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Antonio La Torre


ANTONIO LA TORRE, Procuratore generale della suprema Corte di cassazione. Signor Presidente, comparando i primi interventi con i cahiers des doléances che vengono dalla giurisdizione, mi sono detto: quella è la terapia e questa è la malattia. La terapia certamente è nuova, perché solo dieci anni fa un esperto del diritto, di fronte al titolo della legge n. 50 del 1999, non avrebbe compreso, di primo acchitto, cosa significhi "delegificazione" e legge di "semplificazione". La domanda è se anche la malattia sia nuova. Certamente la giustizia ha disfunzioni che rimontano ad antica data, però questo tipo di patologia non è tanto vecchio, anzi è piuttosto nuovo; e siccome guardare con gli occhi del passato aiuta a capire il presente, mi si consenta di tornare indietro nel tempo quanto basta per rendersi conto del problema che oggi ci impegna.

Da quasi cinquant’anni, e per la mia piccola parte di operatore del diritto, assisto al quotidiano confronto fra la Legge e l'Uomo, avendo come parametro le regole dello "stare insieme". A voler fare un bilancio di questo mezzo secolo, chiedendomi se ed in che modo queste regole siano cambiate, avverto senz'altro una frattura fra due periodi. E lo spartiacque, che collocherei verso la metà degli anni Sessanta, è segnato dal momento in cui si comincia a passare dall’Uno al Molteplice. Il che avviene quando, con l'età della cosiddetta "Decodificazione" - che meglio non potrebbe esprimere il senso di smarrimento di fronte alla caduta di già acquisite certezze - entrano contemporaneamente in crisi due idee forza unificanti: a) la produzione del diritto come monopolio dello Stato nazionale; b) il "Codice" come epicentro del sistema giuridico e inviolato forziere di regole comuni e uguali per tutti.

La prima idea arretra di fronte all'incalzare di nuovi soggetti dotati di autonomia normativa, che - in modo esclusivo o sussidiario - si pongono come centri di produzione del diritto o, comunque, di risoluzioni paranormative, quali da ultimo le Autorità indipendenti. La seconda idea crolla di fronte al tumultuoso proliferare di leggi speciali, più spesso in posizione conflittuale anziché complementare rispetto al codice, ricacciato così verso zone eccentriche o degradato a un ruolo residuale. E si può comprendere quale sia stato, a livello applicativo, il travaglio di una simile mutazione genetica: passare, cioè, dalla lineare architettura codicistica dei grandi principi alla geometria variabile di norme speciali e contingenti, buone davvero per fare dell'interprete un "giurista dell'effimero", costretto non di rado a tessere faticosamente trame concettuali destinate a disfarsi il giorno dopo per il mutar di una leggina.

Quali sono i fattori di una tale metamorfosi? Non so quanti ne potrà indicare il sociologo, ma il giurista almeno tre: a) nel quadro generale dell'ordinamento, l'avvento della Costituzione repubblicana, sulla cui base si doveva e si deve ricostituire la perduta centralità dei codici; b) dall'esterno del sistema, la progressiva incidenza del diritto comunitario che, per finalità di armonizzazione, impone regole di adattamento e di coordinamento; c) all'interno del sistema, la crescente richiesta di legislazione settoriale e il riconoscimento di sempre più articolate autonomie, con l'aumento impressionante della quantità delle leggi o, comunque, delle disposizioni normative; Proprio qui si cela, a mio avviso, il pericolo più grave per una ordinata convivenza democratica.

Già Tacito ammoniva che "Repubblica corrotta è quella dalle molte leggi". E a me pare davvero che una massa amorfa e quantitativamente ingovernabile di "norme di condotta" - quasi un universo in continua espansione - produca, fra gli altri effetti socialmente perversi, il depotenziamento del principio di legalità, che ha un senso se e finché la legge conserva un minimo dell’antica "sacralità". Questo principio, che pure è inseparabile dal vivere civile, è tanto più radicato o radicabile nella coscienza collettiva quanto più il suo adempimento si rende giuridicamente esigibile. E’ questo - ieri come oggi - il primo fondamento del "contratto sociale"; e non si può pretenderne un tasso elevato di obbedienza se le leggi non corrispondono ai postulati di "chiarezza"; "effettività"; "ragionevolezza"; "conoscibilità". Tento di trarre qualche indicazione propositiva chiarendo meglio il significato di tali attributi.

