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Mauro Leveghi


MAURO LEVEGHI, Presidente del consiglio regionale del Trentino-Alto Adige. Svolgerò qualche breve considerazione sotto il profilo politico-istituzionale partendo proprio dai testi unici, su cui si è soffermato poc’anzi il collega Cota, con cui concordo per quanto riguarda sia i ragionamenti fatti sul regolamento, che è il vero strumento del consiglio per gestire le leggi, sia la necessità di testi unici delle leggi regionali e delle province.

Vi è però un limite che dobbiamo tener presente: le regioni e le province – parlo in particolare di quelle a statuto speciale – possono anche essere restie rispetto all’esigenza della trasparenza e della conoscibilità del testo unico perché, dal punto di vista del Governo, la procedura di approvazione legislativa può rimettere in discussione, eventuali conquiste già fatte. Nell’ambito della riforma generale, dunque, si devono definire chiaramente i confini. Ma finora non è stato così ed è stata una conquista, anche sul piano del confronto governativo, ottenere il visto per ogni approvazione di legge. Fare un testo unico solo sulla materia del territorio, per esempio, significa rischiare di rimettere in discussione tutto ciò che si è “conquistato” a livello legislativo. Quindi voi capite che non vi è e non vi potrà essere lo stimolo ad un testo unico in assenza di garanzie che in quel testo unico, pur riprendendo normative già esistenti, vengano inseriti i vari passaggi che le singole regioni ritengono determinanti. Riferendomi poi sempre alla questione politico-istituzionale e riprendendo il ragionamento che ha fatto in premessa la presidente Jervolino Russo sulla necessità di sostituire la democrazia del conflitto con quella del consenso o del confronto fra istituzioni, concordo pienamente con questo obiettivo ma ritengo che la questione vada vista criticamente. Se infatti dobbiamo valutare lo stato del confronto con il Parlamento, credo che dobbiamo esaminare non tanto materie di settore quanto le riforme che oggi sono in discussione.

In questo momento due sono le riforme in discussione: una grande, quella concernente il titolo V della Costituzione, ed un’altra meno grande, la riforma degli statuti regionali che domani auspicabilmente la Camera voterà. Ebbene, nella riforma degli statuti regionali, al di là dei contenuti largamente condivisibili (cito per tutti la possibilità dell’elezione diretta dei presidenti anche per le regioni a statuto speciale), il Parlamento – lo voglio ripetere a costo di sembrare noioso – ha introdotto le cosiddette norme transitorie che tra l’altro varrebbe la pena di studiare anche dal punto di vista tecnico perché transitorie non sono, nel senso che il Parlamento ha previsto, non per tutte le regioni a statuto speciale ma per alcune di esse, discipline elettorali in attesa che le singole regioni o province approvino la propria disciplina letterale, quindi sostituendosi ai poteri che già oggi hanno le regioni, perché lo statuto delimita il campo di gioco e non le regole del gioco, che spettano alle regioni o alle province autonome; il Parlamento si sostituisce, dunque, in competenze che sono già delle regioni stabilendo che fino a che non interverrà una normativa regionale o provinciale vale questa disciplina elettorale.

Il che significa che non c’è un termine; anzi, potrebbe accadere che se una regione per motivi validi decide di non disciplinare la materia, di fatto si applica sine die la disciplina che il Parlamento prevede nella norma transitoria, che quindi transitoria non è perché è a tempo indeterminato, salvo intervento del legislatore regionale o provinciale. Questo è un esempio di non rispetto delle regole del gioco.

La seconda questione, che ha valore più politico che costituzionale o istituzionale, o meglio non tiene conto del processo politico degli ultimi cinquant’anni proprio nel momento in cui si avanza concretamente un progetto di Stato federale, si rinviene nel fatto che in questa modifica e successivamente in quella più grande non si prevede, sempre per le regioni a statuto speciale, la codificazione della natura pattizia dello statuto. Dopo cinquant’anni di autonomie ancora oggi, pur mantenendo il carattere costituzionale degli statuti, non vi è l’intesa.

Badate bene che nella discussione all’interno della Conferenza Stato-regioni le conferenze dei presidenti delle regioni, cioè dei governi, hanno proposto un emendamento (che poi non è stato approvato) che dice che nel caso di modifica degli statuti per le regioni a statuto speciale si procede d’intesa con le regioni o le province; cioè non con i consigli regionali o provinciali, ma con le regioni o con le province autonome, quindi ancora una volta con i governi. In sostanza, si è cercato di riconoscere un dato d’intesa fra centro e periferia riferendo tale elemento al rapporto fra Parlamento e Governo e non fra Parlamento nazionale e parlamenti periferici.

Questo è l’aspetto “pericoloso”, che tiene conto dei ragionamenti che faceva prima il presidente Pepe, e cioè che oggi, a fronte delle riforme che sono state fatte, vi è uno sbilanciamento di rapporti tra assemblee e governi. Sono convinto della necessità di queste riforme ma, attenzione, oggi questo sbilanciamento è talmente forte non solo dal punto di vista giuridico o costituzionale ma anche dal punto di vista della percezione esterna; tant’è che molti amano chiamare i presidenti delle regioni – io non li chiamo così ma cito solo questa tendenza – governatori.

Questa mi pare una definizione alquanto impropria, che in realtà nasconde una valutazione politica, che è quella della sovraesposizione dei presidenti delle giunte o dei presidenti delle province e delle regioni rispetto ai parlamenti, quasi che non vi fosse una doppia legittimazione. Infatti l’elezione riguarda certo i presidenti delle giunte ma riguarda anche i parlamenti che sono eletti direttamente come lo sono oggi anche i presidenti delle giunte mentre ieri lo erano in modo indiretto. Quindi, mentre è comprensibile che la giunta, cioè il governo, segua passivamente il destino del suo presidente, perché il presidente è eletto direttamente e la giunta no, i parlamenti hanno anch’essi una legittimazione popolare e quindi da questo punto di vista qualche ragionamento in Parlamento dovrà essere fatto e non solo all’interno degli statuti.

Al riguardo ho l’impressione, ma posso sbagliarmi, che la prospettiva di una qualità maggiore della legislazione regionale, pur tenendo conto dei limiti – come osservava il mio collega del Piemonte – regolamentari interni, rischi di essere velleitaria anche in conseguenza del nuovo rapporto che si è instaurato fra presidenti delle giunte e consigli regionali, proprio perché le esigenze rischiano di essere diverse, anche dal punto di vista temporale, e quindi ci troveremo di fronte a leggi finanziarie o provvedimenti collegati (il termine varierà da regione a regione) che avranno al loro interno non tutto ma di tutto e che nulla avranno a che vedere con i criteri legislativi tecnicistici di cui parlavamo questa mattina, che devono tendere alla massima trasparenza, perché le esigenze che si affronteranno prevalentemente saranno quelle dei governi o dei presidenti per cui i singoli parlamenti si troveranno a seguire passivamente le volontà dei cosiddetti governatori.

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