RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 35

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La seduta comincia alle 9.45.


Sul processo verbale.

PRESIDENTE. Prima di dare inizio alla discussione, il senatore Salvi ha chiesto la parola sul processo verbale.

CESARE SALVI. Ho appreso da organi di stampa e d'informazione televisiva che avrei ricevuto una sorta d'incarico o mandato esplorativo con riferimento al tema della forma di governo. Poiché tale figura è istituzionalmente non conosciuta, vorrei precisare che ho inteso la ratio del dibattito di ieri e le sue conclusioni esattamente nel senso di continuare a svolgere con scrupolo, come credo di aver fatto finora, il mio compito di relatore in questa fase nella quale, forse perché per troppo tempo non si è passati alla procedura parlamentare esplicita e trasparente di presentazione e confronto sugli emendamenti, il compito del relatore è innanzitutto quello di valutare le proposte emendative che saranno presentate dai membri della Commissione entro lunedì mattina e su quella base verificare, come si è detto per tutti i relatori, la possibilità di presentare una riformulazione totale o parziale dell'attuale testo base.
Se vi saranno le condizioni, anzitutto - lo ripeto - sulla base della presentazione degli emendamenti da parte dei gruppi, di svolgere questo lavoro, sarò ben lieto di farlo. Naturalmente mi rendo conto che la particolare delicatezza della materia richiede a maggior ragione al relatore del Comitato forma di governo di fare ciò che gli altri relatori stanno meritoriamente compiendo anch'essi, cioè incontri, confronti e valutazioni con i rappresentanti dei vari gruppi parlamentari per esaminare i diversi termini del problema. Questo è un dovere istituzionale del relatore che ho assolto e continuerò ad assolvere. Grazie.

FRANCESCO SERVELLO. Non ho compreso il senso di quest'intervento del relatore Salvi e penso che forse si tratti di una sottolineatura delle funzioni e del ruolo che un relatore deve svolgere, il che significa che egli respinge le interpretazioni della stampa circa le sue funzioni di esploratore.

CESARE SALVI. Ha compreso perfettamente.

PRESIDENTE. È esatto, tutti abbiamo compreso che si tratta di questo. In effetti, qui non è stato conferito alcun mandato esplorativo a nessuno; abbiamo semplicemente ribadito che procederemo secondo le normali procedure che prevedono che i relatori, presa visione degli emendamenti, possano proporre riformulazioni e testi di sintesi, come avviene nella normale procedura parlamentare (Interruzione del deputato Servello). In effetti, il riferimento al mandato esplorativo è apparso suggestivo: ci si innamora di parole perché suonano bene, magari di parole di cui non si afferra il senso ed è questo che mi sembra il senatore Salvi abbia voluto chiarire, perché non vorrebbe che dopo qualcuno gli chiedesse conto dei risultati delle sue esplorazioni.
Tra l'altro, nel resoconto stenografico non c'è traccia di questo, nessuno in nessun momento ha inteso conferire al senatore Salvi questo mandato esplorativo,


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quindi non so come quest'espressione sia nata. D'altro canto, siamo abituati a risultati di attività fantasiose... lasciamo perdere.
Se non vi sono altri interventi, il processo verbale s'intende approvato.


(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
Ricordo che dobbiamo svolgere non una discussione generale, ma un'illustrazione degli emendamenti riferiti alla forma di Stato (v. allegato Commissione bicamerale) sulla base di tempi contingentati; lo dico perché alcuni gruppi hanno iscritto massicciamente a parlare i propri rappresentanti, ma io sarò rigoroso sul tempo complessivamente a disposizione dei gruppi, altrimenti l'illustrazione degli emendamenti diventerebbe un'altra discussione generale. Dopo il deputato Servello, che ha chiesto d'intervenire, darò la parola al senatore Rotelli, il primo dei cinque oratori del gruppo di forza Italia iscritti a parlare per illustrare gli emendamenti, al quale ricordo che in questa fase il suo gruppo dispone complessivamente di 34 minuti.

FRANCESCO SERVELLO. Come avevo preannunciato ieri, procederò ad un'illustrazione del complesso degli emendamenti, sottolineando che alleanza nazionale ha ritenuto che la seconda proposta D'Onofrio, pur presentando degli aspetti che debbono necessariamente essere emendati, possa nel suo impianto generale costituire l'ossatura per un proficuo confronto.
Nel formulare le proposte di emendamento, abbiamo sentito il dovere di plasmare su questo testo i valori fondamentali della nostra concezione politica: in primo luogo, il valore della solidarietà nazionale, senza la quale sarà impossibile convincere gli italiani a superare le difficoltà presenti e le incomprensioni ed i conflitti che li condizionano, nonché i valori della libertà e della produttività, senza i quali è impossibile ritrovare fiducia in se stessi e nella possibilità di riprendere il proprio cammino di nazione.
Il primo problema che come rappresentanti del Polo abbiamo dovuto affrontare è quello della chiarezza dei termini, a cominciare da quello di Stato. Il desiderio di emancipare le collettività locali dai condizionamenti di quella parte della classe politica che agisce al centro ha portato alcuni a coinvolgere in questi rapporti l'idea di Stato.
Si tratta di un coinvolgimento pericoloso perché lo Stato comprende sia la base sociale (lo Stato-società) sia l'apparato amministrativo, tanto centrale e periferico che locale (lo Stato-struttura) e pertanto esso non può essere confuso con una sua parte: l'apparato centrale di governo ed amministrativo.
Confusione pericolosa, questa, perché le rivendicazioni della base sociale nei confronti della classe politica vengono a coinvolgere lo Stato e ad attribuire a questa realtà ideale e relazionale delle responsabilità che esso non può avere, con il risultato però, esiziale, di perdere il senso dello Stato e di ciò che ne deriva: l'idea di bene comune, di solidarietà politica, di superamento dell'individualismo.
Ecco perché, all'articolo 1, onorevoli colleghi, abbiamo ritenuto più esatta l'espressione «amministrazione centrale» al posto di «Stato», sotto il duplice profilo tecnico-giuridico e politico.
Sotto il profilo tecnico-giuridico, perché accanto a regioni ed a comunità locali ci può essere solo l'amministrazione centrale e le sue articolazioni periferiche. La Repubblica non può essere costituita dallo Stato, come se questo fosse uno degli elementi di essa, perché la Repubblica è la forma che assume lo Stato.
Sotto il profilo politico, perché regioni e comunità locali, se messe alla pari dello


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Stato, verrebbero a caricarsi di finalità politiche autonome, che verranno inevitabilmente in conflitto con quella della comunità nazionale. Conflitto che prima del previsto porterà l'Italia ad essere nuovamente una «espressione geografica».
È sempre in relazione allo scopo di non creare i presupposti socio-politici per un tale conflitto che abbiamo introdotto fra le competenze legislative dello Stato (articolo 4, comma 1, lettera u) la disciplina almeno dei «principi dei sistemi elettorali delle Regioni, delle Province, dei Comuni». Con tale emendamento si verrebbe ad attenuare il pericolo che sistemi elettorali eccessivamente eterogenei (soprattutto per le regioni, e fra esse in particolare quelle di confine) costituiscano, in mano alle classi politiche locali, uno strumento di differenziazione del contesto elettorale nazionale in modo da adattarlo, caso per caso, alla illecita esigenza di bloccare il ricambio politico e di trascinare la base sociale di ciascuna regione verso storie particolari senza ritorno.
Facciamo presente al riguardo come nella stessa Legge fondamentale tedesca l'articolo 28 prevede la cosiddetta «clausola di omogeneità» in relazione all'ordinamento interno dei Lander («L'ordinamento costituzionale dei Lnder deve corrispondere ai principi dello Stato di diritto repubblicano, democratico e sociale ai sensi della presente Legge fondamentale»; successive disposizioni dello stesso articolo 28 e seguenti dettano appositi criteri in ordine alle elezioni ed ai referendum, il tutto in base al principio, sancito all'articolo 30, che ai Lander spetta l'esercizio e l'adempimento delle rispettive competenze sempreché la Legge fondamentale «non disponga o conceda una diversa regolazione»).
La preoccupazione per l'unità dello Stato non colloca certo però in seconda fila alleanza nazionale e il Polo nell'affermazione del principio autonomistico. A questo riguardo si è provveduto ad emendare il comma 2 dell'articolo 1 esplicitando il vago concetto di «autonomia funzionale» del testo base con «l'autonomia nell'esercizio delle rispettive funzioni» da parte dei diversi enti. Non solo, ma si è tenuta presente, oltre lo Stato, la regione e il comune, anche una tipologia di enti non meno incisiva nella vita politica e istituzionale del paese, costituita da quelli che la legge n. 59 del 1997 (la cosiddetta Bassanini) denomina «enti funzionali», in sostituzione dell'espressione residuale usata dall'attuale testo costituzionale (articolo 118, comma 2): «altri enti locali».
Il riconoscimento a livello costituzionale di tali enti (fra i quali si annoverano le camere di commercio) ci sembra non solo doveroso ma espressione del sano autonomismo del quale ci dichiariamo sostenitori. Il nostro emendamento dunque non è soppressivo ma è complementare ed aggiuntivo rispetto alla proposta D'Onofrio. Si intende pertanto che l'emendamento al comma 2, numero 1, vada integrato come segue: «2. È garantita l'autonomia nell'esercizio delle rispettive funzioni da parte dello Stato e delle sue articolazioni periferiche nonché da parte delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli Enti funzionali».
Un elemento nuovo che ha caratterizzato le diverse proposte di riforma costituzionale è costituito dal «principio di sussidiarietà» (articolo 1, commi 3 e 4). A questo riguardo ci sembra che tale principio sia stato usato, nelle varie proposte di riforma della Costituzione, nel significato opposto a quello che esso ha e con il quale è stato consegnato alla storia. Si tratta della potestà (potere-dovere) di un ente superiore di farsi carico dell'adempimento dei propri doveri da parte di un ente inferiore quando questi si dimostri inadempiente comunque (per dolo, per colpa, per incapacità). Nel significato sotteso all'uso, che nelle diverse proposte avanzate viene fatto finora, sembra evincersi invece l'idea opposta di separazione delle funzioni dei diversi ordini di enti. Spero che su questo punto vi sia un chiarimento in sede di confronto sugli emendamenti.

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Una lacuna che ci è sembrato di dover colmare, nell'impianto della proposta tutta tesa all'esaltazione del principio autonomistico, che, come si è detto, pone l'amministrazione centrale dello Stato alla pari delle amministrazioni regionali e locali, è stata quella di una sede istituzionale di raccordo fra queste realtà. In assenza di definitive acquisizioni in ordine alla nuova struttura parlamentare (vale a dire relativamente al bicameralismo, compito affidato del resto ad altri Comitati e ad altri relatori), abbiamo ritenuto di proporre l'istituzione di una Conferenza permanente per i rapporti Parlamento-regioni; mi pare che da parte di forza Italia vi sia una diversa formulazione, ma che nella sostanza conferma questa scelta. Abbiamo proposto come interlocutore delle regioni non il governo ma il Parlamento nazionale in quanto il confronto dovrebbe avvenire fra i rappresentanti degli stessi cittadini italiani che si esprimono sia come membri di comunità locali sia come membri della comunità nazionale.
Altra lacuna ci è parsa la mancanza di un organo che possa inserirsi in un eventuale conflitto fra Stato e regioni reintroducendo la possibilità di ricorso alla Corte costituzionale (articolo 2, comma 2). Ma mi pare che di questo il relatore si sia già fatto carico.
Sempre tenendo presente il pericolo della secessione, si è ritenuto di avvertire che la realizzazione di macroregioni, attraverso la libera possibilità di accorpamento fra di esse, farebbe correre il pericolo di realizzazione di entità politiche di dimensioni tali da fare suscitare la tentazione della secessione (articolo 3). È una vecchia tesi di Gianfranco Miglio. Per questo abbiamo proposto il limite di massima estensione rapportata ad una percentuale del territorio nazionale.
Quanto alle competenze dello Stato, abbiamo preferito tornare alla elencazione della prima proposta dello stesso relatore D'Onofrio, ampia ed esaustiva, che, in linea con le altre Costituzioni vigenti in Europa e nel mondo, permette allo Stato di essere Stato, cioè di adempiere alla sua funzione di coordinamento (sottolineo questo termine) delle altre componenti sociali ed istituzionali della comunità nazionale. Una riduzione di dette competenze non può essere considerata accettabile da chi sostiene che vada salvata l'unità nazionale, in quanto tale riduzione da un lato viene a menomare il potere centrale nella funzione di coordinamento degli enti in cui si articola al proprio interno, mentre, da un altro lato, viene ad attribuire alle regioni dei poteri che, di fatto, verranno prima o poi ad essere usati in conflitto con l'interesse generale.
È appunto in tale direzione che vanno letti gli emendamenti relativi al comma 1, lettera u) dell'articolo 4, al comma 3 dell'articolo 4, e l'eliminazione (mi pare che su questo già vi sia una tendenza alla revisione del progetto D'Onofrio) del rapporto negoziale paritario fra Stato e regione che sarebbe derivato dal fatto che la ripartizione della funzione legislativa avrebbe dovuto essere disciplinata nel contesto di ciascuno statuto regionale, quindi in una fonte non solo subordinata alla Costituzione, ma potenzialmente diversa per ciascuna regione, in modo che lo Stato avrebbe avuto una presenza di intensità variabile in diverse parti del territorio nazionale.
Sempre in tale direzione vanno gli emendamenti relativi alla difesa contemporanea delle culture locali e della cultura nazionale (articolo 7, comma 4), nonché l'obbligo di ammettere tutti i cittadini italiani anche alla fruizione dei servizi locali, come corollario del diritto di circolazione di persone, beni e lavoro fra regione e regione. Qui si dice che esiste un principio generale nella prima parte della Costituzione, ma a noi è parso opportuno precisarlo e confermarlo.
I secessionisti sostengono che le varie parti dell'Italia sono molto diverse fra loro e quindi lo sono anche gli italiani, per cui essi vivrebbero meglio separati gli uni dagli altri. Al riguardo ci si dovrebbe chiedere se le diversità non siano piuttosto frutto di operazioni culturali e istituzionali che non di una spontanea ricerca della diversità. Ora il Polo (almeno alleanza

