RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 44

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE LEOPOLDO ELIA

INDI

DEL PRESIDENTE MASSIMO D'ALEMA




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La seduta comincia alle 15.50.


(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).


Seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.


PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
In questa seduta procederemo all'illustrazione degli emendamenti riferiti al testo sul sistema delle garanzie, di cui al relativo stampato in distribuzione (fascicolo n. 3).

PIETRO FOLENA. Signor presidente, abbiamo già avuto modo in sede di assunzione a base della discussione - con un voto a maggioranza della Commissione - del testo in esame, di esprimere un giudizio sul lavoro che ha svolto il Comitato sistema delle garanzie e sulla natura della proposta che viene avanzata. Si tratta di una buona base di lavoro, anche se perfettibile, migliorabile, che testimonia della serietà e, a mio modo di vedere, della capacità di ascolto reciproco che ha segnato le diverse parti politiche e i diversi commissari nell'ambito del lavoro del Comitato.
Si è trattato di un lavoro che ha avuto una forte esposizione pubblica, nell'ambito della quale non sono mancate incomprensioni e deformazioni a proposito di ciò di cui stavamo discutendo, e credo vada riconosciuto al relatore - lo voglio anche qui ribadire - un merito nella capacità notevole di saper procedere fino al punto di proporre alla nostra attenzione, con uno sforzo di equilibrio, un testo importante.
Importante anche perché è un testo che si inserisce nel solco del dettato della Costituzione del 1948, interrogandosi su come e dove introdurre significative novità: le novità, a mio avviso, sono due e vale la pena di tornare a ricordarle per poter illustrare meglio alcune delle modifiche che noi suggeriamo. La prima novità consiste in un disegno costituzionale nel quale crescono le garanzie e le libertà per i cittadini, con norme importanti come la costituzionalizzazione del difensore civico, l'istituzione delle autorità di garanzia indipendenti e di quelle di vigilanza; la seconda riguarda la giustizia e la costituzionalizzazione dei principi del giusto processo. Si possono comunque apportare miglioramenti e perfezionamenti e vi sono emendamenti importanti, che verranno illustrati da altri colleghi, con i quali si propongono alcune riformulazioni per quanto riguarda la difesa dei non abbienti e l'effettiva realizzazione di alcuni principi e valori contenuti nella prima parte della Costituzione.
Sempre in materia di garanzie e di libertà, credo importante il fatto che venga affermata la terzietà del giudice, sia attraverso indicazioni precise per quanto riguarda la procedura, che consistono nella costituzionalizzazione dei principi del processo accusatorio in materia penale,


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sia sul piano ordinamentale per quanto riguarda la futura collocazione del pubblico ministero rispetto al giudice giudicante. Ancora in materia di garanzie e di libertà, voglio ricordare norme significative come quelle della riserva di codice e delle modalità - su cui tornerò tra breve - del possibile ricorso diretto del cittadino alla Corte costituzionale.
Il secondo asse del lavoro svolto dal Comitato è rappresentato dall'accentuazione, anche in una logica sistemica, in relazione cioè alle scelte che veniamo operando a proposito della forma di governo e del sistema politico, dei presupposti di indipendenza della magistratura, di tutte le magistrature, quella amministrativa in primo luogo: ciò avviene estendendo allo stesso pubblico ministero prerogative di indipendenza che il Costituente del 1948 aveva previsto solo per il giudice, rafforzando il ruolo istituzionale del Consiglio superiore della magistratura e scorporando da esso, forse con la più significativa innovazione costituzionale che noi operiamo, questa Corte di giustizia dei magistrati che rappresenta un grande elemento di novità, perché tende ad affermare concretamente che il principio di responsabilità è intrinseco a quello di indipendenza.
Vi sono tuttavia alcuni problemi aperti, sui quali il nostro gruppo ha scelto di presentare degli emendamenti, sui quali invito il relatore ed i colleghi degli altri gruppi a riflettere, sempre in una logica costruttiva. Il primo, l'emendamento Salvi V.101.6, riguarda il pubblico ministero e concerne una riformulazione delle modalità del coordinamento; riteniamo infatti più chiaro ed efficace scrivere in una norma costituzionale in modo netto il principio tendente ad affermare il coordinamento interno dei singoli uffici del pubblico ministero, ferme restando le prerogative di indipendenza di ogni singolo magistrato del pubblico ministero. In secondo luogo, si prevede, in modo più pieno e più forte (ho già avuto modo di sostenerlo in diversi interventi in Comitato ed anche in sede plenaria), la possibilità di avere forme di coordinamento di attività investigative tra vari uffici del pubblico ministero, come oggi succede per ciò che riguarda la Direzione nazionale antimafia.
Questa formulazione ci pare più precisa ed efficace rispetto a quella che nel testo si riferisce all'unità di azione, termine che potrebbe far insorgere l'equivoco circa una possibile gerarchizzazione di tipo nazionale dell'ufficio del pubblico ministero, scelta che sarebbe negativa.
Una seconda norma che proponiamo di modificare riguarda le modalità del passaggio dall'una all'altra funzione: faccio riferimento all'emendamento Salvi V.106.8, che rappresenta una riscrittura della prima parte dell'articolo 106 proposto dal relatore; essa avrebbe il vantaggio di dare maggiore compattezza e pulizia alla norma. Insistiamo molto - è inutile che torni ora sull'argomento - su un pubblico ministero parte dell'ordine giudiziario, che si forma in una cultura comune della giurisdizione, pur non esercitando (nelle sue funzioni di pubblico ministero) funzioni di tipo giurisdizionale, perché siamo convinti che, in una prospettiva di affermazione piena delle garanzie e delle libertà dei cittadini, questa collocazione sia più propria e garantista. Essa, infatti, in qualche modo, accentua un obbligo che è già previsto nel nostro codice di procedura penale da parte del pubblico ministero nell'ambito del processo: quello non già di ottenere ad ogni costo la condanna dell'accusato, ma di non poter occultare o tacere elementi a discarico dell'indagato e dell'imputato, nella misura in cui ne venga a conoscenza.
Una prospettiva di questo tipo, che evidentemente imporrà sul terreno della legislazione ordinaria (ma di questo si potrà forse discutere in sede di formulazione di un ordine del giorno conclusivo) un ripensamento delle modalità attraverso cui si esercita l'azione di polizia giudiziaria, ci suggerisce di andare ad una norma che non ossifichi le modalità del passaggio da una funzione all'altra, ma le rinvii in modo più pieno alla legge ordinaria. Sarà la legge ordinaria che stabilirà se, dopo lo

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svolgimento della funzione di tipo giudicante collegiale da parte del nuovo magistrato (che anche noi prevediamo come obbligatoria), per il passaggio tra l'una e l'altra funzione dovrà essere previsto un concorso. Riteniamo più propria questa dizione anche in relazione all'ultimo comma dell'articolo 106, che non indicando le modalità attraverso le quali l'avvocato di domani potrà diventare magistrato (le rinvia alla legge ordinaria) fa anch'essa riferimento in qualche modo ad un principio di carattere generale. L'insieme di questi principi ci può far immaginare, un domani, avvocati, pubblici ministeri, giudici giudicanti che svolgendo funzioni diverse - anche conflittuali - nell'ambito del processo tuttavia si formano, crescono, appartengono ad una cultura di osmosi, di scambio, di intercambio continuo.
Un terzo aspetto di notevole importanza sul quale chiediamo l'attenzione dei colleghi riguarda il ruolo del Consiglio superiore della magistratura, sul quale noi proponiamo modifiche piuttosto sostanziali rispetto ad alcune delle soluzioni indicate nella bozza assunta come testo base.
La prima di queste novità riguarda la composizione del Consiglio superiore della magistratura. In sede di Comitato noi avevamo proposto il passaggio dall'attuale composizione (due terzi dei membri eletti dai magistrati, un terzo eletti dal Parlamento) ad una composizione tre quinti/due quinti in relazione ad un'ipotesi che in quel momento sembrava essere percorribile. Si era prospettata infatti la possibilità della costituzione di una sezione disciplinare composta per metà da togati e per metà da laici. Non vedevamo, quindi, ragioni per modificare - relativamente alle altre attività del Consiglio superiore della magistratura - il rapporto previsto dalla Costituzione vigente; per quanto riguardava l'attività disciplinare la modifica a cui ho fatto cenno avrebbe portato ad una composizione diversa, di tipo paritario. L'insieme della costruzione avrebbe giustificato una modifica costituzionale che portasse il rapporto a tre quinti/due quinti. Nel momento in cui il relatore ha imboccato un'altra strada, suggerita dai colleghi del nostro gruppo, cioè la creazione di un nuovo organismo di nomina dei due Consigli (non già, quindi, la sezione disciplinare composta per quote del 50 per cento da togati e da laici), noi non vediamo più ragione per modificare la composizione attualmente prevista dalla Costituzione.
Se la riforma del Consiglio superiore della magistratura dovesse consistere - alla fine dell'iter costituzionale - nell'aumento di due membri della componente laica, sinceramente avremmo fatto poca cosa e credo che offriremmo in modo anche abbastanza palese il destro a quelle critiche che indicavano come unica finalità della nostra riforma l'incremento di componenti di nomina, di legittimazione politica (non chiamiamoli politici perché politici non sono).
Nella misura in cui questa formulazione (che è molto soddisfacente) si tiene per quanto riguarda la corte di giustizia dei magistrati, siamo convinti che si possa e si debba tornare alla composizione di due terzi e un terzo tra togati e laici.
La seconda questione - come sanno anche i colleghi di altri gruppi, che la pensano in modo ben diverso da noi - è la più rilevante. Riguarda la costituzione di due sezioni (pubblico ministero, giudici giudicanti) nell'ambito del Consiglio superiore della magistratura. Innanzitutto una previsione del genere non può non avere in un'architettura costituzionale una sua proiezione anche sul Consiglio superiore della magistratura amministrativa, nella misura in cui di fatto si prevede l'istituzione di un pubblico ministero presso il giudice amministrativo per l'esercizio della responsabilità dei funzionari delle pubbliche amministrazioni. È quindi logico che, per un inevitabile equilibrio, anche nell'altro Consiglio si debba andare verso la costituzione di due sezioni.
In secondo luogo, la scelta pur essendo animata da un evidente intento di sottolineare la distinzione di funzioni tra pubblico ministero e giudice (distinzione che va sottolineata e che noi - con alcuni

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emendamenti - proponiamo di evidenziare ulteriormente), nella sua concretezza rischia di contraddire i fini per i quali è stata proposta. Rischiamo di enfatizzare fortemente l'autoreferenzialità del pubblico ministero, il quale deciderà autonomamente e corporativamente la propria carriera e tutte le proprie attività amministrative, in una evidente situazione di squilibrio dal punto di vista numerico (i pubblici ministeri sono 1.800; l'altra sezione dovrebbe occuparsi anche degli onorari delle magistrature, quindi vi sarebbe un evidente squilibrio). Inevitabilmente ciò porterebbe a delegare, ad accentrare, a spostare verso il lavoro delle sezioni riunite una enorme quantità di attività; sulle sezioni riunite inevitabilmente finirebbe per essere crescente il peso del pubblico ministero.
Alla fine, quindi, una norma pensata per sottolineare simbolicamente una distinzione finisce per stabilire di fatto una subordinazione del giudice giudicante rispetto al pubblico ministero nell'equilibrio di potere complessivo interno al Consiglio superiore della magistratura.
Ricordo, colleghi, che noi abbiamo proposto anche altre strade. Per esempio abbiamo ipotizzato di rapportare il numero dei pubblici ministeri da eleggere in Consiglio al numero complessivo dei pubblici ministeri operanti nella magistratura. Si tratterebbe di prevedere norme sul terreno della legge elettorale, misure che potremmo anche inserire in un apposito ordine del giorno per stabilire in modo chiaro una distinzione di funzioni e sancire che la rappresentanza dei giudicanti non possa essere penalizzata rispetto a quella dei requirenti. È un'ipotesi che ci farebbe avanzare nel nostro percorso. Temo, invece, che la strada indicata abbia prevalenti significati simbolici ed ideologici - che non mi sfuggono - e rischi di contraddire i presupposti da cui si è partiti.
Altro problema riguarda la necessità di definire in Costituzione in maniera più precisa i compiti e le materie del Consiglio superiore della magistratura. La formulazione a cui si è giunti come esito conclusivo di un lungo dibattito sui poteri e le competenze del Consiglio (si è discusso lungamente, anche in relazione ad improprie competenze politiche) rischia di essere restrittiva rispetto alle effettive competenze amministrative del Consiglio superiore della magistratura. La proposta del testo base prevede infatti una serie di materie di spettanza del Consiglio precedute dall'avverbio «esclusivamente». Noi abbiamo presentato l'emendamento Salvi V.105.3, tendente a sopprimere la parola «esclusivamente» e ad aggiungere - in fine - una parte riferita alle attività di tipo amministrativo del Consiglio, con esclusione quindi di improprie attività di altra natura. È una formulazione che sinceramente ci sembra più appropriata rispetto a quella contenuta nel testo base.
Vorrei infine svolgere una considerazione politica. Mi auguro che il dibattito di oggi possa proseguire nel tono di confronto e di reciproca ricerca che in tutte le fasi - dalle facili alle più difficili - ha ispirato il lavoro della Commissione. Questa speranza e questa convinzione derivano anche dal fatto che il lavoro della bicamerale sul complesso dei temi in esame è giunto ad un punto molto avanzato. Non mi nascondo che in materia di giustizia le differenze erano e restano profonde. Ma se sul testo proposto dal relatore si dovessero realizzare stravolgimenti gravi o inaccettabili, tali da rappresentare un ritorno indietro, un ritorno a prima dell'inizio dei lavori del Comitato, non si può non sottolineare che una scelta del genere significherebbe un aggravamento complessivo della situazione e non potrebbe non avere conseguenze di carattere più generale. Non vi è in questo riferimento alcun tono di minaccia; chiunque mi conosca sa che questo non è mia consuetudine. Lo dico perché abbiamo già compiuto un pezzo di strada insieme, pure nei dissensi che si sono registrati. È importante, quindi, che si introducano modifiche, ed io stesso ne ho proposte alcune che certo non rappresentano stravolgimenti inaccettabili, anche se sono significative; mi auguro che saranno accolte in uno spirito costruttivo. Spero che

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il senso di questa considerazione sia raccolto fino in fondo e ci possa magari aiutare a riprendere una sollecitazione già formulata dal presidente del Comitato e dallo stesso relatore, nonché da molti colleghi di diversi gruppi: sarebbe opportuno accompagnare la fase conclusiva dei lavori della bicamerale su questo punto anche con l'esame e l'approvazione di un ordine del giorno da inviare alle Commissioni di merito di Camera e Senato con riferimento ad alcuni urgenti provvedimenti in materia di giustizia che riteniamo coerenti con l'impianto costituzionale suggerito al Parlamento ed anche molto importanti per l'affermazione piena di quei principi di garanzia e di indipendenza che debbono ispirare una nuova politica della giustizia. Voglio allora rilanciare questa idea, questa proposta di un documento laterale ma di grande rilievo. Se i colleghi converranno, credo che nei prossimi giorni potremo trovare le formule più adatte perché i diversi commissari dalle varie parti politiche possano avanzare a tal fine le proprie proposte.

FAUSTO MARCHETTI. Signor presidente, abbiamo sempre sottolineato che in materia di giustizia è necessario un intervento del legislatore ordinario su diverse questioni; se vi saranno le condizioni per concordare nel merito un ordine del giorno che solleciti, inviti, auspichi un intervento del legislatore ordinario in materia, saremo senz'altro disponibili a dare il nostro consenso. Si tratta di stabilire quali misure suggerire come urgenti.
Per quanto concerne gli emendamenti da noi presentati non tornerò a richiamare le ragioni generali, le posizioni che abbiamo già espresso in sede di Comitato e di Commissione plenaria. Mi limiterò quindi a riferirmi alle principali proposte che abbiamo presentato per modificare il testo del relatore.
Continuiamo a non ravvisare ragioni valide per scegliere di costituzionalizzare gli istituti del difensore civico e delle cosiddette autorità indipendenti. Per questo proponiamo la soppressione degli articoli 97-bis e 99-bis.
Riteniamo che non vi debbano essere né giudici straordinari né giudici speciali. La proposta del relatore è di escludere la presenza di giudici straordinari, ma nel testo sopravvivono i giudici speciali; per questo non ci convince la soluzione proposta di escludere soltanto quelli straordinari e proponiamo la soppressione sia della parte riferita ai giudici straordinari sia della parte riguardante quelli speciali.
Di conseguenza proponiamo al quarto comma dell'articolo 102 una diversa soluzione per la materia tributaria.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Collega Marchetti, mi scusi, perché poi non risulti indebitamente resocontato il suo pensiero: lei ha parlato poco fa della soppressione della parte riguardante i giudici straordinari; in realtà lei parla della conferma dell'esclusione dei giudici straordinari. Dico questo perché il suo pensiero non venga tradito dal resoconto stenografico.

FAUSTO MARCHETTI. Il mio pensiero è così chiaro che credo non possa essere tradito: nel testo sopravvivono i giudici speciali; io chiedo che non vi siano né i giudici straordinari né i giudici speciali. Mi sembra chiarissimo, tant'è che nella proposta di modifica presentata dal relatore si prevede che la materia tributaria sia affidata a giudici speciali anche in secondo grado; noi proponiamo che questa materia sia attribuita a sezioni specializzate presso i giudici ordinari.
Naturalmente sappiamo che il passaggio dalla situazione attuale a quella che prospettiamo è complesso e prevediamo quindi che la legge disciplini modi e forme di questo passaggio.
Consideriamo grave la sottovalutazione del problema della giustizia tributaria attualmente assegnata a commissioni provinciali e regionali del tutto inadeguate a garantire imparzialità. Né tale garanzia può considerarsi, per così dire, recuperata dal ricorso finale in Cassazione. Il sistema a mio avviso deve essere completamente rivisto e per questo si propone una soluzione di vera garanzia giurisdizionale.


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Si parla tanto da qualche tempo di fisco, ma non si presta alcuna attenzione al problema della giustizia fiscale, sul quale intendiamo richiamare l'attenzione della Commissione sottolineando che il testo proposto, costituzionalizzando per la giustizia tributaria il giudice speciale anche per il secondo grado, rappresenta una soluzione negativa. So che l'intenzione del relatore è quella di affrontare in qualche modo questo problema; rispetto ad una disattenzione complessiva sulla questione, se ne è fatto carico, ma la soluzione proposta non mi convince. Consideriamo insufficiente l'innovazione relativa ai tribunali militari e chiediamo che siano istituiti solo in tempo di guerra con giurisdizione limitata ai reati militari commessi da appartenenti alle forze armate.
Riteniamo che il rapporto numerico tra le componenti dei laici e dei togati nel Consiglio superiore della magistratura ordinaria debba restare quello attualmente previsto dalla Costituzione e che lo stesso rapporto debba essere stabilito per il previsto nuovo Consiglio superiore della magistratura amministrativa. Nel Consiglio superiore della magistratura ordinaria, a nostro avviso, non deve esservi una sezione per i giudici ed una per i pubblici ministeri. È questa una conseguenza della scelta che condividiamo di sottoporre il PM soltanto alla legge; l'averne affermato giustamente - questo concetto è stato espresso dal relatore fin dalla prima delle bozze presentate - la sottoposizione soltanto alla legge rafforza la scelta che non vi sia una sezione per i giudici ed una per i pubblici ministeri, conforta nell'orientamento di non mutare l'attuale situazione.
Questo ci porta anche ad escludere ogni forma di gerarchizzazione tra i magistrati del pubblico ministero. Per questo proponiamo di sopprimere la previsione di norme volte ad assicurare l'unità d'azione dei relativi uffici e vediamo un'insidia per l'autonomo e indipendente esercizio dell'azione penale nella stessa indicazione del coordinamento interno, formula ambigua che può essere utilizzata per pervenire ad un condizionamento del singolo magistrato, del pubblico ministero.
So che alcuni colleghi, consapevoli di questo rischio ma nello stesso tempo sensibili ad un'esigenza che ha qualche fondamento oggettivo, hanno presentato formulazioni in base alle quali forme di coordinamento potrebbero essere sottratte a questo rischio cui facevo riferimento. Si tratterà di esaminare attentamente questi emendamenti, ma indubbiamente il solo coordinamento interno può prestarsi al rischio di un condizionamento del singolo magistrato, del pubblico ministero.
Consideriamo di grande importanza l'attribuzione ai magistrati amministrativi delle garanzie proprie dello status dei magistrati ordinari e proponiamo che nell'istituendo Consiglio superiore della magistratura amministrativa il rapporto tra laici e togati sia identico a quello già esistente nel Consiglio superiore della magistratura ordinaria.
Consideriamo opportuna una riflessione sulla funzione dell'istituenda Corte di giustizia della magistratura. Giustamente il collega Folena sottolineava che si tratta di un elemento di novità molto significativo; credo che qualche riflessione sia necessaria, mantenendo la scelta presente nel testo del relatore. Ci sembra che le funzioni attribuite a questa Corte debbano essere limitate alla materia disciplinare, escludendosi invece che questa possa essere anche organo di tutela giurisdizionale nei riguardi dei provvedimenti amministrativi dei consigli superiori. Avverso questi provvedimenti potrebbe essere previsto soltanto il ricorso in Cassazione per questioni di legittimità.
Devo dire che è questa una riflessione maturata negli ultimi giorni, poiché la soluzione che qui viene prospettata dal relatore aveva avuto anche il mio consenso. Tuttavia, riflettendo sulla soluzione alla quale anch'io avevo acconsentito, mi sembra che probabilmente il potere e le funzioni che andiamo ad attribuire a questa Corte siano eccessivi. Una riflessione sull'opportunità di mantenere la scelta, attribuendo tuttavia alla Corte così come configurata nella proposta del relatore

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soltanto la materia disciplinare, sarebbe a mio avviso auspicabile. Diversamente mi pare di intravedere il rischio che questa Corte diventi essa il vero Consiglio superiore della magistratura. L'idea di fondo resta dunque valida, ma si ravvisa l'esigenza di una riflessione sul complesso delle funzioni attribuite.
Anche una permanenza nella carica limitata a due anni mi sembrerebbe una soluzione opportuna; riprendo il concetto che avevo già espresso nel Comitato di non far durare in carica i membri della Corte per l'intera durata del Consiglio superiore della magistratura (allora si parlava ancora della commissione disciplinare). I membri della Corte dovrebbero dunque restare in carica per due anni per evitare un'eccessiva cristallizzazione dei ruoli, dalla quale deriverebbe un'estraneità dei membri della Corte rispetto all'esperienza più complessiva del Consiglio. Si tratta pur sempre di membri che, attraverso vari meccanismi, sono stati eletti nel Consiglio superiore per svolgere le funzioni complessive dello stesso, per cui probabilmente una riflessione su questo aspetto sarebbe auspicabile.
All'articolo 106 proponiamo di escludere il concorso per il passaggio dall'esercizio delle funzioni giudicanti a quelle del pubblico ministero, nonché qualche altra modifica di snellimento.
Sottolineiamo che all'articolo 107 ci appare non soltanto inaccettabile nel merito ma anzitutto contrastante con l'articolo 51, ultimo comma, della Costituzione la norma con la quale si condiziona la partecipazione dei magistrati alle competizioni elettorali alle dimissioni dal loro incarico; in altri termini, un magistrato per poter partecipare ad una tale competizione dovrebbe dimettersi, rinunciare al proprio lavoro, il che contrasta con l'articolo 51 inserito nella prima parte della Costituzione. Considero inammissibile una modifica di questo tipo dati i poteri della nostra Commissione.
Mi sembra inoltre pleonastica la norma che prevede che i magistrati si attengono ai principi di responsabilità, correttezza e riservatezza.
Credo sia opportuno fissare in Costituzione la titolarità dell'azione disciplinare, il che avviene nel testo proposto dal relatore, ma con una norma che poi consente alla legge ordinaria di individuare ulteriori soggetti che possono essere, sia pure subordinatamente, titolari dell'azione disciplinare. Considero del tutto inopportuna questa previsione - l'avevo già detto - perché o riteniamo che vi siano, oltre a quello già individuato, altri soggetti da individuare e allora, data la portata della questione, dobbiamo dirlo sin d'ora oppure, se non lo facciamo in questo momento, cioè in sede di revisione della Costituzione, ritengo non sia opportuno rinviare questa scelta alla legge ordinaria. In materia disciplinare proponiamo inoltre che la legge stabilisca tassativamente i casi e le modalità dell'esercizio dell'azione disciplinare.
Per quanto riguarda la Corte costituzionale dobbiamo tenere presenti le soluzioni che daremo alla questione della forma di governo. Abbiamo quindi presentato, fermo restando il numero complessivo proposto dal relatore, ipotesi di composizione diversa. È chiaro che bisognerà -ripeto - tenere conto della forma di governo che sarà adottata, perché la soluzione che sceglieremo non potrà non avere riflessi sulle attribuzioni del Presidente della Repubblica in ordine al potere dei giudici costituzionali.

