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Domenico Fisichella


PRESIDENTE. Do adesso la parola al presidente Fisichella, scusandomi con lui per non avergliela data prima.

DOMENICO FISICHELLA, Vicepresidente del Senato della Repubblica. Non è assolutamente un problema. Anzi, per me è stato interessante ascoltare quanto ha detto il presidente Louvin e il richiamo che egli ha fatto alle nuove sinergie. E’ evidente, infatti, che un problema di sinergie si pone.

Mi pare di cogliere, nei risultati dei lavori delle sessioni precedenti e anche nella documentazione che abbiamo avuto ieri con riferimento a questo incontro di studi, che una serie di problemi riguardi proprio le nuove forme di cooperazione tra organi legislativi, che non sono facili in un’epoca di transizione come quella che stiamo vivendo, nella quale le spinte al mutamento sono diversamente graduate ma spesso corrispondenti, a mio avviso, più ad aspettative di modelli astratti che al realismo delle possibilità e delle opportunità.

Perché dico questo, anche con riferimento al testo che è stato approvato alla Camera in prima lettura, di modifica al titolo V della parte seconda della Costituzione? Nel nostro paese e nel nostro dibattito ricorre la parola “federalismo”, che, in qualche modo, ha assunto anche caratteri magici. Tuttavia, la nozione di federalismo è ben lungi dall’essere puntualmente definita. Credo che questo sia un problema serio. Mi rendo conto, infatti, che talvolta si procede precisando le categorie concettuali in corso d’opera, però è anche vero che una definizione che debba essere puntuale e comunque calibrata sullo stato effettivo delle condizioni italiane rimane un’esigenza rispetto alla quale non possiamo mantenere un livello di equivoco troppo alto, altrimenti corriamo il rischio che ciascuno tiri la coperta dalla sua parte per precostituire situazioni di fatto che poi costringano, in qualche modo, l’impianto legislativo e costituzionale ad adeguarsi al fatto, piuttosto che delineare, in termini concreti e consensuali, un indirizzo condiviso. E questo insieme di fattori, uniti ad una molteplicità di altre situazioni - quali la documentazione che abbiamo oggi e i pregressi risultati di questi incontri di studio –, ha messo in evidenza, a me sembra, che ci troviamo di fronte ad una ambivalenza fondamentale dei rapporti tra Stato e Governo centrale da una parte, istituzioni regionali, giunta e consiglio dall’altra e, da un’altra parte ancora, enti locali.

Su questa ambivalenza - alimentata anche dall’incertezza su quali saranno, nell’attuale legislatura, per la parte che riusciremo ancora a fare di lavoro, e nella prossima legislatura, gli interventi di modifica dell’assetto costituzionale - , si iscrivono spinte di vario segno tese, di fatto, a precostituire situazioni di prevalenze.

A me pare che emergano, accanto ad aspetti certamente positivi ed interessanti, sui quali è stata richiamata l’attenzione, anche taluni elementi che, viceversa, destano una qualche inquietudine. E’ vero, infatti, che esiste un quadro di complessità, che certamente è un fattore che conferisce difficoltà ad ogni decisione, ad ogni indirizzo politico o di politica legislativa ed anche ad ogni indirizzo di metodo e, per certi aspetti, di procedura, ma nel concreto mi pare di cogliere che fra legislazione centrale e legislazione regionale si avvertano due o tre elementi che in qualche modo configurano, se non una patologia, una realtà meritevole di correzione. Vi è una concorrenza che non significa concorrere a qualcosa, forze che concorrono nel definire un impianto tendenzialmente unitario; vi è una concorrenza di legislazione che talvolta significa competizione, talvolta significa addirittura conflitto, cioè qualcosa che va oltre la competizione, la quale è un conflitto, per così dire, sulla base di regole del gioco; il conflitto non regolato, invece, è una mera situazione di fatto. Dall’altra parte – e anche oggi emerge questo aspetto – vi è una realtà che, nei lavori che ci sono stati proposti, viene definita di autonomia tra i due ambiti legislativi e che si esplica in una sorta di corsa in parallelo che, mentre per un verso non fa incontrare queste legislazioni, per altro verso può determinare aree di sovrapposizione di contenuti e di merito; per altro verso ancora, potendo dar luogo ad interazioni di intensità debole, può alimentare spinte di tipo centrifugo sulle quali, viceversa, bisognerebbe vigilare per evitare non soltanto quello che è uno dei grandi rischi del nostro tempo, che non riguarda soltanto l’esperienza italiana, cioè il rischio dell’elefantiasi legislativa, ma anche che quest’ultima si riverberi, dal punto di vista dei cittadini, in un sovraccarico delle norme alla lunga insostenibile.

Sono queste alcune delle osservazioni che volevo rapidissimamente richiamare, non senza aver messo in evidenza, peraltro, che il testo che è emerso dalla Camera, relativo al titolo V, modificando l’articolo 127 della Costituzione in maniera drastica ha abolito anche quel concetto di contrasto con gli interessi nazionali che ricorreva nella precedente formulazione e che, a mio avviso, viceversa, doveva restare un cardine per definire certi confini e per conferire al Governo centrale una sua capacità di guida generale, mancando la quale il rischio della centrifugazione cui prima accennavo diventa davvero molto più marcato. E’ un concetto, questo, di contrasto con gli interessi nazionali, che meritava di rimanere. Il Parlamento ha ritenuto di dover reintrodurre la nozione di sicurezza nazionale con riferimento al comportamento dei presidenti delle giunte e dei consigli regionali, che originariamente era stato omesso nel testo di revisione costituzionale, con riferimento, appunto, all’elezione diretta dei presidenti delle giunte e all’autonomia statutaria.

Mi sembra che questi siano due concetti fondamentali. Il primo è stato reintrodotto; il secondo, viceversa, ad oggi risulta cancellato. Non credo, per un rapporto chiaro fra regioni e Stato, che questo sia un viatico positivo, per cui ritengo che il Parlamento debba riflettervi.

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