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nazionale, che fa parte del Polo) non vuole rendere tutti eguali gli italiani, ma nemmeno differenziarli artificialmente e forzatamente.
Qui occorre accennare al problema della provincia. Contro questo ente locale si è concentrata l'animosità dell'autonomismo più irrazionale, forse perché la vecchia disciplina prefettizia desta negli avversari della provincia dei riflessi condizionati o delle associazioni di idee che rievocano il centralismo.
Ciononostante, a parte il fatto che tale animosità risulta tanto più ingiustificata quanto più la provincia ha ricevuto una disciplina, specialmente dopo la legge n. 142 del 1990, che la equipara ad ogni altro ente locale, occorre tenere presente due aspetti che rendono non solo utile, ma necessario mantenere tale ente.
In primo luogo la provincia costituisce un filtro fra comune e regione idoneo a ridurre validamente le tentazioni centralistiche della regione, ormai sempre più spesso denunciate tanto dai comuni quanto dalle province. In secondo luogo la provincia, nel nostro paese, ha una sua tradizione storica forse più antica della regione stessa, in quanto risale agli ordinamenti della latinità classica, alle istituzioni medioevali e dell'Europa moderna. La provincia è inoltre alla base del riordinamento dello Stato liberale nelle sue espressioni più sane e si è caricata in parte dei valori stessi del comune, cioè di quell'ente locale che alcune forme, accettabili, di federalismo cercano oggi di esaltare come centro di cultura locale direttamente collegabile alla cultura nazionale senza i pericoli di involuzione etnicistica che invece minacciano continuamente la regione. Ebbene, la provincia costituisce in questo senso l'area di migliore convergenza delle autonomie locali e dove le loro culture realizzano una sintesi.
Anche gli elementi di federalismo fiscale, presenti nell'articolo 6 del testo D'Onofrio, sono stati integrati in ordine alla necessità che la perequazione avvenga con l'introduzione, a livello costituzionale, di criteri oggettivi di ripartizione di fondi nazionali.
Per quanto riguarda la perequazione solidale nei confronti delle aree meno sviluppate, si è lasciato l'accenno alle isole ed al Mezzogiorno, ma ci dichiariamo fin d'ora disposti a togliere questa specificazione geografica, e ciò non solo per non farci accusare dai secessionisti di assistenzialismo meridionalista, e neppure per non urtare la legittima suscettibilità del meridione che non vuole sentirsi additare fin nella Carta fondamentale come l'irrecuperabile parente povero, ma soprattutto perché, da un lato, delle aree in difficoltà possono trovarsi in tutto il territorio della Repubblica e, dall'altro lato, i problemi del meridione si risolvono soprattutto superando barriere strutturali e culturali che chiedono un'azione ordinaria e continua degli organi pubblici esistenti.
La parte amministrativa ci ha trovati in buona parte consenzienti, e le integrazioni proposte servono più che altro a cogliere quelli che sono i veri ostacoli all'efficienza ed all'alta efficacia della pubblica amministrazione, che vanno ravvisati nel difetto di partecipazione da parte della base (di qui l'elezione diretta del difensore civico) e nella razionalizzazione dei controlli che non significa riduzione dei medesimi.
Anche a questo proposito abbiamo voluto salvare quelli che debbono essere i caratteri essenziali di un ordinamento giuridico nazionale che vuol essere un effettivo ordinamento giuridico: completezza, coerenza e organicità. A salvaguardia di tali valori è stata riaffermata la necessità, ove occorra, delle leggi cornice e dei regolamenti governativi.
Onorevoli colleghi, in conclusione, la bicamerale, come abbiamo già visto attraverso il voto espresso l'altro giorno, ha optato per un ordinamento a tendenza federale dello Stato. Ora, a parte i problemi che sorgono dalla interpretazione dello stesso termine di «federalismo», riteniamo che una sana risistemazione della Repubblica italiana passi soltanto attraverso la conciliazione di due valori

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assoluti e, in quanto assoluti, non possibili di sacrificio dell'uno a favore dell'altro: l'autonomia, che rende i cittadini maturi e protagonisti, l'unità nazionale, che rende la comunità italiana libera dai condizionamenti stranieri e capace di assolvere un suo ruolo nell'Europa ed anche al di là dell'Europa.

PRESIDENTE. Raccomando a tutti di considerare i tempi attribuiti a ciascun gruppo.

ETTORE ANTONIO ROTELLI. Presidente, all'indomani della mia critica alla relazione D'Onofrio lei mi invitò a riscrivere sotto forma di emendamenti la mia proposta, cosa che io ho fatto. Passo quindi ad una illustrazione degli emendamenti, che sarà rapida secondo i tempi previsti.
Comincerò dagli emendamenti collocati alla fine del fascicolo e relativi all'eliminazione della parola «federale» dal titolo. Non ritengo che si possa parlare di federazione o usare l'aggettivo «federale» quando si è arrivati alla parte seconda della Costituzione senza averlo utilizzato nella parte prima. Prospetto quindi due soluzioni: che si sopprima semplicemente la parola «federale», oppure che la si sostituisca (ed è forse meno simpatico) con la parola «territoriale».
Ribadisco peraltro l'opinione che nella relazione era stata raccolta dal collega D'Onofrio: secondo me questo titolo dovrebbe essere il titolo della parte prima, nel senso che la parte prima dovrebbe cominciare con comuni, province e regioni, quindi gli organi centrali dello Stato dovrebbero essere disposti con questo ordine. Da questo punto di vista, sta bene (ma naturalmente non è l'argomento fondamentale) che il primo degli articoli, quello che prenderebbe il posto dell'attuale 114, per intenderci, preveda che la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle regioni e dallo Stato (è il mio emendamento I.1.54). Ritengo che l'aggettivo «costituito» non possa essere sostituito dal verbo «comporre» o dal verbo «formare», quindi che «costituito» sia un participio passato adatto per un testo costituzionale.
Non ritengo di dovermi intrattenere ulteriormente sul fatto - avendolo spiegato tante volte - che a questa formulazione ha una vicenda culturale rilevante e corrisponde pienamente alla Costituzione repubblicana attuale, nella quale Repubblica e Stato non sono affatto due termini che possono essere confusi. Al riguardo vi è stato già qualche intervento, ma io intendo ribadire, anche se potrebbe essere superfluo, che le parole Repubblica, Stato-ordinamento e Stato-comunità sono identiche, mentre le parole Stato, Stato-apparato e Stato-persona a loro volta sono identiche.
Ritengo inopportuno che le autonomie funzionali siano inserite nel titolo che riguarda le autonomie territoriali. Aggiungo anche che l'autonomia delle università, citate dal presidente nella sua relazione, è tutelata nella parte prima della Costituzione, per cui non occorre tutelarla nella parte seconda. Quelli che si verrebbero a tutelare in questo modo sono gli interessi economico-sociali, che però non devono essere tutelati nella parte seconda della Costituzione e in particolare nel titolo sulle autonomie.
Con l'emendamento I.1.58 propongo una più netta formulazione del terzo e quarto comma sostituendo la parola «attribuire» con la parola «riconoscere» e soprattutto insistendo sul fatto - che mi sembra importante - che le funzioni amministrative decentrate dallo Stato sono esercitate, al rispettivo livello, dalle regioni, dalle province e dai comuni, in modo che non vi sia - tranne per la giustizia, la difesa, la sicurezza pubblica, la finanza e i servizi pubblici, necessariamente di competenza nazionale - amministrazione periferica dello Stato.
Insisto anche perché venga stabilito che l'amministrazione statale centrale non possa sussistere nelle materie di competenza delle regioni. Domenica prossima gli italiani, per la seconda volta, decideranno se sopprimere un ministero che avevano già deciso di sopprimere nel 1993. Ripeto: è essenziale che nelle materie di competenza


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regionale non vi sia amministrazione centrale dello Stato, non vi siano cioè ministeri o dipartimenti di dimensione pari a quella dei ministeri.
Non ritengo che si possa eliminare la definizione di enti autonomi delle regioni e, per altro verso, delle province e dei comuni (emendamento I.1.57) contenuta negli articoli 115 e 128 della Costituzione, perché altrimenti si spezza il nesso fra l'articolo 5 che riguarda, nell'interpretazione corrente universalmente condivisa, le comunità e gli enti stessi. Se non si afferma che le regioni sono dotate di autonomia e che le province e i comuni sono dotati di autonomia, dunque sono enti autonomi, si fa venir meno la natura delle regioni, delle provincie e dei comuni come proiezione delle rispettive comunità.
L'articolo 128 - che propongo di riprodurre - costituisce notoriamente il baluardo dell'autonomia dei comuni e delle provincie nei confronti del centralismo regionale. Molte volte ciò che viene chiamato comunemente federalismo altro non è che centralismo regionale.
Con l'ultimo comma dell'emendamento I.1.57 propongo che sia la legge regionale ad individuare le funzioni dei comuni e delle province, sia pure nell'ambito dell'attuale articolo 128.
Con l'articolo aggiuntivo I.1.02 intendo affrontare il problema delle regioni a statuto speciale, ribadendo la formula attuale dell'articolo 116 della Costituzione (le stesse regioni a statuto speciale hanno chiesto che essa venga mantenuta). Però, un conto è ribadirla e quindi riprodurla come io ho proposto di fare, altro conto è aumentare la distanza tra le regioni a statuto speciale e le altre, mentre noi abbiamo l'obiettivo opposto, cioè quello di annullare questa distanza attribuendo a tutte le regioni i poteri che hanno quelle a statuto speciale. Dopo aver ribadito l'attuale articolo 116 della Costituzione, l'articolo aggiuntivo prevede che le stesse forme e condizioni particolari di autonomia sono riconosciute a tutte le altre regioni che intendano attribuirsele.
Vi è poi il problema della ridefinizione territoriale dei comuni, delle regioni e delle province. Ancora una volta ieri mattina mi è pervenuto lo studio - forse è pervenuto anche ad altri commissari - di un collega il quale afferma che, dal punto di vista anche strettamente finanziario, il permanere dell'attuale numero di comuni e il mancato accorpamento delle regioni costituiscono un limite negativo.
Ritengo che l'elenco delle materie che rimangono di competenza statale possa essere migliorato rispetto alla formulazione del relatore con la riduzione indicata nell'emendamento 1.4.68.
L'emendamento I.4.69 contiene una proposta classica, relativa al fatto che le regioni si possono appropriare di tutte le funzioni non attribuite allo Stato, ma non può essere imposto loro di appropriarsene o di farlo immediatamente. Occorre quindi l'atto della regione con cui essa determina l'appropriazione della sua potestà legislativa e amministrativa nelle materie non lasciate alla competenza dello Stato. Affinché non si delinei una diversità tra le regioni a statuto speciale e le altre, viene affermato che l'atto formale col quale il consiglio regionale si appropria di tali potestà ha la stessa efficacia formale della legge costituzionale.
Viene anche affermato il principio - che mi sembra molto rilevante - secondo il quale a ciascuna regione che lo deliberi è riconosciuta la potestà legislativa in ogni materia che sia stata attribuita in precedenza ad altre regioni. Nessuna regione può pretendere di avere essa sola una determinata competenza che non può essere attribuita anche a ciascuna delle altre regioni.
L'articolo aggiuntivo I.4.04 prevede la costituzionalizzazione della conferenza delle regioni. Mi limito a leggere: «La conferenza delle regioni (...) con la partecipazione del Governo, determina nelle materie di competenza regionale, in relazione alle materie di competenza statale, gli obiettivi e le direttive della programmazione economica nazionale (...)». Una volta attribuite alle regioni tutte le materie che non sono di competenza statale, se si ammette che la programmazione sia

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nazionale, si annulla l'autonomia appena riconosciuta e conferita alle regioni.
In materia di organizzazione statutaria delle regioni (emendamento 1.5.11), ritengo che la formulazione preferibile non sia quella della libertà assoluta ma quella della scelta tra governo presidenziale e governo parlamentare, la quale scelta, se compiuta a maggioranza dei due terzi dal parlamento regionale deve essere senz'altro accolta; se non lo è essa è sottoposta a referendum popolare.
Gli altri emendamenti rappresentano perfezionamenti relativi ai principi peraltro già pienamente accolti dal relatore in materia di pubblica amministrazione: mi riferisco, in particolare, alla costituzionalizzazione dei difensori civici e soprattutto al fondamento costituzionale delle autorità indipendenti, nonché al controllo interno di gestione (emendamento I.10.26).
Desidero soltanto rilevare che l'affermazione del controllo interno di gestione, che è un'attività direzionale, è volta ad impedire che del controllo di gestione si appropri interamente la Corte dei conti; in ordine a quest'ultima, ho presentato l'articolo aggiuntivo I.10.03, che potrebbe essere preso in considerazione ove della Corte di conti in quanto tale si parli anche in altro titolo del testo di revisione costituzionale.
In conclusione, vorrei ricordare, in materia di pubblica amministrazione, l'altro principio, anch'esso accolto dal relatore e contenuto nell'emendamento I.13.7, secondo cui «l'impiegato pubblico è responsabile della sua produttività, elemento costitutivo della retribuzione e del rapporto di lavoro». Lo stesso emendamento prevede che «il funzionario pubblico è responsabile dell'organizzazione dell'ufficio, dell'efficienza crescente dello stesso» e così via.
Sempre nello stesso emendamento si prevede - della questione si parlò in sede di Comitato - che la legge statale e regionale determinano «le funzioni e i ruoli dirigenziali a tempo determinato che possono essere attribuiti senza concorso», ossia da ogni governo statale e regionale all'atto del loro insediamento.