TIZIANA PARENTI. Ho l'impressione che vi sia aria di smobilitazione, dovuta un po' ad una situazione complessiva, al termine di un lungo studio da parte nostra per evitare che qualsiasi cosa cambi; per non darne troppo l'apparenza abbiamo cercato, in questa come negli altri precedenti Comitati, che hanno quasi concluso il loro lavoro, di dare l'impressione ai cittadini che in realtà abbiamo effettuato cambiamenti. È questa un'opera di ingegneria funambolistica che potrebbe anche avere un merito, perché ci iscriverà nella storia dei camaleonti, cioè di quelli che fanno di tutto per non cambiare mai. Asseriscono che vi è stata una rivoluzione giudiziaria, che obiettivamente ha portato


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ad una delle peggiori reazioni che si siano mai conosciute nel nostro paese e ricompattiamo tutto il sistema dando ragione a tutti e torto ovviamente a nessuno. D'altra parte siamo molto impressionati dai migliori, da coloro che vogliono difendere la società e che in virtù di questa difesa fanno sparire nelle patrie galere singoli cittadini; patrie galere che sono l'esatta immagine di questo paese. Abbiamo molta paura perché chi cerca di far capire che la cultura di un paese è necessario farla crescere, soprattutto attraverso un dettato costituzionale, si espone ad elevati rischi personali. Verrebbe davvero da chiedersi se ne valga la pena: può darsi di sì, anche perché abbiamo la presunzione di pensare che questo paese abbia la nostra cultura. In una parte di esso certamente è così, la cultura che è stata qui espressa nella complessità dei suoi argomenti. Credo però vi sia un'altra parte del paese che ormai è molto delusa, perché le tante aspettative di una società finalmente civile, che si è organizzata politicamente in modo diverso, un paese davvero a consolidata democrazia, non vengono soddisfatte; essa pensa che dovrà aspettare altri cinquant'anni, con tutto ciò che può conseguire in questo arco di tempo che ci separa da qualcun altro che, con buona volontà, ma con molto insuccesso, farà la nostra operazione.
Ed allora facciamo finta di esaminare i nostri emendamenti, che riproducono, peraltro in peggio, la nostra Costituzione. Partirò proprio dal primo di essi. Non mi soffermo peraltro sulla proposta di istituzione del difensore civico, che mi auguro venga respinta, perché di baracconi in questo Stato già ve ne sono parecchi e non è il caso di accingersi a crearne altri.
Passo ora invece ad affrontare i temi della giustizia ordinaria, poiché anche quella amministrativa, in virtù di una forte lobby dei magistrati amministrativi, se non avesse il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, registrerebbe un grandissimo insuccesso. Vi saranno ancora grandi commistioni tra organo consultivo ed organo giurisdizionale; vi saranno ancora tutta una serie di situazioni relative all'attribuzione di incarichi ultramiliardari, di situazioni cioè che hanno contribuito enormemente alla corruzione di questo paese, ma tutto resterà pressoché uguale, con l'apparenza di esserci impegnati. Visto allora che in questo settore tutto resta uguale, vediamo cosa peggiora nell'ambito della magistratura ordinaria.
È molto semplice e partirei direttamente dall'articolo 101, che praticamente snatura anche tutte le sentenze della Corte costituzionale, che il nostro presidente sicuramente ben conosce. Ricordo che la Corte si era più volte affannata a dichiarare che i giudici sono indipendenti, mentre i magistrati singoli del pubblico ministero non lo possono essere, perché l'indipendenza è garantita all'ufficio, non al singolo. Ricordo, infatti, che la Corte con la sentenza n. 95 del 1975 ed una successiva del 1976 ha dichiarato proprio che «a differenza delle garanzie di indipendenza previste dall'articolo 101 della Costituzione, a presidio del singolo giudice, quelle che riguardano il pubblico ministero si riferiscono all'ufficio unitariamente inteso e non ai singoli componenti di esso». Ciò per un motivo abbastanza ovvio, ossia che l'indipendenza di un giudice non solo è garantita all'esterno e dall'esterno, ma soprattutto, in particolare, dall'interno. Abbiamo soprassalti di una coscienza molto falsa e molto ipocrita allorché scopriamo che vi sono anche carteggi dai quali risulta che il pubblico ministero dice «arrestami quello» ed il giudice risponde «se è per questo, lo abbiamo già arrestato, ma possiamo anche arrestarlo per un altro motivo». Salvo poi discutere del principio della giurisdizione, ossia che i pubblici ministeri devono avere una coscienza tale da assicurare la giurisdizione e i giudici devono averne pari. Ma si tratta invece di una mentalità inquisitoria dall'una come dall'altra parte. Questi soprassalti, dunque, questo piccolo clamore sono destinati a sopravvivere mezza giornata; per fortuna, a mio avviso, anche perché non si può creare un caso nella generalità dell'andamento delle situazioni e non si può trovare un capro espiatorio laddove sappiamo che le cose,

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purtroppo, sono andate e vanno così dappertutto. È un'ipocrisia dire che non c'eravamo. Non ci siamo mai stati! Non c'eravamo quando i pubblici ministeri erano ugualmente indipendenti ma il paese si andava corrompendo sempre di più; non c'era nessuno quando i giudici, a Milano come altrove, erano soggetti ai pubblici ministeri con insulti, minacce, estorsioni e così via; non c'era nessuno, per quanto i corridoi fossero frequentatissimi da bivacchi di giornalisti e da avvocati che andavano questuando; non c'era nessuno, salvo poi provare con la nostra mentalità ipocrita un soprassalto quando tutto ciò ci viene sbattuto in prima pagina.
L'articolo 101 costituzionalizza il peggio dell'esistente, ovverosia che ogni magistrato del pubblico ministero, essendo soggetto soltanto alla legge, e quindi ad un'interpretazione, a una scelta di quale legge applicare ed a chi, avrà sancito quello che si è detto per tanti anni (molti magistrati, anche negli anni settanta), ossia che quello di giudice imparziale è un concetto piccolo borghese. È questa la categoria di giudici che abbiamo allevato. Negli anni settanta si diceva che quello del giudice terzo era un concetto piccolo borghese; ritroviamo oggi questa affermazione come una mina all'interno di uno Stato di diritto. Non era un concetto piccolo borghese, era un concetto di alta democrazia che si è perso nel tempo. Adesso vogliamo invece rendere il pubblico ministero addirittura sovrastante il giudice sulla base della Costituzione. Diciamo che se il pubblico ministero non fosse soggetto soltanto alla legge, non sarebbe un organo di giustizia.
Diceva Bettiol che «è proprio dei regimi totalitari il concetto di voler considerare il pubblico ministero come organo della giustizia». Ovviamente, lo diceva tanti anni fa, ma è un monito che davvero vorrei fosse considerato. Affermava Calamandrei che non è possibile «mantenere il pubblico ministero nella situazione attuale» (quella che si vorrebbe oggi costituzionalizzare) «se si vogliono evitare i gravi inconvenienti verificatisi sotto il regime fascista e che potrebbero rinnovarsi sotto qualsiasi governo: che si verifichi, cioè, che gli stessi fatti siano considerati reati per appartenenti ad una determinata tendenza politica e per altri no». Poiché il futuro non ha memoria ed il passato ne ha ancora meno, mi pare che stiamo andando in una direzione completamente opposta.
Perché, a tale proposito, non cambia assolutamente nulla, anzi sicuramente si peggiora la situazione della Costituzione attuale? Perché noi non riconosciamo che esistono due status, due soggetti, due poteri che nella natura devono essere diversi, ovverosia il potere del pubblico ministero, assolutamente diverso da quello del giudice. Il giudice che giudica il caso concreto e specifico non può avere una mentalità inquisitoria. Noi ignoriamo che ognuno di noi è il prodotto di una cultura. Entrare in magistratura con un sistema burocratico come quello attuale senza alcun vaglio sulle attitudini del soggetto, sul suo equilibrio mentale, senza alcun vaglio sulle capacità, rischia di creare - e chissà che non sia mai avvenuto - anche dei mostri. Tuttavia noi vogliamo insistere e pensiamo che l'unico rimedio sia quello di passare da una regione ad un'altra, come se una persona diventasse più capace, cambiasse le sue categorie mentali, impostasse un lavoro nuovo passando da una regione ad un'altra. Pensate ai pubblici ministeri che ci hanno fatto vivere momenti «gloriosi» e che si considerano - ovviamente non so fino a che punto - i migliori, se andassero a fare i giudici. Pensate se un pubblico ministero che ritiene che il momento in cui si ammanetta una persona sia un momento magico, andasse a fare il giudice! Per voi sarebbe sufficiente che cambiasse regione per cambiare questa sua impostazione mentale? Vedete, non vorrei, se insistiamo - e mi pare che lo facciamo - in questa nostra concezione molto farisaica (sono molto pessimista, ma perché i fatti danno ragione al mio pessimismo) che accadesse qualcosa di analogo a quanto accade a chi pensa che sarà sempre sano prima di capire cosa significa essere ammalato,

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perché tutti siamo soggetti alla malattia come ad innumerevoli altri rischi, compreso quello di trovarsi in un sistema da cui non si esce se non completamente schiacciati e talvolta, anzi quasi sempre, senza essersi potuti difendere.
Se non pensiamo che l'approccio ad una professione così difficile e al tempo stesso così deformante abbia bisogno di una formazione iniziale in cui si valutino le specifiche idoneità, si valuti e si formi il soggetto anche tecnicamente per due lavori che sono tecnicamente diversi, credo che non comprendiamo cosa significhi svolgere un'attività di indagine o di giudizio. Peggioriamo addirittura l'ordinamento giudiziario che già non è bellissimo in sé - essendo una legge vecchissima - ma che già il Consiglio superiore con la sua strabiliante e arbitraria attività paranormativa ha contribuito enormemente a peggiorare. L'articolo 190 dell'ordinamento giudiziario prevedeva che il passaggio dalle funzioni di pubblico ministero a quelle di giudice potesse avvenire soltanto per ragioni di salute, durante la permanenza nel medesimo grado, debitamente accertate o in via eccezionale per gravi e giustificati motivi. Poneva quindi limiti fortissimi ad un passaggio da una parte all'altra. Il Consiglio superiore nel 1977 dichiarò non più vigente tale articolo.
Ci troviamo oggi in una situazione di complessità di una società che molto probabilmente è sempre più criminale in tutti i suoi aspetti, soprattutto quello della corruzione: è una società corrotta nella mente perché è sempre pronta a vendersi a qualcuno, chiunque esso sia, pur di averne dei benefici e riteniamo che un lavoro così difficile possa essere svolto indifferentemente da una parte e dall'altra: basta cambiare regione.
È scritto nel testo che bisogna garantire un equo processo. Il Parlamento europeo ha detto una cosa molto più precisa, cioè che per garantire un equo processo occorre la terzietà istituzionale - perché l'imparzialità è una caratteristica della persona - del giudice giudicante attraverso la separazione delle carriere di magistrato inquirente e di magistrato giudicante. Allora è possibile garantire un equo processo, perché se non abbiamo lo strumento per garantirlo affermiamo solo una speranza che non servirà a nulla.
D'altra parte, nelle risoluzioni più volte adottate dai congressi delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine si prescrive che devono essere assicurati standard elevati di addestramento professionale, che la selezione e la carriera devono essere basate sul merito e regolate da procedure corrette ed imparziali, che gli uffici del pubblico ministero devono essere rigorosamente separati dalle funzioni giudiziarie, che devono essere adottate linee guida per aumentare il loro potere decisionale affinché la loro discrezionalità sia assoggettata al principio democratico della responsabilità.
Mi dispiace dirlo per la stima e l'amicizia per il relatore e per il grande sforzo che ha fatto, ma sicuramente con questo testo non garantiamo il principio democratico di responsabilità. Diciamo che l'azione penale è obbligatoria e che la legge farà di tutto per renderla tale - come se ciò fosse possibile - ma anche questa è una tautologia; sappiamo che non verrà mai attuata, lasciamo la discrezionalità e l'arbitrarietà dell'azione penale, lasciamo un corpo separato dello Stato senza alcun tipo di responsabilità. Questo sembra preoccupare una minoranza di parlamentari qui presenti, ma sembra preoccupare una maggioranza di questo paese: il quorum più elevato tra gli ultimi referendum è stato raggiunto da quello riguardante la magistratura.
Questo principio non ha mai avuto fortuna in questo paese. Non amo appropriarmi delle idee di nessuno, ma credo che a volte sia necessario ricordare le idee anche nel rispetto di chi non c'è più. Qualche tempo fa, con uno strano sussulto immediatamente rientrato, il dottor De Rita mise in guardia dalla possibilità che pubblici ministeri privi di responsabilità abbiano avuto nel passato e possano avere nel presente e nel futuro connivenze con centri occulti. Peccato non abbia detto di più e che immediatamente si sia chiuso

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nel silenzio, quasi disconoscendo quanto aveva detto: evidentemente non siamo un popolo di eroi.
Falcone diceva di condividere l'analisi secondo cui, in mancanza di controlli istituzionali sull'attività del PM, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti con centri occulti di potere possano influenzare l'esercizio di tale attività. Sembra giunto quindi il momento di razionalizzare e coordinare l'attività del pubblico ministero, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell'obbligatorietà dell'azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli sulla sua attività. Al Consiglio superiore Falcone fu processato anche e soprattutto da eminenti esponenti della sinistra, che lo ritenevano un eretico. E così finì tristemente anche una storia.
Facciamo adesso la stessa cosa. Lo facciamo per paura? Probabilmente. Lo facciamo perché abbiamo paura che qualcuno sappia, e noi sappiamo che molti sanno? Può darsi. Però, al di là delle nostre paure, c'è un paese che avrebbe bisogno che il principio di responsabilità fosse affermato per tutti, per i parlamentari, per i cittadini, per i magistrati e che vi fosse la sicurezza che, comunque le indagini vengano fatte, ci sarà un giudice che saprà giudicarne la legalità, la legittimità e la fondatezza. Nessun cittadino oggi può essere sicuro di questo; può avere la fortuna di trovare una persona di coscienza, di trovare qualcuno più coraggioso di altri perché non è legato al carro di correnti, a intimidazioni, ad aspettative di carriera, ma quella speranza o quella fortuna non sempre può essere soddisfatta.
È certo che una legge è un prodotto della cultura di un paese, in questo caso di chi lo rappresenta a torto o a ragione, ma la Costituzione dovrebbe andare al di là delle nostre paure, dei nostri interessi e anche della nostra giusta aspirazione di tranquillità. Distruggere una persona è molto più facile che tirargli una revolverata. Però, se ci siamo assunti il compito arduo e talvolta anche impopolare di dare un fondamento più saldo, dopo i tanti disastri, instabilità e misteri di questo paese, se vogliamo creare un principio di responsabilità democratica di tutti, se una Costituzione ha anche il compito di formare la cultura e la coscienza di un paese, non dovremmo perdere - come probabilmente perderemo - questa occasione di scegliere. Il grande problema di questo paese è che non ha scelto mai, perché scegliere comporta sempre responsabilità e rischi. Se non assumiamo la responsabilità di scegliere adesso, stiamo dalla parte di chi ha scelto delle battaglie sbagliate e ce ne accorgeremo quando gli atti di cannibalismo posti in essere anche dalla magistratura nei confronti di se stessa saranno tali che non potremo più trovare adeguato rimedio.

GIOVANNI PELLEGRINO. Come i colleghi avranno notato, ho sottoscritto pochissimi emendamenti al testo Boato; l'ho fatto perché credo che quello al nostro esame sia un buon testo e che per questo non meriti le critiche aprioristiche, pregiudiziali e feroci che ha ricevuto negli ultimi giorni. Tali critiche però a mio avviso non sono senza ragione: il testo Boato è criticato perché è un buon testo.
Siamo uno strano paese e probabilmente il suo ceto dirigente ha alcune particolarità: a parole siamo tutti innovatori, ma a condizione che l'innovazione non ci riguardi personalmente e non riguardi la categoria di cui facciamo parte. Nel momento in cui un privilegio o una situazione di comodità che ci riguarda viene in qualche modo messa in discussione, immediatamente lo spirito innovatore si raffredda e ci domandiamo se non sia meglio lasciare le cose come stanno o modificarle per quel poco che serva a lasciarle sostanzialmente come sono. Non mi ha meravigliato, quindi, che il testo Boato abbia avuto tante critiche: non piace al Consiglio di Stato, alla Corte dei conti, ai TAR, ai pubblici ministeri, ai giudici ordinari, agli avvocati. Nel suo insieme la corporazione dei lawyers e le subcorporazioni sono insorte e hanno gridato allo scandalo. Si voleva innovare, si voleva modificare qualcosa.


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Vorrei dire all'onorevole Parenti che condivido le sue paure: ho letto il fascicolo degli emendamenti e lo spettro di una sostanziale conservazione è evidentissimo. Ma noi facciamo il gioco di questa volontà conservatrice e già restauratrice rispetto a una bozza di riforma che abbiamo all'esame, se non riusciamo a cogliere in essa il complessivo elemento di novità e se, rispetto ad aspetti di questo testo che non ci convincono pienamente o che non riusciamo fino in fondo a capire, usiamo un tono ingiustamente stroncatorio; se non capiamo l'importanza che ha in questo testo la previsione costituzionale delle autorità indipendenti e se ne propone la soppressione, come nell'emendamento Buttiglione-Dentamaro; se, pur di modificare quell'accenno alla possibilità dell'impugnazione in unico grado, proponiamo emendamenti che corrono il rischio di costituzionalizzare il doppio grado di giurisdizione, il che ci porterebbe a modificare subito il codice di procedura civile che prevede molti casi di impugnazione in unico grado, a cominciare da quello dei lodi arbitrali.
Se non si comprende l'elemento di novità che è contenuto nella normativa del testo Boato sui giudici speciali, il disegno complessivo sfugge, si formulano critiche aspre e ingiustificate e, involontariamente, si fa il gioco complessivo di quanti, per motivi diversi, vorrebbero che in questo delicato settore le cose restassero come sono o restassero sostanzialmente come sono, con mutamenti soltanto di facciata.
Il testo Boato è un buon testo, innanzitutto perché rispetta in pieno il valore dell'indipendenza e dell'autonomia della giurisdizione; anzi, lo esalta perché estende la garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza a ordini giudiziari che fino adesso non avevano quella garanzia, per lo meno non l'avevano elevata a rango costituzionale.
Detto questo, vorrei spiegare subito perché ho firmato l'emendamento V.104.16, cioè quello che riporta il rapporto fra membri laici e membri togati del CSM da tre quinti a due terzi. Devo dire, dopo aver ascoltato il collega Folena, che l'ho fatto per motivi probabilmente diversi da quelli che hanno indotto altri colleghi del mio gruppo a sottoscriverlo. Il problema è che quando uno dei maggiori giuristi italiani scrive su uno dei quotidiani a maggiore diffusione che si incrina l'autonomia della magistratura perché si sposta il rapporto da due terzi a tre quinti, il che significa che i membri laici salgono da 10 a 12 e i membri togati scendono da 20 a 18, a me sembra che il modo migliore di rispondere a chi sostiene una cosa di questo genere sia quello di dire che non ce ne importa niente: o 10 o 12 è la stessa cosa; o 18 o 20 è la stessa cosa. Quindi, il motivo per cui ho sottoscritto quell'emendamento è questo. Io polemizzo contro questo modo fuorviante di trattare problemi delicati, perché, in realtà, erano altri punti fortemente innovatori del testo Boato che, evidentemente, non piacevano.
È un buon testo perché insieme modernizza e semplifica il sistema complessivo delle giurisdizioni, incide profondamente sull'ordinamento attuale, un ordinamento che deve ad un suo eccesso di complessità e alla sua sostanziale vecchiezza la sua permanente inefficienza, che è il vero problema che abbiamo davanti e che ci pone drammaticamente fuori dell'Europa e, in certa misura, direi fuori del mondo civilizzato. Un sistema complessivamente inefficiente che recupera un'efficienza soltanto quando è afflittivo, e come tale manca alla sua complessiva e alta funzione regolatrice.
Il testo Boato rispetta l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, ma mantiene all'interno della giurisdizione un benefico pluralismo che è pronubo di una benefica dialettica.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MASSIMO D'ALEMA

GIOVANNI PELLEGRINO. Io non penso che la comune cultura della giurisdizione possa naturalmente albergare nella testa, nell'animo di chi svolge funzioni differenti, perché, in realtà, il nostro


