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Vincenzo Apicella


VINCENZO APICELLA, Procuratore generale della Corte dei conti. Indubbiamente una volta era molto più facile fare le leggi: mi riferisco non all’epoca di Mosè e neppure a quella degli antichi romani, ma ad appena cinquant’anni fa. Il motivo di questa accentuata difficoltà che il nostro tempo vive sta a mio avviso, nel fatto che viviamo un momento di accelerazione storica che è emerso appunto in questi ultimi cinquant’anni e che, determinando un precoce invecchiamento delle regole della vita e della società, ha avuto inevitabilmente i suoi riflessi nell’assetto politico, in quello amministrativo, nel modo di fare politica e, quindi, nel modo di fare legislazione. Naturalmente questo invecchiamento risente anche del connesso progresso tecnico, che non può non essere assecondato e che i legislatori di tutti i paesi – e quindi anche del nostro – cercano di tradurre, di racchiudere, di comprendere in formule legislative; ma il progresso tecnico, in quanto figlio dell'accelerazione storica cui ho accennato, incalza sempre di più e le norme che lo esprimono invecchiano precocemente.

Si dice poi, che alcune norme nascono vecchie: non so se ciò sia vero, ma la mia esperienza di Procuratore generale della Corte dei conti e ancora prima quella quasi quarantennale di vice procuratore generale, mi induce a dire che ci troviamo costantemente di fronte a norme che sono rapidamente sopravanzate dall’evoluzione sociale, politica ed anche storica, il che in un certo modo è indice della vitalità della nostra società. Ciò non toglie, peraltro, che insorgano rilevanti problemi a chi deve "fare giustizia".

Gli organi costituzionali dello Stato hanno sempre tentato di correggere questo precoce invecchiamento: si è ricorso ai decreti-legge, adesso ridotti nella loro proponibilità entro i ristretti limiti indicati dalla Corte costituzionale; si è proceduto, poi, sulla strada dell'emanazione di leggi di rettifica, di integrazione e di interpretazione (le vediamo pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale in maniera ricorrente). Le norme così introdotte, peraltro, troppo spesso sono costruite con quella tecnica un po' esoterica cui ha accennato il Presidente della Corte di cassazione, il che crea grosse difficoltà di lettura, di applicazione e, dopo, di interpretazione giudiziale; infine, si è ricorso alle leggi delegate, sulle quali non mi voglio troppo soffermare, perché già è stato detto molto. A queste ultime riconosciamo tutti certamente l'utilità, che sta nella prospettiva di poter realizzare testi normativi di ampio respiro costituiti con tecnica mirata ad attenuare, se non evitare, quell’invecchiamento di cui ho parlato. Però, come è stato autorevolmente detto dal professor Rodotà e dal presidente della Corte dei conti, dottor Sernia, questo modo di "fare legislazione" presenta un pericolo, quello di sottrarre parte della capacità del potere di legislazione al Parlamento. Perché questa sottrazione possa essere riguardata senza preoccupazione occorre che esista sempre un collegamento, un cordone ombelicale tra Governo e Camere, che, senza costringere, senza imporre, tuttavia controlli la corrispondenza all’ordinamento, ma prima ancora alla Costituzione, delle norme delegate.

Avrei tante cose da dire, ma molte sono state già dette, e ad esse mi associo. La mia funzione mi porta tuttavia a denunciare l'esistenza di un fenomeno, che sta emergendo nel nostro ordinamento, quello secondo il quale la logica economica, nella nostra società, tende sempre di più a prevalere sulla logica giuridica. Ciò è normale ed è anche logico che avvenga nel momento prelegislativo. Infatti, nella configurazione della società da lui tracciata a cavallo tra il secolo scorso e quello che si sta concludendo adesso, il filosofo tedesco Hartmann affermava che la società è raffigurabile come un insieme di sfere concentriche - quella economica, quella giuridica, quella etica, quella religiosa e così via – e che ciascuna di queste sfere, mai statiche ma in continua evoluzione o involuzione, influisce sull’altra. Io non ho difficoltà a ritenere che, per il principio del "primum vivere", la sfera economica debba avere un suo preminente rilievo, come, peraltro, anche la sfera etica – come ha sottolineato il professor Rodotà – e ciò per evitare che si verifichi un insanabile contrasto tra l’imperio della legge e l'imperativo etico-morale.

Ma, attenzione: il principio che la sfera economica debba avere una preminenza perlomeno cronologica rispetto a quella giuridica non deve far dire che, in sede di applicazione e - ancor peggio - di interpretazione giudiziale della norma, debba prevalere una logica economica. Perché dico questo? Perché nella professione che svolgo, e che in passato ho svolto ad un più basso livello, quando si vedono chiamati in giudizio di responsabilità amministratori dello Stato e delle regioni, il modo più frequente di difesa è stato quello di affermare: “D’accordo, abbiamo violato la legge, però le ragioni economiche del nostro ente, o del nostro ufficio, imponevano necessariamente una deroga”. Ciò non può essere accettato perché occorre che, fino a quando si vive in questa civiltà giuridica, una volta emessa, la norma abbia la sua preminenza: in definitiva, bisogna conservare il prestigio e la preminenza della norma giuridica.

Altro argomento è quello dei testi unici. Si tratta di un argomento importantissimo, figlio della regola secondo la quale le norme debbono essere facilmente identificabili. Il reperimento della norma applicabile, mi rivolgo a Lei signor presidente della Cassazione, è un problema che riguarda tutti, anche le amministrazioni, e i giudici, quindi, per la materia di propria competenza, anche i giudici della Corte dei conti. Auspico, quindi, che nei prossimi anni il Governo si produca nello sforzo certamente non lieve, ma necessario, di accorpare, in distinti testi unici, le materie tormentate da troppe stratificazioni normative.

Infine, per quanto riguarda il contributo che la Corte dei conti può dare al miglioramento e all’aggiornamento della tecnica normativa, non posso che associarmi a quanto già detto nel suo intervento dal presidente della Corte stessa, allorché ha ricordato che, in base all’articolo 41 del nostro testo unico, che felicemente è sopravvissuto a tante riforme, è normativamente previsto che, in sede di giudizio di parificazione, alla deliberazione della Corte sia unita una relazione, nella quale, tra le altre osservazioni, devono essere indicate al Parlamento "le variazioni o le riforme che (essa Corte) crede opportune per il perfezionamento delle leggi e dei regolamenti sull'amministrazione e sui conti del pubblico denaro". Così come le Sezioni Riunite della Corte da sempre fanno. Grazie.

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