ANTONIO SODA. Signor presidente, onorevoli colleghi, nell'illustrare il complesso dei nostri emendamenti, segnalo in particolare al relatore, onorevole D'Onofrio, gli emendamenti I.4.71, I.4.76 e I.16.5, presentati dai commissari del gruppo della sinistra democratica e sottoscritti dai presidenti dei nostri gruppi parlamentari. Questi emendamenti tengono a configurare unitariamente una parziale, limitata, diversa articolazione dell'autonomia statutaria delle regioni nell'assetto federalista della Repubblica rispetto al testo base.
Per una compiuta comprensione di tali emendamenti occorre tenere conto anche della parziale modifica che riteniamo di dover apportare con l'emendamento I.1.57, che costituisce la premessa indispensabile per definire il nuovo assetto che proponiamo.
Come è noto, il testo D'Onofrio, innovando radicalmente sulle attribuzioni della potestà legislativa tra lo Stato e le regioni, definisce la riserva di competenza legislativa dello Stato - mi riferisco al comma 1 dell'articolo 4 del testo base - rimettendo alle deliberazioni statutarie di ciascun consiglio regionale, approvate dal Parlamento con forza di legge costituzionale, la ripartizione fra Stato e regioni delle restanti materie, ossia quelle non coperte dalla riserva di legislazione unitaria. Quindi, assunta la specialità di tutti gli statuti regionali, che di conseguenza hanno natura fondamentalmente pattizia (mi riferisco al nuovo patto costituzionale delineato dal relatore già nel suo primo intervento in sede di discussione generale), il testo D'Onofrio prevede, all'ultimo comma dell'articolo 4, la revisione degli statuti delle attuali regioni a statuto speciale (Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta), secondo le procedure previste dai rispettivi statuti, ai fini della ripartizione delle funzioni legislative tra Stato e regione.
Noi condividiamo l'impianto di fondo della proposta D'Onofrio per la realizzazione di un federalismo che nasca dalla cultura delle libertà di tutte le comunità locali, regionali, nazionali e statuali in riferimento all'integrazione europea, come


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egli ebbe a dire in quella prima discussione generale. Dunque, nelle nostre proposte emendative ci siamo ispirati all'esigenza di garantire questa libertà nel quadro di funzioni e attribuzioni che, muovendo dal principio di sussidiarietà, definiscano gli ambiti delle rispettive competenze, al fine di impedire per l'avvenire una nuova stratificazione centralistica, mortificatrice delle sfere di autonomia e anche di sovranità di cui le singole comunità sono portatrici originarie.
In tal senso, affermato il principio che la potestà legislativa è ripartita fra regioni e Stato dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali (in questo senso si muove l'emendamento I.1.57, comma 3, che costituisce una premessa fondamentale), proponiamo di disciplinare la sfera tassativa della competenza legislativa statale (mi riferisco al comma 1 dell'articolo 4 del testo D'Onofrio, come intendiamo modificarlo con l'emendamento I.4.74). A nostro avviso, ne discende come inevitabile corollario, al fine di evitare una difformità di articolazione sul territorio delle sfere di potestà legislativa regionale, la statuizione di principio secondo cui le funzioni legislative in tutte le materie non comprese nel primo comma dell'articolo 4, ovvero quelle non rientranti nella potestà legislativa statuale, spettano alle regioni. Questo è il senso del nostro emendamento I.4.75.
La formulazione del testo base, affidando alla negoziazione tra lo Stato ed ogni singola regione la delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza legislativa nelle materie non riservate allo Stato, seppure contenendo la clausola finale di attribuzione alle regioni di tutte le competenze residue, non ci sembra garantisca in pieno l'esigenza che comunque, al termine del periodo transitorio previsto dall'articolo 16 del testo base, tutte le regioni abbiano la pienezza delle competenze legislative proprie; per certi versi anzi, il testo, sancendo, attraverso la pattuizione, la possibilità di statuti differenziati quanto alla misura e alla dimensione della potestà legislativa regionale, prospetta l'esistenza di regioni a differente grado di potestà legislativa e correlativamente impone il permanere, in materie non riservate allo Stato, di competenze e quindi di organizzazioni ministeriali e di strutture amministrative esercitabili solo in aree determinate del paese, ossia in quelle aree in cui le regioni avessero definito diversamente ed in una misura inferiore la propria sfera di competenza rispetto alle attribuzioni costituzionali.
Ci sembra quindi che, una volta stabilita la potestà legislativa generale delle regioni nelle materie non riservate espressamente allo Stato dalla Costituzione, il problema reale della gradualità dell'assunzione delle funzioni legislative da parte di ogni singola regione in relazione al grado di capacità, di risorse e di strutture necessarie per il loro esercizio debba essere risolto modificando anche la normativa transitoria. A tal fine, il nostro emendamento I.16.5 prevede che ciascuna regione, con legge approvata entro 6 mesi dall'entrata in vigore della riforma costituzionale, potrà definire una data iniziale, compresa nei cinque anni successivi alla stessa entrata in vigore della riforma, per il pieno esercizio delle funzioni legislative non comprese nel comma 1 dell'articolo 4. Conseguentemente, è indubbio che le regioni le quali ritengano di essere in grado di esercitare immediatamente la totalità della potestà legislativa costituzionalmente garantita, potranno, già all'entrata in vigore della legge di riforma, espandere compiutamente la loro sfera di competenza.
Il sistema che abbiamo così delineato tiene conto, da una parte, della diversa realtà delle autonomie e, dall'altra, definisce un periodo di tempo massimo al di là del quale cessa la funzione sussidiaria dello Stato, che potrà comunque intervenire, come già previsto nel testo D'Onofrio, a garanzia dei livelli minimi comuni delle prestazioni relative ai diritti sociali (primo comma dell'articolo 4) e dei livelli minimi di qualità e quantità dei servizi sanitari, come proponiamo di prevedere con l'emendamento I.4.74, a presidio dell'eguale minimo godimento del diritto alla salute in tutto il territorio nazionale.

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Il processo federalista che intendiamo programmare con questi emendamenti si completa con la clausola di salvaguardia delle regioni a statuto speciale, così come configurata dall'emendamento Salvi I.16.5 (in virtù di tale clausola, le attuali regioni a statuto speciale potranno, con propria legge, recepire le più favorevoli condizioni di autonomia previste per tutte le regioni dalla legge costituzionale) e con il principio finale di piena autonomia statutaria di ogni singola regione. Al riguardo, la Costituzione, così come previsto dall'emendamento Salvi I.4.71, si dovrebbe limitare a definire il contenuto necessario degli statuti, ovvero la disciplina degli organi costituzionali (il consiglio regionale - o, come io propongo, il parlamento regionale -, eletto a suffragio universale e diretto; casi e modalità di scioglimento; formazione delle leggi; procedimento aggravato per le leggi elettorali), nonché a prevedere il referendum popolare approvativo.
L'innovazione più radicale che proponiamo riguarda l'assoluta autonomia rispetto al legislatore nazionale, che non deve procedere ad alcuna approvazione degli statuti.
In sintesi, signor presidente, colleghi, relatore, nello spirito e sull'impianto costruito nel testo base, con questi emendamenti riteniamo di proporre un percorso federalista sufficientemente compiuto, ampio, garantito nelle sfere di libertà delle comunità che costituiscono la nostra Repubblica sì federale, ma una e indivisibile, come proponiamo nel primo emendamento che abbiamo formulato.

PRESIDENTE. Il relatore ha chiesto di intervenire per una precisazione ai fini di una più esatta comprensione degli emendamenti ai quali i colleghi si stanno riferendo. In particolare, nel fascicolo compare un errore di numerazione.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Relatore sulla forma di Stato. Il collega Soda ha ripetutamente richiamato l'emendamento I.16.5, a firma dei colleghi del PDS. Per un errore riscontrabile nel fascicolo - non certo imputabile al collega Soda - l'emendamento I.16.5 è indicato due volte, la prima a firma D'Amico, la seconda a firma Salvi, Mussi ed altri. Ovviamente il riferimento del collega Soda è al secondo emendamento. Lo do per scontato ed invito gli uffici a numerare l'emendamento in modo diverso per evitare problemi in fase di votazione.

ANTONIO SODA. Nel mio intervento, quando ho illustrato l'emendamento, mi sembra di aver fatto riferimento anche alla pagina.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Relatore sulla forma di Stato. Sarà bene, comunque, che gli uffici adeguino la numerazione degli emendamenti, sì da evitare equivoci.

PRESIDENTE. Do ora la parola al senatore Schifani. Subito dopo interverrà il senatore Pieroni.

RENATO GIUSEPPE SCHIFANI. La limitatezza dei tempi residui a disposizione del mio gruppo mi impone di essere particolarmente celere, anche per rispetto dei colleghi.
Nei precedenti interventi avevamo dichiarato di concordare sulle linee principali del testo elaborato dal senatore D'Onofrio. Confermiamo tale valutazione. Ci eravamo riservati di proporre proposte emendative e in questo senso abbiamo operato. L'emendamento più significativo, al quale mi ero già riferito nei precedenti interventi, riguarda l'individuazione e la diversificazione delle potestà legislative tra Stato e regione. Con uno specifico emendamento, abbiamo riproposto il testo emerso dalla maggioranza dei commissari nel Comitato. Si tratta dell'individuazione di un sistema rigido di ripartizione di competenze, con un'elencazione quanto più rigorosa possibile delle funzioni che dovrebbero rimanere in capo allo Stato, e con una norma di chiusura in favore delle regioni. L'emendamento non vuole essere perentorio; riteniamo che il relatore, recependo i suggerimenti che verranno dalle


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varie forze politiche, pur comprendendo la difficoltà di procedere all'esatta elencazione ed individuazione di materie che debbono rimanere nella competenza dello Stato, possa proporre un testo definitivo ed articolato.
Abbiamo proposto anche un aspetto innovativo, tale perché nel Comitato non se ne era parlato. In particolare, si tratta di dedicare una particolare attenzione alle attività che possono essere poste in essere dalle autonomie e dai privati nell'individuazione del principio di sussidiarietà. In sostanza, il comune dovrebbe realizzare ciò che non può essere devoluto significativamente e concretamente all'autonomia dei privati, a livello di attività sul territorio. Abbiamo presentato un emendamento in tal senso e ci auguriamo che su questo tema si coaguli un ampio consenso politico.
Un altro aspetto sul quale vorrei soffermarmi riguarda l'attribuzione alle regioni, a mezzo dei loro statuti, della competenza in tema elettorale e di individuazione del modello di governo. Abbiamo perplessità sulla totale devoluzione di tali competenze alle regioni ed abbiamo presentato due emendamenti alternativi - il primo a firma Calderisi, il secondo del senatore Rotelli - che propongono soluzioni diversificate, ma che comunque sono portatori di un unico messaggio: l'esigenza di individuare un modello dal quale si possa partire nella prima fase di applicazione della legge. In particolare, l'emendamento del collega Calderisi prevede un modello presidenziale, con l'elezione diretta del presidente della regione e la possibilità di flessibilità successiva di tale modello, ad opera delle regioni stesse, le quali potranno modificare la procedura; l'emendamento Rotelli individua invece nello statuto l'esigenza di risalire ai due modelli alternativi per l'elezione del presidente della regione: un modello presidenziale ed un modello parlamentare-assembleare. In ogni caso, la nostra idea è che, nella legge nazionale, quanto meno si dovrebbero individuare i principi essenziali del sistema elettorale del parlamento regionale. Pur condividendo le esigenze di competitività della nuova classe politica regionale, un richiamo ai principi generali dell'ordinamento assicurerebbe, quanto meno, un'uniformità di attività legislativa, anche sotto il profilo della precostituzione di maggioranze politiche sul territorio.
Un altro aspetto sul quale abbiamo riflettuto e sul quale insistiamo riguarda il modello delle province. Credo che dal dibattito generale sia emersa una riflessione attenta sulla rivisitazione del modello intermedio che si frappone tra comune e regione. Insistiamo sull'esigenza di rivedere siffatto modello istituzionale, adeguandolo ad una flessibilità territoriale che risponda maggiormente all'esigenza di una funzione omogenea, indirizzata quanto più possibile alle problematiche delle aree vaste, delle aree metropolitane e che quindi realizzi eventualmente la metamorfosi del modello anchilosato della provincia a finanza invariata, in un struttura che, nascendo di concerto da una consultazione regioni-comuni, possa realizzare sul territorio un livello di efficienza maggiore e più adeguato all'attività dei comuni, anche considerandoli in forma associata.
Quanto agli statuti speciali, concordo pienamente con la posizione testé espressa dall'onorevole Soda. Anche noi siamo per una clausola che salvaguardi il mantenimento degli statuti speciali, con possibilità di adeguamento automatico, da realizzarsi con legge regionale, alle eventuali, maggiori autonomie riconosciute dalla legge.
Per quanto riguarda la pubblica amministrazione, insistiamo per l'introduzione di un principio abbastanza significativo, che aveva fatto capolino in Comitato, su proposta del relatore, allorquando quest'ultimo proponeva che alla pubblica amministrazione fossero assegnati tempi entro i quali l'atto e il procedimento amministrativo dovrebbero essere portati a compimento. Si tratta di un forte segnale che, al di là dei messaggi della legge n. 241 e del decreto legislativo n. 26, riteniamo meriti oggi una consacrazione costituzionale, nella prospettiva di imprimere una spinta ancora più forte

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e radicata verso il nuovo assetto amministrativo della pubblica amministrazione.
Sulla pubblica amministrazione, concludo richiamando una norma transitoria che abbiamo proposto, la quale è, ritengo, di forte significato: è una norma che innanzitutto gradua il sistema di recepimento delle future funzioni regionali che verranno attribuite con la presente legge alle regioni consentendo loro di presentare un piano di recepimento di tali nuove funzioni, con una gradualità probabilmente quinquennale, perché è giusto e corretto che le regioni comunichino allo Stato, entro un certo lasso di tempo, quale sarà il modello cui gradualmente nel tempo si atterranno per far partire a regime, ad ogni inizio d'anno, le nuove funzioni che sono tenute a recepire. Da un lato, dunque, questa gradualità; dall'altro lato, chiediamo che il governo, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge, presenti un piano di risistemazione di tutta l'organizzazione amministrativa centrale, che tenga conto delle economie che si realizzano nella redistribuzione del sistema amministrativo grazie allo scivolamento verso il basso di compiti e funzioni.
Questo piano deve tenere conto delle economie, perché soltanto con l'individuazione di considerevoli risparmi avremo realizzato un forte federalismo che obbedisca alle esigenze dei cittadini di avere una pubblica amministrazione più efficiente e meno costosa.