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modo di pensare e di operare è fortemente influenzato dalle funzioni che svolgiamo. La comune cultura della giurisdizione nasce da una dialettica fra culture che sono onticamente diverse: la cultura dell'accusa, la cultura della difesa, la cultura del giudizio. E il testo Boato si muove in questa direzione attraverso una trasparente architettura istituzionale che è visibile nell'articolazione del CSM, nelle due sezioni del pubblico ministero e della magistratura giudicante. Mi meraviglio che sfugga all'onorevole Parenti il forte elemento di novità che è in questa strutturazione del CSM.
E vorrei dire che in qualche modo questa dialettica fra culture diverse diventa istituzionalmente visibile nella presenza dei due consigli superiori della magistratura e nel raccordo che fra i due consigli superiori della magistratura viene stabilito attraverso quest'organo nuovo a cui abbiamo pensato. Qui condivido quello che ha detto Folena: la grande novità istituzionale, perché è il modo, direi la scelta di architettura istituzionale che rende visibile quel principio di unitarietà funzionale della giurisdizione. E in questo è apprezzabile il testo che abbiamo davanti, nell'aver rifiutato l'idea dell'unicità della giurisdizione, perché ciò che non funziona non è l'autonomia, non è l'indipendenza, che sono valori che riteniamo importanti, direi quasi sacri, ma che sicuramente si affermeranno sempre di più nel mondo che verrà; ciò che fa paura è un mondo del controllo giurisdizionale sostanzialmente monolitico. L'equilibrio lo si raggiunge non limitandone gli ambiti ma inserendo al suo interno principi di dialettica che determinano equilibrio.
Direi che l'aspetto di novità principale sta però nell'attenzione che il testo Boato ha dedicato a un tipo di giudice che, in realtà, nella polemica sui media di questi anni è rimasto sempre sullo sfondo, pur svolgendo una funzione importantissima. Non c'è dubbio che oggi il giudice amministrativo sposti più ricchezza di quanta ne sposti il giudice ordinario come giudice civile.
Vorrei qui spiegare brevemente perché ho sottoscritto l'emendamento V.102.3. È importantissimo questo passaggio dal criterio di riparto della giurisdizione fondato su interessi legittimi e diritti soggettivi a un criterio di riparto sostanzialmente della competenza fondato per materie. Personalmente, non dimenticherò mai un caso in cui dovevo assistere la vedova di un mio amico: mi trovai di fronte a un problema così complesso che proposi un ricorso al giudice del lavoro, un ricorso al TAR, un ricorso alla Corte dei conti e un regolamento preventivo di giurisdizione per farmi dire subito dalle sezioni unite della Cassazione quale giudice era quello ben scelto. Noi non possiamo consentirci, andando nel terzo millennio, un sistema di questo tipo. Quindi, beneficamente, semplificando nell'accorpamento fra giudice contabile e giudice amministrativo, il testo Boato prevede una ripartizione della competenza per materie.
Nel dibattito che è sorto ci si è però domandati: queste materie può il legislatore ordinario sceglierle liberamente o è opportuno che gli sia dato un indirizzo attraverso una clausola generale? E ci si è ancora domandati: nel momento in cui, per la dinamica della effettività, ci si trovi di fronte a un caso dove è dubbia l'appartenenza all'una o all'altra materia, non è comunque opportuna una clausola generale che possa guidare non solo il legislatore ordinario ma anche l'interprete in sede applicativa? La risposta prevalente è stata di tipo positivo, e per questo abbiamo proposto, con i colleghi che con me hanno sottoscritto quell'emendamento, una clausola di tipo generale, che però non è fondata su un criterio esclusivamente soggettivo, quale quello che potrebbe essere per le controversie contro la pubblica amministrazione. Non lo è perché nel momento in cui facciamo legislazione costituente, la presbiopia è l'atteggiamento visivo che più ci si adatta: noi dobbiamo cioè cercare di immaginare qual è il mondo futuro. Allora il problema è: che cosa sarà la pubblica amministrazione nel futuro? Che cosa sarà la pubblica amministrazione nel momento in cui

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alcune regole che abbiamo inserito giorni or sono nel testo costituzionale avranno cominciato a funzionare? Che cosa sarà la pubblica amministrazione nel momento in cui alcune funzioni saranno ad essa attribuite soltanto in quanto l'autonomia privata non riesca a svolgerle in maniera adeguata? Cioè, noi possiamo facilmente pensare ad un avvenire in cui il giudice amministrativo sarà un giudice sostanziale della complessità e in controversie nelle quali non sia parte quello che noi vediamo o immaginiamo essere in senso proprio la pubblica amministrazione.
Quindi, la formula suscettibile di precisazioni e di miglioramenti che abbiamo adottato è: controversie nei confronti della pubblica amministrazione e nel settore dei pubblici servizi.
Condivido quello che ha detto il collega Folena: è opportuno che il testo Boato non sia stravolto. Ma direi che in questo ognuno di noi dovrebbe provare a dare il buon esempio esercitando in maniera estremamente parca la funzione emendativa. È però un problema che riguarda tutti. Vedo con chiarezza questo rischio: se ciascuno di noi assume la difesa di un singolo interesse settoriale, anche nobile in sé considerato, perché vuole modificare quella parte del testo Boato che personalmente non gradisce, finiamo per perdere di vista l'architettura complessiva, e il sistema delle garanzie finirà per restare sostanzialmente inalterato. Quindi, continueremo ad avere il sistema attuale che - ripeto - si caratterizza per la sua complessiva inefficienza e per il fatto di acquistare efficienza soltanto quando è afflittivo. È un sistema che, come dicevo prima, non adempie al suo compito regolatore. Se lo lasceremo inalterato, noi non avremo adempiuto al compito di riforma che la legge istitutiva della Commissione ci assegnava.

MARIO GRECO. Signor presidente, cercherò di essere breve per diverse ragioni. Innanzitutto, perché molti degli emendamenti a mia firma sono comuni ad altri presentati da altri colleghi, per cui risultano in parte già compiutamente illustrati da chi mi ha preceduto e sono certo che ulteriori illustrazioni verranno da coloro che mi seguiranno. Mi sforzerò di limitarmi a richiamare la vostra cortese attenzione su tre punti principali, anch'essi in parte brillantemente già trattati dalla collega Parenti: esercizio dell'azione penale; separazione dei ruoli; Consiglio superiore della magistratura. Affronterò questi tre problemi con osservazioni anche di carattere generale, perché avremo poi modo di scendere nel particolare in sede di illustrazione degli emendamenti, che mi auspico possano essere utili per rafforzare la comune volontà di compiere qualche altro passo in avanti, più coraggioso, sulla strada della riforma del Titolo IV della Costituzione.
Innanzitutto, non credo che sia superfluo, non tanto per noi quanto per chi ci leggerà o ci ascolta dall'esterno, sottolineare che non ci sono mai stati in nessuno di noi e non ci sono tuttora in nessuna delle nostre proposizioni intenti di una inutile conflittualità di polemica con l'ordine giudiziario, nel tentativo da parte nostra, di noi politici - come spesso si è letto anche sui giornali, in particolar modo da una certa parte della magistratura requirente - di comprimere l'indipendenza e l'autonomia della magistratura.
Credo che sarebbe un grosso errore rappresentare il nostro lavoro in questi termini; più che riduttivo sarebbe fuorviante questo tipo di rappresentazione dei nostri sforzi. Come è stato già detto ci stiamo tutti sforzando per soddisfare le esigenze di giustizia avvertite dai cittadini, l'esigenza di rafforzare la garanzia dei diritti primari. Chiariamo a noi stessi e agli altri che indipendenza e autonomia - a queste due guarentigie hanno fatto riferimento altri colleghi - sono state concepite non come privilegi della magistratura fini a se stessi, ma come mezzi affinché l'ordine giudiziario potesse meglio tutelare i diritti primari fissati nella prima parte della Costituzione e cioè inviolabilità delle libertà personali e della difesa in ogni stato e grado del procedimento (articoli 13 e 14 della Costituzione),


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uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (articolo 3). Indipendenza ed autonomia non possono e non devono essere gestite fino all'arbitrio, all'abuso, all'invasione di altre sfere di competenza. In un regime di democrazia costituzionale come il nostro non credo si possa giungere ad affermare che non sono consentiti controlli e limiti all'indipendenza e all'autonomia della magistratura, soprattutto in considerazione di un innegabile ruolo politico assunto da quest'ultima sia pure per ragioni obiettive, tra cui la crisi delle organizzazioni sindacali e politiche.
I nostri emendamenti, esimio relatore, tendono ad evitare che il potere giudiziario rappresenti una seria minaccia per lo stato di diritto da parte di chi gestisce le regole, che anziché esaltarle le travolge sull'altare degli obiettivi. Queste parole non sono mie ma sono state pronunciate dal presidente nel CNEL, al quale ha fatto riferimento l'onorevole Parenti richiamando un altro tipo di preoccupazione.
Da qui discende la necessità di trovare dei correttivi seri all'esercizio dell'azione penale che da obbligatorio - lo abbiamo riconosciuto ormai quasi tutti - sul piano concreto è divenuto discrezionale, facoltativo. È stato detto e riconosciuto che in questa discrezionalità si annida l'uso politico della magistratura. Il rischio maggiore dell'uso discrezionale dell'azione penale è che un qualsiasi procuratore scelga la persona che vuole colpire, piuttosto che il reato che occorre perseguire.
Abbiamo concordato che non basta affermare in linea di principio che il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale, ma che occorre per legge fissare misure idonee per assicurarne l'effettivo esercizio. L'onorevole Parenti poco fa ha richiamato la nostra attenzione su questo aspetto; ora dobbiamo vedere come la legge, sul piano concreto, possa assicurare queste misure. Credo che occorra sollecitare un sistema di controlli interni ed esterni, perché altrimenti i pubblici ministeri continuerebbero a non rispondere ad alcuno delle proprie scelte, né al procuratore capo, né al Consiglio superiore della magistratura, né al ministro.
Pochi giorni fa tutti abbiamo letto quello che è stato non un grido di allarme ma una voce che ha rotto il muro del silenzio della magistratura giudicante nei confronti dello strapotere di quella requirente, una voce apparsa in un articolo scritto su un quotidiano da un magistrato del tribunale di Firenze stanco di vedere quotidianamente raggirato il principio dell'articolo 112 della Costituzione. Egli ha rilevato che in Italia esistono non 150 procure ma 2000 sostituti procuratori che gestiscono la propria polizia giudiziaria, la propria fettina di potere e che esercitano l'azione penale senza essere chiamati a risponderne ad alcuno.
Pur rendendoci conto che non sono modifiche risolutive per quanto riguarda la discrezionalità politica dei pubblici ministeri, abbiamo ritenuto che accanto alla determinazione per legge di misure idonee per l'esercizio effettivo dell'azione penale, si potesse prevedere l'improcedibilità nei casi di inoffensività o tenuità del fatto, come già previsto nell'ordinamento tedesco. Più incisiva rispetto a queste di dettaglio è la proposizione, colta dal relatore, di attribuire al ministro di grazia e giustizia il potere di riferire annualmente al Parlamento sullo stato della giustizia, sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine. Una costituzionalizzazione questa che correttamente potrebbe assegnare un certo controllo della politica criminale ad un organo elettivo qual è il Parlamento sottoposto al controllo popolare ad ogni scadenza elettorale, anziché a soggetti che, superato un concorso, non si sottopongono e non vogliono essere sottoposti ad alcun controllo e gestiscono l'azione penale sino a 72 anni di età.
In ordine all'articolo 106, non ci soddisfa la formulazione del testo approvato a maggioranza poiché non riteniamo che sia efficace, per un'effettiva e completa garanzia della terzietà del giudice, la previsione di una separazione delle funzioni sia pure innovata rispetto a quanto già contenuto nella Costituzione.

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Abbiamo proposto che si vada oltre la distinzione delle funzioni, per pervenire ad una separazione dei ruoli, con accesso mediante concorsi separati per magistrati giudicanti e requirenti. Essere parte accusatrice costituisce già una prerogativa importante; bisogna guardarsi dall'aggiungervi anche il diritto di immischiarsi nella funzione del giudice - è stato scritto da un buon giurista - perché ormai non ci si può fidare più di un pubblico ministero che, dismessa la veste dell'accusatore, passa a fare il giudice, talvolta anche come dirigente. Notizie recenti sul capo della procura di Milano ci debbono far riflettere in questo senso.
Inutile dire che il pubblico ministero è una parte imparziale, così come alcuni magistrati si sono affannati a dire. Il pubblico ministero è parte e basta, così come parte è la difesa. Il nostro sistema processuale ormai ha acquisito un carattere esclusivamente triadico, accusa, difesa, giudice e noi riteniamo che la contiguità, la colleganza, la comunanza di carriere tra pubblico ministero e giudice - e io dico anche l'accesso con un unico concorso - costituiscano, così come ci dimostrano alcuni fatti recenti e meno recenti, un serio pericolo per l'imparzialità e la terzietà del giudice. Quanto più si spezzano questi vincoli, tanto più ne possono guadagnare la terzietà e l'imparzialità della magistratura giudicante. Prevedere un accesso con concorsi differenziati, a nostro parere, significa anche garantire una maggiore professionalità investigativa dei magistrati requirenti, che altrimenti continuerebbero ad essere dipendenti dai rapporti della polizia giudiziaria, dai collaboratori di giustizia, dalle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche da parte dei periti.
In una società sempre più specialistica - è stato scritto - è indubbio che le qualità professionali, il tipo di cultura, le conoscenze tecniche debbono essere diverse a seconda che si sia chiamati a cercare le prove ovvero a giudicare. A questo punto richiamo quello che è stato detto poc'anzi dall'onorevole Folena, nel momento in cui ha cercato di dimostrare come il nostro codice di procedura penale abbia già una norma che impone al pubblico ministero la ricerca della verità o delle prove a discarico. Io non ci credo perché l'articolo 358 del codice di procedura penale non impone al pubblico ministero alcun obbligo ma solo una facoltà, che purtroppo non viene mai esercitata dai giudici e dai magistrati, si dice per mancanza di tempo o per economia processuale, ma molti altri, il comune cittadino, gli avvocati invece sospettano per ben altri motivi e cioè perché non vogliono ricercarla, nel momento in cui si prefiggono determinati obiettivi, quegli obiettivi ai quali faceva riferimento il presidente del CNEL.
Farò ora un breve cenno sulla struttura e la composizione del Consiglio superiore della magistratura e cioè sull'articolo 105 della Costituzione. Vorremmo che il Consiglio superiore della magistratura perdesse completamente la caratterizzazione di organo di amministrazione e giurisdizione domestica, o meglio, come č stato detto addomesticata.
Insistiamo quindi perché il Consiglio superiore della magistratura, o in subordine le sue due sezioni, abbiano una composizione paritaria tra togati e laici, questi ultimi scelti tra i professori ordinari dell'università in materie giuridiche, avvocati con quindici anni di servizio o - abbiamo aggiunto in alcuni emendamenti - iscritti all'albo speciale delle giurisdizioni superiori. Si tratta di una categoria molto spesso trascurata della quale alcuni di noi si sono ricordati soprattutto nel momento in cui ci siamo occupati anche di una riforma dell'ordinamento professionale forense. Queste categorie certamente non rappresentano corporazioni né una longa manus del potere politico.
A nostro parere all'avvocatura italiana deve essere riconosciuta la piena titolarietà e legittimazione per essere considerata una componente essenziale della giurisdizione, altrimenti non ci sapremmo spiegare la ratio della legge n. 374 del

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1991, che ha previsto la presenza di avvocati designati dai consigli forensi nei consigli giudiziari, sia pure al fine limitato dell'espressione di un parere sulle nomine dei giudici di pace, né noi della Commissione giustizia del Senato ci sapremmo spiegare perché recentemente abbiamo dato attuazione all'articolo 106, terzo comma, nel momento in cui abbiamo finalmente ammesso nel supremo collegio della Cassazione professori ed avvocati per meriti insigni. Ciò significa che il legislatore anche ordinario ha considerato i rappresentanti dell'avvocatura componenti essenziali della giurisdizione.
In un momento in cui si dice che sono state superate tante divergenze, che sono stati sciolti tanti nodi e che vi sono buone ragioni per ritenere che questa Commissione riuscirà a dare un grosso contributo alla costruzione di uno Stato snello, di un Parlamento efficiente nelle sue funzioni di controllo e di legislazione e di un Governo forte, sarebbe veramente un peccato non compiere altri sforzi per trovare ulteriori punti di incontro, affinché sia migliorato il quadro del sistema delle garanzie del nostro paese che deve adeguarsi non solo ai parametri economico-monetari di Maastricht, ma anche e soprattutto a quelli della grande civiltà giuridica di tanti paesi europei - cui ha fatto riferimento anche il senatore Pellegrino - ove da tempo i cittadini sono veramente uguali davanti alla legge, le libertà personali sono veramente inviolabili, i diritti della difesa uguali a quelli della pubblica accusa. Questo perché sono ormai da tempo patrimonio culturale di tutti la separazione delle carriere, la terzietà del giudice, i controlli democratici e trasparenti sull'operato della giurisdizione.

SALVATORE SENESE. Questa mattina l'onorevole De Mita ha avanzato un rilievo di metodo sull'uso che troppo frequentemente si fa nel corso di questi dibattiti della coppia innovatori-conservatori ed ha osservato, a mio avviso giustamente, che questa chiave interpretativa rischia di essere fuorviante e sopratutto spesso sostituisce l'analisi concreta dei problemi ai quali intende dare risposta e l'adeguatezza delle soluzioni che si propongono.
La cosa mi è tornata in mente ascoltando gli interventi del collega Greco e, già prima, della collega Parenti. Queste posizioni, che - per evitare fraintendimenti nei quali sono incorso in occasione di un altro intervento - definirò fortemente innovatrici, tuttavia su alcuni punti precisi, che valgono a rispondere a gravi disfunzioni esistenti nel nostro sistema di giustizia, o tacciono o sono contrarie.
Indico due di questi punti piuttosto periferici rispetto alla contesa politica e però utili da affrontare in una sede come questa, i quali a mio avviso meritano di essere discussi in un'opera di riforma costituzionale e che si presentano condizionanti rispetto ad un funzionamento della giustizia meno difettoso di quello che abbiamo dinanzi.
Il primo punto riguarda la norma sul ricorso in Cassazione, secondo la nostra Costituzione necessario avverso tutte le sentenze. È questa una sorta di norma-capestro, che impedisce al legislatore ordinario di intervenire regolando le impugnazioni di affari bagatellari, in modo da escludere in tali casi il ricorso per Cassazione, con la conseguenza - come abbiamo potuto ascoltare dalla viva voce del primo presidente della Corte di cassazione - che attualmente quella che pomposamente chiamiamo «Corte suprema di cassazione» ha un carico annuo di 60 mila ricorsi. Pensare che a fronte di 60 mila ricorsi si possa assicurare tendenzialmente l'uniformità della giurisprudenza o il rispetto del diritto oggettivo (questi sono i compiti della Corte di cassazione) è davvero derisorio.
Ciò nonostante non possiamo escludere il ricorso per Cassazione neanche contro la sentenza di un pretore che applichi una pena amministrativa per contravvenzione stradale depenalizzata, perché ci troviamo di fronte ad una norma secca della nostra Costituzione che dice: contro le sentenze (e naturalmente contro i provvedimenti sulla libertà personale, ma questa seconda parte è sacrosanta), quali che siano, anche se riguardino un valore minimo e non


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tocchino in alcun modo beni essenziali, è sempre ammesso il ricorso per Cassazione.
È una battaglia che sto facendo dall'inizio con alterne vicende. Nelle varie bozze appare e scompare una previsione che in qualche modo riduce questa strettoia; nell'ultima bozza è scomparsa ed abbiamo presentato un emendamento per ripristinarla nei termini più chiari: contro le sentenze è ammesso alternativamente l'appello o il ricorso per Cassazione. Comunque, quest'ultimo non deve essere una necessità, salvo che si tratti di provvedimenti sulla libertà personale.
È un argomentare molto specialistico, molto periferico? Non tanto, perché l'enorme durata dei processi civili e anche di quelli penali si connette a questo aspetto. In penale il ricorso per Cassazione si fa sempre, perché si spera nella prescrizione, nell'amnistia, eccetera. Su questo punto non mi pare di aver trovato, al di fuori del gruppo cui mi onoro di appartenere, grande sensibilità (Interruzione del senatore Zecchino). Ma lo consideravo parte di uno schieramento più vasto!
Dicevo che abbiamo combattuto inutilmente questa battaglia; il che dimostra che spesso la categoria innovazione-conservazione non è quella più adeguata per cogliere la realtà dei processi. Riproponiamo dunque questo emendamento e le considerazioni che ho fatto - indugiando forse un po' troppo - valgono a sottolinearlo in modo particolare all'attenzione dei cortesi colleghi.
Secondo punto. Ho io stesso proposto - e ho avuto il piacere di vederlo accolto - che cadesse il divieto assoluto di giudici speciali contenuto nella nostra Costituzione. Ho argomentato - e ho trovato attenzione da questo punto di vista - nel senso che quel divieto assoluto si spiegava all'indomani del fascismo: la nozione «giudici speciali» evocava il tribunale speciale e vi era l'illusione di poter ricondurre tutto nell'alveo della giurisdizione ordinaria. Ho ulteriormente precisato, richiamando la parte più avvertita della dottrina civilprocessualistica (cito i nomi di Chiarloni, di Taruffo, di Denti, che chiunque si occupi di queste cose sa essere studiosi seri, dei civilprocessualisti attenti anche a quello che avviene fuori dal nostro paese), la quale ha spiegato che in tutti i paesi d'Europa, man mano che procede il campo della regolazione giuridica, che è un fenomeno proprio della nostra epoca, man mano che nuovi settori della vita sociale vengono avocati al diritto, cresce la domanda di giustizia.
Per evitare che quest'ultima crei quell'ingolfamento che ci ritroviamo nel nostro paese (ci chiediamo: come mai in Italia ci sono milioni di cause pendenti e non si riesce ad andare avanti?) si provvede, tutte le volte che l'ambito di regolazione tocca materie che non involgono diritti di libertà, fondamentali o indisponibili, ad istituire anche giudici speciali per quelle materie. Spesso si tratta di semplici commissioni arbitrali.
Faccio un esempio. Il contenzioso sull'equo canone pesa statisticamente: si istituisca una commissione di rappresentanti dei proprietari e degli inquilini che dirima queste controversie ed alleggerisca i tribunali. Questo in Italia non si può fare perché tale commissione, anche se fosse chiamata a giudicare solo in primo grado - come spesso avviene in Francia o in Inghilterra: quest'ultimo esempio è particolarmente significativo perché l'Inghilterra è il paese dell'unità della giurisdizione - rappresenterebbe un giudice speciale e come tale non ammesso.
Trovo quindi positivo che il relatore abbia raccolto - assumendo le posizioni espresse nel corso dei lavori del Comitato - questa previsione. Trovo altresì singolare che un emendamento che porta la firma del collega Greco ed un altro sottoscritto dal collega Pera e, se non erro, anche della collega Parenti propongano di eliminare questa «apertura». In tal modo noi non innoviamo ma lasciamo persistere strozzature che impediscono anche al più volenteroso dei legislatori di procedere.
Devo dire al collega Marchetti, il cui intervento ho molto apprezzato nelle linee generali, che credo che la posizione che guarda con sospetto all'introduzione della

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possibilità di istituire giudici speciali, sia pure solo per il primo grado (perché poi si può ricondurre il tutto nell'alveo generale per assicurare un'unità di giurisprudenza), sia segnata - questa sì - da conservatorismo.
Più in generale, credo che il problema non sia tanto quello di innovare ma quello di individuare le questioni. Ho ascoltato in interventi dei colleghi del Polo che mi hanno preceduto una serie di preoccupazioni, di denunce, di cahiers de doléances. Vi è però una riflessione alla quale non riesco a sottrarmi: quelle denunce, quelle preoccupazioni, quelle disfunzioni sono tutte legate alla congiuntura; e per congiuntura intendo un arco temporale non breve ma nemmeno molto lungo.
Mi pare che l'insieme dei problemi che, in particolare con riferimento alla giustizia penale, sono stati qui sollevati attengano alla situazione in cui versa lo stato della nostra legislazione ordinaria e in particolare della nostra legislazione processualpenalistica. È quello il terreno su cui occorre impegnarsi. Vorrei dire: a partire dall'indomani dell'approvazione del codice di procedura penale si è aperta nel paese, per una serie di ragioni, una stagione di interventi fortemente discutibili.
Ne richiamo soltanto alcuni: la legge 19 maggio 1990, n. 55, che vieta di candidarsi ad una serie di cariche elettive pubbliche a chiunque sia stato rinviato a giudizio per alcuni reati o sia stato già condannato con sentenza anche non definitiva, anche solo in primo grado, per altri reati, e commina la decadenza di sindaci, amministratori, eccetera che vengano a trovarsi in queste condizioni. Ricordo poi il decreto Scotti-Martelli e la legge che lo ha in qualche modo convertito.
Vi è stato tutto un crescendo di misure illiberali che hanno ferito gravemente la presunzione di non colpevolezza, il principio del contraddittorio, quello della custodia cautelare in carcere come extrema ratio ed altri fondamentali principi di civiltà giuridica. Badate: si è trattato di leggi approvate con larghissimo consenso, anche da parte di molti di coloro che oggi protestano contro i tratti illiberali del nostro ordinamento o contro le ricadute culturali illiberali che questi tratti inducono.
Credo che se vogliamo essere davvero all'altezza del compito che ci assegniamo dobbiamo avere questo scatto: giustificheremo e legittimeremo appieno nei contenuti la nostra opera solo se avremo questa capacità di riflessione, se saremo capaci di dire che premevano forti esigenze di difesa sociale, che il sottosistema sociale era debole ed incapace di assumere da sé molte di quelle misure - come per esempio la non candidatura di chi sia condannato in primo grado per certi reati - che, sacrosante se rimesse all'autolimitazione delle forze politiche, divengono vessatorie ed illiberali se imposte per legge. Ciascuno si illudeva magari che la repressione non lo toccasse direttamente.
I magistrati hanno recepito non soltanto le norme illiberali ma, come è inevitabile, a comprova che il sottosistema politico dispone dei mezzi per orientare la cultura dei magistrati, pur nel rispetto della separazione dei poteri, soprattutto il messaggio culturale racchiuso in quelle norme, sintetizzabile nel principio: il fine giustifica i mezzi. E quando il potere politico ha cominciato a preoccuparsi per l'orientamento illiberale delle inchieste vi è stato un periodo in cui ha pensato che questa preoccupazione potesse esprimersi solo attraverso nobili sermoni e non si è preoccupato di sgombrare il campo dalle fonti dell'infezione.
Ricordo ancora un importante convegno che si svolse alla Camera dei deputati nel 1993, nel corso del quale sono state avanzate tutte le esigenze che oggi sento prospettare di nuovo, ma dove nessuno ha pensato, per esempio, a toccare l'articolo 275, terzo comma, del codice di procedura penale il quale, dopo aver enunciato il principio che la custodia cautelare era una extrema ratio, che bisognava ricorrervi solo in casi eccezionali, quando ogni altra misura fosse inadeguata, sciorinava una serie indescrivibile di fattispecie di reato, dicendo però che la cattura è

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obbligatoria salvo che non sia il catturante a dimostrare l'inesistenza del pericolo. Abbiamo dovuto attendere anni per cominciare a mettervi mano: l'opera è appena iniziata ed incontra difficoltà, come dimostra la vicenda della riforma dell'articolo 513. Credo che sarebbe un errore voler trasferire oggi tutto questo ripensamento in Costituzione; avremmo - allora sì - una Costituzione non lunga ma lunghissima, e ci esporremmo, come già stiamo facendo, alle critiche di chi dice: badate, voi non state facendo una Costituzione, state facendo un codice; e poiché non può avere l'ampiezza e l'organicità del codice, diventa qualcosa di necessariamente contorto.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Senatore Senese, si è accorto che chi ha detto questo - vale a dire il professor Chiavario su Il Sole 24 Ore di martedì 17 giugno - ha poi proposto di introdurre altre norme oltre quelle che abbiamo previsto noi?

