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Giorgio Lombardi


GIORGIO LOMBARDI, Direttore dell'Istituto studi sulle regioni "Massimo Severo Giannini" - CNR. Anzitutto, Presidente e signori, grazie per l'invito. Premetto che, più che come studioso, parlerò come direttore dell'Istituto sulle regioni, in quanto coinvolto in un'impresa molto delicata, cioè quella di accompagnare questa nuova fase delle regioni collaborando con la Camera dei deputati, altre istituzioni e il coordinamento dei presidenti dei consigli regionali.

Devo dire che dopo la riunione del 30 giugno si è lavorato moltissimo e che, a seguito di tante riunioni, si è prodotto un documento, d'intesa con l'Ufficio studi della Camera, che credo possa servire perché offre un quadro preciso, caratterizzato da una pregevole sintesi dello status della legislazione regionale in questo lungo periodo. Ciò è importante, in quanto evidenzia come la fase che si apre oggi meriti, da parte delle istituzioni, un'attenzione che finora non c'è stata. E' altresì importante che questa nuova forma di rapporto si innesti proprio in questo quadro rinnovato.

Non sono in grado di dire sette cose così intelligenti e precise, come ha fatto Sabino Cassese, ma, d'altra parte, non dobbiamo fare confronti. Volendo portare il mio piccolo contributo assieme a quello degli studiosi dell'Istituto regioni, mi limiterò a soffermarmi su due o tre punti.

In primo luogo, sottolineo che la nostra Costituzione nasceva non dico con un equivoco ma con una disarmonia, che notavo e notiamo nel fatto che vi sono un articolo 5 molto avanzato e un titolo V molto arretrato, perché quando si scrisse la Costituzione, le personalità che lavoravano nella Costituente non erano abituate al tipo di cultura alla quale ci ha abituato, dopo questi anni, l'importante scuola delle autonomie e del regionalismo. Erano personalità formate, sotto il profilo del diritto amministrativo, dalla cultura francese - cultura centralistica, semmai una ve ne fu - e dalla cultura sistematizzatrice tedesca che, pur avendo presente il federalismo nel proprio DNA, aveva però un vassallaggio culturale rispetto alla stessa cultura francese. In più, le nostre regioni nascevano dopo che vi era stata una partenza criptofederalista, essendo tale, infatti, il contenuto di quelle a statuto speciale. Mi spiego meglio: erano intanto regioni che nascevano sì con leggi costituzionali, ma si trattava di leggi costituzionali che erano state contrattate e che, ad un certo punto, dovevano tener conto di situazioni di margine nel nostro paese. E le situazioni di margine non esigono la normalità, bensì l'adattamento alle situazioni nuove.

Chiudiamo questo sguardo di insieme all'origine e ci spieghiamo anche perché, per quasi una generazione, le regioni siano rimaste ferme e quelle a statuto speciale piuttosto ridotte e tagliuzzate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che era una giurisprudenza non filoregionalista; se guardiamo, infatti, alle sentenze dal 1965 e a quelle di prima, per esempio a partire dal 1957, vediamo che sono molto diverse da quelle assunte dalla Corte costituzionale quando sono entrate in funzione le regioni a statuto ordinario. E lì comincia la scuola delle autonomie. Abbiamo poi in più una vicenda nuova, cioè la legge costituzionale n. 1. A questo punto, cosa c'è da dire? Il modello costituzionale era di separazione di ordinamenti, quello del titolo V; quello dell'articolo 5 era invece un modello di integrazione di ordinamenti. Oggi ritengo che sia il secondo quello che deve prevalere, proprio perché la nostra situazione è dettata dall'esigenza di avere forti autonomie locali, in primo luogo quelle regionali, e chiarezza nell'impostazione da parte dello Stato. Perché questo? E' semplice: perché le fonti da sole non bastano, come non basta più la tradizionale impostazione dei rapporti Stati membri-Stato centrale nel federalismo.

Il federalismo che abbiamo, guardando al diritto comparato, si è realizzato in Europa nello scorso secolo; quello degli Stati Uniti, due secoli fa, è il passaggio al federalismo moderno, dopo le esperienze del periodo medievale e quella moderna rappresentata dalle province unite d'Olanda, che sono il modello culto della Costituzione degli Stati Uniti, che ha migliorato e evitato gli errori di allora. Se guardiamo, però, l'Ottocento è quello che determina il federalismo quale noi lo conosciamo, e paradossalmente è un movimento di unità. Pensate: la Svizzera diventa un vero Stato federale solo dopo la guerra del Sonderbund, la Germania lo diventa quando la Prussia vince l'Austria e determina la sua egemonia; gli Stati Uniti diventano un vero Stato federale dopo la guerra di secessione. L'Ottocento è il periodo delle unificazioni. Oggi assistiamo ad un federalismo diverso, perché quello di adesso è quasi sempre un federalismo di scomposizione, per esempio quello belga, che è chiarissimo, e quello jugoslavo, a parte le patologie. L'esplosione dell'Unione Sovietica è la trasformazione del federalismo sovietico, che era uno pseudofederalismo perché l'elemento di unità era dato dalla forza del partito, dal centralismo democratico del partito; nella Costituzione dell'Unione Sovietica, dunque, poteva anche esserci, come nella Costituzione della Jugoslavia, il diritto di secessione. A questo punto, quindi, capiamo cosa vuol dire. E in un federalismo di questo tipo, l'articolo 5 della Costituzione è basilare non tanto perché parla di unità e indivisibilità della Repubblica - una formula retorica che ha la forza simbolica di un'ideologia - quanto perché in esso è detto che la Repubblica impronta la sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento. Il che vuol dire rispetto reciproco e collaborazione reciproca.