MAURIZIO PIERONI. Signor presidente, richiamerò l'attenzione del relatore e dei colleghi soltanto su quattro emendamenti che consideriamo centrali nel nostro tentativo di intervento sul lavoro di stesura, il quale, una volta rimossa la parte relativa alla costituzionalizzazione di statuti contrattati singolarmente fra regioni e Stato, ci sembra riconducibile ad una larga piattaforma unitaria.
I problemi che restano aperti sono relativi all'ambito fiscale, all'autonomia statutaria ed alle competenze statali esclusive: su questi aspetti richiamerò l'attenzione. In primo luogo, vi è la questione dell'autonomia statutaria; al riguardo, abbiamo un ampio ventaglio di emendamenti presentati da tutti i gruppi parlamentari: si va da definizioni estremamente prescrittive, che prevedono sia l'indicazione di forme di governo (vi si riferiva il collega Schifani, addirittura con l'indicazione costituzionale di un approccio iniziale con una forma di governo) sia un sistema elettorale uniforme per tutte le regioni italiane; all'estremo opposto, troviamo emendamenti che sostanzialmente codificano solo l'autonomia totale, senza introdurre alcun contenuto in Costituzione.
Riteniamo di fare appello al relatore ed a tutti i gruppi perché si cerchi una ragionevole soluzione intermedia fra questi due estremi: riteniamo infatti che l'autonomia statutaria debba essere pienamente esercitata ed ogni regione si dovrà quindi dotare del sistema elettorale che più ritiene consono alla propria struttura territoriale. Riteniamo che la forma di governo ed i rapporti fra gli organi vadano affidati all'autonomia statutaria e che in Costituzione, come contenuto, debbano essere indicati solo gli organi essenziali. Al riguardo, insistiamo perché siano individuati l'assemblea legislativa, o consiglio regionale che dir si voglia, il governo regionale e il presidente: l'individuazione di questi tre organi garantisce un tasso minimo di uniformità nazionale. Chiediamo inoltre che siano indicate le procedure a garanzia dell'autonoma strutturazione dei sistemi elettorali.
Sulle procedure, indichiamo una maggioranza di due terzi, che può essere anche di tre quinti, comunque un rapporto numerico all'interno del consiglio regionale (si tratta del nostro emendamento I.4.10 a pagina 44 del fascicolo degli emendamenti ed articoli aggiuntivi n. 1); altri emendamenti, invece, individuano dei passaggi procedurali veri e propri nella doppia lettura o nell'ipotesi referendaria. Siamo disponibilissimi ad accedere anche la questa seconda versione, perché non facciamo del nostro emendamento una questione capitale; nella sostanza, vorremo che fosse raggiunta


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la facoltà per le regioni di dotarsi di un autonomo sistema elettorale e di autonome forme di governo, con delle garanzie solo sul piano procedurale, e non di contenuto.
L'altro aspetto è l'articolazione sul territorio delle entità. Come il relatore ben sa, abbiamo proposto (anche ove non fosse accolta, sosterremo e voteremo a favore di questa posizione) di espungere le province dagli organi costitutivi dello Stato, differenziandole quindi da Stato, regioni e comuni. Anche di questo, per carità, non facciamo una battaglia dirimente: ciò che veramente ci interessa è che nello spirito, non nella lettera, sia ripresa la formulazione del nostro emendamento I.1.1 laddove si prevede, al comma 5: «Comuni e regioni individuano enti territoriali intermedi, anche elettivi, promuovendo istituzioni adeguate alle necessità delle comunità che rappresentano». Ci interessa, cioè, che vi sia nella dialettica comuni-regioni la possibilità di promuovere strumenti flessibili per il governo del territorio. Dal momento che facciamo una scelta di autonomia e di federalismo, chiediamo che essa sia perseguita coerentemente fino in fondo, perché ove così non fosse mancheremmo ad uno dei principi che in sede di discussione generale è stato più volte invocato nella nostra Commissione: il principio di responsabilità. Se in Costituzione continuiamo a stabilire dei percorsi e dei contenuti obbligati, non potremo mai chiamare le future classi dirigenti regionali e locali a rispondere secondo il principio di responsabilità.
Non ho molto altro da aggiungere, se non che, per quanto riguarda le competenze legislative esclusive dello Stato, anche noi introduciamo alcuni elementi che fanno riferimento alla prima parte della Costituzione ma sui quali non mi dilungo perché ho visto che pressoché tutti i gruppi hanno presentato emendamenti analoghi, per cui ritengo che alla fine si possa trovare una soluzione convergente. Richiamo invece l'attenzione del relatore sul nostro emendamento I.4.6, che prevede un modo per affrontare (di fronte alla scelta delle competenze esclusive, proponiamo di aggiungere il termine «esclusive» alle competenze legislative statali in altro emendamento) la questione della non compiutezza di qualsiasi elenco che andremo a definire. Anche a tale riguardo - sia chiaro al relatore ed ai colleghi - siamo disponibili a ritirare il nostro emendamento ove fosse individuata una clausola di chiusura, rispetto all'elenco che andremo a definire, che ci sembri convincente e soddisfacente.

GIUSEPPE VEGAS. Signor presidente, mi limiterò ad ad illustrare alcuni emendamenti che abbiamo presentato. Il mio emendamento I.6.35, presentato insieme con il collega D'Amico, mira a definire il principio della responsabilità integrale in materia di finanza locale e patrimoniale da parte degli enti locali, al fine di rendere chiaro che nel momento in cui esiste un principio di autonomia vi è anche un principio connesso di responsabilità. Una variante rispetto a questo emendamento è rappresentata dal nostro emendamento I.6.32, a prima firma Urbani, che invece fissa dei limiti all'indebitamento degli enti locali (questa è una delle due strade che si possono seguire in materia): si specifica infatti che gli enti locali non si possono indebitare se non per spese di investimento e che devono presentare bilanci in pareggio.
Il nostro emendamento I.6.36 (pubblicato a pag. 69 del fascicolo degli emendamenti ed articoli aggiuntivi n. 1), più specificamente in materia di finanza locale e di metodi di divisione delle entrate tributarie, tende a far sì che gli enti locali possano utilizzare una quota dei tributi erariali per le funzioni da loro svolte, attraverso l'applicazione di un'aliquota variabile, individuata da loro stessi, in relazione alle funzioni svolte, alla qualità dei servizi resi ed alla pressione tributaria che essi vogliono esercitare nel proprio territorio. In questo modo si realizzerebbe una sorta di concorrenza tra regioni sulla qualità dei servizi e sulla pressione tributaria, che credo possa corrispondere ad


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un principio utile per il migliore espletamento dell'attività di questi enti.
Il nostro emendamento I.10.25, che ho presentato insieme ai colleghi Urbani e D'Amico, mira anch'esso ad introdurre un principio di concorrenza nei servizi pubblici, prevedendo che, ove possibile, su domanda individuale, essi possano essere resi non esclusivamente da soggetti pubblici ma anche da soggetti privati. In questo modo i cittadini potranno scegliere ed in sostanza potranno avere un servizio più efficiente a minor costo.
Per certi aspetti connesso a quest'ultimo è l'articolo aggiuntivo Urbani I.10.01 che pone limiti temporali al possesso di partecipazioni azionarie da parte dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni. In sostanza, lo Stato può avere la caratteristica di Stato imprenditore solo a condizione che ciò avvenga per un periodo di tempo limitato e le attività svolte impropriamente dallo Stato in questo senso debbono dunque trovare almeno un limite temporale, essendo difficile definirne uno di carattere qualitativo e quantitativo.
Vorrei infine illustrare il mio articolo aggiuntivo I.7.03 riferito al trattamento dei cittadini italiani rispetto a quello riservato ai propri cittadini dagli altri Stati comunitari. In sostanza, questo articolo aggiuntivo mira a far sì che si instauri un principio di equipollenza tra il trattamento fiscale e contributivo dei nostri cittadini e quello esistente negli altri paesi europei. Se dobbiamo andare verso un'unificazione di carattere monetario, dobbiamo anche tener presente che esistono importanti motivi di unificazione del trattamento dei diritti individuali e delle correlative prestazioni; solo così si potrà creare uno spazio effettivamente comune.

GIANCLAUDIO BRESSA. Anch'io mi limiterò ad illustrare solo alcuni emendamenti che consideriamo qualificanti della nostra proposta.
Anzitutto, all'articolo 1, vorremmo sostituire alle parole «comuni e province» le parole «comunità locali». Questa modificazione per noi non è solo formale ma ha un significato politico e culturale profondo. I soggetti di questa norma non sarebbero più i comuni e le province ma le comunità, che verrebbero così chiamate alla loro responsabilità ed alla loro soggettività politica. Ciò fa parte del patrimonio di una grande e nobile tradizione alla quale ancora oggi facciamo pieno e convinto riferimento.
Accanto a questa modificazione, proponiamo - sempre nell'articolo 1 - di introdurre alcuni principi fondamentali che riteniamo debbano esprimere in modo esplicito, e non solo implicito come avviene nel testo del relatore, alcuni caratteri del mondo delle autonomie locali.
Facciamo esplicito riferimento ai due principi della sussidiarietà e della differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali. Modifichiamo cioè la proposta del relatore, secondo la quale «sono garantite le autonomie funzionali», non garantendo queste ultime in Costituzione ma riconoscendone l'esistenza ed agganciando tale riconoscimento ai due fondamentali principi della sussidiarietà e della differenziazione.
Sulla prima si è parlato più volte e non mi soffermo. Vorrei invece sottolineare il significato del principio della differenziazione, che consente di tener conto della diversità tra autonomie locali per come esse esistono nel nostro paese, e che soprattutto ne garantisce il rispetto valorizzando la stessa diversità per un'armonica costruzione di un'architettura istituzionale delle autonomie locali.
Introduciamo poi due ulteriori criteri con riferimento alla titolarità delle funzioni, laddove prevediamo che debba essere garantito il criterio della omogeneità e dell'adeguatezza delle strutture organizzative rispetto alle funzioni. Ciò vuol dire che, nel riconoscimento della diversità delle autonomie, queste ultime devono poter esercitare pienamente le proprie funzioni essendo consapevoli che esistono criteri di omogeneità e di adeguatezza di intervento che devono presiedere all'organizzazione istituzionale ed alle scelte conseguenti.


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Nell'emendamento che abbiamo presentato facciamo esplicito riferimento alla dizione - lo dico ora ma vale per tutte le circostanze in cui questa formula appare - «con legge che necessita del consenso della commissione delle autonomie territoriali». È un tema che evidentemente dovrà essere coordinato con le decisioni che verranno assunte con riferimento al Parlamento; tuttavia, il principio che vogliamo sancire è che sulle questioni importanti di ordinamento e su quelle finanziarie che riguardano il mondo delle regioni e delle autonomie locali si deve individuare un luogo in cui avvengano un confronto ed una codecisione.
Si tratta di un punto decisivo e per noi non eludibile, anche se la definizione del luogo deve essere lasciata alla discussione sulla forma che il Parlamento verrà assumendo.
Avendo compiuto la scelta di riferirci esplicitamente alle comunità locali, proponiamo un articolo aggiuntivo nel quale specifichiamo che cosa intendiamo con tale espressione. Diciamo in modo chiaro che le comunità locali sono organizzate in comuni, province e città metropolitane. Si definiscono cioè compiutamente le comunità locali e crediamo che sia anche opportuno definire i loro compiti e le loro funzioni lasciando però il potere ordinamentale in capo allo Stato e non alle regioni, quindi escludendo qualsiasi possibilità di equivoco di neocentralismo regionale.
In modo particolare diamo una definizione precisa nell'ambito costituzionale di quali debbano essere le funzioni regolamentari ed amministrative dei comuni, recependo una formula generale ma non generica. Facciamo cioè riferimento al fatto che sono attribuite ai comuni le funzioni regolamentari ed amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale nei settori dell'assetto e dell'utilizzazione del territorio, dello sviluppo economico, della gestione dei servizi. Vogliamo cioè definire queste funzioni per dare pienezza di poteri ai comuni.
Abbiamo sempre teorizzato - ed il relatore ne è stato, da questo punto di vista, felice interprete - l'organizzazione di un modello federale nel quale vi sono poteri forti e poteri eguali. Ebbene, riteniamo che i poteri dei comuni debbano essere forti e garantiti in Costituzione. Definire in Costituzione con una formula generale - e non generica - quali siano gli ambiti di applicazione delle funzioni regolamentari ed amministrative crediamo sia molto importante perché dà forza alle autonomie locali.
A nostro modo di vedere, introduciamo un ulteriore elemento molto importante, laddove facciamo riferimento ai comuni di dimensioni inferiori. Non possiamo ignorare una delle realtà dell'organizzazione delle nostre autonomie, cioè che su 8 mila comuni 4 mila hanno meno di 1.500 abitanti. Conosciamo la difficoltà di forzare questa realtà e riteniamo che farlo sarebbe un errore politico molto grave. La Costituzione ha una sua fortissima rilevanza in termini di diritto ma deve anche nascere da fatti politici che esistono nel paese e che non possono essere arbitrariamente forzati. Riteniamo pertanto che i piccoli comuni debbano continuare ad esistere ma che debbano anche trovare una forma più adeguata di esistenza. Bisogna rovesciare la logica corrente: non dobbiamo cancellare i piccoli comuni ma adeguarli alle nuove responsabilità che vogliamo mettere loro in capo.
Nel rispetto, quindi, dei principi di differenziazione e di sussidiarietà e dei criteri di omogeneità e di adeguatezza, prevediamo in Costituzione che i piccoli comuni debbano esercitare in forma associata alcune funzioni che la legge affiderà loro. Tali forme associative fra comuni devono però avere la stessa autonomia garantita ai comuni; devono cioè rappresentare, dal punto di vista dell'ordinamento, entità uguali ai comuni, con gli stessi poteri garantiti in Costituzione.
Introduciamo anche in Costituzione la dimensione dell'area metropolitana: sottolineo questo aspetto particolare, che peraltro non ho trovato in altre proposte.