A) CHIAREZZA. Riguarda la "qualità" del prodotto legislativo; e direi che tutte le iniziative già promosse in proposito sono utili e meritorie. Non escluderei una particolare attenzione per il fattore "linguistico", che si fa sentire specialmente a monte e a valle del diritto di formazione comunitaria: a monte per la cura non sempre vigile della rappresentanza italiana, troppo spesso soverchiata, nel testo delle Direttive, dal gergo e dalla cultura giuridica di lingua francese o tedesca; a valle per l'infelice traduzione lessicale che si trova in certe leggi di recepimento delle direttive, come quella ad esempio in tema di "clausole vessatorie" inserita, con discutibile scelta e non senza dissonanze linguistiche, nel sacrario del codice civile (articolo 1469- bis ss.).

B) EFFETTIVITA'. Questo postulato riguarda, per un verso, la reale necessità dell'intervento legislativo, essendo altrimenti sconsigliabile innovare o modificare l'orientamento giuridico; per altro verso, la verifica preventiva della sua concreta possibilità di incidere utilmente sul corpo sociale: una sorta di "esperimento in laboratorio" per saggiarne la capacità d'impatto favorevole e non dannoso. E' una prospettiva nuova e quanto mai interessante che si dischiude al processo formativo della legge; anche altri Paesi l'hanno già presa in considerazione, denominandola con varia nomenclatura "collaudo delle leggi" (Germania); "controllo di adeguatezza" (Gran Bretagna); "fattibilità delle leggi" (Spagna).

C) RAGIONEVOLEZZA. Ne parlo non come qualificazione spesso al vaglio della Corte Costituzionale, ma come corollario della "effettività" nel più specifico significato di "adeguatezza" della norma giuridica. Alludo in particolare al mal vezzo di presidiare con la sanzione penale regole di condotta la cui inosservanza non desta un allarme sociale proporzionato alla gravità della reazione. Il Diritto penale "massimo" è ingiusto per la sproporzione tra il fatto e la misura punitiva; ma è anche controproducente perché, con la sua "obesità", ostruisce lo stesso funzionamento della macchina giudiziaria. D) CONOSCIBILITA'. E' questo forse il punto cruciale di tutta la problematica, perché l'ipertrofia delle leggi, con la loro disordinata e asincronica sovrapposizione, crea un tale groviglio normativo da renderne impossibile la pur virtuale conoscenza non solo alla generalità dei consociati, ma persino agli esperti del diritto. Con gravissime ricadute negative sulla stessa valenza "etica" della legge, minandone la "serietà" e la "credibilità".

La strada maestra per uscire da questo impasse è quella di un drastico disboscamento, che già la "legge di semplificazione" n. 50 del 1999 ha prefigurato, affidandola agli strumenti della Delegificazione e dei Testi Unici, accompagnati da un programma sistematico di Abrogazione espressa: misure talmente indispensabili al punto in cui siamo, da potere ben qualificare l'indirizzo di una intera legislatura nel senso di "abrogare" le leggi anziché farle. Non per niente Dante colloca nel Paradiso Giustiniano perché "trasse dalle leggi il troppo e il vano"!

A me pare che proprio la "delegificazione" sia il terreno sul quale lo Stato, attraverso l'azione coordinata di Governo e Parlamento, può in parte recuperare il ruolo preminente, che è stato scosso dal perduto monopolio nella produzione del diritto. Sembra quasi di assistere a una nemesi storica. Infatti regolamenti e testi unici riecheggiano le ordinanze di "consolidazione"- come ad esempio quelle sul commercio e sulla marina emanate da Luigi XIV sulla fine del '600 - quando, prima delle moderne codificazioni, il pluralismo delle fonti negava al sovrano l'esclusività nella produzione del diritto. Da allora è ufficialmente riconosciuto allo Stato nazionale il monopolio legale del diritto, ma esso è sempre più conteso dalla concorrenza di altri centri di produzione del diritto. E si torna, così, alle "consolidazioni"! Sono i corsi e i ricorsi di cui parlava Giambattista Vico. Grazie.

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