A questo punto, dunque, confermiamo delle idee che erano già maturate nella riunione del 30 giugno. Il problema non è quindi un rapporto esterno tra fonti - fonte statale e fonte regionale, come si è abituati a dire - ma un rapporto tra le istituzioni attraverso le fonti. Ciò vuol dire che non è un dialogo astratto tra la legge statale e quella regionale; è invece un rapporto forte tra l'istituzione regionale nelle sue diverse articolazioni, dove un ruolo fondamentale hanno i consigli, e l'istituzione statale attraverso le sue istituzioni rappresentative, cioè Camera, Senato, eccetera.

Ritengo che sia molto importante, nella riforma ultima, proprio la norma transitoria che riguarda la Commissione per le questioni regionali. Questa norma è fondamentale perché sarà lungo il cammino verso un bicameralismo autentico che tenga conto delle strutture federali. Ma questo è un avviamento importante, perché la Commissione per le questioni regionali - ricordo quanto proprio con essa si era detto in un convegno ad Aosta - potrà diventare l'istanza semplificatrice di iniziative che le regioni possono avere in Italia e all'estero (pensiamo ai rapporti transfrontalieri) e soprattutto potrà essere fondamentale proprio per quel rapporto di semplificazione e di collaborazione che sostituisce la forma contrasto con interessi nazionali alla quale, ben giustamente, si richiamava il Presidente Fisichella, perché le regioni non possono andare contro gli interessi nazionali. Ma il modo migliore non è quello di vederlo come la Costituzione, in astratto, bensì nella concretezza, attraverso l'integrazione degli ordinamenti. E' veramente questo il punto dal quale poi partono un'idea e una pratica federalistica.

Se dovessimo dire se oggi il federalismo è definibile, avrei molte incertezze, perché il diritto comparato ci fa presente che il federalismo tradizionale è là, ma vi sono altri federalismi che via via avvengono, e non c'è nessuna struttura più duttile delle strutture federali. Per uno che ha studiato il federalismo e l'ha visto nella sua evoluzione storica, è il luogo culturale della sperimentazione e dei rapporti tra ordinamenti, ed è un luogo privilegiato per la sua estrema molteplicità. Chissà, allora, che quello italiano non sia un modello nuovo e a parte di federalismo.

Dunque, la riforma che abbiamo e sulla quale l'Istituto ha svolto pochi giorni fa un forum importante, al quale hanno partecipato i migliori studiosi e protagonisti, oltre ai presidenti Pepe e Cerulli Irelli, vuol dire che potrebbe essere quello l'elemento per un progresso: non consideriamolo, cioè, un punto d'arrivo ma un punto di partenza.

Voglio dire, per ultimo, che la legge costituzionale approvata dalla Camera, che aspetta la sua conferma al Senato, secondo me dovrebbe avere uno sviluppo sotto il profilo della nozione di legislazione concorrente che contiene, e ritengo che non a caso abbiano dato quel nome. Facciamo infatti attenzione, perché tante volte quelli che possono apparire errori sono quelle che nel medioevo si chiamavano felices culpae, perché legislazione concorrente non è legislazione ripartita. Che il trattamento normativo che il testo dà sia vicino a un'idea di legislazione ripartita è vero, ma che sia totalmente in quel senso no, e su quello bisogna lavorare perché, ormai, le leggi di principio non si sa se avverranno; bisogna quindi contrattare a questo livello, in questa dinamica istituzionale, e qui è l'importanza di questo forum della Camera, perché può veramente essere una versione nuova della concorrenza legislativa.

Non dimentichiamo, infatti, che in Germania legislazione concorrente non vuol dire che concorrono sullo stesso oggetto due fonti: vuol dire che chi arriva prima prende, poi, ovviamente, lo Stato qualche volta può riprendere - ma lì la giurisprudenza costituzionale è molto severa - parte della competenza per ragioni comprovate di unità; è il dinamismo, cioè, di quello che il Presidente Fisichella chiamava il richiamo agli interessi nazionali. Quindi vi è molto da lavorare, e credo che il rapporto continuo che c'è e per il quale il nostro Istituto è pronto a dare tutto il contributo che può, anche con un rapporto più stretto, possa costituire uno degli elementi forti per far sì che, anziché occasioni di risse, questo nuovo federalismo in fieri sia una ragione di equilibrio e di discors concordia. I contrasti che come punto di riferimento hanno sempre l'interesse superiore della nazione hanno un valore che serve alla crescita democratica.

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