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ERSILIA SALVATO. Non c'è solo nella vostra!

GIANCLAUDIO BRESSA. Volevo dire che era un argomento che abbiamo trattato in pochi, mentre i temi relativi alle autonomie locali sono patrimonio di tutte le proposte.
Nell'introdurre il concetto di area metropolitana cerchiamo di dare un riconoscimento alla funzione di polarizzazione che le città rivestono rispetto ai propri territori. Cerchiamo così di accogliere le moderne concezioni del modello di sviluppo territoriale, dando all'area metropolitana una dimensione totalmente moderna, non solo esclusivamente agganciata al numero degli abitanti ma anche alla funzione di polarizzazione che i centri hanno rispetto al territorio che sta loro attorno.
Sottolineo poi, ancora una volta, che ribadiamo, in maniera non equivoca, che il potere ordinamentale in tema di autonomie locali va allo Stato e che all'interno di questo ambito si esercita l'autonomia statutaria e regolamentare dei singoli comuni.
Un breve riferimento all'articolo 2, dove si parla del potere, da parte di comuni e di province, di far ricorso alla Corte costituzionale. Al riguardo, non abbiamo presentato alcun emendamento, però riterremmo che questo debba essere uno di quei temi da raccordare con il lavoro svolto dal Comitato sul sistema delle garanzie per poi decidere assieme in quale ambito trattare la materia. Credo che questo discorso debba valere anche per il difensore civico e per le autorità indipendenti.
Per quanto riguarda le fusioni tra regioni, abbiamo presentato emendamenti che, sostanzialmente, non differiscono dalla proposta del relatore. L'unica differenza che ci teniamo a sottolineare, perché crediamo che abbia qualche significato, è che è solo con legge che possono essere istituite nuove province. Riteniamo che questa sia una clausola di attenzione rispetto ad un fenomeno che, altrimenti, rischia di avere effetti non controllabili, cioè l'istituzione di nuove province senza una logica coerente e senza un vero significato per il nuovo assetto dello Stato.
Passo all'altra grossa questione relativa agli statuti regionali. Come avevamo già detto in sede di discussione generale, siamo contrari alla costituzionalizzazione degli statuti per motivazioni che qui non ripeto ma che, sostanzialmente, sono tutte riconducibili al fatto che un simile modello irrigidirebbe in maniera pericolosa la Costituzione. Si tratta quindi di definire gli statuti, che così devono, evidentemente, rimanere, e quali debbano essere i poteri e le funzioni che vanno a governare.
Riteniamo che gli statuti regionali debbano essere deliberati, a maggioranza assoluta, dalle assemblee regionali e che questo debba essere un loro potere originario pieno ed autonomo. E dovrebbe esserci pienezza di poteri per quanto riguarda la definizione della forma di governo, così come anche la forma dell'elezione del presidente, le quali devono essere definite autonomamente dallo statuto. Crediamo, invece, che le modalità dell'elezione dell'assemblea regionale debbano essere fissate, secondo principi generali, da una legge dello Stato, in quanto consideriamo molto importante che una regione possa stabilire la forma del proprio governo e anche il modello presidenziale, però con una omogeneità, sul territorio nazionale, per quanto riguarda il modo di elezione dell'assemblea regionale. Questo per evitare, a nostro modo di vedere, una pericolosa disomogeneità di rappresentanza politica. Poiché alle regioni vengono poi affidati compiti anche non piccoli a livello nazionale, in decisioni politiche generali, nella seconda Camera - qualsivoglia essa sia, questo principio è condiviso da più parti - si tratta di non dar vita a forme di rappresentanza politica troppo disomogenee: se lasciamo che un'assemblea regionale possa essere eletta in una regione con il sistema proporzionale puro, in un'altra con il proporzionale con premio di maggioranza, in un'altra ancora con il maggioritario a turno unico o a doppio turno, rischieremmo, in qualche modo, di sfalsare la dimensione politica


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regionale rispetto ad una omogeneità che, invece, deve essere garantita sul livello nazionale.
Per quanto attiene alla questione relativa all'articolo 4, cioè dell'elenco delle materie, nell'introdurre un emendamento in cui diciamo in maniera chiara che spetta alle regioni la competenza legislativa in ogni materia che non venga attribuita allo Stato o ad altri enti da disposizioni costituzionali, in qualche modo abbiamo ripreso il lavoro svolto in Comitato e abbiamo anche fatto riferimento all'elenco delle materie allora presentate dal relatore. Quindi, non mi soffermerò sui dettagli se non per ricordare l'emendamento I.4.54, con il quale proponiamo, al primo comma, di sostituire le parole «ordinamento civile e ordinamento penale e relative giurisdizioni; giurisdizione superiore amministrativa, contabile e tributaria» con le parole: «ordinamento civile, penale e giudiziario per la tutela dell'unità giuridica nazionale». Crediamo, infatti, che questa garanzia dell'unità giuridica nazionale in termini sia di ordinamento sia di garanzie fondamentali per i diritti delle persone debba essere chiaramente detta ed espressa in Costituzione.
Non mi soffermo, per evitare un lungo elenco, sul dettaglio delle materie. Mi richiamo alle cose già dette in sede di lavori del Comitato ma partendo dal presupposto che l'elenco di riferimento è quello presentato dal relatore in Comitato non quello del suo testo attuale.
Riteniamo poi di recuperare qui, non con una norma a parte, quelli che vengono definiti come poteri impliciti e che il relatore, senatore D'Onofrio, aveva già inserito nel testo presentato in Commissione. Proponiamo quindi di sostituire il secondo comma dell'articolo 4 con il seguente: «Spetta inoltre allo Stato il potere legislativo: per assicurare la libera circolazione delle persone e dei beni fra le regioni; per garantire a chiunque ne abbia diritto l'esercizio della professione, dell'impiego e del lavoro in ogni parte del territorio nazionale». Ciò riprendendo anche una formulazione adottata dallo stesso relatore.
Poiché nell'elenco delle materie facciamo riferimento, talora, all'interesse nazionale, per esempio laddove si parla di produzione di energia o di interventi che riguardano la protezione civile, riteniamo che sia opportuno provvedere, laddove esplicitamente richiamato, alla definizione, nelle materie riservate allo Stato, dell'interesse nazionale. Riteniamo anche che sia utile prevedere sia una delega alle regioni di funzioni normative, nelle materie riservate allo Stato, laddove questo sia considerato opportuno in un particolare momento della vita della Repubblica, sia una disciplina degli interventi sostitutivi. Quindi, si tratta di un comma che tende a rendere flessibile l'interpretazione di questo elenco, perché siamo dell'idea che tanto più vi è una interpretazione politica e tanto meno una giurisdizionale, tanto meglio è per il processo federale che abbiamo in mente di avviare.
Considerato poi ciò che nel testo del relatore viene lasciato solo intendere, cioè è implicito ma non chiaro, riteniamo utile introdurre un nuovo articolo in cui sia espresso con chiarezza il superamento del principio del parallelismo delle funzioni, uniformandoci così agli orientamenti più recenti, che considerano la materia amministrativa separata da quella legislativa. Proponiamo, quindi, il seguente articolo aggiuntivo: «L'amministrazione nelle materie nelle quali spetta allo Stato il potere legislativo è esercitata dalle regioni e dalle comunità locali (...)». Viene quindi indicata con chiarezza la separazione dei poteri. Però, siccome non siamo stati capaci di tradurre in una norma di principio il resto, abbiamo ripreso un elenco molto abbreviato di materie escluse dalle competenze delle regioni e delle comunità locali per quanto riguarda l'amministrazione. Siamo molto convinti dell'articolo aggiuntivo che proponiamo anche se siamo altrettanto disponibili ad accettare qualsiasi altra formulazione. Da questo punto di vista, rivolgo un invito al relatore, in quanto una sua diversa valutazione del testo potrebbe vederci sicuramente concordi.

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Un'altra questione su cui voglio soffermarmi è quella del federalismo fiscale. Senza volermi dilungare troppo su questo tema, che credo sarà oggetto, anche in sede di discussione e di approvazione degli emendamenti, di un approfondimento maggiore, dico che abbiamo, in qualche modo, accettato l'impostazione che del problema è stata data dall'onorevole Salvati: laddove si definiscono con chiarezza le forme di autonomia tributaria e finanziaria; laddove si riconoscono a regioni e ad autonomie locali tributi propri istituiti con legge regionale, addizionali, sovraimposte, eccetera. In essi deve essere fatto proprio il principio fondamentale di prevedere, da utilizzare per scopi distinti dall'esercizio delle normali funzioni, fondi straordinari, ma soprattutto deve essere fatto esplicito riferimento al fondo perequativo, che riteniamo essere lo strumento indispensabile per la realizzazione di un autentico federalismo fiscale. Ciò consentirebbe di attuare quelle condizioni di parità tra le varie realtà regionali, che sono poi alla base della competizione virtuosa tra sistemi.
L'impianto pensato dall'onorevole Salvati ci sembra molto convincente, tanto è vero che, se si eccettuano alcune questioni marginali, lo abbiamo fatto nostro. Riteniamo che questa sia una partita decisiva e che la definizione delle risorse finanziarie sia il motore della realizzazione del federalismo, un motore che non deve essere grippato da condizioni di partenza che possono, come nel nostro caso, essere troppo diseguali. Riteniamo altresì che l'impostazione da noi proposta sia in qualche modo l'unica che consenta di affrontare e di tenere sotto controllo il problema dell'azzeramento del debito pubblico. Crediamo invece sia utile inserire qui, e non nel testo della relazione presentata dall'onorevole D'Amico, una norma in cui si faccia esplicito riferimento al rapporto delle regioni con l'Unione europea. Pensiamo infatti sia utile prevedere una norma che consenta alle regioni nelle materie di propria competenza di stipulare intese fra loro ed istituire organismi comuni. Abbiamo preferito tale modalità al principio della fusione tra regioni, principio che non disconosciamo, ma riteniamo sia più utile, soprattutto in questa prima fase, consentire alle regioni di avere strumenti di collaborazione più agili, più praticabili e meno costringenti nella costruzione di attività comuni. Poiché è prevedibile, deve essere garantita la possibilità di istituire organismi comuni per il perseguimento di fini analoghi tra regioni diverse.
Per quanto riguarda la pubblica amministrazione, ritengo (l'ho già detto) che per le autorità indipendenti, il termine indipendente non debba essere un principio garantito dalla Costituzione, ma debba essere la legge a garantire l'indipendenza. Ritengo che il problema vada affrontato, così come il tema del difensore civico, quando esamineremo le questioni del Comitato sistema delle garanzie.
L'unico aspetto che vorrei sottolineare a proposito dell'articolo 13, riguarda la definizione di alcuni principi sulla pubblica amministrazione, con particolare riferimento a quello sulla trasparenza e sulla responsabilità, che dovrebbero diventare uno dei cardini dell'organizzazione della pubblica amministrazione nel nuovo modello. Sarebbe opportuno mantenere il principio che le assunzioni avvengano attraverso concorso pubblico, perché comunque questa è una clausola di salvaguardia e di trasparenza, nel momento in cui la pubblica amministrazione provvede alle assunzioni di personale.
Restano da affrontare due ultime questioni che riguardano le norme transitorie e finali. Abbiamo previsto di inserire a questo punto il problema degli statuti speciali e delle autonomie speciali. Nel nostro emendamento, laddove prevediamo che «restano ferme le discipline delle regioni a statuto speciale sino all'armonizzazione delle stesse ai principi della presente legge di revisione costituzionale», tendiamo a sancire un principio, a nostro modo di vedere, molto importante. Rispetto all'impostazione del relatore, riteniamo che alla fine tutte e venti le regioni debbano essere ugualmente speciali, per cui la materia della specialità dovrebbe

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essere ricondotta ad elementi autentici di specialità e, quindi, di diversità, quali sono evidentemente alcune questioni collegate a problemi etnico-linguistici. Per quanto riguarda invece, la restante sfera delle competenze e delle attribuzioni non dovrebbero introdursi distinzioni tra le varie regioni se non quelle che il principio di differenziazione può consentire.
La seconda norma transitoria e finale è articolata in due commi; il primo prevede una deroga per non intralciare il processo di revisione costituzionale con quello già avviato dal Parlamento in base alla cosiddetta legge Bassanini ed al processo di delega in essa contenuto. Si tratta di una norma che cerca di armonizzare i due processi per impedire che in qualche modo si possa creare un corto circuito tra queste due attività ugualmente importanti di revisione dello Stato. Il secondo comma fa riferimento a quella che è stata definita, se vogliamo impropriamente, geometria variabile, nel senso che essa deve essere intesa come un accordo temporalmente definito per il trasferimento delle funzioni, e non come un punto cristallizzato in Costituzione. Non tutti possono fare le stesse cose nello stesso tempo, però alla fine tutti dovranno fare le stesse cose e cioè definire, attraverso accordi tra le singole regioni e lo Stato, i tempi di attuazione di questo processo di federalizzazione, che ha un orizzonte finale comune, perché poi tutte le regioni federali dovranno avere le stesse competenze, le stesse funzioni e gli stessi poteri.