SALVATORE SENESE. Naturalmente. Mi sono accorto di questo e di tante altre cose che per brevità taccio; ciò che mi interessa non è tanto vedere dove i nostri critici sbagliano quanto dove colgono, pur tra i loro errori, un punto su cui noi dobbiamo riflettere. A me interessa il compito cui siamo chiamati: se noi avremo questa capacità, se riusciremo a depurare il testo costituzionale di tutto questo appesantimento congiunturale, di questa ansia, di questo carico di doglianze prevedendo - perché non dobbiamo farlo? Se ne è parlato all'inizio dei lavori del Comitato sistema delle garanzie - in un ordine del giorno, votato da tutte le forze politiche, un indirizzo chiaro al Parlamento, che indichi i punti su cui impegnarsi in un'opera di bonifica legislativa e cominciando a lavorare sul terreno proprio, un terreno che richiede aggiustamenti, allora forse faremo un'opera positiva. Altrimenti, rischiamo di fallire, per lo meno in questa parte.
Vorrei svolgere pochissime altre considerazioni, anche perché condivido tutto ciò che è stato detto dal collega Folena all'inizio con riferimento ai punti da modificare. So che il relatore ha seguito con grande attenzione e non c'è quindi bisogno di appesantire la discussione; del resto, c'è stato l'intervento del collega Pellegrino per quanto riguarda la giustizia amministrativa e seguirà quello del collega Russo.
C'è la norma sul coordinamento degli uffici del pubblico ministero, sulla quale concordiamo: il coordinamento interno deve essere sancito in Costituzione giustappunto come contrappeso rispetto all'affermazione - che condividiamo - della soggezione dei magistrati, quale che sia la funzione che svolgano - giudicante o requirente - soltanto alla legge. Ma un conto è il coordinamento interno dei singoli uffici, un conto è l'unità d'azione degli uffici: l'unità d'azione degli uffici del pubblico ministero significa una visione piramidale e gerarchica, per cui il procuratore della Repubblica dipende dal procuratore generale e quest'ultimo dipende dal procuratore generale della Cassazione. È una visione che, se si dovesse veramente tradurre, creerebbe - questa sì - fortissime preoccupazioni.
Dobbiamo attestarci su una linea che contrassegni il potere giudiziario come potere diffuso, naturalmente badando che, laddove si tratti di uffici del pubblico ministero, questo potere diffuso sia un potere che, nell'ufficio, si esercita secondo norme che, all'interno dell'ufficio stesso, impediscano il proliferare disordinato delle iniziative.
Per quanto riguarda la norma sulle interpretazioni - farò poi dei brevissimi rilievi, di cui il relatore spero vorrà tenere conto - delle disposizioni penali, a me pare del tutto impropria in Costituzione. Come si fa ad inserire in Costituzione una norma sull'interpretazione, quando noi non sappiamo cosa sia l'interpretazione estensiva? Molto meglio prevedere invece una norma che riproduca l'articolo 14 delle preleggi: il divieto di analogia è già un principio costituzionale ricavato pacificamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza, mentre invece dire che non è


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consentita l'interpretazione estensiva delle norme penali aprirà il campo ad infinite dispute, oltre ad esporre il fianco a rilievi non privi di giustificazione.
Del resto, il legislatore ha scritto, nell'articolo 14 delle preleggi, un principio molto chiaro, che noi proponiamo come emendamento, sostituendo inoltre alla formula «norme penali» la dizione «norme incriminatrici». Norme penali sono infatti anche quelle che disciplinano le scusanti, le esimenti, le attenuanti; e, come diceva Carrara, per analogia non si può passare da un'incriminazione all'altra, ma per analogia si può passare da una scusante all'altra. Quindi, norme incriminatrici è la dizione che noi proponiamo.
Passando alla Corte costituzionale, prevediamo una disciplina più compiuta dei conflitti di attribuzione e del ricorso...

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Poiché ho seguito con grande attenzione - come sempre - ciò che ha detto, vorrei far presente che ho già compiuto una verifica su questi emendamenti: con l'articolo 14 delle preleggi però escluderemmo il divieto di interpretazioni estensive; infatti, quell'articolo copre il divieto di interpretazione analogica ma non l'interpretazione estensiva. In questo senso forse la previsione che avevamo introdotto era più ampia di quella prevista dall'articolo 14 delle preleggi; si tratta di un'osservazione che svolgo per un approfondimento in tempo reale, visto che di tempo non ne avremo molto altro.

SALVATORE SENESE. Procedo subito all'approfondimento. Non per nulla l'articolo 14 delle preleggi non parla di interpretazione estensiva. C'era allora e c'è oggi un grande dibattito su cosa sia l'interpretazione estensiva: si dice che sia quella che assegna alle parole un significato eccedente il senso loro proprio, ma il senso delle parole è sempre un senso condizionato dal contesto. Hanno scritto volumi sull'interpretazione della legge e sulla pericolosità di formule che tentano di vietare in qualche modo al giudice o ad altri l'uso di procedimenti intellettivi proprio per ricavare il significato delle parole. Già agli inizi del secolo scorso Guglielmo von Humboldt diceva che alla parola singola si riconnette sempre un'eccedenza di significato che fa appello all'intelligenza ed alla cultura dell'interlocutore.
Sulla base di queste considerazioni - per le quali il relatore, che è un cultore della materia, potrà trovare ottimi precedenti, per esempio nella Teoria generale dell'interpretazione di Betti o nella teoria generale dell'interpretazione alla legge degli atti giuridici - credo sarebbe periglioso e azzardato inserire in Costituzione delle norme che in qualche maniera pretendono di tagliare questo dibattito. L'articolo 14 delle preleggi, invece, che è frutto, per così dire, del primo apparire di questo dibattito, che poi è venuto sviluppandosi sempre più (basti pensare per esempio, oltre ai libri più recenti, al libro di Tarello sull'interpretazione della legge) vale a raggiungere lo scopo che noi ci prefiggiamo. Questo per rispondere al cortese invito del relatore.
Per tornare alla Corte costituzionale, ampliamo naturalmente la previsione dei conflitti di attribuzione e prevediamo i ricorsi diretti, anche in connessione con il nuovo ordinamento federale, delle regioni ma anche delle nuove entità federate; rinviamo invece ad una futura legge costituzionale il ricorso diretto alla Corte da parte del singolo a tutela del suo diritto, perché ci sembra che questa materia abbia bisogno di particolari approfondimenti. Noi stessi in Comitato sistema delle garanzie non siamo riusciti a mettere bene in chiaro cosa significhi la formula «quando non gli sia dato ricorso»; significa che deve avere già esaurito i ricorsi possibili o che deve trovarsi in una condizione per cui il ricorso non è possibile? Ma questa condizione allo stato del nostro ordinamento costituzionale e di quello che stiamo costruendo non esiste, perché l'articolo 24 dice che è sempre ammessa la tutela dei diritti, in ogni situazione. Allora bisognerebbe recuperare la suggestione del collega Urbani, il quale diceva che questo è un ricorso a


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tutela dello ius constitutionis, il ricorso che il quivis de populo può fare contro una legge incostituzionale, anche se quella legge non lo lede. Però, a questo punto dobbiamo chiederci se vogliamo arrivare a queste condizioni e se vogliamo gravare la Corte con il tipo di amore - diciamo così - per le controversie che contrassegna i nostri concittadini, se vogliamo gravarla di una serie di ricorsi.
Ci sembra saggio dunque rimettere ad una legge costituzionale l'approfondimento di questo tema. Del resto, questa è anche l'opinione della maggior parte dei costituzionalisti che ho potuto sentire. Vedo che il collega Elia annuisce; eravamo insieme ultimamente in un convegno. Queste sono le posizioni.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Nel convegno però l'unico costituzionalista che veniva da un paese - la Spagna - dove c'è il ricorso ha detto che ha avuto una buona efficacia. Tra l'altro è molto più estensivo rispetto a questa previsione.

SALVATORE SENESE. Comunque, con condizioni che non sono quelle precisate da questa norma.
All'articolo 135 prevediamo una diversa composizione della Corte, pur senza alterarne i meccanismi; credo che dovremo procedere tutti ad una riflessione se il Presidente della Repubblica, una volta che dovesse confermarsi espressione di una maggioranza politica, possa mantenere la stessa quota di incidenza nella formazione degli organi di garanzia che ha attualmente. Proponiamo quindi un emendamento che è anche un avvio di riflessione; si potrebbe andare al di là.
All'articolo 137 proponiamo puramente e semplicemente la soppressione del ricorso delle minoranze, anche perché a questo punto, che io sappia, non c'è nessun paese in cui coesistano il ricorso incidentale, il ricorso diretto e il ricorso delle minoranze. Anche qui, il relatore conosce tutte le obiezioni che sono state mosse, che attengono non soltanto alla funzionalità della Corte - badate - ma in questo caso anche al pericolo che la Corte sia sospinta immediatamente a ridosso dello scontro politico: una minoranza che adisca la Corte, magari dopo aver perso una battaglia politica in Parlamento, si trova. Se abbiamo escluso il ricorso in materia di eleggibilità, o per lo meno lo abbiamo graduato in modo diverso (parlo per la parte cui appartengo) proprio per una preoccupazione di funzionalità della Corte, mi sembra poco coerente lasciare aperta questa porta.
Queste sono le considerazioni che volevo sottoporvi; per il resto, credo che il collega Russo potrà integrare completamente la posizione del nostro gruppo sulla materia.

MARCELLO PERA. Signor presidente, ovviamente non intendo riaprire la discussione generale, come talvolta si è inclinato a fare quest'oggi, perché ne abbiamo già fatta una all'inizio ed un'altra alla fine dei lavori del Comitato: troverei quindi inutile ripetere le posizioni iniziali da cui ciascuno di noi è partito. Mi limito perciò all'illustrazione analitica ma in tempi molto brevi degli emendamenti di cui sono primo firmatario: do quindi per illustrati gli emendamenti che sono stati presentati da altri colleghi del mio gruppo, il che significa che accetto le norme del testo del relatore alle quali non farò riferimento e devo dire che in particolare accetto le norme sulla giustizia amministrativa.
A tale proposito devo osservare che considero le norme sulla giustizia amministrativa un compromesso rispetto alle posizioni iniziali, compromesso cui mi adeguo: il relatore ed i colleghi ricorderanno che noi, su questo punto, siamo partiti da posizioni assai ambiziose; più precisamente, siamo partiti dall'idea della giurisdizione unica. A me sembrava una grande conquista e l'ho difesa, ma questa posizione è rimasta assai minoritaria nel Comitato e posso soltanto darne qui testimonianza: ritengo che l'istituto della giurisdizione unica sarebbe stato un notevole passo in avanti. L'abbiamo accantonato forse con troppa fretta, anche


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colleghi che lo avevano sostenuto hanno poi ritirato le relative proposte: posso soltanto rammaricarmi di ciò, vuol dire che cinquant'anni dopo che quella battaglia fu combattuta ci ritroviamo a perderla, forse senza averla combattuta con la convinzione con cui alcuni Costituenti la combatterono...

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Se rimanesse il testo attuale che lei ha detto di condividere, avremmo fatto comunque un notevolissimo passo avanti.

MARCELLO PERA. Lo confermo, a questo punto la considero una conquista irrinunciabile: voglio augurarmi che non vi siano delle retrocessioni in proposito.
Come dicevo, mi limito all'illustrazione di alcuni emendamenti: sono in parte di carattere tecnico e penso che con essi si possa apportare una chiarificazione ulteriore al testo in discussione; altri naturalmente fanno riferimento a posizioni politiche di principio, su cui permane una divergenza tra le mie e nostre posizioni e quelle del relatore. In proposito devo premettere che non vi è da scandalizzarsi sulle differenze di principio: non apprezzo il riferimento (devo dirlo purtroppo alla sedia vuota prima occupata dall'onorevole Folena) un po' allusivo ed obliquo che egli ha fatto a quelle che ha chiamato le conseguenze di carattere generale che deriverebbero ove alcune norme fossero modificate. Siamo in democrazia e i principi per ognuno che li abbia sono irrinunciabili, ma la democrazia ha uno strumento molto pragmatico per decidere su queste controversie, e non se ne è inventato uno migliore: è quello del voto. Sulle questioni di principio, su cui cioè non è possibile trovare un ulteriore compromesso o affinamento rispetto al testo, voteremo e ci divideremo. Ritengo però che sia legittimo confermare le divergenze di principio senza che questo comporti allusioni a conseguenze misteriose di carattere generale relative a questa Commissione.
Ciò detto, inizio dall'emendamento V.104.29, che ho sottoscritto insieme al collega Greco: esso riguarda il Consiglio superiore della magistratura. Si accetta la previsione delle sue sezioni, prevista nel testo Boato (ripeto, non torno su ciò che la collega Parenti ha detto in proposito), ma si propone una correzione per quanto riguarda non tanto la composizione quanto l'elezione. Il testo del relatore prevede che i componenti di ciascuna sezione siano eletti per tre quinti rispettivamente dai giudici e dai magistrati del pubblico ministero tra gli appartenenti alle varie categorie e per due quinti dal Parlamento: ora, mi sembra che il punto su cui si era manifestata convergenza in ordine all'elezione della componente togata delle due sezioni consistesse nel fatto che, essendo le stesse una per il giudicante e l'altra per il requirente, dovessero essere composte l'una soltanto da magistrati giudicanti e l'altra solo da magistrati requirenti, per quanto riguarda l'elettorato passivo, e che non vi fosse commistione neppure con riferimento all'elettorato attivo. In altri termini, molto più espliciti, credevo che vi fosse un accordo sul punto per cui i soli magistrati giudicanti votano per la sezione del giudicante, mentre i soli magistrati inquirenti votano per la sezione dei magistrati del pubblico ministero.
Temo che la formulazione dell'articolo 104 del relatore possa ingenerare un equivoco quanto alla commistione dell'elettorato attivo tra i magistrati: forse sarebbe meglio, se sul punto vi è un accordo, precisare che tutti i giudici al loro interno eleggono la loro componente nella sezione del giudicante e tutti i magistrati del pubblico ministero al loro interno eleggono la loro componente nella sezione che li riguarda. L'espressione «tra gli appartenenti alle varie categorie», siccome per categorie potremmo intendere i giudicanti e i requirenti, potrebbe significare che gli uni votano per gli altri, e viceversa. Raccomando quindi al relatore un'interpretazione autentica della norma...

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Se posso darla subito, l'interpretazione autentica è quella che ha dato lei; se poi passasse il principio della


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divisione in sezioni, potremmo chiarire meglio la questione in modo che non vi siano equivoci interpretativi.

MARCELLO PERA. La ringrazio.
Passando all'emendamento V.104.30, che ho ugualmente sottoscritto insieme con il collega Greco, esso riguarda la durata in carica dei membri delle sezioni del Consiglio superiore. Il testo del relatore prevede che «i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili»; mi sembra preferibile prevedere, secondo l'emendamento che abbiamo presentato, che «ciascun membro elettivo del Consiglio dura in carica quattro anni e non è rieleggibile» per evitare l'obbligatoria elezione contestuale di tutti i membri togati del Consiglio superiore della magistratura. Come è noto, le lamentele che riguardano il Consiglio è di essere un organo corporativo, con giurisprudenza domestica protettiva, iperpoliticizzato: se questa è la lamentela diffusa, emersa anche in sede di discussione generale, è preferibile fare in modo che le elezioni non siano contestuali, poiché la contestualità delle elezioni tende a politicizzare di più l'organo rispetto a quanto accadrebbe invece qualora la sostituzione avvenisse ogni volta che un membro decade o dà le dimissioni, esattamente come si fa per gli attuali membri della Corte costituzionale. Questi infatti non sono eletti o nominati contestualmente e il loro avvicendamento avviene a seconda della loro durata in carica.
L'emendamento V.104.31, sempre sottoscritto insieme con il collega Greco, è riferito al nono comma del testo del relatore, che prevede che i membri del Consiglio superiore non possano essere iscritti negli albi professionali, né assumere cariche pubbliche elettive; l'emendamento propone di sostituire alla parola «assumere» la parola «ricoprire», per evitare che chi ha già una carica elettiva nel momento in cui diviene membro del Consiglio possa continuare a ricoprirla. Ovviamente, l'intenzione è evitare che vi sia contestualità tra cariche elettive ed appartenenza al Consiglio superiore della magistratura, per cui mi sembra opportuno introdurre la correzione proposta con il nostro emendamento.
Ho così sostanzialmente illustrato anche i nostri articoli aggiuntivi V.104-bis.11 e V.104-bis.12, che hanno la medesima ratio degli emendamenti di cui ho parlato ma che fanno riferimento al Consiglio superiore della magistratura amministrativa.
Un altro nostro emendamento attiene alla separazione delle funzioni, delle carriere, dei ruoli: è l'emendamento V.106.19. Questa è una di quelle differenze di principio a cui facevo riferimento inizialmente. Vorrei illustrare di nuovo il senso dell'emendamento, come i colleghi hanno già fatto in sede di discussione generale: ho già detto una volta che non intendevo «impiccarmi» alle parole «distinzione, separazione, funzioni, carriere, ruoli» perché probabilmente potremmo anche trovare una soluzione verbale che però non risolverebbe alcunché. Parliamo comunque di separazione, di distinzione, di differenziazione, comunque si voglia esprimere: perché a mio avviso bisogna insistere su una distinzione, o separazione più netta di quanto non faccia l'attuale testo del relatore? Perché l'istituto della separazione, a mio avviso, è a difesa delle garanzie dei cittadini: a me pare che una maggiore distinzione, o separazione, sia imposta anche dai principi che abbiamo previsto - che considero importanti ed accetto - nell'articolo 101 del testo del relatore.
Più precisamente, non esistono garanzie per i cittadini se il giudice non è terzo, non esiste un giudice terzo se non vi è equidistanza rispetto ad stesso dell'accusa e della difesa, ma non esiste equidistanza se pubblico ministero e giudice appartengono allo stesso ordine giudiziario, possono scambiarsi i ruoli più o meno facilmente (con il testo Boato un po' meno facilmente di prima, lo riconosco), hanno lo stesso elettorato attivo, partecipano alle stesse correnti e appartengono allo stesso organo che amministra le loro carriere. È una questione di principio molto importante: l'istituto della separazione è veramente


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a tutela dei cittadini; ce lo impongono non solo i principi che vogliamo scrivere nella Costituzione ma anche le norme per l' unificazione europea e, come ho già ricordato una volta per cui non intendo insistere molto sul punto, i principi ispiratori del nuovo codice.
Onorevole Boato, su questo punto non abbiamo ripetuto (su altri punti sì, per esempio sulla giustizia amministrativa) il dibattito che vi fu all'Assemblea costituente e che era tra coloro che sostenevano, credo legittimamente, la subordinazione del pubblico ministero al potere esecutivo (o facevano del pubblico ministero una parte del potere esecutivo) e coloro che invece lo volevano completamente svincolato, autonomo e indipendente. Noi abbiamo raggiunto l'autonomia e l'indipendenza, l'abbiamo detto e scritto, abbiamo conservato il principio: questa volta, il dibattito che si è svolto nel Comitato ed anche nella sede plenaria è tra coloro che accettano la configurazione ambigua che ancora vi è nella Costituzione italiana del pubblico ministero, che è in parte organo accusatorio (quindi parte dello Stato) ed in parte organo giurisdizionale, ed invece coloro che vogliono sciogliere l'ambiguità. Vorrei ricordare che l'ambiguità della figura del pubblico ministero - da tutti denunciata e documentata dalla dottrina - fu accettata dai nostri padri costituenti, da ultimo, prendendo una sorta di impegno. Essi dissero che l'ambiguità sarebbe stata sciolta il giorno in cui fosse mutato il rito del processo: una volta divenuto accusatorio, sarebbe stato chiaro che il pubblico ministero è parte, accusa, non più organo giurisdizionale.
Quando in questo paese fu introdotto il rito accusatorio, nella relazione introduttiva al nuovo codice fu fatto esplicito riferimento alla natura di accusa e di parte del pubblico ministero; vi è, inoltre, un riferimento al divieto della giurisdizionalizzazione del pubblico ministero stesso.
Ancora una volta, invece, oggi ho sentito dall'onorevole Folena un riferimento alla cultura della giurisdizione. Qui allora dobbiamo intenderci: nessuno nega che il pubblico ministero abbia una cultura della giustizia o della legalità, ma la cultura della giurisdizione è altra cosa. A fronte della cultura del giudice, cioè della giurisdizione, vi è una cultura della investigazione. Accetto quindi il principio della comune cultura della legalità o della giustizia, ma non accetto la commistione delle culture, perché esse sono diverse, così come sono diverse - al di là della comune cultura della legalità - le specializzazioni, perché la investigazione è diversa dalla giurisdizione. In tal senso insisto - e si tratta veramente di una fondamentale differenza di principio - su una previsione, più forte rispetto all'attuale testo predisposto dal relatore, di separazione fra giudice e pubblico ministero. Non mi riferisco a tutti gli episodi di cronaca ben noti, anche di cronaca nera dal punto di vista giudiziario, ma alla natura istituzionale di queste figure: dobbiamo in ogni caso sciogliere l'ambiguità; l'abbiamo sopportata per anni, ora il problema va definito in maniera più precisa.
Il mio emendamento V.106.21 tende a sostituire il quarto comma della proposta che ci è stata sottoposta dal relatore. Il testo base prevede che: «In nessun caso le funzioni giudicanti penali e quelle del pubblico ministero possono essere svolte nel medesimo distretto giudiziario». Se ho compreso bene questa previsione, ritengo che la norma vada rafforzata e per questo ho presentato l'emendamento a cui ho fatto cenno. Sulla base del precedente comma dell'articolo 106 è consentito il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle inquirenti mediante concorso. La norma di cui ho dato lettura tende ad evitare che il magistrato possa svolgere nello stesso distretto prima funzioni giudicanti e poi inquirenti (e viceversa). Non evita però - se non ho capito male, signor relatore - che ciò avvenga in una fase successiva: è possibile infatti che chi abbia svolto funzioni giudicanti in un certo distretto possa esercitare funzioni inquirenti in un altro distretto per poi tornare nel primo distretto a svolgere funzioni

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inquirenti. Se non vado errato questa possibilità non viene evitata.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. In realtà il testo dovrebbe evitare questa possibilità. Ma certo a volte le interpretazioni della legge, anche di quella fondamentale, fanno miracoli...

