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Giuseppe De Rita


GIUSEPPE DE RITA, Presidente del CNEL. Non essendo un giurista, mi soffermo soltanto sui tre snodi fondamentali della nostra riflessione di stamane: governare la legislazione – in un intreccio di problemi settoriali e procedurali – all’interno di una redistribuzione dei poteri normativi. Tre snodi che a mio avviso mettono in luce tre diversi intrecci.

Anzitutto il rapporto fra legislazione nazionale ed autonomie locali. Noi viviamo una stagione straordinaria, quella delle leggi Bassanini, di attribuzione di poteri alle autonomie. Non sappiamo cosa succederà in questa redistribuzione dei poteri. Non sappiamo se sarà accentuata la dimensione settoriale, che in fondo sta dentro il codice di trasferimento dei poteri, o se invece le regioni, i comuni, le province saranno chiamati ad una riconsiderazione del loro modo di essere nella produzione di norme. Io ho sempre avuto paura dei decentramenti che avvengono per fincature verticali, per cui ad un ministro della sanità corrispondono 21 assessori regionali della sanità, 103 assessori provinciali della sanità, 8 mila e passa assessori comunali. A quel punto la dimensione settoriale prevale e la tentazione di gestire quel settore ancora dal centro prevale, magari ammantandosi di scelte valoriali o di esigenze di razionalizzazione delle spese e delle attribuzioni. L’abbiamo visto anche recentemente con la legge sulla sanità. Attenzione, quindi. Questo grande lavoro (che ha tutta la mia approvazione) di Bassanini per trasmettere poteri alle autonomie, rischia di avere un feedback negativo, proprio perché la settorializzazione alla fine pone problemi di ispirazione o di indirizzo generale, che potrebbero riproporre un potere statuale.

Secondo elemento da metter sotto attenzione: le autonomie funzionali. Noi abbiamo un aumento del numero e del peso degli enti di autonomia funzionale, dove l’autonomia non è di stampo elettivo (come nei comuni e nelle province), ma si qualifica per la funzione esercitata: l’azienda sanitaria locale, la camera di commercio, l’ente fiera, l’ente porto o interporto, le fondazioni bancarie. Sono, se vogliamo, i mondi vitali “strutturali” di cui parlava Rodotà. Ma la forrza di queste autonomie funzionali da dove viene? Viene dal loro rapporto con la funzione, dalla loro efficacia verso il cliente, verso l’utente. Un’autonomia funzionale è giudicata in base alla funzione che esplica e quindi al rapporto che ha il suo cliente, non in base all’autoreferenzialità più o meno esplicita su cui vivono da sempre le strutture pubbliche.

Siamo capaci di dare spazio a questa autonomia funzionale? Oppure l’autonomia funzionale, proprio perché è quella che va più verso il cliente ed ha una maggiore delicatezza di customing, finisce per creare dei problemi anche in questo caso di rinculo nei confronti del rapporto con la legislazione nazionale? Non vorrei apparire polemico con nessuno, la stessa legge sanitaria in fondo riduce di molto la qualità e la quantità di poteri dati alle aziende sanitarie. La legge di delega che rinvia al decreto legislativo, che rinvia ai regolamenti, che rinvia ad atti di indirizzo cosicché, alla fine viene da domandarsi dove stia l’autonomia funzionale. Così come la legge sulle fondazioni bancarie: la legge diceva alcune cose, la legge delegata dice altre cose, gli atti di indirizzo prossimi venturi probabilmente diranno altre cose ancora.

Nel momento in cui si va verso la periferia, sia che si proceda verso i rapporti con le autonomie elettive sia che si vada ancor più verso le autonomie funzionali, abbiamo quindi un pericoloso feedback di verticalizzazione di cui non ci rendiamo conto. Ha quindi ragione Rodotà: stiamo attenti quando facciamo delle leggi di delega. Avevamo tanta paura dei decreti delegati, perché certamente erano inflazionati, ma almeno avevamo una trasparenza che questo rapporto legge di delega-legge delegata-regolamento-atti di indirizzo (perché ormai ci si orienta su questi quattro livelli di potere) non prevede e non garantisce in alcun modo. Terzo ed ultimo punto: la normativa tecnica europea. Abbiamo delle normative di livello tecnico molto particolare, che vengono recepite per leggi comunitarie e che non sappiamo come impattano sulle realtà dell’operatore, del singolo artigiano, del singolo imprenditore, del singolo consulente, del singolo tecnologo italiano. Così come non sappiamo come si prepara quella direttiva, che molto spesso non riceve nessun apporto da parte degli operatori italiani. Allora qui la posizione della legge è una posizione ipocrita: con legge comunitaria recepiamo tutto, dopo di che probabilmente si rinvia a qualche regolamento, a qualche decreto ministeriale, a qualche vecchia circolare ministeriale, per interpretare un processo che viene da lontano, che forse è innovativo (o forse è distruttivo) ma che non viene assolutamente valutato nel quadro razionale del processo di “gestione della legislazione” di cui Lembo giustamente va orgoglioso.

Questi sono i tre aspetti che mi sembrano essenziali per capire non solo le coerenze interne, ma anche le coerenze esterne del lavoro legislativo: verso il rapporto con le autonomie, che crea moltiplicazione di norme e un feedback negativo perché non si sa fare a meno della settorializzazione dell’intervento; verso il rapporto con le autonomie funzionali, rispetto alle quali si crea lo stesso processo di feedback, quasi per la paura di dare responsabilità alla funzione, come se le autonomie funzionali fossero un modo diverso di pensare lo Stato (Stato funzione e non più Stato soggetto); e nel rapporto di disincanto verso la normativa tecnica europea, come fosse secondaria e come se le nostre imprese non fossero vincolate da mille e una norme europee.

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