GUIDO DONDEYNAZ. Gli emendamenti che ho presentato vogliono sostanzialmente cogliere due aspetti della discussione che stiamo affrontando: il primo il ruolo delle regioni e l'altro quello delle regioni a statuto speciale.
È da più tempo che tendo ad affermare, come fanno altri, che il cardine fondamentale di una qualunque trasformazione della nostra Costituzione sia prendere a riferimento in modo chiaro ed inequivocabile l'entità regionale. Credo che su questo piano ogni altra impostazione non possa far altro che creare ulteriore confusione all'interno della nostra realtà. Di conseguenza, gli emendamenti tendono ad affermare che la regione è l'ente attorno al quale ruota tutto l'asse del cambiamento.
Per quanto riguarda gli statuti delle regioni ad ordinamento speciale, vorrei essere molto chiaro: l'obiettivo è molto semplice ed è quello di non fare un'operazione che tenda a ridurre e ad appiattire la questione su una soluzione che potrebbe essere più «bassa» di quella delle attuali regioni a statuto speciale, realizzando un'operazione di grande contraddizione rispetto all'obiettivo dichiarato. Sono della precisa opinione che, qualora tutte le regioni dovessero assolvere a questo compito e raggiungere i livelli di competenza legislativa delle regioni a statuto speciale, questa sarebbe la situazione migliore. Dubito tuttavia, che ciò possa avvenire, visto l'allungamento preoccupante dell'elenco della spesa contenuta nell'articolo 4 sulle competenze dello Stato, elenco riportato nella relazione dell'onorevole D'Onofrio. Proprio per questo motivo ritengo che le regioni a statuto speciale debbano trovare una loro collocazione e che le leggi costituzionali, che sono a loro fondamento, debbano essere prese in considerazione e non possono essere ridotte le capacità legislative inserite in tale legge.
La seconda questione, molto importante, riguarda la modifica degli statuti. Riteniamo che ogni regione debba avere il proprio statuto e che l'unica verifica possa essere effettuata dalla Corte costituzionale rispetto alla legge istitutiva. Riteniamo, a proposito dell'articolo 4, che debbano inserite due questioni riguardanti la possibilità di integrare o modificare le leggi speciali delle regioni a statuto autonomo. L'obiettivo è quello di non creare una situazione di stasi e consentire anche a queste regioni di sviluppare al loro interno una legislazione aggiuntiva.
Dico tutto ciò non solo perché ritengo che anche per il paese sia importante attuare un modello del genere, ma anche perché sulla questione regionale del riparto con i comuni da anni la regione Val


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d'Aosta ha un suo modello di natura finanziaria che è di grande soddisfazione sia per la regione sia per gli enti locali. Di conseguenza, il ragionamento che faccio è anche supportato da un'esperienza diretta da parte della nostra comunità.
Come questo, anche tutti gli altri emendamenti sono tesi coerentemente a riportare all'interno di questo alveo tutti i ragionamenti di natura finanziaria.

AGAZIO LOIERO. Presidente, io illustrerò in questa fase solo l'emendamento Casini I.4.30, lasciando ad altri colleghi il compito di illustrare altri emendamenti che sono il prodotto di un lavoro comune.
Scopo del presente emendamento è quello di precisare, nell'ambito del nuovo assetto federale dello Stato, il ruolo dell'autonomia siciliana già consacrato nello statuto del 1946. È noto, infatti, che la prima forte esperienza autonomista è quella siciliana, che ha peraltro anticipato la nascita del nuovo assetto costituzionale italiano.
Lo statuto della regione siciliana è nato sulla scorta di un vero e proprio patto tra la regione e lo Stato e in considerazione delle obiettive condizioni economiche, politiche e sociali dell'isola e costituisce il primo modello di autonomia, che non può certamente essere ignorato dal legislatore, al quale non è neppure consentito di modificare o comunque ridurre le funzioni e le competenze già attribuite alla regione siciliana. Sarebbe, infatti, estremamente contraddittorio e anche palesemente illegittimo l'atteggiamento del legislatore costituzionale che, nello stesso momento in cui amplia, in vista della nuova configurazione federale dello Stato, le funzioni delle altre regioni, tendesse a modificare quelle già attribuite, in via permanente e definitiva, alla regione siciliana.
Al contrario, il nuovo assetto costituzionale dello Stato, per una esigenza ineludibile di intima coerenza, comporta la necessità che lo statuto siciliano, che costituisce il primo esempio di federalismo, venga fortificato ed attuato integralmente anche al fine di mantenere quel carattere di «laboratorio giuridico» che, contenendo la più accreditata dottrina, costituisce, insieme alla specialità, una delle qualità fondamentali dello statuto.
L'esigenza di una conferma integrale della normativa statutaria è pertanto in piena sintonia con il progetto di riorganizzazione in senso federale dello Stato italiano. A ciò si aggiunga che la permanenza dell'autonomia siciliana si carica di ulteriori significati ove si considera che il rapporto tra la regione siciliana e lo Stato non necessita, se non nell'ambito dell'attribuzione delle nuove e diverse funzioni previste dalla bozza, di una nuova negoziazione delle prerogative autonomistiche ma semmai di una contrattazione per la piena e totale attuazione dello statuto.
In questo contesto, la disciplina del procedimento di revisione dello statuto, alla luce del nuovo assetto dei poteri in senso federale dello Stato italiano, si allinea al procedimento indicato per le regioni a statuto ordinario dal terzo comma dell'articolo 4 della bozza e cioè la revisione ad iniziativa dell'assemblea regionale con la maggioranza assoluta dei suoi componenti e l'approvazione con legge costituzionale dello Stato. A rafforzare l'esigenza di effettività dello statuto è posta la previsione del termine per la trasmissione delle modifiche al Parlamento per il tramite del Presidente del Consiglio. Risulta infatti evidente la necessità che il processo di inserimento della regione siciliana, con le proprie prerogative e con le innovazioni introdotte dalla bozza, nel nuovo assetto federale dello Stato non può che essere accelerato per garantire la piena ed integrale realizzazione dell'autonomia siciliana.

FAUSTO MARCHETTI. Presidente, i nostri emendamenti costituiscono un testo complessivamente sostitutivo di quello presentato dal senatore D'Onofrio. La scelta di fondo che è presente nel testo D'Onofrio, infatti, non ci convince e ci fa intravedere la prospettiva di uno Stato che non si regge. Ci sembra impossibile riorganizzare complessivamente il nostro Stato sulla base della proposta che il senatore D'Onofrio ha presentato.


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La stessa definizione di partenza «la Repubblica è costituita da comuni, province, regioni e Stato» non ci convince assolutamente. Lo stesso titolo con il quale si parte, «ordinamento federale della Repubblica», ci lascia perplessi. È già stato detto che, intervenendo con termini di questo tipo (lo accennava il collega Rotelli), si incide sulla prima parte della Costituzione. Perciò noi proponiamo di partire da un titolo del tutto diverso: «Ordinamento territoriale dello Stato». Il tentativo di trovare una definizione nuova rispetto a quella presente nella Carta costituzionale che in parte vogliamo revisionare viene da noi impostato in termini diversi con l'articolo 1 che abbiamo proposto sostitutivo del testo base adottato dalla Commissione. Sulla base di questa impostazione nuova si dice che lo Stato repubblicano è costituito da comuni, province, città metropolitane e regioni.
Proponiamo di eliminare il riferimento alla garanzia delle autonomie funzionali che nel testo D'Onofrio è posto immediatamente dopo la definizione di che cos'è la Repubblica. Ciò non perché non vi siano autonomie funzionali, le più varie, da rispettare e da valorizzare, che svolgono un ruolo nella nostra società, ma perché quello delle autonomie funzionali è un concetto abbastanza indefinito da individuare di volta in volta. Porre pertanto in questi termini il problema nella Carta costituzionale non ci sembra una scelta opportuna. Le autonomie funzionali in questione sono appunto le più varie e indefinite. È difficile individuare un contenuto al quale la norma costituzionale faccia effettivo riferimento; sembra più una dichiarazione di principio da rapportarsi non si sa bene a quali realtà concretamente individuabili. Se si fa riferimento ad alcune autonomie funzionali che si vogliono garantire - è stato allora detto - si dica quali sono, in modo da discutere nel merito se quelle determinate autonomie funzionali hanno un rilievo tale da poter e dover essere collocate nella Costituzione. Io credo che nella Costituzione vadano collocate le realtà necessarie e individuate, quelle che sono essenziali rispetto alla prefigurazione dello Stato che noi vogliamo delineare con la Costituzione. Dicevo che i nostri emendamenti hanno carattere sostanzialmente sostitutivo del testo base del senatore D'Onofrio; in effetti, così è perché, rispetto alla scelta essenziale di quel testo base, i nostri emendamenti si muovono in una direzione diametralmente opposta. In sostanza, noi contestiamo la scelta di fondo, che ci appare essere quella del terzo comma dell'articolo 4 del testo D'Onofrio: credo sia questo l'elemento che ha scatenato tante reazioni rispetto alla proposta in oggetto. Peraltro, il fatto che nell'ultima versione sia stato rinforzato, anche se non adeguatamente, rispetto al testo su cui avevamo svolto la prima discussione, l'elenco delle materie riservate alla potestà legislativa statale non toglie alla norma di cui al terzo comma dell'articolo 4 quel carattere dirompente che essa mantiene, rendendo impossibile una riforma in grado di produrre risultati positivi per il nostro Stato.
Dall'applicazione della citata disposizione deriverebbe una situazione raffigurabile come un vestito di Arlecchino, con l'impossibilità permanente di definire la dimensione dell'intervento statale e con una presenza assolutamente diseguale, almeno potenzialmente, perché secondo questa procedura sarà difficile per le varie regioni raggiungere risultati eguali o comunque eventualmente ciò avverrebbe, per così dire, al rialzo, fino a svuotare il ruolo dello Stato. Quindi, in qualunque scenario di attuazione del terzo comma dell'articolo 4 possiamo prefigurarci, realisticamente non sono individuabili soluzioni adeguate rispetto ai problemi complessivi del nostro paese. È questa la critica di fondo all'impostazione del testo predisposto dal collega D'Onofrio, al quale i nostri emendamenti si contrappongono.
Quando poi si passa all'individuazione delle materie specifiche riservate allo Stato, rispetto al testo sul quale avevamo sviluppato la discussione generale il relatore ha proceduto ad un'integrazione anche significativa, ma ciò nonostante permangono

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le nostre critiche di fondo. Nel corso della discussione ho sentito che sono stati presentati emendamenti volti a recuperare alcuni aspetti importanti; di conseguenza, spero vi sia la possibilità di discutere ancora in proposito e di compiere dei passi in avanti, ma certamente sottolineiamo con forza l'esigenza che le leggi elettorali per i comuni, per le province e per le regioni rimangano di competenza statale: non v'è dubbio che qui è in discussione un diritto politico che deve avere un trattamento eguale su tutto il territorio nazionale. So bene che già esistono deroghe in regioni a statuto speciale, ma credo che una riflessione sulle esperienze delle legge regionali e su ciò che sta avvenendo in tali regioni, ferma restando la loro specialità (vedremo poi la soluzione complessiva da dare a questi problemi, sappiamo che vi sono realtà da cui bisogna partire e di cui si deve tener conto), sarebbe quanto mai opportuna; basti pensare a ciò che sta avvenendo anche in questo momento nel Friuli-Venezia Giulia, dove vi è in corso una procedura costituzionale di revisione dello statuto. Simili esperienze credo dovrebbero suggerire di affidare davvero questa materia ad una sede, che non può essere che quella nazionale, capace - almeno, così ci auguriamo, così dovrebbe essere - di individuare con maggiore oggettività le scelte opportune in questo campo.
È un elemento importante che segnaliamo; ho ascoltato colleghi che, attraverso la presentazione di taluni emendamenti, si sono posti sia pur parzialmente la medesima problematica e pertanto spero sia possibile pervenire alla revisione di un'impostazione che non è solo del relatore, ma che so essere condivisa da altri. Comunque, in proposito una riflessione da condurre in tempi rapidi, in questi giorni sarebbe estremamente interessante.
Sottolineiamo, inoltre, che nell'ambito della riforma dei poteri, delle funzioni e del ruolo dei comuni e delle regioni, al di là delle critiche di fondo che abbiamo espresso, vi è poi, all'interno della collocazione dei ruoli da assegnare nell'ambito del complessivo sistema delle regioni e delle autonomie locali, una sottovalutazione del ruolo dei comuni. Vi sono già prese di posizione, a mio parere giustificate, da parte delle rappresentanze dei comuni riguardo al fatto che nella proposta del relatore vi è, come ho già detto, una netta sottovalutazione del ruolo dei comuni. Alcuni nostri emendamenti vanno per l'appunto nella direzione di rafforzare questo ruolo, di prefigurare per i comuni una garanzia costituzionale, anche di carattere finanziario, ben più forte di quella contenuta nella proposta del relatore.
Quanto alla parte relativa al sistema tributario, credo che la discussione svoltasi in seno al Comitato sul cosiddetto federalismo fiscale abbia in parte - e dovrebbe ancor più in futuro - collocato con i piedi per terra questo discorso, acquisendo la consapevolezza della riaffermazione, accanto all'autonomia finanziaria di comuni e regioni nei limiti individuati come possibili, della sussistenza di un ruolo essenziale dello Stato per le grandi imposte e quindi la necessità di un ruolo di riequilibrio del sistema economico e finanziario del meccanismo di sviluppo sociale del paese attraverso l'utilizzo delle risorse derivanti dalle grandi imposte centrali, grazie ad una serie di meccanismi che indichiamo nei nostri emendamenti.
Quanto poi alla pubblica amministrazione, credo che quella ad essa relativa sia centrale tra la riforma di cui il paese ha realmente più bisogno, ma che la proposta D'Onofrio non sia corrispondente alle esigenze: certo, si indicano dei principi, ma il problema è come articolare realmente questa riforma. Essenzialmente le norme attuali della Costituzione corrispondono già alle esigenze esistenti: si tratta di sottolineare maggiormente gli elementi che sono emersi nel corso dei decenni e di trasferire in Costituzione i principi che in questi anni si sono particolarmente evidenziati. Su alcuni di essi esiste convergenza: c'è convergenza sull'esigenza di efficacia, di efficienza, di trasparenza e di imparzialità della pubblica amministrazione.