MARCELLO PERA. Però, se c'è un accordo politico su questo punto, il problema può essere evitato. Ed il mio emendamento è teso appunto a tal fine. Chi ha svolto funzioni inquirenti in un distretto non dovrebbe poter svolgere nel medesimo distretto funzioni giudicanti e viceversa: è sufficiente dirlo più chiaramente. L'attuale testo base, invece, sembra più che altro sufficiente per evitare soltanto per un certo periodo che si verifichi l'inversione delle funzioni nello stesso distretto.
Anche in questo caso credo si stia parlando di problemi che attengono alle garanzie per i cittadini. Consentire a chi ha svolto in un certo distretto per molti anni la pubblica accusa di trasferirsi temporaneamente in altro distretto e poi di tornare nel precedente con funzioni giudicanti credo che - indipendentemente dall'opportunità del passaggio, sul quale non mi soffermo ulteriormente - non sarebbe a tutela delle garanzie dei cittadini del medesimo distretto.
Mi auguro che su questo punto si trovi un accordo, trattandosi della tutela di un diritto fondamentale dei cittadini: occorrerebbe approvare una formulazione più chiara.
Il mio emendamento V.111.9 si riferisce al quarto comma dell'articolo 111, che introduce la riserva di codice. Vedo che il mio interlocutore collega Senese è momentaneamente scomparso (oppure si è nascosto provvisoriamente...). In realtà la finalità di questa proposta di modifica è riferita ad una preoccupazione sollevata proprio dal collega Senese durante i lavori del Comitato; una notazione che noi abbiamo accolto.
La riserva di codice (nuove norme penali sono ammesse solo se introdotte nel codice penale) è un istituto di civiltà. Ma la formulazione completa del comma proposto dal relatore aggiunge un passaggio: «...ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l'intera materia cui esse si riferiscono». Cosa potrebbe accadere, allora? Che il buon fine da noi perseguito risulti frustrato proprio da «leggi disciplinanti organicamente la materia». Da un lato vogliamo fare in modo che esista un unico codice penale che contenga tutte le fattispecie di reato, in modo che il cittadino conosca i reati che possono essere configurati; dall'altro, però, consentiamo che il codice sia di fatto espropriato o spogliato mediante legge organica: mentre prima lo aggiravamo con leggi disparate, ora ciò accadrebbe con legge organica.
Preferirei, allora, mantenere la prima parte del quarto comma, rinviando - per l'integrazione dell'attuale codice penale - alla disposizione transitoria che propongo di inserire con un apposito emendamento: «Entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione si procede con legge ad inserire nel codice penale i reati attualmente non riportati nello stesso». In sostanza occorrerebbe a mio avviso di rendere concreta l'intenzione sottesa alla proposta contenuta nel testo base: si tratterebbe di perseguire realmente un fine che mi pare nobile evitando al contempo che possa essere annullato da un legislatore che approvasse leggi organiche su tante materie (e lasciasse il codice così come è, impoverito oppure contraddetto da tutte le leggi organiche di contorno).
Non mi soffermo sulle proposte presentate sull'articolo 112, sull'azione penale, e passo alla materia della Corte costituzionale. In proposito ho presentato l'emendamento V.134.8. Si tratta dell'istituto del ricorso diretto, una novità che sostengo molto strenuamente. Il ricorso diretto dei cittadini alla Corte dovrebbe tutelare i diritti fondamentali sanciti e garantiti dalla prima parte della Costituzione. Se introducessimo questo istituto nella nostra Costituzione, lo mutueremmo da altri paesi che già lo prevedono (Spagna,


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Austria, Germania). Sono però preoccupato dalle condizioni che dovrebbero essere soddisfatte per il ricorso diretto.
Lei, relatore, ha scritto che l'oggetto del ricorso dovrebbe essere «un atto dei pubblici poteri avverso il quale non sia dato rimedio giurisdizionale». Mi domando di cosa si tratti. Nella sua relazione lei fa riferimento - non so se a titolo esemplificativo o esaustivo - a due tipi di atto: leggi e delibere non legislative del Parlamento. Queste ipotesi mi sembrano riduttive. Innanzitutto, per le leggi vi possono essere forme di tutela: i ricorsi incidentali.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Se vi è un ricorso incidentale, si va comunque davanti alla Corte...

MARCELLO PERA. Certo, ma questo significherebbe che non è un ricorso «in più», cioè autonomo. Rimarrebbero, allora, le sole delibere non legislative del Parlamento. In questo senso la previsione mi sembrerebbe un po' limitativa.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Ma per un ricorso incidentale è necessario che sia stato già instaurato un rapporto processuale.

MARCELLO PERA. Allora lei ammette il ricorso di un cittadino che si ritenga leso da una legge in uno dei diritti fondamentali anche se non è vittima di quella legge, quindi anche se non va in giudizio.
Anche questo mi sembra riduttivo. Lei stesso cita, nella sua relazione, il caso della Germania, ove il ricorso è proponibile dopo l'esaurimento delle vie legali. Lei ammette, però, che sia ipotizzabile un ricorso in parallelo a quello giurisdizionale ordinario. Rispetto a questa impostazione la previsione del testo base sarebbe riduttiva. Mi domando allora se non dovremmo avere più coraggio, senza essere preoccupati dall'eccessivo lavoro che potrebbe affliggere la Corte (perché a questo c'è un rimedio). Ora, trattandosi di tutela di diritti fondamentali, e quindi di violazioni che possono incidere su questi diritti, il ricorso diretto alla Corte dovrebbe essere ammesso quali che siano il pubblico potere e la natura dell'atto.
È vero che lei cita dati provenienti da altri paesi in cui questi ricorsi sono stati numerosissimi rispetto agli altri tipi di ricorso, ma allora qui sarebbe utile un altro emendamento da me presentato (V.137.6) per l'introduzione di un filtro all'accesso diretto alla Corte. Il filtro sarebbe fissato da una legge costituzionale. In sostanza una legge di rango costituzionale potrebbe indicare i criteri, le modalità, i tipi, i casi del ricorso. Ritengo preferibile la legge costituzionale alla norma ordinaria proprio per evitare che - trattandosi di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione - su questo filtro possano incidere le maggioranze politiche variabili. Una legge costituzionale, allora, potrebbe indicare casi, criteri e modalità del ricorso diretto dei cittadini. Chiedo quindi il mantenimento dell'istituto e propongo lo strumento della legge costituzionale per la tipicizzazione dei ricorsi.
Il mio emendamento V.135.10 riguarda la composizione della Corte costituzionale. Penso che su questo punto dovremmo tornare; essendo in procinto di cambiare la forma di governo con riferimento ai poteri del Presidente della Repubblica, l'emendamento, pur mantenendo il numero totale di quindici membri della Corte costituzionale, tende a ridurre da cinque a tre il numero di quelli di nomina presidenziale, mantiene intatto il numero dei magistrati delle magistrature superiori (quattro), riduce a quattro quello dei membri di nomina parlamentare.
Poiché è da prevedere che, avendo introdotto una riforma in senso federale con un notevole decentramento, un forte peso alle regioni, nei prossimi anni, negli anni della fase di appropriazione da parte delle stesse delle funzioni, avverranno molti conflitti, preferirei dare maggior peso alle regioni. Questa è la ragione per cui propongo che il numero dei membri della Corte nominati dalle regioni sia pari a quattro e che questi siano nominati o


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eletti dalle regioni medesime, non su designazione indiretta del Parlamento, che farebbe aumentare ancora il numero dei membri di derivazione del Parlamento.
L'emendamento Pera V.135.11 tende a prevedere in Costituzione, senza un riferimento alla legge ordinaria, l'impossibilità per gli ex giudici della Corte costituzionale di ricoprire nei successivi cinque anni cariche pubbliche elettive o di nomina governativa o presso le authority; quindi un divieto già previsto in Costituzione senza un riferimento alla legge ordinaria sulla quale nuovamente potrebbero interferire o influire le maggioranze politiche. Perché questo divieto che è abbastanza drastico? In primo luogo, per garantire l'indipendenza dei giudici e quindi per tutelare cittadini; in altri termini, per non ingenerare il sospetto - che su queste cose è grave quanto la realtà - che sul comportamento dei giudici della Corte e quindi anche sulla giurisprudenza interferiscano le legittime ambizioni che questi possono avere una volta dismessa la toga di supremo giudice.
Raccomando infine a lei ed anche all'attenzione del senatore Elia che ha presentato una proposta emendamentiva del medesimo contenuto, sebbene - mi pare - di segno diverso dal mio, l'emendamento Pera V.136.4 riguardante la retroattività delle sentenze della Corte costituzionale in materia di norme sul reato o sulla pena. Questo emendamento cade peraltro a proposito perché oggi le prime pagine dei giornali erano occupate da articoli riguardanti un caso avvenuto non nel nostro paese, ma negli Stati Uniti e che tuttavia si può applicare anche alla nosta realtà, salva la condanna alla pena di morte che per fortuna in Italia non esiste. Mi riferisco al signor Joseph O'Dell, il quale è stato condannato da un tribunale della Virginia alla pena di morte sulla base di una norma - in quel caso non penale, ma processuale - che poi la Suprema corte ha dichiarato incostituzionale. Il poveretto si è trovato condannato sulla base di una norma che la Suprema corte ha dichiarato incostituzionale e tuttavia rischia - e presumibilmente subirà secondo quello che spesso avviene negli Stati Uniti - la pena di morte. Eppure, la norma in base alla quale è condannato è incostituzionale.
Nel nostro paese non rischiamo la pena di morte, ma vi sono sentenze penali di condanna, per cui, a mio avviso, si tratta di garantire che le sentenze penali di condanna passate in giudicato siano travolte quando le norme su cui si fondano siano dichiarate illegittime.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Il presidente Elia mi dice che questa previsione già esiste nell'ordinamento italiano.

PRESIDENTE. Questa previsione è contenuta nella legge del 1953.

MARCELLO PERA. Il senso del mio emendamento è quello di recepire la legge del 1953. Il testo attuale della Costituzione in realtà alla lettera è in contrasto con quella legge o, almeno, permette interpretazioni diverse e talvolta la giurisprudenza della Corte è stata oscillante sul punto. Desidererei quindi che questa previsione avesse un rango costituzionale, per evitare manifesti casi di disparità o di ingiustizia, come quello, per dirla in parole molto povere, di lasciare in galera un individuo condannato sulla base di una norma che poi fosse giudicata incostituzionale.
L'ultima frase dell'emendamento da me presentato prevede che la norma dichiarata incostituzionale non si applichi alle controversie non ancora definite con sentenza irrevocabile. La retroattività dovrebbe valere sia in questi casi di controversie aperte sia nei casi di sentenze penali di condanna passate in giudicato. Credo vi sia stata anche una nostra disattenzione durante il dibattito nel Comitato, ma sarebbe importante affrontare questo punto perché vi è molta discussione in dottrina e la Corte si trova a dover giudicare violentando un po' la lettera dell'articolo 136 della Costituzione.
Ringrazio i colleghi per l'attenzione prestata.


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GIOVANNI RUSSO. Signor presidente, i colleghi Folena, Pellegrino e Senese hanno già illustrato alcuni importanti emendamenti proposti dal nostro gruppo; richiamo in particolare quelli che si riferiscono al coordinamento, non all'unità di azione, tra gli uffici del pubblico ministero, quelli relativi alla soppressione delle due sezioni del Consiglio superiore della magistratura, quello riguardante le funzioni del Consiglio e la regolamentazione più sobria del passaggio delle funzioni tra pubblico ministero e giudice.
Su questo punto vorrei soltanto osservare, in relazione all'intervento del collega Pera, che le funzioni di accusa del pubblico ministero e le funzioni giudicanti del giudice certamente sono diverse e questa diversità di funzioni è garantita nel processo penale. È tuttavia fuorviante pensare che l'appartenenza comune all'ordine giudiziario diventi elemento di compromissione della terzietà del giudice. Questo è il punto di dissenso, come il collega Pera ha sottolineato.
Noi riteniamo che proprio la previsione che l'azione penale sia assoggettata alla direzione e al controllo di un magistrato abbia un grande significato di garanzia per i cittadini. Ecco perché siamo contrari a disposizioni che vadano nella direzione di una separazione dei ruoli e delle carriere tale da far sì che il pubblico ministero in qualche maniera ricada nell'orbita del potere esecutivo e venga con ciò a perdere la sua indipendenza. Prendo atto volentieri di ciò che ha detto il collega Pera quando ha osservato che non è in discussione l'indipendenza e l'autonomia della magistratura; però dobbiamo stare attenti perché a volte l'insidia verso questi due principi cardine dell'ordinamento può nascondersi in alcune modifiche ordinamentali che non siano coerenti con i principi stessi.
Mi limiterò, al di là di queste brevissime osservazioni iniziali, a considerare alcuni emendamenti che non sono stati illustrati dai colleghi che mi hanno preceduto.
Abbiamo presentato alcuni emendamenti riguardanti gli articoli 101 e 111 a proposito - potremo dire con un'espressione sintetica - del giusto processo. Ci sembra più opportuna la collocazione di queste disposizioni che giudichiamo importanti e significative in un unico articolo. Oggi le previsioni che riguardano il giusto processo sono frazionate tra l'articolo 101 e l'articolo 111; ci sembra opportuno che siano riunite in un unico articolo e riteniamo che la collocazione più adeguata sia l'articolo 111, quello che apre la sezione II del titolo al nostro esame intitolata «Norme sulla giurisdizione». Ci sembra quindi che una previsione la quale si riferisca all'attuazione della giurisdizione mediante giusti processi sia più appropriatamente collocata nell'articolo 111.
Nel merito di queste disposizioni suggeriamo alcune modifiche che ci sembrano migliorative e rimediano a talune disfunzioni che altrimenti risulterebbero anche nell'applicazione concreta.
Il quarto comma dell'articolo 101 - che diventerebbe secondo comma nella nuova formulazione dell'articolo 111 che noi prefiguriamo - è attualmente così formulato: «Il procedimento si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, secondo il principio dell'oralità e davanti a giudice imparziale». A noi sembra più corretta questa formulazione: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti a giudice imparziale».
Il riferimento al principio dell'oralità ci sembra improprio, tanto più se riferito ad ogni procedimento o ad ogni processo, perché scardinerebbe l'attuale sistema e lo farebbe irragionevolmente: abbiamo oggi molti procedimenti che si svolgono non secondo il principio dell'oralità, in materia civile e amministrativa; ma anche con riferimento al procedimento penale, abbiamo, per esempio, il giudizio abbreviato o tutta la fase delle indagini preliminari nella quale non esiste, non è prevedibile, non è realizzabile il principio dell'oralità.
Ci sembra che la garanzia debba essere quella del contraddittorio e debba essere riferita al processo; è nel processo che deve essere garantito il contraddittorio.

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Nella disposizione attualmente contenuta nell'articolo 111 si usa un'espressione che per la verità io stesso ho proposto (in questo momento svolgo quindi un'autocritica): «La legge assicura che la persona accusata di un reato sia informata». Nel dibattito che si aperto attorno a queste proposte di modifica costituzionale, anche a livello scientifico - verso il quale credo sia giusto essere attenti per recepire tute le critiche, le osservazioni, le indicazioni costruttive ed utili - è stato osservato che la formula «La persona accusata di un reato» è impropria. Per la verità, non è che non esista nel nostro ordinamento, esiste nella legge che dà attuazione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo; e tuttavia, in effetti, nel testo originario della Convenzione ha un senso perché si riferisce all'ipotesi che nei vari ordinamenti esistano formulazioni diverse. Forse, dovendola tradurre nella nostra Costituzione, è più opportuno far riferimento all'imputato, sia perché di imputato parla già esplicitamente la nostra Costituzione, sia perché è giusto che alcune di queste disposizioni siano garantite nella fase in cui è già iniziata l'azione penale; oggi si assume la qualità di imputato nel momento in cui si esercita l'azione penale. Per esempio, la disposizione secondo cui la persona accusata di un reato debba essere informata nel più breve tempo possibile della natura dell'accusa, è una norma che si presta ad un'interpretazione ampia, che include anche l'indagato di un reato. Questo obbligherebbe a ripristinare la immediata informazione di garanzia, che era prevista nel codice di procedura penale e che recentemente il legislatore ordinario ha ritenuto di dover ritardare. Questa scelta, se l'informazione debba essere data fin dal primo momento in cui si apre il procedimento o in una fase successiva, è bene sia riservata al legislatore ordinario, perché può rispondere anche a mutevoli esigenze, mentre nei confronti dell'imputato è giusto che tale garanzia faccia riferimento all'immediatezza.
Un altro punto su cui vorrei richiamare l'attenzione del relatore e dei colleghi riguarda la formazione professionale dei magistrati. A nostro parere, l'attuale formulazione dell'articolo 110, in rapporto a quella dell'articolo 105, potrebbe prestarsi all'interpretazione secondo cui la formazione professionale dei magistrati è curata dal ministro di grazia e giustizia. È vero che l'articolo 110 fa riferimento alla formazione propedeutica; però, a questo punto, se dovesse essere mantenuta la previsione della formazione professionale propedeutica affidata al ministro di grazia e giustizia, bisognerebbe precisare nell'articolo 105, per evitare quanto meno incertezze di interpretazione, che tra le funzioni del Consiglio superiore della magistratura è compresa anche quella della formazione e dell'aggiornamento dei magistrati. Altrimenti si potrebbe, per estensione, ritenere che così come la Costituzione assegna la formazione propedeutica al ministro, anche quella successiva debba essere affidata al medesimo ministro. La stessa ambiguità peraltro si può trovare nell'articolo 106, che fa riferimento al tirocinio. A noi è parso, dopo questa riflessione, che sia più opportuno, anche nella logica di evitare un eccesso di costituzionalizzazione, cercare di porre rimedio alla tendenza, che si è manifestata nel corso dei nostri lavori, di sovraccaricare questa parte della Costituzione di disposizioni che appartengono, secondo logica, più alla legislazione ordinaria. Ci è sembrato opportuno compiere un'altra scelta, non fare cioè riferimento alla formazione professionale, né nell'articolo 110, che oggi attribuisce tale competenza al ministro, né nell'articolo 105. Tra l'altro è discutibile se la formazione professionale propedeutica all'esercizio delle professioni forensi e della magistratura debba essere affidata al ministro di grazia e giustizia e non, per esempio, alle università o al ministro per l'università e ricerca scientifica e tecnologica.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Avendo scritto «promuo-ve»,


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questo non esclude assolutamente che sia in rapporto con l'università.

GIOVANNI RUSSO. Non lo esclude, ma attribuisce costituzionalmente una funzione preminente al ministro della giustizia. Mentre se siamo in presenza di una formazione professionale, che avviene prima dell'accesso alla magistratura o alla professione forense, francamente non si vede perché debba essere il ministro della giustizia a promuoverla. Ci sembra che questa materia non sia propria della Costituzione e quindi proponiamo di sopprimere il riferimento contenuto nell'articolo 110.
In merito all'articolo 110, credo sia più opportuno, dal momento che tale articolo regola le funzioni del ministro della giustizia, inserire qui la previsione, che oggi è contenuta nell'articolo 112, della relazione annuale che il suddetto ministro redige sullo stato della giustizia.
Ci sembra che la relazione non debba fare riferimento specifico all'uso dei mezzi di indagine, perché è poco comprensibile come possa il ministro riferire sull'uso di tali mezzi di indagine; riferirà, infatti, sullo stato della giustizia e forse questo sarebbe sufficiente, perché nello stato della giustizia è compreso tutto, eventualmente lasciando l'aggiunta «sull'esercizio dell'azione penale». Credo sarebbe più appropriato - ripeto - riferirci allo stato della giustizia in generale.
Vi è infine un emendamento sul quale voglio richiamare l'attenzione del relatore, il cui testo non è ricompreso nel fascicolo; credo vi sia stato un disguido, che ho segnalato agli uffici.
Con tale emendamento proponiamo di sostituire gli ultimi due commi dell'articolo 107, che si riferiscono agli obblighi di correttezza, di riservatezza, alle incompatibilità dei magistrati e così via, con una disposizione più sobria, perché ci sembra che non sia proprio della Costituzione entrare nei dettagli. Tra l'altro, stabilire in Costituzione che i magistrati non possono presentarsi candidati al Parlamento senza dimettersi preventivamente, è in palese ed aperto contrasto con l'attuale articolo 51 del testo costituzionale, il quale prevede che l'accesso alle cariche pubbliche elettive non deve comportare riflessi sul posto di lavoro. Quindi, introdurremmo una norma limitativa di un principio espressamente affermato nella prima parte della Costituzione, ma, al di là di questa affermazione, ci sembra che tutto ciò debba essere materia di legge ordinaria. Abbiamo pertanto predisposto un emendamento che, non essendo - ripeto - ricompreso nel fascicolo, ho ricostruito a memoria, ma la sostanza è la seguente: «La legge regola le incompatibilità, la responsabilità disciplinare dei magistrati e le condizioni di accesso dei medesimi alle cariche pubbliche elettive al fine di assicurarne l'imparzialità, la correttezza, la riservatezza e la responsabilità nell'esercizio delle funzioni». È previsto un rinvio alla legge ordinaria, ma non è un rinvio puro e semplice, essendo, per così dire, finalizzato; proponiamo cioè che la legge ordinaria regoli questa materia, avendo di mira quei principi di riservatezza, di correttezza e di responsabilità cui i magistrati sono ovviamente tenuti.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Chiedo scusa per l'interruzione, ma si tratta di un nuovo emendamento?

