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Mario Pepe


MARIO PEPE, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Ringrazio il Presidente e i colleghi per l’opportunità che viene offerta per un dibattito che vorrei definire tecnicistico da una parte, per i rilievi che sono emersi nei vari interventi, e soprattutto in quello del professor Cassese, tutti intra moenia della tecnica legislativa, che talvolta diventa sostanza politico-istituzionale, e dall’altra per i rilievi di ordine politico ed istituzionale che hanno svolto con competenza molti colleghi intervenuti ed anche altri: mi riferisco all’importante contributo fornito dal presidente del consiglio provinciale di Trento.

Concordo con l’iniziativa del Presidente della Camera e del Presidente del Senato di costituire questo tavolo perché lo ritengo un luogo importante per approfondire alcune tematiche. Ovunque viene dichiarato il principio di sussidiarietà, a maggior ragione penso che ciò debba essere fatto nei luoghi solenni della legislazione. Avere recuperato questa dimensione di orizzontalità e di precondizione alla codificazione responsabile, equilibrata, trasparente, come è nella tradizione della cultura occidentale, ritengo sia un fatto positivo.

Nelle scorse settimane, quando la Commissione parlamentare per le questioni regionali ha esaminato il disegno di legge finanziaria per il 2001, sono stato colpito dalla rubrica dell’articolo 52, intitolata “attuazione dell’accordo tra Stato e regioni” in materia sanitaria.

Il mio stupore derivava dal fatto che la legge – l’atto normativo per eccellenza – venisse in sostanza a porsi, al di là del suo valore formale, come fonte secondaria, perché attuativa (bene o male qui non interessa) di un atto di natura convenzionale tra soggetti istituzionali. In sostanza, si è pensato di ritenere prevalente il pactum convenzionale che talvolta viene stabilito tra gli organi piuttosto che la primarietà della legge, il che è una preoccupazione in tempi in cui si inseguono nuovi sistemi di accordo politico-istituzionale.

Nulla di sorprendente, mi si obietterà: chi non ricorda i decreti-legge adottati per vincere le resistenze della Corte dei conti alla registrazione dei regolamenti di recepimento degli accordi collettivi di lavoro nel pubblico impiego prima della sua privatizzazione?

Però, anche se la vicenda non è nuova, essa appare emblematica di un capovolgimento di prospettive per cui oggi la sede della decisione politica è sempre più collocata fuori dagli organi legislativi ed è una sorta di negozio bilaterale o plurilaterale intergovernativo.

Insomma un metodo di decisione, che sembrava peculiare della politica estera, si impone ormai in misura sempre più rilevante a livello interno, nel quale includo ovviamente anche quello comunitario e non solo quello nazionale, sottraendo così sempre più spazio alla sede parlamentare.

Questo dato mi sembra costituisca una premessa indispensabile per porre le basi di un confronto tra Parlamento nazionale e parlamenti regionali sulle possibili forme di cooperazione reciproca. In altri termini, se non è chiaro e condiviso il ruolo della legge nel funzionamento del sistema politico complessivo, ogni altro ragionamento risulta a mio avviso fine a se stesso. E non si tratta qui di rinverdire l’ideologia ottocentesca della legge generale ed astratta, ma piuttosto di capire le dinamiche democratiche che costituiscono il substrato del nostro ordinamento. Per dirla diversamente, è in gioco un fondamentale problema di qualità democratica della legislazione nazionale e regionale, reso più complesso anche dalla recente riforma dell’autonomia statutaria delle regioni ordinarie.

Infatti, la presenza sulla scena politica dei cosiddetti governatori, da taluni giudicati ingombrante, non è negativa di per sé, anche perché essi vantano ormai un titolo di legittimazione diretta al pari degli organi legislativi. Il vero problema è che, ove si faccia un’opzione presidenzialista – di cui io personalmente non sono un sostenitore ma che deve essere lasciata all’autonoma determinazione delle comunità locali – il ruolo degli organi legislativi deve essere, nell’ambito dei poteri ad essi spettanti, di pari forza.

Ora, tornando più direttamente al tema, qual è il fine di una cooperazione tra gli organi legislativi dei diversi livelli territoriali? A mio avviso la risposta è chiara: si tratta di individuare una sede di valutazione politica del principio di sussidiarietà applicata all’attività legislativa. E questa sede non può che essere un organo parlamentare deputato a tale attività, perché, anche in una visione di tipo cooperativo e non competitivo, la definizione dei confini, che non sono soltanto giuridici ma politici, tra livello nazionale e livello regionale degli interessi deve essere operata con procedure non di tipo negoziale (come quelle intergovernative) ma di tipo parlamentare, in quanto solo queste ultime garantiscono, per la specificità del metodo decisionale, la qualità democratica della legge in termini di sussidiarietà.

In questa fase, il ruolo di “ponte” tra Parlamento nazionale e parlamenti regionali viene svolto dalla Commissione per le questioni regionali, ma con grandi difficoltà, sia perché il quadro delle relazioni tra centro e regioni viene spesso assunto in modo esclusivo e improprio dal livello intergovernativo, sia perché anche il Parlamento – non posso esimermi da questo rilievo – trascura gli indirizzi formulati dalla Commissione, con inevitabili ricadute negative sulle realtà regionali. Infatti, privilegiare il confronto, nelle istanze parlamentari, con il solo livello governativo implica che il tipo di valutazione che ne scaturisce coglie spesso problematiche di ordine gestionale e amministrativo, che hanno certo la loro importanza nell’ottica di un’analisi di fattibilità e di copertura amministrativa della legislazione, ma tendono a generare frammentarietà delle disposizioni perdendo di vista il quadro generale.

Sul secondo versante, dobbiamo rilevare la scarsa sensibilità del Parlamento per una serie di argomenti semplici e forse banali, ma basilari per garantire la qualità della sua legislazione nei confronti delle regioni. Basterebbero pochi accorgimenti tecnici, spesso invano suggeriti dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali, come l’individuazione esplicita dei principi fondamentali nelle materie ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione, per consentire ai legislatori regionali di operare non come meri esecutori delle leggi statali, ma in una prospettiva adeguata al loro ruolo costituzionale. Mi limito a citare il caso recente del disegno di legge sull’assistenza, nel quale non si è voluto accogliere il rilievo della Commissione, ma ne potrei citare altri.

Il problema, pur essendo datato e noto a tutti, non è considerato nemmeno nel progetto di legge recante norme per la redazione dei testi legislativi, peraltro fermo da più di un anno presso la Commissione affari costituzionali della Camera, nel quale, nonostante un capitolo dedicato alle leggi organiche, non vi è alcun accenno alle questioni riguardanti le leggi-cornice. Un’altra esigenza, già da me segnalata nel precedente seminario, è quella di riconoscere – a livello di regolamenti parlamentari – che i progetti di legge riguardanti gli assetti autonomistici costituiscono – in termini sostanziali – materia costituzionale e pertanto non possono essere trattati con i procedimenti legislativi e redigenti.

L’eventuale nuovo assetto della Commissione parlamentare per le questioni regionali con l’innesto di rappresentanti regionali, prefigurato dal disegno di legge di modifica del titolo V della parte II della Costituzione – peraltro a mio avviso per alcuni profili già direttamente attuabile a livello di regolamenti parlamentari – dovrebbe certamente innalzare il livello del confronto tra Parlamento nazionale e parlamenti regionali portandolo direttamente all’interno dell’attività legislativa nazionale, anche se sono convinto che questo debba essere solo un passaggio nella prospettiva della riforma strutturale del bicameralismo.

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