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C'è però una tendenza, nella bozza D'Onofrio, che noi nettamente contrastiamo: si fa riferimento infatti ad una previsione della responsabilità di ciascuna unità di personale per la produttività della sua prestazione, che costituisce elemento periodicamente verificato della retribuzione e della prosecuzione del rapporto di lavoro. Si pone qui evidentemente un concetto che noi critichiamo fortemente e che chiediamo venga espunto dal testo di revisione costituzionale che ci auguriamo, nonostante le difficoltà esistenti, possa andare in porto. Questo elemento di ultraprivatizzazione, di prefigurazione non di licenziamenti o di cessazione del rapporto di lavoro ma di verifica periodica ai fini della stessa retribuzione nell'ambito del settore pubblico credo sia un elemento da escludere senz'altro dai principi da inserire nella revisione della Costituzione. Credo invece che occorra sottolineare maggiormente altri principi, accanto a quelli già indicati, aggiungendo dunque a quelli indicati nel testo base, rispetto al quale abbiamo formulato gli emendamenti, anche altri principi concernenti i procedimenti democratici, la partecipazione dei cittadini alla vita dell'amministrazione, la valutazione dei risultati dell'amministrazione non soltanto in termini economicistici, come qui vengono indicati, ma anche la soddisfazione dei bisogni della popolazione, l'accesso di tutti i cittadini ai pubblici servizi e così via. Questo non c'è nella proposta che stiamo discutendo, e i nostri emendamenti forniscono un contributo in questa direzione.
Come ha detto il collega Bressa poc'anzi, non c'è più il concorso pubblico: io credo, invece, che tale principio vada ribadito, non vedo motivi per espungerlo dalla Costituzione.
Secondo l'articolo 8, «L'indirizzo politico di Comuni, Province, Regioni e Stato è "normalmente" attuato attraverso le rispettive Pubbliche Amministrazioni». Credo che l'indirizzo politico debba essere attuato attraverso le pubbliche amministrazioni; che poi queste ultime, nell'esercizio pratico, nella loro attività concreta (si potrà dare poi un giudizio di merito) scelgono magari strumenti di vario tipo, che spesso noi critichiamo, è altro concetto, è il modo concreto dell'esercizio dell'attività della pubblica amministrazione. Qui siamo invece in una fase diversa, in una fase costituzionale nella quale credo sia giusto sopprimere il termine «normalmente», perché ritengo che l'indirizzo politico di comuni, province, regioni e Stato non possa che essere attuato attraverso le pubbliche amministrazioni.

MASSIMO VILLONE. Abbiamo presentato alcuni emendamenti - non molti, per la verità - volti a confermare le nostre posizioni nella parte che abbiamo ritenuto caratterizzante, naturalmente affinandole ed integrandole in rapporto al dibattito e al confronto con le altre forze politiche e in riferimento ad un testo presentato dal relatore, che abbiamo già definito, in fase di discussione generale, un'utile base per il nostro lavoro.
Innanzitutto, vorrei richiamare l'affermazione di principio, che noi poniamo nell'emendamento I.1.57, vale a dire che la Repubblica federale, una e indivisibile, è costituita da comuni, province, regioni e Stato. Abbiamo voluto porre questa affermazione di principio che non è affatto una rincorsa a forze politiche, quali che siano, non è una captatio benevolentiae nei confronti di alcuno, perché ci rendiamo conto che siamo soltanto all'avvio di un processo lungo, che investirà il sistema politico e le istituzioni, un cambiamento che certo non avverrà dalla sera alla mattina. È quindi un'affermazione simbolica, questa della Repubblica federale una e indivisibile, ma che noi intendiamo come una chiave di lettura interpretativa per il processo che si avvia.
Ci rendiamo conto che si aprirà una valutazione sul punto relativo alla compatibilità di questa affermazione con l'articolo 5 della Costituzione: riteniamo che i capisaldi del modello che stiamo cercando di costruire siano, da un lato, la diversità e, dall'altro, l'unità, una diversità nell'unità del paese, e ci pare che questi due elementi siano pienamente compresi


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nella lettera e nello spirito dell'articolo 5 della Costituzione.
Con i nostri emendamenti abbiamo cercato di mettere meglio a fuoco, in relazione al testo base, questi due punti - unità e diversità - in un impianto generale che abbiamo ritenuto condivisibile. Anzitutto la diversità: al riguardo annettiamo particolare rilievo agli emendamenti che definiscono l'autonomia statutaria ed anche legislativa delle regioni. Abbiamo pertanto predisposto l'emendamento I.4.71 che definisce, in un modo che riteniamo utile, l'autonomia statutaria; la definisce in modo ampio, con contenuti che ci sembrano tali da sostenere la nostra concezione complessiva e che vediamo, dall'insieme degli emendamenti presentati anche dalle altre forze politiche, collocarsi in una convergenza che ci pare significativa. Valutiamo che complessivamente l'idea della pienezza dell'autonomia statutaria per le regioni sia accettata, sia sostenuta da un consenso, come dicevo, significativo e questo ovviamente ci fa piacere.
Notiamo che si registra, invece, qualche dubbio sulla pienezza dell'autonomia delle regioni per quanto riguarda la legge elettorale, che noi ugualmente in questo emendamento I.4.71 espressamente attribuiamo alla regione. Riteniamo che i dubbi, le diffidenze emerse negli interventi di alcune forze politiche non abbiano fondamento e non tanto per la considerazione - che pure forse non è inutile fare - che in uno schema tipicamente federale questa potestà ovviamente esiste. Gli Stati membri di una federazione indiscutibilmente hanno la possibilità di definire la propria forma di governo ed il proprio sistema elettorale. Di fatto poi, nell'esperienza dei sistemi federali si evidenzia la tendenza ad una omogeneità di soluzioni - è verissimo, nessuno Stato federale alla fine si presenta con un vestito di Arlecchino - ma questo nasce da una pressione sostanziale del sistema politico e non certamente da un vincolo giuridico. Comunque questa potrebbe essere una considerazione di quadro, ma non decisiva, poi, nella soluzione del problema per quanto riguarda la nostra specifica vicenda istituzionale.
Notiamo però che anche da noi questa soluzione si mostra come quella giusta, come la soluzione che veramente si colloca in pieno nel complesso delle scelte che ci avviamo a fare, anzitutto notando che già nel vigente ordinamento (mi pare che lo ricordasse appena ora il collega Marchetti, ma senza poi risolvere questa contraddizione che si introdurrebbe) noi abbiamo forme di autonomia riguarda al sistema elettorale per le regioni a statuto speciale. Già questo ci porrebbe in grande difficoltà nello spiegare come mai, a fronte a questa esperienza (che certo vive le sue difficoltà, lo sappiamo benissimo, ma certamente quelle sul piano nazionale non sono minori), invece per il resto bisogna seguire una via diversa.
Riteniamo che in termini generali un impianto costituzionale veramente autonomistico debba in ogni caso limitare al minimo la prescrizione di contenuti specifici e debba invece scegliere la via - che è una via maestra - di porre principi e definire procedure. Principi e procedure: questa è la scelta costituzionale di fondo che riteniamo debba essere operata. E questa scelta abbiamo fatto sia per la potestà statutaria che per l'autonomia riguardo alla legge elettorale.
Non vediamo in ciò un rischio per il quadro nazionale. Comprendiamo le diffidenze di alcuni soggetti politici - sono preoccupazioni alle quali porre attenzione, non da scartare come irrilevanti -; riteniamo però che la risposta giusta, la garanzia non sia nella prescrizione di contenuti alla legge regionale che disciplina il sistema elettorale, ma nella definizione di procedure che localmente diano voce, diano spazio al pluralismo, senza tuttavia vincolare preventivamente a contenuti specifici. Siano le forze politiche in ogni regione a decidere. Siano le procedure aggravate prescritte - è questo il meccanismo che noi scegliamo: prescrivere che la legge elettorale sia adottata attraverso una procedura aggravata - a garantire in ogni realtà il pluralismo e la molteplicità delle voci. Questo ci dice che

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non è, appunto, in gioco il diritto politico, come diceva Marchetti, che è garantito in ogni caso.
Vorremmo sottolineare come questo punto rappresenti un momento fondamentale dello sviluppo di ogni regione come sistema politico. Questo è il punto vero che oggi manca; questo è stato il vero punto debole dell'esperienza del regionalismo fino ad oggi. Il centralismo è anzitutto centralismo di sistema politico. Dobbiamo essere consapevoli che non possiamo rimodellare le istituzioni mantenendo però quell'ancoraggio che ha sostanzialmente frenato lo sviluppo dell'istituto regionale nella nostra esperienza fino a questo momento. L'unità nella diversità passa, a nostro avviso, anche per la riarticolazione del sistema politico e che ogni regione possa definire il proprio sistema elettorale è, dal nostro punto di vista, uno snodo fondamentale. Ripeto, occorre garantire (e qui c'è una verità nella preoccupazione espressa da alcune forze politiche) che non vi sia compressione in ogni realtà del pluralismo; tuttavia ciò si ottiene non con la prescrizione di contenuti specifici alla legislazione elettorale regionale ma con la prescrizione di procedure aggravate. È lì che il pluralismo troverà voce, nei modi che saranno appropriati per ogni realtà; è lì che la dialettica delle forze politiche potrà pienamente dispiegarsi, senza indebite compressioni, che sarebbero inaccettabili.
Noi poniamo con forza questo principio ed in tal senso facciamo nostre le preoccupazioni espresse da qualcuno. Tuttavia riteniamo, appunto, che la tecnica da utilizzare per rispondere sia altra, cioè quella che - non nel dettaglio, ma come schema, come modello - noi suggeriamo nell'emendamento I.4.71, che quindi sottopongo all'attenzione del relatore. Questo è il primo punto importante in cui abbiamo inteso mettere a fuoco la diversità, il primo pilastro del nostro disegno di innovazione.
Il secondo punto importante è nella garanzia forte alle autonomie locali ed in specie ai comuni, garanzia che noi vediamo come una ricchezza peculiare e particolare della nostra scelta, del nostro federalismo (lo voglio dire con forza, noi riaffermiamo la nostra originalità in questo); garanzia forte che esclude il rischio del nascere di nuovi centralismi e che viene appunto riaffermata nella sottolineatura del principio di solidarietà ed anche, vorrei aggiungere, dall'esplicito divieto di controlli preventivi che abbiamo inteso introdurre (si tratta ancora dell'emendamento I.1.57 da me già citato) sia per la regione che per gli enti locali e che assume per noi un significato simbolico oltre che giuridico. Si tratta di messaggio anche giuridico perché riteniamo che nel testo del relatore questo punto non fosse sufficientemente messo a fuoco e rimaneva la possibilità di una reintroduzione di controlli preventivi, che noi abbiamo voluto espressamente rendere impossibili attraverso una prescrizione puntuale.
Abbiamo inteso mettere a fuoco due momenti che ci sono sembrati di particolare rilievo, quello della diversità e quello dell'unità, che è l'altro caposaldo da porre a base delle nostre scelte di innovazione. Ancora una volta va detto che unità non è sinonimo di centralismo, l'unità non è nell'omogeneità delle prescrizioni giuridiche o non lo è necessariamente; noi vediamo l'unità essenzialmente in due punti: la forza, il peso delle istituzioni nazionali, da un lato, e la garanzia dei diritti del cittadino in ogni realtà, in ogni condizione di autonomia, dall'altro. Su questi due punti abbiamo focalizzato alcune precisazioni. Non riteniamo che il testo base volesse negarli, ma certamente ci è sembrata opportuna una precisazione che, d'altra parte, ritroviamo negli interventi di colleghi di altre forze politiche: in questo notiamo una convergenza assai significativa.
Come dicevo, abbiamo teso a precisare le competenze dello Stato (il noto articolo 4 sul quale tanto dibattito si è speso); abbiamo formulato alcune integrazioni all'elenco delle materie di competenza dello Stato che evidenziano una convergenza significativa tra le forze politiche; abbiamo richiamato (emendamento Salvi I.1.57) come compito della Repubblica in