GIOVANNI RUSSO. Non è nuovo, è stato presentato, ma non è stampato. Comunque ho chiesto agli uffici di provvedere.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Anche se si trattasse di un nuovo emendamento, non avrei nulla in contrario, anche perché l'esame si svolge in sede referente. Bisogna però provvedere alla distribuzione del testo di tale emendamento per fare in modo che gli altri colleghi possano disporne.

GIOVANNI RUSSO. Spero che gli uffici recuperino il testo originale, altrimenti lo ripresenteremo.
Mi soffermo ora brevemente su alcuni emendamenti che vogliono essere il contributo ad una migliore redazione del


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testo e non hanno, quindi, una grande sostanza politica. Ci è parso tuttavia opportuno segnalarli al relatore, affinché li possa valutare.
Nell'articolo 102, il quinto comma (se non sbaglio), stabilisce che la legge può prevede la nomina di giudici non professionali anche per giudizi di equità. L'articolo 106 riproduce il testo attuale della Costituzione vigente, prevedendo che possono essere nominati magistrati onorari. Non riesco a comprendere bene come si coordinino e si colleghino queste due disposizioni, perché la differenza tra giudice non professionale e magistrato onorario francamente mi sfugge. Mi sembra che queste due diverse disposizioni dovrebbero essere ricondotte ad unità e che la previsione contenuta nell'articolo 106 sulla nomina di magistrati onorari sia esaustiva delle varie ipotesi; peraltro non vi è il riferimento al giudizio di equità, problema di cui mi occuperò tra un momento.
L'articolo 106, a proposito di magistrati onorari, fa riferimento a tutte le funzioni di giudice di primo grado. Crediamo sia necessario limitare questa previsione o, meglio, introdurre il limite che la nomina di un magistrato onorario debba avere un tempo determinato; sarebbe, infatti, contraddittorio prevedere, accanto al magistrato assunto per concorso, un magistrato onorario che esercita indeterminatamente e senza limiti di tempo le proprie funzioni.
Per quanto riguarda il giudizio di equità, prevederlo in Costituzione desta, a mio parere, qualche perplessità.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Ho tratto questa ipotesi da una vostra proposta di legge.

GIOVANNI RUSSO. Una riflessione critica è giusta anche sui nostri atti. Mi chiedo come si concili la previsione di un giudizio di equità con la previsione di un obbligo di motivazione, che prevediamo di introdurre nell'articolo 111. Se tutte le sentenze devono essere motivate, la motivazione in qualche modo dà conto di un procedimento logico che può essere non proprio di un giudizio di equità. Pongo tale questione problematicamente, ma al di là di questo, mi pare necessario - ripeto - un coordinamento tra le due disposizioni.
Per quanto concerne la disposizione sui tribunali militari, sottolineo che questi sono istituti solo per il tempo di guerra o in adempimento di obblighi internazionali. Credo che questa seconda parte sia frutto di una materiale omissione: cosa vuol dire in adempimento di obblighi internazionali? Che qualcuno a livello internazionale ci obbliga ad istituire tribunali internazionali? Non credo sia questa una previsione possibile; probabilmente si voleva dire...

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Per missioni militari, secondo quanto prevede il vostro emendamento V.103.6.

GIOVANNI RUSSO. Però, a questo punto, ci sembra opportuno che non si preveda «sono istituiti», ma «possono essere istituiti», perché, specialmente in riferimento a missioni militari, non è detto si debba necessariamente istituire un tribunale militare, poiché se ne può fare anche a meno. Tra l'altro, mi pare che in tutte le occasioni di missioni militari di pace si sia sempre avuto cura di stabilire per legge che non si applica il codice militare di guerra.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Come lei sa, si è ora verificata questa situazione, un po' delicata, per cui sulle note vicende della Somalia stanno indagando sia la procura militare, sia la procura ordinaria di Livorno. Esiste, quindi, una situazione di commistione che in qualche modo bisognerà risolvere.

GIOVANNI RUSSO. Per quanto riguarda l'articolo 102, già in Comitato avevo svolto un'osservazione che mi pare opportuno riproporre all'attenzione del relatore.


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In base all'attuale Costituzione «La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari (...)»; qui si propone di sostituire tale previsione con «La funzione giurisdizionale è unitaria ed è esercitata dai giudici». Questa sostituzione non mi sembra appropriata ed adesso cercherò di spiegarne il motivo. Certo che solo i giudici esercitano la funzione giurisdizionale, ma se affermiamo che essa è esercitata appunto dai giudici, facciamo tautologia.
Cosa ha voluto dire il testo della nostra Costituzione? Ha voluto dire che la funzione giurisdizionale, che esercitata da giudici, non può che essere svolta da quelle persone che hanno lo status di magistrati. Quindi, solo i magistrati possono essere giudici, ma se prevediamo che solo i giudici possono essere giudici, mi sembra che sanzioniamo qualcosa che - ripeto - abbia poco senso. Personalmente so che cosa vi è dietro questa norma: si vuole dire che i pubblici ministeri non sono giudici; nessuno però sostiene che i PM siano giudici, perché essi sono magistrati e, come tali, potranno diventare giudici ma lo saranno solo in quanto esercitino la funzione giurisdizionale. Quindi, a mio parere, è più corretto dire che la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati, come prevede la Costituzione vigente: questo è il senso, a mio avviso, della norma. Parlare di magistrati giudici, come mi viene suggerito, sarebbe come dire che la funzione giurisidizionale è esercitata da chi svolge la funzione giurisdizionale. Comunque, si tratta di una questione puramente formale.
Per quanto riguarda l'articolo 104 sul Consiglio superiore della magistratura, vi sono alcuni emendamenti importanti, su cui si è già soffermato il collega Folena, che riguardano la sua composizione, le due sezioni, le sue funzioni. Ne segnalo due di carattere formale.
L'attuale primo comma dice che i giudici ordinari e amministrativi e i magistrati del pubblico ministero costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere. A me pare che sia migliore la formula della Costituzione vigente, opportunamente adeguata all'introduzione della magistratura amministrativa in questo corpo di norme: è preferibile cioè scrivere che la magistratura ordinaria e la magistratura amministrativa costituiscono ciascuna un ordine. Nel momento in cui creiamo due consigli superiori, uno per la magistratura ordinaria e uno per quella amministrativa, avrei qualche perplessità a dire che costituiscono un unico ordine; mi pare poi più opportuno che l'ordine si riferisca alla magistratura piuttosto che ai giudici singoli e ai pubblici ministeri. È comunque un'osservazione di carattere esclusivamente formale, che lascio alla riflessione del relatore.
Non è formale, invece, il recupero del riferimento all'altro potere che è nella Costituzione vigente. Capisco che la questione possa anche non essere di grande rilievo perché il potere giudiziario, che è innegabile esista nella tripartizione dei poteri, probabilmente va riferito più al giudice singolo nel momento in cui esercita un potere giurisdizionale che non alla magistratura nel suo insieme; non vorrei però che dall'eliminazione del termine «altro» nascessero delle ricadute sotto il profilo del conflitto di attribuzioni.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Lei sa che la Corte ha riconosciuto la qualifica di potere dello Stato ai comitati per i referendum, non credo quindi che la seguirebbe in questa interpretazione restrittiva.

GIOVANNI RUSSO. Ma siccome in questa modifica l'intenzione sarebbe manifestamente quella di disconoscere alla magistratura la qualifica di potere, qualche rischio c'è; può essere recuperato con l'argomentazione a contrario di cui parlavo prima, si può cioè sostenere che il conflitto di attribuzione rimane perché non è con la magistratura ma con il potere giurisdizionale del singolo giudice. Mi sembrava comunque opportuno che anche questo argomento fosse all'attenzione della nostra Commissione.
Sempre sul piano strettamente formale, abbiamo presentato un emendamento


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all'articolo 104, analogo ad uno del collega Pera, con il quale proponiamo di sostituire la parola «assumere» con la parola «ricoprire», perché sia chiaro che qualora un membro del Consiglio superiore della magistratura è eletto a consigliere comunale dovrà dimettersi o non potrà conservare la carica.
C'è poi un emendamento che ha qualche rilievo sostanziale riferito all'articolo 105-bis, che riguarda la corte di giustizia per i magistrati. La soluzione proposta dal relatore ci pare convincente, ma riteniamo che non sia opportuno precisare il numero dei suoi componenti, dal momento che il numero dei componenti dei due Consigli superiori della magistratura non è indicato nella Costituzione ma è rimesso alla legge, ed è quindi variabile. Ci sembra allora opportuno fare riferimento alla proporzione: viene eletto per due terzi dal Consiglio della magistratura ordinaria e per un terzo da quello della magistratura amministrativa ed è composto per due terzi da magistrati e per un terzo da membri designati dal Parlamento nell'ambito di ciascun Consiglio.
Ho poi proposto una riformulazione degli articoli 104 e 105; anziché avere un articolo che disciplina il Consiglio superiore della magistratura ordinaria ed un altro che disciplina il Consiglio superiore della magistratura amministrativa, mi sembra preferibile riunire le disposizioni in un unico articolo, dal momento che i due Consigli hanno la stessa struttura. La stessa cosa ho tentato di fare per quanto riguarda la previsione della Corte di giustizia per i magistrati che, anziché essere collocata in un articolo a sé, potrebbe forse trovare più opportuna collocazione nell'ambito dell'articolo 105 che indica le funzioni del Consiglio superiore della magistratura. In questo modo può essere formulato con più chiarezza che anche la funzione disciplinare, essenziale per l'autonomia della magistratura, fa capo ai due Consigli superiori, che la esercitano per mezzo di questa unica Corte di giustizia per i magistrati.
Questo concetto, per la verità, non è contraddetto dallo schema che abbiamo in discussione, ci sembra però che la collocazione in un medesimo articolo consenta di dire nel secondo comma che spettano altresì al Consiglio superiore della magistratura ordinaria e a quello della magistratura amministrativa le funzioni disciplinari, che vengono esercitate in questa maniera. Vi è quindi una proposta di riformulazione sulla quale il relatore farà le sue valutazioni.
Forse non ho illustrato tutti gli emendamenti, gli altri li affido alla valutazione ed alla lettura del relatore.

ORTENSIO ZECCHINO. Naturalmente reprimerò decisamente la tentazione di un intervento dialogico verso le posizioni che sono emerse nel dibattito e dai tanti emendamenti, per limitarmi all'illustrazione degli emendamenti di cui sono firmatario - neanche di tutti, ma di quelli che reputo avere valenza particolare - non senza premettere alcune rapidissime considerazioni.
La prima è la forte condivisione dello schema Boato; ho già espresso questo convincimento nei diversi passaggi sui temi della giustizia e voglio ripeterlo qui, anche perché questa condivisione dą conto della ragione per cui gli emendamenti tutto sommato sono molto limitati; riguardano due o tre questioni che hanno già costituito motivo di riflessione problematica nel Comitato e temi sui quali sono certo che il relatore, al di là della formulazione adottata, abbia le stesse perplessità. Per esprimere un giudizio su questo schema utilizzando un facile luogo comune, potrei dire che la sua bontà è confermata dalla contrapposizione delle critiche che gli derivano dagli iperconservatori e da coloro che reputano il testo stravolgente rispetto ad equilibri che non andrebbero toccati.
L'altra notazione di carattere metodologico generale è che questi pochi emendamenti, di cui sono firmatario insieme ai colleghi del mio gruppo, si ispirano anche alla logica di garantire una maggiore stringatezza del testo costituzionale. Le varie bozze Boato sono state sottoposte ai raggi X in diverse sedi, ma questa non è


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ancora la Costituzione: sono passaggi intermedi sui quali però i giudizi si tuffano come se fossero il testo definitivo. È chiaro che questi testi che mano a mano si stanno formando, come è inevitabile che sia, vanno ancora sgrossati. Questo appartiene alla piena consapevolezza del relatore, ma fuori, con grande facilità e molto spesso con ingenerosità, si usa la matita blu per ogni imperfezione vera e qualche volta presunta.
In questa logica abbiamo proposto la soppressione dell'articolo 97 sul difensore civico. Tra l'altro, è in corso presso la Camera il dibattito su una legge ad hoc: questa mi pare una ragione buona per non costituzionalizzare l'istituto.
Come avevo già annunciato, abbiamo previsto un articolo 99-ter, che inserisce la Banca d'Italia tra le autorità imparziali e indipendenti.
Sulla giustizia amministrativa non ci siamo discostati dal testo e abbiamo privilegiato un conservatorismo nominalistico che ha la sua importanza; istituzioni come il Consiglio di Stato e la Corte dei conti hanno il loro peso, hanno acquisito una forza nella tradizione e probabilmente può essere utile non disperdere questa denominazione. Nella sostanza abbiamo accettato il principio della separazione tra le funzioni giurisdizionali e quelle non giurisdizionali in entrambi gli istituti, separazione che diventa visibile e forte rispetto all'elezione dell'unico Consiglio superiore della magistratura amministrativa alla quale concorrono soltanto i magistrati che svolgono funzioni giurisdizionali.
Naturalmente, rispetto alla Corte dei conti abbiamo mantenuto l'idea di una funzione di pubblico ministero, non utilizzando però questo termine per evitare equivoci. Su questo sarà necessario un approfondimento perché, se abbiamo previsto sezioni diverse nel CSM ordinario, probabilmente si pone il problema di come essere coerenti con questa scelta anche nella giustizia amministrativa.
Le questioni della giustizia ordinaria si legano a pochi articoli e certamente l'articolo 101 è il manifesto di tutto ciò che viene sviluppato dopo. Qui con grande tenacia comincio a insistere sulla soppressione del primo comma, che stabilisce che la giustizia è amministrata in nome del popolo, ma non mi soffermo su questo punto più di tanto perché conoscete la mia opinione. Se questa formulazione deve essere mantenuta, pur non essendoci una ragione storica per le cose che mi sono permesso di ricordare in altra sede ed essendo fonte di equivoco nell'attuale contesto politico, non mi danno più di tanto per un omaggio al conservatorismo accettabile e sano. Lo pongo come problema. Non credo che sarebbe sbagliato eliminare questa espressione che oggi non esiste in nessuna Costituzione, tranne in quelle monarchiche che, storicamente, fanno risalire a qualcuno l'esercizio della funzione.
Il problema più importante, invece, è il secondo comma. So bene il travaglio che abbiamo avuto tutti - anzitutto il relatore - nella sua formulazione, però debbo dire all'onorevole Boato che, pensando e ripensando - probabilmente ciascuno di noi procedendo a ritroso ritroverà tante contraddizioni su questo tema problematico - al punto attuale della riflessione sarei decisamente per evitare la unificazione, sotto l'unica dizione della soggezione soltanto alla legge, dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero. In questo sarei un conservatore rispetto all'attuale testo costituzionale. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.
Per quanto riguarda i magistrati del pubblico ministero, credo che la ripresa del quarto comma dell'articolo 107 fotografi bene la diversità. Se necessario, per fugare più che i dubbi le insinuazioni demolitrici, per le quali questa sarebbe la premessa per sottoporre il pubblico ministero ad altri poteri, io scriverei bello e chiaro in quest'articolo che i magistrati del pubblico ministero sono indipendenti da ogni altro potere e godono - come attualmente recita l'articolo 107 - delle garanzie stabilite nelle norme sull'ordinamento giudiziario.
Vi è poi la questione della ragione per la quale non possiamo equiparare il pubblico

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ministero al giudice: perché il pubblico ministero è organizzato in ufficio. Al riguardo, mi permetterei di suggerire due correzioni. La prima è di sostituire all'unità di azione degli uffici l'espressione «carattere unitario dell'attività», che mi sembra dia una sensazione meno militaristica; è una delle espressioni che qualche volta è stata usata per demolire questa esigenza, che noi dobbiamo in Costituzione riaffermare, della non personalizzazione della funzione del pubblico ministero. L'altra correzione che suggerisco è il coordinamento tra gli uffici. Quindi, all'interno garantire il carattere unitario di ciascun ufficio, poi garantire un coordinamento, che non significa alcuna gerarchizzazione rigida ma creare un meccanismo, perché quanto più l'ufficio è unitario e quanto più forte è la responsabilità del suo capo, tanto più credo si ponga il problema di ritrovare quell'equilibrio che non funzionava male in tempi non molto remoti, quando il procuratore generale aveva comunque una sua possibilità di intervento. Naturalmente, questo lo stabilirà la legge ordinaria. Noi fissiamo il criterio del coordinamento tra gli uffici.
Sono anch'io dell'avviso che le norme dei successivi commi vadano riportate all'articolo 111, intanto perché è quella la sezione che contiene le norme sulla giurisdizione. Mi sono permesso di proporre di modificare anche la titolazione di questa sezione, nel senso di far riferimento agli organi anziché all'ordinamento giurisdizionale (parliamo anche del ministro in questa sezione, che certamente non rientra nel concetto di ordinamento giurisdizionale). Quindi, diciamo «la giustizia e gli organi». Così come sarei, sempre per prosciugare il testo, per la soppressione dell'ultimo comma che fa riferimento all'effettivo esercizio del diritto di difesa anche da parte dei non abbienti. Ciò per la semplice ragione che, tutto sommato, così come configurato non aggiunge molto rispetto all'articolo 24, perché non prevediamo puntualmente un meccanismo, risottolineiamo un'esigenza forte. Ma allora non vi è bisogno di un altro articolo. Se avessimo previsto un istituto ad hoc, un meccanismo specifico, sarebbe stata norma di attuazione di quell'articolo.
Passo alle altre questioni rilevanti che attengono all'articolo 105. La materia disciplinare è importante e tanto più siamo tutti convinti, come siamo - e questo è un fatto positivo e prezioso del nostro lavoro - di preservare e, se possibile, di rafforzare l'autonomia dei giudici ancorando la loro azione al principio di legalità, tanto più dobbiamo essere preoccupati di ricercare un meccanismo di verifica e di controllo il più imparziale possibile sui modi di esercizio di questa funzione e sui modi di utilizzo di questa autonomia. Ciò nel modo più garantista e nella consapevolezza della ricerca dell'autorità più distaccata dalla passionalità della politica ma anche slegata dalle spinte corporative che hanno imbrigliato la funzione disciplinare: questo è un dato sul quale possono esistere valutazioni diverse ma ha larga condivisione, come è stato dimostrato anche dalle audizioni rese in Commissione da autorevoli esponenti della magistratura.
Rispetto a questo problema, credo che dobbiamo partire dai punti fermi che abbiamo acquisito, in particolare dai due più importanti, cominciando dal problema dell'avvio del procedimento disciplinare. Quali sono i due punti fermi? Il primo è l'obbligatorietà dell'azione disciplinare che abbiamo previsto, e se mai faremo un ordine del giorno scriveremo che occorre tipizzare, ma conoscendo tutti i problemi che vi sono su questo tema abbiamo fatto questa scelta, peraltro coerente con l'impianto complessivo; infatti, se c'è l'obbligatorietà dell'azione penale, se abbiamo ancorato l'intervento punitivo ad un criterio di legalità, credo che non possiamo che essere coerenti ed applicare lo stesso schema anche rispetto a questa funzione di verifica e di controllo delle patologie che si possono determinare e che si determinano nella funzione giurisdizionale. Ecco perché abbiamo fatto la scelta della obbligatorietà. Abbiamo fatto anche la scelta della fine del dualismo della

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titolarità dell'azione penale, perché abbiamo detto che questo sistema non funziona e abbiamo previsto un unico titolare in via primaria oltre a delle ipotesi sussidiarie.
Quindi, credo che a questo punto dobbiamo compiere gli altri passaggi conseguenti: quelli di dire che questa funzione non può essere in testa al ministro. Ciò per quattro ragioni che rapidamente vi enuncio. La prima sta nel fatto che l'obbligatorietà che noi fissiamo contrasta con la natura di organo politico e di organo ancorato a valutazioni di opportunità politica qual è il ministro. La seconda ragione è che affidare al ministro questa funzione significa pregiudicarne l'efficienza nonostante l'importanza della stessa: quando si profilava la titolarità del ministro, Zucconi Galli Fonseca ci ha ricordato che se non vi fosse stato il procuratore generale, non ci sarebbe mai stata l'azione disciplinare, perché il ministro è distratto da tante cose, non riesce ad avere tante notizie e finisce per essere condizionato dalle ragioni dell'opportunità. Quindi, ci diffidava dal farlo, e io raccolgo questo ammonimento del procuratore generale. Vi sono poi due ragioni tecniche. La prima è che bisogna evitare di scindere la funzione di promozione dell'azione disciplinare dalla prosecuzione: se noi affidiamo al ministro il promuovimento dell'azione penale, dovremo trovare un soggetto sostituto per la prosecuzione in udienza disciplinare quando vi è la concreta funzione giurisdizionale. La seconda è che se creiamo invece un'autorità indipendente risolviamo anche il problema grave e delicato dell'ispettorato e della funzione ispettiva, una delle questioni più controverse e più problematiche dal punto di vista del funzionamento dell'azione disciplinare: il ministro, che avrebbe dovuto avere nell'ispettorato il veicolo per agire, ha finito per essere sterilizzato e paralizzato dalla presa di posizione del CSM, che ha sottolineato e ricordato più volte come questa funzione sottoposta all'esecutivo non potesse intromettersi nell'indagine presso gli organi giurisdizionali. Noi, ancorando questa funzione ispettiva ad un'autorità di garanzia, risolviamo anche questo problema.
Dunque, mi sembrano quattro ragioni di grande rilievo per attuare questa innovazione importante. E per non attingere alla fantasia, mi sono rifatto ad un precedente discutibile ma comunque autorevole per la sua fonte: alla Costituente, Piero Calamandrei delineò questo procuratore generale come nominato dal Capo dello Stato su una terna del Parlamento. Capisco che vi sono molte obiezioni che si possono fare a questo schema, ma c'è una totale disponibilità a trovare una soluzione diversa. È indubbiamente vero che scomodare il Parlamento per eleggere tre personaggi e poi farne fuori due con il gioco dei birilli forse non è simpatico ed estetico. Quindi, troviamo un altro sistema. L'ho proposto per appoggiarmi ad un precedente già esistente agli atti del nostro dibattito costituzionale, anche se di cinquant'anni fa.
In connessione con questa scelta, ricordo, in progressione logica, che, per quanto concerne il giudice disciplinare, si era partiti - lasciatemi questa piccola sottolineatura di orgoglio partigiano - con la posizione dei popolari che proponevano una sezione autonoma del CSM per la funzione di giudice disciplinare. Si è poi passati a questa corte di giustizia. Credo che il passaggio successivo debba essere quello di fare di questa corte di giustizia un organo di massima autonomia e di indipendenza. Ed è per questo che ho proposto un organo formato sullo schema della Corte costituzionale, che è comunque stato l'organo di massima garanzia. Ho riprodotto tali e quali le norme sulla Corte costituzionale. Naturalmente, vedremo se il Capo dello Stato avrà, rispetto alla Corte, il potere di nomina di un terzo. Quello che succederà per la Corte varrà anche per questa corte dei magistrati. Ma l'ancoraggio del criterio di massima autonomia per questa funzione mi sembra un fatto molto importante.
Le altre due questioni sono relative all'articolo 111.

