sue attribuzioni istituzionali e di ricondurre ad unità le varie tendenze che in esso si manifestano, sia in ragione delle varie correnti dei giudici presenti nel Consiglio.
Senonché deve riconoscersi che la dialettica in seno al Consiglio superiore della magistratura, specie in occasione di vicende politico-istituzionali assai delicate, é diventata talmente accesa che la posizione del Capo dello Stato ne é risultata pericolosamente sovraesposta.
Sicché - come é stato esattamente notato in dottrina - valutando l'esperienza dell'ultimo ventennio, é ragionevole giungere alla significativa conclusione che si é accentuata la funzione esercitata dal Capo dello Stato nell'esercizio di poteri "esterni", mentre con non eccessiva frequenza si realizza l'ipotesi di concreto esercizio della presidenza dell'organo collegiale.
Se cosí é, se la Presidenza del Consiglio superiore della magistratura si risolve in un dato meramente simbolico (salvo che essa non debba scendere in campo per esercitare un peso decisivo, quasi traumatico, come é avvenuto talvolta) allora tanto vale sottrarre il Capo dello Stato ad un ruolo di per sé riduttivo - una sorta di primus inter pares - oggettivamente impossibilitato a svolgere quella funzione di polo unitario e di supremo mediatore che gli era stata attribuita nella visione del costituente.
In definitiva, la composizione del nuovo Consiglio superiore della magistratura, liberato da qualunque derivazione e suggestione politico-partitica e consegnato - attraverso la maggioranza prevista per la componente dei magistrati - ad una dimensione piú rispondente al suo ruolo di organo di alta amministrazione dell'ordine giudiziario, dovrebbe essere, secondo la prresente proposta, di trenta membri, e cioé:

a) due membri di diritto, ossia il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione;
b) quattordici membri eletti fra le varie categorie di magistrati;
c) otto membri nominati rispettivamente dal Presidente della Repubblica e dai Presidenti delle Camere, d'intesa fra loro, fra avvocati e professori universitari di materie giuridiche.

Il presidente dovrebbe essere eletto dal Consiglio tra i membri nominati dal Capo dello Stato o tra quelli nominati dai presidenti delle due Camere, mentre il vicepresidente sarebbe eletto tra i magistrati membri elettivi (articolo 1).
Dal diverso assetto interno del Consiglio superiore della magistratura - che qui si propone - discende che anche la Sezione disciplinare debba assumere una nuova configurazione, che appare opportuno fissare in Costituzione, con la presidenza affidata (com'é attualmente) al Vice Presidente del Consiglio e con la rappresentanza di tutte e tre le categorie di componenti (articolo 2).
Un altro snodo dell'attuale impianto costituzionale attiene all'esercizio dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, che l'articolo 107 attribuisce al Ministro della giustizia, ma che l'articolo 14, n. 1, della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), ha conferito anche al procuratore generale della Cassazione nella sua qualità di pubblico ministero presso la sezione disciplinare del Consiglio superiore
Tale diarchia, in una materia che la Carta costituzionale riserva alla iniziativa del Guardasigilli, ha suscitato piú di una perplessità, rilevandosi dalla dottrina che - a parte il dato testuale dell'articolo 107 che non contempla alcun'altra competenza alternativa o cumulativa con quella del Ministro - il procuratore generale della Cassazione, essendo membro di diritto del Consiglio superiore della magistratura, assume un ruolo concorrente al governo dell'Ordine giudiziario e, di conseguenza, non puó contestualmente esercitare il diverso ed incompatibile ruolo di organo promotore di iniziative che attengono alla piú delicata esplicazione del potere di governo rappresentata dal procedimento disciplinare.
Questi rilievi - va ricordato - non hanno trovato ingresso in incidenti di costituzionalità poiché le Sezioni Unite della Cassazione, fin dal 1964, hanno ritenuto manifestatamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'articolo 14, n. 1, citato, "in quanto il ricordato articolo 107 non attribuisce in via esclusiva la predetta facoltà (di promuovere l'azione disciplinare) al Ministro della giustizia e non esclude, quindi, che il legislatore ordinario possa attribuire il potere di azione, in materia, ad un organo proprio dell'ordine giudiziario che deve provvedere da sé alle proprie esigenze etiche, di prestigio e di decoro contro i fatti addebitati ai magistrati" (sentenza n. 2203 del 31 luglio 1964, in Foro Italiano 1964, I, 566).
Appare comunque innegabile che la "contitolarità" del potere disciplinare determina un affievolimento dell'iniziativa del Ministro, portato - come l'esperienza passata dimostra - ad estraniarsi dal controllo che la Costituzione gli affida, quasi tacitamente delegandolo al procuratore generale. Il che ha provocato guasti notevoli al corretto e coerente dipanarsi della trama della Costituzione poiché in tal modo il Ministro, sottraendosi all'esercizio della sua prerogativa, ha finito per sottrarsi anche al sindacato politico del Parlamento in quanto la responsabilità dell'azione disciplinare (o del suo mancato esercizio) é ricaduta quasi per intero sul procuratore generale della Cassazione, che é di per sé organo politicamente irresponsabile.
Appare, pertanto, giusto ed opportuno ridefinire con maggiore precisione e tassatività la sfera dell'azione disciplinare stabilendo in Costituzione che essa spetta esclusivamente al Ministro della giustizia affinché egli ne risponda interamente dinanzi al Parlamento (articolo 4). A tali finalità corrisponde il presente disegno di legge costituzionale, che si compone di quattro articoli e che si raccomanda l'attenzione del Parlamento, aperto a tutti i contributi volti a perseguire l'obiettivo di un nuovo, migliore equilibrio fra le istituzioni.


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