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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE LEOPOLDO ELIA

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Prima che lei passi alle altre questioni, vorrei chiederle un chiarimento. Mentre lei illustrava il suo emendamento V.105-bis.6, ha parlato anche di funzione ispettiva. Però mi sembra, leggendo l'emendamento che non è ricompreso...

ORTENSIO ZECCHINO. No, non è compreso perché apparterrà alla legge, ma se questo organo ha la funzione di promozione di esercizio dell'azione disciplinare, è chiaro che l'attuale funzione ispettiva che fa capo all'ispettorato presso il ministero, quindi dipendente dal ministro, non potrà che dipendere da questo. Per la verità, avevo anche steso la norma in questo senso. Mi è parso poi un fuor d'opera nel testo costituzionale, ma dobbiamo aver chiaro qual è il disegno. Quindi, ovviamo anche l'inconveniente molto forte, che oggi esiste, di questa funzione ispettiva che non viene di fatto esercitata perché se ne è reso impossibile l'esercizio.
Le altre due questioni attengono agli articoli 111 e 112. Per quanto riguarda l'articolo 111, anch'io, come ha detto il collega Senese, sono per recepire quel forte appello che ci venne dal presidente Sgroi, nel senso di evitare la possibilità di ricorribilità in Cassazione per tutte le sentenze. Abbiamo previsto la ricorribilità solo quando non siano esperibili altri mezzi di impugnazione. Vogliamo cioè garantire che ci sia comunque un mezzo di impugnazione, ma che non debba trattarsi sempre del ricorso per Cassazione.
Nell'articolo 111 abbiamo riportato le norme sulle garanzie processuali, con un rinvio ai principi contenuti negli accordi e nei trattati internazionali. Il testo attuale ricalca la convenzione europea; anziché ripeterla, noi facciamo questo riferimento. L'emendamento V.111.4 parla di un rinvio ai principi; possiamo aggiungere «rinvii e norme» per essere più chiari, ma questo è lo schema.
Sono anch'io d'accordo con il relatore Boato che sul problema del divieto di interpretazione in modo analogico estensivo sia bene far riferimento alla formulazione dell'articolo 14, avendo sentito le sue osservazioni ma anche la risposta di Senese. Credo che difficilmente la materia sia risolvibile con un'innovazione nel lessico normativo (quello è un lessico dottrinario che non ha trovato ancora una consolidazione pacifica).
Sull'articolo 112, che è uno dei triboli del dibattito, quali sono le questioni? Nessuno pone in discussione l'obbligatorietà dell'azione penale. Esistono però due problemi e due rischi, quello dell'iperattività dei pubblici ministeri e quello dell'inerzia. Non ci sono meccanismi per prevenirli. Noi facciamo uno sforzo, sapendo che i principi valgono quello che valgono, ma noi di essi trattiamo in questa sede, per cui sono per l'inserimento di due principi, il primo dei quali è contenuto nell'emendamento Parenti che prevede la titolarità in via sussidiaria di altri soggetti, un modo per ovviare a ipotesi di inerzia. Sono contento che sia stato presentato questo emendamento, altrimenti lo avrei fatto io; non averlo formulato è frutto di un'omissione.
Vi è poi il problema dell'iperattivismo che non è meno preoccupante, anzi, negli ultimi tempi, è stato la vera ragione di preoccupazione. Qual è il discrimine tra ciò che possono e ciò che non dovrebbero fare i pubblici ministeri? Siamo andati smarrendo il senso dell'azione penale, il concetto di azione penale si è modificato non solo per il sopravvento del nuovo codice ma anche per una prassi che ha fortemente innovato. L'azione penale è, e non può non essere, un intervento che nasce da una notitia criminis; molti hanno rilevato come ormai l'attività dei pubblici ministeri si muove in una condizione di totale sganciamento da questo presupposto. Non stiamo qui a definire la notitia criminis come qualificata, non ci soffermiamo su problemi antichi come quello relativo all'anonimo o alla notizia giornalistica; noi fissiamo il principio: l'azione penale con le indagini che ad essa


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si connettono può aversi soltanto quando c'è una notitia criminis. Questo è un principio che pone un limite, a che cosa e tra chi? Tra la funzione del pubblico ministero e quella degli organi di pubblica sicurezza, che possono muoversi a prescindere dall'esistenza di una notitia criminis. Noi abbiamo invece trsformato e consentito la trasformazione dell'attività del pubblico ministero in un'attività che può esplicarsi a tutto campo, anche a prescindere da una notitia criminis. Allora per un verso il ricorso alle azioni penali sussidiarie ci può garantire - per quello che valgono questi meccanismi - dal rischio dell'inerzia e dall'altro, fissare in Costituzione il principio che l'azione penale deve essere un posterius rispetto alla notitia criminis, comunque vale a definire in modo forte e chiaro quello che deve essere il campo di azione del pubblico ministero.
Sugli altri articoli relativi alla Corte costituzionale non abbiamo grandi innovazioni da proporre. Anche su questo tema sostanzialmente condividiamo il testo del relatore Boato.

AGAZIO LOIERO. Per non duplicare il nostro comune lavoro non parlerò su emendamenti di cui sono cofirmatario e sui quali si sono già soffermati altri colleghi. Mi riferirò quindi esclusivamente ad emendamenti in precedenza non illustrati e lo farò in termini brevissimi, come è opportuno faccia chi deve illustrare emendamenti in quanto tali stringati ed essenziali, poiché conseguono ad un dibattito già avvenuto e ad una relazione già presentata.
In alcuni paesi di lunga democrazia - lo voglio ricordare - gli emendamenti addirittura si depositano e non si illustrano. Dico questo - e non mi riferisco a questa giornata - perché il rigore e la sobrietà istituzionale dell'intervento non è un limite della democrazia ma è una delle sue estreme risorse.
Alla luce ed in coerenza con quanto affermato, mi limiterò ad illustrare tre emendamenti a firma Casini e mia relativi agli articoli 100, 104 e 106. Con essi mi occuperò del Consiglio di Stato. Sono d'accordo con il senatore Zecchino nel senso che non dovremmo disperdere qualità e professionalità in un paese che di questi elementi appare difettoso in maniera talvolta anche mortale.
L'emendamento V.100.15 si riferisce all'articolo 100 e propone di sostituire il primo comma con il seguente: «Il Consiglio di Stato è organo di garanzia e di unità dell'ordinamento giuridico ed esprime avvisi su questioni generali e sugli schemi di atti normativi». Esso si giustifica perché, rispetto al testo della bozza Boato, individua non già un organo di mera consulenza per il Governo, cioè di parte in favore dell'amministrazione, ma un organo neutrale di garanzia di risoluzione dei possibili conflitti in sede preventiva, soprattutto in relazione a questioni generali e in materia regolamentare. Questo organo deve esprimere pareri non nell'interesse di questo o quel Governo, ma nell'interesse della legge, cioè a garanzia del rispetto delle regole e dell'ordinamento.
Proprio in relazione a questa funzione deve prevedersi, nell'ambito del Consiglio di Stato, una significativa componente tratta dall'organo giurisdizionale di più alto livello, per la garanzia della neutralità dell'organo, come avviene in altri paesi europei e in particolare in Svezia. Viene quindi restituita la funzione consultiva su materie di interesse generale e sugli atti normativi la dignità e la certezza del giudizio che solo un organo magistratuale può dare.
Il secondo emendamento V.104.26 fa riferimento all'articolo 104 e propone di aggiungere in fine al comma 5 le parole «o iscritti nell'albo speciale dei patrocinanti presso le giurisdizioni superiori».
La legge che regola l'esercizio della professione forense riconosce ad alcune categorie di soggetti (professori universitari, magistrati di cassazione, ex prefetti) l'iscrizione di diritto nell'albo speciale dei patrocinanti in Cassazione. Ciò in considerazione della funzione di elevatissima professionalità giuridica espletata. È come se fosse un esercizio di attività professionale


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che ope legis è equiparato a quello effettivo. In breve, il servizio prestato in precedenza quale professore universitario, magistrato ed ex prefetto è considerato utile per l'iscrizione nell'albo speciale degli avvocati cassazionisti, ancorché essi non abbiano esercitato la professione forense per il periodo normalmente stabilito, che era di 14 anni e ora è di 12.
Ciò premesso, non si comprende perché il servizio di elevata professionalità in precedenza prestato, se vale per l'iscrizione nell'albo speciale e quindi per l'esercizio della professione forense ai più alti livelli, non debba valere ad ogni effetto e quindi anche per lo svolgimento di altre funzioni collegate all'avvocatura come quelle di cui all'articolo 104. In definitiva, perché un avvocato iscritto nell'albo speciale e ritenuto meritevole di essere ammesso al patrocinio dinnanzi alle giurisdizioni superiori, non può partecipare come tale al Consiglio superiore della magistratura e ad altri analoghi consigli?
L'accoglimento dell'emendamento eliminerebbe ogni dubbio interpretativo ed una ingiustificata disparità di trattamento.
Il terzo emendamento V.106.17 si riferisce all'articolo 106 e propone di inserire dopo il primo comma il seguente: «Le nomine dei consiglieri della Corte di giustizia amministrativa hanno luogo per concorso pubblico». L'emendamento si commenta da solo: è necessario che i componenti della Corte di giustizia abbiano superato un concorso pubblico per le funzioni giudicanti di ultimo grado, a garanzia della qualità, della preparazione e della specializzazione dei magistrati addetti.

NATALE D'AMICO. Complessivamente le soluzioni disegnate nella proposta alla nostra attenzione ci sembrano ragionevoli ed accettabili e ci pare che risolvano i problemi alla nostra attenzione. Tutti noi sappiamo che i problemi della giustizia e dell'efficienza del sistema giudiziario italiano non li risolveremo con la Costituzione, nella quale però possiamo trovare equilibri più accettabili rispetto ai valori fondamentali in gioco.
Mi limiterò a soffermarmi su alcuni emendamenti nella sequenza degli articoli ai quali sono riferiti. Il primo articolo sul quale presentiamo emendamenti è quello relativo alle autorità indipendenti. Ho già argomentato in proposito perciņ non mi intratterrò sul motivo per cui ritengo sia necessario tutelare in Costituzione due autorità indipendenti, quella per la concorrenza ed il mercato e la Banca d'Italia. Sulla prima abbiamo presentato un emendamento e sulla seconda immagino che tornerà in esame la formulazione contenuta nel testo relativo all'Europa. Comunque, la tesi che sosteniamo è che sia necessario tutelare in Costituzione solo due autorità indipendenti e non tutte, anche perché molte di esse hanno, per loro natura, carattere transitorio e si può immaginare ragionevolmente che la funzione che oggi svolgono possa essere in futuro svolta all'interno dell'amministrazione dello Stato, quando questo sarà uscito dai settori produttivi cui esse si riferiscono.
Immediatamente dopo ci occupiamo dell'articolo 100, sul quale solleviamo un problema relativo al ruolo della Corte dei conti. Il dubbio che abbiamo e che proviamo a risolvere con il nostro emendamento è se sia opportuno escludere comunque dal nostro ordinamento la possibilità di controlli preventivi di legittimità. L'emendamento prevede che la Corte dei conti, tra le altre cose, sia organo di controllo preventivo della legittimità nei casi previsti dalla legge. Quindi, non si propone niente di più che ristabilire la possibilità che la legge preveda controlli preventivi di legittimità.
Ci sono casi in cui questo può essere necessario ed in passato il controllo preventivo di legittimità ha svolto un ruolo importante; pensiamo possa essere utile prevederlo anche nella nuova Costituzione, senza avere la pretesa di immaginare che risolva moltissimi problemi: alcuni sicuramente ne risolverà.
Proponiamo inoltre di aggiungere anche il controllo di legalità a quello di efficienza e di economicità dell'azione


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amministrativa proprio della Corte dei conti.
In generale il ruolo della Corte dei conti, per come è disegnato, ci pare un po' strano; è un ruolo da società di consulenza: «efficienza ed economicità della gestione» è un'espressione che forse non dice con chiarezza quanto vorremmo facesse la Corte o, se lo dice, lascia intravedere un ruolo proprio non di una Corte, ma di una società di consulenza gestionale.
In relazione a ciò, pensiamo debba essere modificato anche l'articolo 103, laddove si prevede che la giustizia amministrativa è esercitata dai giudici dei tribunali amministrativi regionali e della Corte di giustizia amministrativa. Il punto è se questi tribunali abbiano anche la funzione di giudicare della responsabilità patrimoniale dei pubblici funzionari; forse sono altra cosa rispetto ai TAR di cui abbiamo conoscenza ed allora è più opportuno utilizzare una dizione diversa, quale quella che noi proponiamo («Corti di giustizia amministrativa di primo e secondo grado») con l'emendamento V.103.10.
Nell'articolo 101 si tratta la delicata questione dei pubblici ministeri. Premetto che i nostri emendamenti V.101.10 e V.101.11 devono essere letti nel loro insieme. In particolare, il secondo comma dell'articolo 101 prevede che le norme sull'ordinamento giudiziario assicurano il coordinamento interno e l'unità di azione degli uffici del pubblico ministero; ci è sembrato che ciò lasci intendere la possibilità di uno stretto coordinamento gerarchico nell'ambito del ruolo dei pubblici ministeri. Noi proponiamo una formulazione che prevede sì la possibilità di coordinamento e di unità di azione, ma all'interno di ciascuno degli uffici del pubblico ministero. Ci sembra inoltre necessario anticipare già in questa sede quanto previsto più avanti, cioè che la distinzione è relativa solo alla diversità di funzioni.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Il tema ancora non è risolto, ma con questa formulazione rischieremmo di rendere incostituzionale, il giorno dopo l'entrata in vigore della nuova Costituzione, tutta la procura nazionale antimafia. Per questo la mia formulazione in qualche caso è un po' più estensiva.

NATALE D'AMICO. Per altro verso, con questa dizione renderemmo costituzionale un coordinamento strettamente gerarchico e piramidale dei pubblici ministeri, cosa alla quale guardo con particolare preoccupazione.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Anch'io concordo con quest'aspetto; ciò dipenderebbe però dalla legge ordinaria.

NATALE D'AMICO. Il punto è che la Costituzione lo renderebbe possibile. Credo che anche in Costituzione bisognerebbe escludere quest'eventualità, che giudico pericolosa per i cittadini.
Qualche preoccupazione suscita in noi anche il comma 4 dell'articolo 101, laddove si prevede che il procedimento si svolge nel contraddittorio tra le parti. A noi sembra più giusto stabilire che sia il processo a svolgersi in queste condizioni, poiché il procedimento si estende a fasi nelle quali il contraddittorio non è ragionevolmente immaginabile: penso a casi che è perfino inutile spiegare. Secondo noi bisognerebbe quindi utilizzare un'espressione più propria, quella appunto di «processo».
L'articolo 105-bis contiene una disposizione delicata e - lo so bene - frutto di lunghe mediazioni concernente la Corte di giustizia della magistratura. Definiamo quest'organo «Corte»; in realtà prevediamo che essa sia composta secondo un complesso criterio in cui i principi di rappresentanza elettiva sono articolati in sottocategorie (coloro che sono nominati dall'ordine giudiziario e coloro che dipendono dalla nomina parlamentare). Il rischio che si può creare è che i componenti di questa Corte si sentano rappresentanti di un numero tutto sommato abbastanza ristretto di persone e quindi indirettamente anche di interessi.


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Proponiamo, pertanto, una soluzione alternativa in senso piuttosto radicale, che è quella che l'ordinamento italiano già conosce per i tribunali dei ministri, cioè che i membri di questa Corte siano sorteggiati fra i giudici che hanno determinate caratteristiche: se debbono fare i giudici, siano sorteggiati tra gli stessi, allo scopo di escludere ogni criterio di rappresentanza di interessi e di posizioni politiche rispetto alla delicata funzione che deve essere svolta in modo probabilmente migliore e più incisivo rispetto ad oggi, ma dalla quale devono essere esclusi tutti i criteri di rappresentanza anche in senso lato politica, che invece sarebbero inevitabili se si adottasse il meccanismo qui proposto.
Proponiamo una modifica anche all'articolo 106, relativo al principio per cui in nessun caso le funzioni giudicanti penali e quelle del pubblico ministero possono essere svolte nel medesimo distretto giudiziario. Personalmente non capisco cosa significhi questa dizione: vuol dire «in sequenza» o «mai»? Se volesse dire «mai», nel senso che colui che è stato giudice in un distretto non potrà mai essere pubblico ministero in quello stesso distretto, non riesco a capire la ragione di tale previsione. Si può prevedere un intervallo temporale anche ampio, ma non mi sembra irragionevole che la migliore utilizzazione di un pubblico ministero possa avvenire in quel distretto dove vent'anni prima egli era stato giudice. Per quanto siano lunghi i processi, ci si augura che nel frattempo egli non intralci da pubblico ministero le attività giurisdizionali per connessioni con la sua attività precedente.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. La sua preoccupazione è esattamente opposta a quella del senatore Pera!

MARCELLO PERA. Lei non si preoccupa, onorevole D'Amico? Si preoccupa degli interessi del pubblico ministero o del magistrato che si sposta, non dei cittadini che devono essere giudicati!

NATALE D'AMICO. Non mi preoccupo di quello: sto dicendo che non vi debba essere sequenza temporale, bensì un intervallo ampio. Ai fini dell'efficienza della giustizia non mi sentirei di escludere che, dopo vent'anni, la migliore utilizzazione del pubblico ministero possa essere per un dato caso proprio quella in un distretto in cui, magari per sei mesi, aveva svolto funzioni giudicanti.
Sono d'accordo con il criterio; se si prevedesse il divieto dell'immediata successione, sarebbe un principio troppo lasco. Ma se il criterio fosse che non potrà mai farlo, genererebbe una rigidità eccessiva e quindi inefficienze. Noi proponiamo dieci anni di intervallo; ma che siano dieci, quindici o otto, il problema non è questo.
Sempre in relazione all'articolo 106, qualche preoccupazione nasce in me dall'ultimo comma, secondo il quale la legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina di avvocati e professori universitari in materie giuridiche negli altri gradi della giurisdizione. Se comprendo bene, non si pone alcun limite a questa possibilità; ciò è piuttosto preoccupante, tanto più che una norma precedente stabilisce che il Consiglio superiore della magistratura può chiamare all'ufficio di consigliere di Cassazione, per meriti insigni, persone che abbiano determinate caratteristiche.
Se l'ultimo comma mi preoccupa per l'assenza di limiti, mi pare accettabile il comma precedente, estensibile a gradi diversi della carriera del magistrato, mantenendo però le caratteristiche ivi previste. Pertanto, proponiamo che sia soppresso l'ultimo comma, che ci pare pericoloso: so che qualcuno sostiene la necessità della legge bicamerale, ma il punto non è questo. Si prevederebbe in Costituzione il fatto che una maggioranza parlamentare possa decidere di immettere senza limiti nell'ordinamento giudiziario le persone che crede: non c'è altro limite nella Costituzione che stiamo disegnando. Proponiamo invece che venga ampliata la possibilità prevista al comma precedente, ferme restando alcune caratteristiche oggettive,


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cioè che queste persone siano almeno professori universitari o quant'altro ivi previsto.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Si rischia di non trovare sufficienti persone che abbiano meriti insigni, perché di questo parla il comma precedente.

NATALE D'AMICO. D'altra parte, con questa norma il rischio è che non vi sia alcun limite; secondo me, lo stesso criterio di indipendenza verrebbe in qualche modo negato.
Passo ora al quinto comma dell'articolo 107, secondo il quale nell'esercizio delle rispettive funzioni i giudici amministrativi e i magistrati del pubblico ministero si attengono ai principi di responsabilità, correttezza e riservatezza. Aggiungerò la mia firma all'emendamento Cossutta V.107.2; per la verità; avevo predisposto un emendamento simile che per motivi materiali non è stato presentato. Secondo me, a questi principi si attengono i pubblici impiegati e non solo i giudici. Non capisco il riferire tali principi ai giudici: responsabilità, correttezza e riservatezza debbono essere principi generali della pubblica amministrazione. Prevederli espressamente qui è strano: o c'è qualcosa di più al quale debbono attenersi i giudici, oppure la norma sembra dire che valgono solo per i giudici, oppure ancora che ci sia qualche motivo per affermarli con maggiore chiarezza con riferimento a questi ultimi. Mi sembrano tre principi che non possono essere riferiti solo ai magistrati: dovrebbero riguardare tutti i pubblici impiegati ed espressi in questo modo fanno nascere la domanda sul motivo per cui se ne parli a proposito dei giudici.
Nutro parecchi dubbi anche sul terzo comma dell'articolo 111, il quale costituzionalizza parzialmente la Convezione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, con la qual cosa concordiamo pienamente. Credo, infatti, che uno degli obiettivi del nostro processo di riforma debba essere quello di accrescere i sistemi di garanzia di cui godono i cittadini. Ma il dubbio è che, estrapolando dalla Convenzione solo questo brano, si tagli con l'accetta ciò che tagliabile non è. Faccio un esempio banale. È previsto che la persona sia assistita gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Chi potrebbe non essere d'accordo? Però sono andato a rileggere la Convenzione la quale - tenendo presente giustamente che nel mondo ci sono non so quante migliaia di lingue e di dialetti - prevede che in casi straordinari e molto limitati si possa venire meno a questo principio.

ORTENSIO ZECCHINO. Lasciamo solo il riferimento alla Convenzione, senza specificazione.

NATALE D'AMICO. Infatti, l'emendamento che proponiamo prevede di far riferimento per intero alla Convenzione.
Per finire, in merito alla composizione della Corte costituzionale, immagino che, anche in riferimento alla quantità di nuovi compiti ad essa affidati, si debba ragionare sul numero dei suoi membri e sul fatto che essa possa organizzare il proprio lavoro in sezioni: abbiamo presentato emendamenti specifici sul punto.

ANTONIO LISI. Vorrei anzitutto riferirmi all'intervento che ho svolto in Commissione plenaria e che riguardava i problemi che discutiamo nuovamente stasera. Questo riferimento mi consentirà di essere molto più breve.
Questa sera parliamo di emendamenti, ma essi non sono altro se non l'esplicitazione in termini formali di come vorremmo fossero redatti gli articoli della nostra Carta costituzionale, secondo i principi che abbiamo più volte enunciato non solo in Comitato, ma anche in Commissione plenaria.
Prima di dare uno sguardo veloce agli emendamenti che abbiamo ritenuto di presentare e sottoscrivere, debbo dire che mi hanno preoccupato questa sera gli interventi degli onorevoli Senese e Russo.


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Il collega Senese ha iniziato il suo discorso sostenendo che noi - perché sostanzialmente si rivolgeva a chi voleva un certo tipo di riforma - staremmo confondendo la congiuntura con quanto invece è necessario affrontare al fine delle modifiche sostanziali che riteniamo di dover apportare alla nostra Carta costituzionale, che quanto sta accadendo intorno a noi è frutto solo di una congiuntura e che quindi non bisogna dare peso e credito a quanto avviene, ma occorre pensare a ciò che realmente si vuole.
Vorrei dire al collega Senese che, per quanto mi riguarda, sulla base della mia esperienza, si tratta di una congiuntura che dura da ben 35 anni, un periodo molto lungo, che gradirei terminasse. Ho infatti l'impressione che lo spauracchio della confusione, che noi avremmo nella mente, fra congiuntura e quanto invece si dovrebbe fare nell'interesse supremo della giustizia, sia agitato solo per spaventare qualcuno. Penso comunque che non abbia raggiunto alcuno scopo, perché chi vi sta parlando certamente non si è preoccupato di tale spauracchio.
Per ciò che concerne il collega Russo, allorquando ha parlato di separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudicante, ha ribadito un discorso che credevamo eliminato per sempre dai nostri dibattiti: secondo il collega, è ancora in atto il tentativo di portare il pubblico ministero sotto la guida e la gestione dell'esecutivo. Credetemi, pensavo sinceramente che questo discorso fosse stato superato e che non si dovesse tornare a dibatterne. Ciò che abbiamo proposto è infatti scritto, e tutto si può dire meno che in ciò che abbiamo proposto vi sia il tentativo di sottoporre il pubblico ministero all'esecutivo; tutto fuorché questo. Ciò significa che ancora una volta sia la congiuntura sia il grido «al lupo al lupo» servono soltanto a tentare di spaventare chi certamente non si spaventa, rimanendo naturalmente fini a se stessi.
Ritengo necessario riportare in quest'aula un discorso di carattere più concreto, abbandonando questi ripetuti allarmi ingiustificati: in quest'aula un collega (non ho avuto il piacere di ascoltarlo, ma un altro collega ha preso appunti di quanto è stato detto e mi ha riferito) avrebbe detto che se non si fa in un certo modo si rischia una determinata conseguenza; non ho capito se la conseguenza sia quella di rompere qualsiasi tipo di accordo o un particolare tipo di accordo. È comunque certo che, per quanto ci riguarda, non abbiamo stipulato alcun tipo di accordo in ordine al problema che stiamo affrontando, quello delle garanzie, e questa preoccupazione ci lascia indifferenti.
Credo che questo possa servire a chiarire l'animo con il quale ci avviciniamo alla problematica e serve soprattutto a chiarire che noi, in 35 anni di attività professionale, non ci siamo preoccupati di quanto accadeva sotto l'aspetto delle minacce (ce ne sono state tante) e non ce ne siamo nemmeno preoccupati in questi mesi, in questi giorni. Sono ormai stanco di leggere i giornali; si potrà obiettare che, lavorando in bicamerale, si può anche non leggerli; è giusto. Ho voluto evitare qualche volta anche di leggere il giornale: credetemi, ho messo da parte anche quella naturale curiosità di vedere come la pensano coloro i quali dicono di sentire e molto spesso sentono come vogliono. C'è anche questo problema da affrontare: sentono quello che vogliono e traducono come vogliono.
Prescindendo da tale considerazione, non ci siamo nemmeno preoccupati di tutti gli allarmi che sono venuti dall'esterno di questa Commissione; quanto è accaduto è sotto gli occhi di tutti, è stato scritto in numerosi articoli. Abbiamo assistito ed ascoltato innumerevoli interventi in innumerevoli convegni: molto spesso, con tutto il rispetto per coloro i quali vi hanno partecipato, sembravano le compagnie di una volta, che giravano paese per paese per far conoscere un certo tipo di teatro. Non so se questo voleva essere un insegnamento o un tentativo di intimorire o comunque di mettere chi stava lavorando in Commissione bicamerale in condizioni di essere preoccupato al di là dei propri problemi personali e del suo modo

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di essere e di interpretare il ruolo affidatogli dalla sua parte politica ed anche dall'elettorato, se vogliamo risalire alle origini: non bisogna infatti dimenticare che siamo qui in funzione di rappresentanti di una parte politica, ma anche perché nel corso della nostra campagna elettorale abbiamo sostenuto esattamente quello che stiamo sostenendo in questo momento.
Si tratta di un discorso che voglio rimanga agli atti, perché, a prescindere dalla considerazione e dal ringraziamento che va ai colleghi che mi stanno ascoltando, mi pare che ciò che stiamo dicendo serva come testimonianza scritta e non per altro.
Ritorno per un attimo agli emendamenti; dico per un attimo perché certamente non vi farò perdere moltissimo tempo. Sono infatti l'ultimo ad intervenire e vorrei farvi andar via, perché vi vedo molto stanchi. Avete il diritto di riposarvi. Siamo stanchi anche noi, e quindi mi pare che ci troviamo nella stessa barca: è forse l'unica cosa su cui siamo tutti d'accordo.
Abbiamo ritenuto, il collega Maceratini ed io, di dover proporre degli emendamenti in materia di giustizia amministrativa con caratteristiche che il relatore ben conosce, perché si è reso parte diligente nell'esaminarle (e poi ne riferirà al momento opportuno). Egli sa perfettamente, come peraltro sanno i colleghi che hanno partecipato alle nostre discussioni, che ci siamo fatti carico di ciò fin dal primo momento, esercitando dall'inizio il nostro diritto di porre un freno al tentativo proveniente - peraltro legittimamente - da altre parti politiche di fare sì che la giustizia amministrativa diventasse qualcosa di diverso rispetto a quello che è stata fino ad oggi, con le caratteristiche e le sfumature che si sono viste attraverso le varie proposte di modifica.
Analogo discorso vale anche nei riguardi della magistratura contabile, della Corte dei conti: abbiamo specificato, attraverso i nostri emendamenti, quale ruolo intendiamo attribuire alla magistratura amministrativa, in quali limiti vogliamo intervenire e quali ruoli e quali limiti vogliamo che vengano posti alla magistratura contabile. Qualcuno potrà dire che noi siamo ancora legati ad un vecchio modo di interpretare questo tipo di amministrazione della giustizia, amministrativa o contabile, ma credo che tale accusa, se dovesse, peraltro legittimamente, esserci rivolta, ci lascerebbe solamente un po' perplessi; infatti, riteniamo di essere invece dalla parte di chi intende innovare, ma con i piedi di piombo, proprio con specifico riferimento alla magistratura, contabile ed amministrativa. Per quanto riguarda la magistratura contabile, siamo dell'avviso che negli ultimi anni essa abbia prodotto notevoli risultati, anche considerando il magma della situazione italiana e, per ciò che concerne la magistratura amministrativa, apprezziamo l'attività posta in essere in tutti questi anni.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Senatore Lisi, mi permetta una breve interruzione: rispettando la sua posizione e quella degli altri colleghi, voglio far presente che nessuno si sognerebbe di mortificare alcunché. L'unica proposta è quella di separare nettamente funzioni consultive o di controllo da funzioni di carattere giurisdizionale; le prime si collocano all'interno della magistratura e dell'unità funzionale della stessa, articolata in ordinaria ed amministrativa, le altre hanno una grandissima rilevanza, ma sono di altra natura. Tutto qui.
Dopodiché, la sua posizione è del tutto legittima, però non c'è nessuna mortificazione; in un certo senso c'è l'esaltazione...

ANTONIO LISI. Se nel mio intervento si è colto un richiamo a quello che probabilmente non è lo spirito che ha animato chi ha ritenuto di proporre cose diverse dalle nostre, chiedo venia; rimango però della mia opinione, quella espressa attraverso gli emendamenti presentati.
Quando abbiamo chiesto che fosse modificata la bozza Boato al primo comma dell'articolo 100 («Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa


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del Governo»), ritenevamo che si dovessero aggiungere le parole «e di garanzia della legittimità delle azioni amministrative». Ciò s'inquadra nel contesto dell'interpretazione di un'attività da parte della magistratura amministrativa che pensiamo debba esplicitarsi attraverso quel tipo di meccanismo. Naturalmente, tutti gli emendamenti successivi sono legati a questo modo d'interpretare tale riforma; gli emendamenti V.100.16, V.100.17, V.100.18, V.100.19 e V.100.9 fanno esplicito riferimento alla costruzione che abbiamo inteso dare alla magistratura amministrativa e contabile.
Per quanto riguarda l'articolo 101, abbiamo ritenuto, insieme al senatore Pera e ad altri colleghi del Polo, di ripristinare la dizione della vigente Costituzione, con un'aggiunta: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge. I magistrati del pubblico ministero godono delle garanzie stabilite nei loro riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario, che assicurano altresì l'unità di azione e il coordinamento interno tra i diversi uffici del pubblico ministero». La spiegazione di questa modifica è stata data in maniera esemplare e precisa dai colleghi che mi hanno preceduto e che hanno sottoscritto con me l'emendamento V.101.13.
Ribadiamo la necessità che rimanga l'enunciazione della Costituzione vigente, che prevede qualcosa che probabilmente è stata portata all'attenzione dei costituenti; si voleva chiaramente fare in modo che, leggendo la Carta costituzionale, ci si rendesse conto che fin dal primo momento i padri della nostra Costituzione hanno ritenuto di porre in essere una diversificazione di ruoli fra giudici e pubblici ministeri. Quella differenza era già lì, sotto gli occhi di tutti: i giudici sono soggetti solo alla legge e i magistrati sono tutelati dall'ordinamento e da altro. Abbiamo ritenuto che fosse necessario ripristinare questa norma sulla base di una filosofia che abbiamo esplicitato passo per passo durante i nostri interventi, nell'illustrazione dei nostri emendamenti e nel corso di tutte le battaglie che sono state portate avanti. Nell'intervento da me pronunciato in quest'aula dissi che, in fondo, avrei preferito che i voti si fossero succeduti nel Comitato sistema delle garanzie, avrei preferito quel tipo di percorso, ma si è deciso tutti insieme di agire come abbiamo fatto.
Ritengo, proprio sulla base dell'esperienza delle discussioni svolte, che abbiamo perduto - mi si consenta - moltissimo tempo, perché oggi non stiamo facendo altro che ripetere i concetti che abbiamo esplicitato fin dal primo incontro nel Comitato sistema delle garanzie; sono concetti che abbiamo tradotto con la presentazione di nostre bozze in sede di Comitato - il collega Boato lo ricorderà - e con la proposizione di idee e di ipotesi che avevamo prima indicato oralmente e poi chiarito per iscritto, in quanto volevamo che venissero evidenziate. Se in Comitato avessimo cominciato a votare articolo per articolo, probabilmente oggi non staremmo qui a perdere tempo ed avremmo già concluso su un indirizzo da dare al lavoro che ci è stato affidato dalle Camere, lo avremmo portato dinanzi al Parlamento e ci saremmo trovati nelle condizioni di discutere...

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Molti colleghi di altri Comitati hanno ammirato il faticoso lavoro che abbiamo fatto in questi mesi.

ANTONIO LISI. Non ho detto che non abbiamo lavorato, attenzione a non confonderci su quanto vado dicendo: ho detto che abbiamo lavorato più di quanto dovevamo, questa è l'interpretazione del mio pensiero, se mi consente. Ho detto che stiamo ripetendo esattamente quanto abbiamo già fatto e detto in tantissime occasioni: do quindi atto al relatore ed ai colleghi che più di questo non si poteva fare e - scusatemi per l'immodestia - mi metto anch'io fra coloro che hanno lavorato, perché, anche se non si interviene, spesso è più pesante ascoltare anziché parlare.
Per quanto riguarda l'articolo 101, abbiamo esplicitato il nostro pensiero con la presentazione degli emendamenti che


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sottoponiamo all'attenzione della Commissione. È inutile che dica quanto viene proposto con l'emendamento V.101.14, nel quale si fa riferimento a come si dovrebbe svolgere il procedimento penale, secondo i principi di oralità, contraddittorio, parità tra le parti e terzietà del giudice. Mi sembra infatti di sfondare una porta aperta, perché sotto questo aspetto siamo stati tutti abbastanza precisi e determinati a raggiungere quello che è uno degli obiettivi principali della riforma; un obiettivo cardine, perché non è giusto che nella Carta costituzionale non vi sia un riferimento specifico ad un problema che investe il cittadino dal momento in cui nasce a quello in cui muore e che una Carta costituzionale che vuole essere posta a base della vita del cittadino non può trascurare.
L'emendamento Parenti V.101.15, riferito allo stesso articolo, prevede che le autonomie locali provvedano ad istituire uffici di assistenza legale per i meno abbienti: è un'esigenza che poniamo all'attenzione della Commissione, perché riteniamo che la tutela dei meno abbienti, nella situazione in cui viviamo, a Costituzione vigente, sia soltanto un pronunciamento di principio, che non è mai passato alla fase di attuazione. Infatti, certi tipi di rimborso dell'assistenza legale ed il famoso gratuito patrocinio sono molto difficili da realizzare e peraltro non sono mai stati concretamente realizzati. Mentre ci troviamo di fronte ad un assurdo pressoché totale: abbiamo i cosiddetti collaboratori di giustizia che godono dell'assistenza degli avvocati pagati dallo Stato per decine e decine di miliardi all'anno; basta guardare i bilanci, anche se per la verità questi sono un po' come l'araba fenice perché non si riesce a capire dove stiano. Vi è comunque una realtà di colleghi avvocati che presentano allo Stato parcelle per la difesa di collaboratori di giustizia che raggiungono cifre di miliardi, visto che ciascuno di essi assiste trenta, quaranta, cinquanta collaboratori di giustizia.
Per la verità è già molto sopportare che venga tolto il regime dell'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario a Giovanni Brusca, o pensare che uno che si è confessato autore di cinquanta omicidi possa essere pagato dallo Stato, ma che si vada a pagare anche il legale che lo assiste mi sembra veramente il colmo! Ecco perché ci siamo permessi di richiamare un principio che gradiremmo trovasse ospitalità nella Carta costituzionale: ritengo che veramente si debba parlare di parità dei cittadini di fronte alla legge, parità che è stata violata e lesa quotidianamente dal comportamento di chi tira fuori leggi che vengono definite di congiuntura, ma che di fatto sono ordinarie e applicabili in qualsiasi momento.
Passando all'articolo 103, sempre sulla base della logica cui facevo riferimento, abbiamo pensato ad un emendamento che stabilisse definitivamente a cosa la giurisdizione amministrativa debba interessarsi e di cosa debba occuparsi la giurisdizione contabile, nonché come dovrebbero essere esercitate e da chi: dai giudici delle Corti di giustizia in primo grado e dall'Alta corte di giustizia amministrativa e contabile in secondo grado - così abbiamo ritenuto di definirla -; anche il nostro emendamento V.103.20 è dunque proposto sulla base della logica che ci ha guidato fin dal primo tentativo di mostrare quanto era nelle nostre intenzioni e dal primo emendamento presentato.
Abbiamo aggiunto l'emendamento Lisi V.103.12, riferito alla condizione preesistente: con esso prevediamo che la legge assicuri criteri di separazione fra le funzioni di consulenza e di controllo e le funzioni giurisdizionali amministrative e contabili. Con l'emendamento V.103.11, la logica è sempre la stessa: si richiede all'articolo 103 il ripristino di quanto è scritto nella Costituzione con riferimento ai tribunali militari in tempo di pace. Riteniamo che sia un grosso contributo da parte di una giustizia specializzata che è bene rimanga perché innanzitutto ci eviterebbe che la magistratura fosse impegnata ...

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Lei sa che non lo evita, perché il tribunale militare che attualmente


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indaga sui fatti della Somalia ha dovuto di sua iniziativa trasmettere una parte degli atti alla magistratura ordinaria: quindi, non si evita questo problema.

ANTONIO LISI. Si tratta solo di una parte degli atti. comunque, vi sono delle qualificazioni giuridiche di reato che non rientrano e non rientreranno mai nella competenza della giustizia ordinaria e, a mio avviso, è bene che rimangano di competenza della giustizia militare perché solo chi vive in quella dimensione riesce a comprendere al meglio come si possa amministrare la giustizia militare. È comunque il nostro modo di interpretare questa necessità.
Per quanto riguarda l'articolo 104, abbiamo sottoscritto insieme a tutti i colleghi del Polo una proposta nella quale è contenuto quanto riteniamo si debba prevedere con riferimento al Consiglio superiore dei giudici ordinari. È inutile che stia a ripetere quanto hanno già detto i colleghi: prevediamo tre Consigli superiori per magistratura ordinaria, amministrativa e del pubblico ministero. La proporzione delle nomine è stata ribadita più volte e non vi tornerò sopra: sotto questo aspetto non vi è nulla di nuovo. Il riferimento alla giustizia amministrativa e contabile lo abbiamo riportato, insieme con il collega Maceratini, nell'emendamento V.104-bis.14, laddove prevediamo, differenziandoci dall'impostazione dell'emendamento sottoscritto dall'onorevole Parenti e da altri colleghi del Polo, che del Consiglio superiore della magistratura amministrativa facciano parte di diritto il presidente ed il presidente aggiunto dell'Alta corte di giustizia amministrativa e contabile. La presenza anche del presidente aggiunto si comprende se si pensa che, nel momento in cui le due magistrature abbiano trovato un momento di intesa o comunque siano collegate in un certo tipo di attività, vi sarà un presidente dell'Alta corte di giustizia amministrativa e vi sarà certamente un rappresentante della giustizia contabile, che sarà probabilmente il presidente aggiunto. Questo nel quadro di una previsione organica sotto l'aspetto che abbiamo ritenuto di sottolineare.
Quanto all'articolo 105-bis, chiediamo che venga previsto un Consiglio di disciplina delle magistrature: ne sono state largamente spiegate le ragioni dai colleghi che sono intervenuti in precedenza. Insieme con il collega Maceratini, nell'emendamento V.105-bis.14 abbiamo previsto qualcosa di leggermente diverso come proposta subordinata, se così si può dire, perché l'emendamento principale è il Parenti V.105-bis.12, sottoscritto da tutti i colleghi del Polo. L'onorevole Boato definisce l'organo cui dovrebbero spettare i provvedimenti disciplinari come Corte di giustizia della magistratura: nell'emendamento V.105-bis.14, cui facevo riferimento, prevediamo che la Corte (come la chiama il relatore nella sua proposta) sia formata da sei giudici ordinari, tre giudici amministrativi e due magistrati del pubblico ministero; inoltre che le norme dei rispettivi ordinamenti giudiziari stabiliscano criteri obiettivi e predeterminati per la nomina, a rotazione, dei componenti della Corte. È certamente una novità rispetto all'impostazione dell'altro emendamento, che può anche racchiudersi in pochissime battute, cioè nella richiesta di soppressione del terzo, quarto e quinto comma. Riteniamo che, se da una parte si chiede che via sia un aumento di giudici, o che si mantenga la Costituzione vigente, che al massimo si giunga a due terzi ed un terzo, oppure come si pensava prima a tre quinti e due quinti, a questo punto il discorso riguardi comunque e sempre l' elezione da parte dei vari magistrati dei loro rappresentanti nel Consiglio di disciplina. È cioè comunque un problema di elezione, certamente inquadrata in un aspetto che è sempre stato politico e che sarebbe stato ancora più politico nel momento in cui si sarebbero andati a confrontare i tre terzi eletti dai magistrati ed i due terzi eletti dal Parlamento. Restava però, ripeto, il problema dell'elezione, che noi riteniamo di dover superare. Quindi, nella speranza di eliminare quella corsa all'inquadramento politico


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che quotidianamente avviene in magistratura (chiunque dica che così non è evidentemente non guarda verso la realtà) occorreva individuare un meccanismo praticabile: al limite gli ordinamenti possono anche prevedere una rotazione o un sorteggio...

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. L'emendamento che precede il suo, presentato dall'onorevole D'Amico, prevede esattamente il sorteggio.

ANTONIO LISI. Appunto.
Con riferimento all'articolo 106 abbiamo presentato l'emendamento V.106.15, pressoché identico a quello sottoscritto dai colleghi del Polo. Si fa riferimento ai concorsi differenziati, tendendo di fatto a separare la carriera dei giudici da quella dei pubblici ministeri. Il riferimento presente nella bozza del relatore mi preoccupa. Prevede il testo: «Tutti i magistrati ordinari esercitano inizialmente funzioni giudicanti per un periodo di tre anni al termine del quale il Consiglio superiore della magistratura ordinaria a sezioni riunite li assegna all'esercizio di funzioni giudicanti ovvero inquirenti, previa apposita formazione e valutazione di idoneità».
Se da una parte, con questa proposta, si raggiunge lo scopo di vedere applicato un vincitore di concorso ad un collegio per svolgere funzioni e pratica da giudicante, conferendo la certezza di una preparazione che può portarlo ad essere più vicino alle esigenze di una giustizia diversa da quella amministrata fino ad oggi, dall'altra si pongono grossi problemi. Infatti, dopo tre anni di funzioni giudicanti, quale preparazione il magistrato potrà avere in prospettiva dell'esercizio di funzioni inquirenti? Sarebbe più opportuno, allora, prevedere un analogo periodo di pratica inquirente, per dare al vincitore di concorso la possibilità di acquisire la mentalità e per garantire poi la possibilità di una scelta definitiva per chi avesse maturato un'esperienza completa.
Questo passaggio, quindi, non ci convince. Tuttavia, poiché il nostro progetto tende a separare i concorsi, almeno per il momento il problema non si pone.
Sono queste le considerazioni che ho voluto sottoporre alla Commissione nella consapevolezza che la discussione andrà ancora avanti per dar vita ad una Costituzione che rispecchi non solo i nostri desideri ma - mi si consenta - i desideri dei cittadini.

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Ovviamente sarebbe folle da parte mia pensare di svolgere una replica rispetto alla mole di argomenti che è stata sviluppata nella discussione di oggi.
Mi limiterò pertanto a ringraziare tutti i colleghi intervenuti, anche coloro che in questo momento non sono più presenti. Ringrazio sia coloro che si sono dichiarati d'accordo con la mia proposta sia coloro che hanno dissentito.
Mi spetta ora il compito di formulare un'ulteriore proposta, con la quale saranno recepite alcune delle proposte emendative presentate e saranno invece confermate altre parti del testo. Sarà la sesta elaborazione, ma sono molto più ottimista di qualche collega che ha parlato da ultimo. Credo che la fecondità del lavoro che abbiamo svolto insieme sarà comunque valutata alla fine del nostro percorso: almeno me lo auguro.
Dovendo cominciare le votazioni su questa materia nella seduta pomeridiana di mercoledì 25 giugno, penso realisticamente che entro la serata di martedì potrò presentare la nuova proposta elaborata: in larghissima parte riprodurrà quella che già i colleghi conoscono, mentre in altra parte terrà conto delle sollecitazioni modificative che sono state avanzate. I colleghi potranno così presentare eventuali subemendamenti, che saranno presi in esame nella seduta di mercoledì.
Ovviamente il testo base non sarà riscritto, anche per rispetto al lavoro emendativo che i colleghi hanno svolto. Proporrò un'eventuale riformulazione per i punti sui quali ictu oculi apparirà che le formulazioni proposte potranno comunque costituire una base di riferimento più adeguata (quello che abbiamo svolto tutti


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insieme è infatti un work in progress, del quale vi ringrazio). Così i colleghi non saranno costretti a riscrivere nuovamente i loro emendamenti. Ripeto: in larghissima parte il testo sarà quello che abbiamo già esaminato; le eventuali nuove formulazioni terranno conto del dibattito di oggi, altrimenti la discussione odierna sarebbe stata inutile. Ma, come voi sapete, nessun dibattito da noi svolto fino ad oggi è stato inutile.
Ringrazio nuovamente il presidente e tutti i colleghi.

PRESIDENTE. Ringrazio il relatore ed i coraggiosi rari nantes ancora presenti.
La Commissione è convocata lunedì 23 giugno 1997, alle 15.30, per il seguito dell'esame della parte relativa al Parlamento e le fonti normative.

La seduta termina alle 20.40.