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tutte le sue articolazioni quello di attuare i diritti alle libertà costituzionalmente protette, dando una chiave di lettura interpretativa generale delle specifiche competenze statuali; infine, abbiamo ritenuto opportuno aggiungere alle competenze statuali una clausola di chiusura che fosse volta all'effettività dell'esercizio delle competenze medesime delle singole materie attribuite allo Stato e potesse dare risposta ad un'esigenza di flessibilità dell'elenco, nella chiave di un'evoluzione di sistema, dando un aggancio normativo per far fronte ad esigenze che si ponessero alla responsabilità statuale.
Uno snodo fondamentale in questo rapporto non sempre facile tra unità e diversità è quello della norma finanziaria che ci pare, nella formulazione del collega Salvati, dia una risposta efficace, pur nel quadro di una difficoltà notevolissima della finanza pubblica, soprattutto sotto il profilo del debito, che non sarà risolvibile in tempi brevi. Si è inteso dare - e noi riteniamo che sia stato fatto per quanto possibile - la doppia risposta di garantire un quadro di riferimento certo quanto alle risorse destinate ai soggetti di autonomia e di porre al tempo stesso, dei punti fermi per quanto riguarda la solidarietà, la perequazione ed anche un rapporto corretto tra regioni forti e deboli, stabilendo il principio per cui non debba esservi un riverbero sulle regioni deboli delle scelte di quelle forti. Su questo punto avremo modo di intervenire con maggior dettaglio.
Per concludere dirò qualche parola sulla pubblica amministrazione e sul meccanismo che abbiamo ideato per la fase transitoria. Sulla pubblica amministrazione ho sentito commenti di colleghi che in buona parte si riflettono nei nostri emendamenti, quindi mi limiterò a richiamare il punto delle autorità indipendenti, che riteniamo preferibile formulare in modo sintetico, per le considerazioni già ampiamente svolte nel Comitato forma di Stato e che si riferiscono alla difficile e non ancora compiuta stabilizzazione di questi istituti nel quadro di un sistema politico in evoluzione. Abbiamo guardato essenzialmente all'opportunità di non introdurre eccessivi irrigidimenti e prescrizioni costituzionali troppo dettagliate.
Nelle disposizioni transitorie abbiamo configurato - come ha indicato in apertura il collega Soda - una fase per le regioni a statuto speciale in cui abbiamo inteso dire che, ferme la specialità e le procedure previste per la modifica dei loro statuti, queste possono acquisire in modo rapido e semplice le forme di autonomia esistenti nell'indirizzo che stiamo assumendo e che sono più avanzate rispetto agli statuti speciali. Inoltre, è prevista una fase transitoria quinquennale per le altre regioni, al termine della quale si raggiunge l'obiettivo - che già avevamo sottolineato nella discussione sulle linee generali - di avere un regime omogeneo che consenta un corretto assetto degli apparati pubblici in centro e in periferia.
Con il complesso dei nostri emendamenti, abbiamo voluto precisare il doppio messaggio che secondo noi la scelta sulla parte della riforma relativa alla forma di Stato deve dare, un messaggio al paese forte e al paese debole, un messaggio (che il paese forte vuole) di ampia autonomia e di rottura netta di un centralismo statalista che troppo spesso è tradotto in un peso soffocante delle burocrazie, dando al tempo stesso risposta alle ansie e ai timori del paese debole rispetto alla possibilità che non vi sia più uno Stato forte, una sede nazionale in grado di farsi carico delle esigenze del paese debole. Quindi, da un lato forte autonomia e dall'altro forti istituzioni nazionali. Questo è il doppio messaggio che abbiamo inteso mettere a fuoco meglio, comprendendo bene che la Costituzione non è soltanto garanzia giuridica, ma è anche la prospettazione di obiettivi e di speranze e che con la Costituzione bisogna offrire la base per lo sviluppo di un circuito virtuoso di evoluzione politica e istituzionale.

PRESIDENTE. Raccomando di tenere conto dei tempi, che sono in via di esaurimento per tutti i gruppi. Il gruppo di forza Italia dispone di otto minuti per tre oratori.


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MARCELLO PERA. Signor presidente, darò il buon esempio, dovendo illustrare solo tre emendamenti. Si tratta di emendamenti apparentemente minori o tecnici ma che in realtà coinvolgono alcuni dei principi che desidererei meglio tutelati dal testo del senatore D'Onofrio. Li illustrerò nell'ordine dell'articolato: il primo contiene un'aggiunta al comma 2 dell'articolo 1, volta ad inserire in Costituzione i comuni metropolitani e le città metropolitane. Parto da un dato di fatto molto semplice: nel comune di Roma vi sono alcune circoscrizioni, in particolare la Cassia e l'Eur, che hanno, rispettivamente, un'estensione di 186 e 184 chilometri quadrati; esse coprono quindi pressoché la stessa superficie dell'intero comune di Milano, pari a 183 chilometri quadrati. Un altro elemento interessante è rappresentato dal fatto che il comune dipartimento di Parigi ha un'estensione di 100 chilometri quadrati, mentre l'intero comune di Roma si estende su un'area di 1.500 chilometri quadrati. Di fronte a dati come quelli che ho citato, il fatto che i comuni non siano decentrati determina enormi aggravi di costi, di burocrazia, di centralismo, oltre ai costi in termini di degrado ambientale ed urbanistico, con gravi disagi per i cittadini.
D'altro canto, nel momento in cui esistono circoscrizioni che hanno la stessa estensione di un grandissimo comune, la circoscrizione dovrebbe essere qualcosa di più di una semplice articolazione del comune, alla quale quest'ultimo provvede in tutto e per tutto (la sede, il personale, le strutture, le attrezzature e così via).
Con questo emendamento propongo pertanto che nelle grandi aree urbane i comuni e la provincia si configurino rispettivamente come comuni metropolitani e città metropolitana; tali istituzioni dovrebbero essere esplicitamente previste, anche per un'altra ragione: è noto che la Corte costituzionale ha assunto un atteggiamento molto rigido rispetto all'interpretazione dell'articolo 114, stabilendo un numero chiuso di enti territoriali con personalità giuridica ed elezione. Da questo punto di vista, risultano certamente escluse le circoscrizioni, le quali restano soltanto come articolazioni del comune; sono peraltro a rischio anche i comuni metropolitani e le città metropolitane che, al pari delle circoscrizioni, sono previsti dalla legge n. 142 del 1990, al capo VI.
Con una previsione costituzionale ad hoc, si darebbe, da un lato, attuazione e copertura costituzionale a questi istituti o enti territoriali, come prevede la stessa legge n. 142 e dall'altro, si potrebbe scongiurare il rischio di incostituzionalità che invece potrebbe ravvisarsi, in base all'articolo 3, a proposito della differenza tra comuni normali e comuni metropolitani. Per evitare l'uno e l'altro rischio, vorrei che nel testo base fossero esplicitamente previsti sia i comuni metropolitani sia le città metropolitane. Del resto, vi sono in Europa molte altre Costituzioni (cito quella portoghese) in cui tali aspetti vengono esplicitati ed anche alle circoscrizioni viene conferita una completa autonomia normativa, finanziaria e burocratica. Questo - lo ripeto - per fare in modo che la Costituzione copra le istituzioni già esistenti sul territorio.
Il secondo emendamento che ho presentato investe un principio molto importante. Ricordo, al riguardo, che l'articolo 1, comma 3, del testo base del senatore D'Onofrio prevede che «le funzioni amministrative e regolamentari sono ripartite tra comuni, province, regioni e Stato sulla base del principio di sussidiarietà». Negli ultimi tempi si è parlato molto, nel nostro paese, del principio di sussidiarietà, che è certamente un principio o un valore importante il quale, se applicato, implica un decentramento di funzioni dello Stato apparato (comune, provincia, regione e Stato). Tuttavia, la sussidiarietà a sua volta non è soltanto un principio o un valore, ma anche un mezzo per realizzare altri principi ed altri valori, come la solidarietà, la mutualità, il reciproco aiuto. Quindi, non si deve pensare soltanto al decentramento di funzioni dello Stato apparato, ma anche a un decentramento di funzioni dello Stato comunità; non ci si può pertanto limitare a considerare il comune, la provincia, la regione


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e così via, ma occorre tenere presente anche la società civile, la scuola, il volontariato, la famiglia e quant'altro, attribuendo quindi al principio di sussidiarietà una duplice valenza: quella di decentramento all'interno dello Stato apparato, ma anche all'interno dello Stato comunità. In altri termini, l'individuo è sussidiato dalla famiglia, la famiglia dalla scuola, la scuola dalla comunità civile e così via.
Citando un esempio tipico, rilevo che ci avvieremo, in base alla legge ordinaria, verso un regime di autonomia delle scuole; in tale contesto, il potere regolamentare di un consiglio di istituto sarebbe fortemente incentivato da una previsione costituzionale come quella che propongo, secondo cui il principio di sussidiarietà dovrebbe valere anche all'interno di ciascuno di questi enti.
Tuttavia, ad eccezione dell'emendamento I.1.43, a firma dei colleghi Elia, Bressa, Boato ed altri, in cui si parla di autonomia dei privati che sono sussidiati da altri, non ho trovato nessun altro riferimento a questi aspetti; spero quindi che l'emendamento sia sufficiente a recepire il principio per cui la sussidiarietà è anche un mezzo per perseguire altri valori che coinvolgono gli individui nonché la famiglia, la scuola, lo Stato intesi come comunità. Trovo «catturato» il senso di ciò che intendevo proporre con il mio emendamento soltanto in quello firmato dai colleghi Elia, Bressa ed altri al quale ho già fatto riferimento. Si valuterà poi se sia preferibile adottare l'uno o l'altro, ma vorrei che il principio fosse richiamato nella Costituzione.
L'ultimo emendamento che intendo illustrare è riferito all'articolo 2 del testo base, che recita: «A tutela delle funzioni amministrative e regolamentari proprie, i comuni e le province possono ricorrere contro le leggi della regione e dello Stato direttamente alla Corte costituzionale». In primo luogo, avrei preferito - sottopongo la questione all'attenzione del relatore - un'inversione nell'ordine dei termini usati, parlando quindi di funzioni regolamentari e amministrative, in quanto considero il regolamento prioritario rispetto all'amministrazione.
Vi è però una funzione che non viene richiamata, per cui credo esista una lacuna nell'intero testo: mi riferisco allo statuto e per tale ragione con il mio emendamento propongo di modificare la dizione usata nel testo base aggiungendo l'espressione «statutarie» dopo «funzioni». È infatti paradossale - non so se si tratti di una svista - che in tutto il contesto non si parli dell'autonomia statutaria. Basti considerare che dall'anno mille in poi, da quando nel nostro paese esistono i comuni, i quali sono le vere comunità che i cittadini avvertono come tali, il comune è un ente autonomo locale, nonché la prima patria dei cittadini, grazie allo statuto. Vorrei allora che l'autonomia statutaria fosse prevista e tutelata allorché si parla delle funzioni amministrative e regolamentari.
Peraltro, lo statuto non viene menzionato neanche nell'articolo 128 dell'attuale Costituzione, ma occorre considerare che quest'ultima risente dei vizi del centralismo, del mancato riconoscimento di un pluralismo pieno e quant'altro. D'altro canto, dello statuto si parla ovviamente nella legge n. 142 del 1990: perché non menzionarlo mai nella Costituzione italiana e quindi non tutelare l'autonomia statutaria dei comuni consentendo loro di sollevare conflitto davanti alla Corte costituzionale a tutela della stessa autonomia statutaria amministrativa e regolamentare?
Considerato che il comune è la vera comunità che i cittadini italiani riconoscono, in misura di gran lunga superiore rispetto alla regione, il fatto di non menzionare mai l'autonomia statutaria e la tutela dello statuto costituirebbe, a mio avviso, un passo indietro, anche in contrasto con l'articolo 5 della Costituzione, che intende promuovere le autonomie locali.
Invito quindi il relatore a riflettere ed eventualmente ad accogliere questo emendamento.

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Spero di essermi attenuto ai limiti di tempo.

PRESIDENTE. Do ora la parola all'onorevole Boato, che poi dovrà allontanarsi per un impegno parlamentare.

MARCO BOATO. Tra breve sarò impegnato per un turno in Assemblea; altrimenti, come lei sa, sono sempre presente. Ringrazio quindi lei, presidente, ed anche i colleghi che interverranno successivamente.
Faccio riferimento agli interventi del collega Pieroni e, in particolare, dei colleghi Bressa e Soda, dei quali non ripeterò le argomentazioni, auspicando che il relatore, nel valutare le posizioni di dissenso o di consenso sulle varie proposte, possa tenerne conto. In particolare, segnalo al relatore, nell'ipotesi in cui non fossero recepite proposte di carattere più generale, un emendamento molto puntuale; si tratta dell'emendamento I.1.28 che propone di sostituire il terzo comma dell'articolo 1 con il seguente: «La legge della Repubblica (bicamerale)» - ho inserito questa parentesi perché dobbiamo ancora coordinarci con l'altro relatore - «ripartisce le funzioni amministrative e regolamentari tra comuni, province, regioni e Stato sulla base del principio di sussidiarietà». A tale riguardo, sono state proposte formulazioni anche più ampie, alcune delle quali io stesso ho sottoscritto. Con questa formulazione ho soltanto voluto segnalare il rinvio alla legge per quanto concerne questo tipo di ripartizione.
Molti colleghi si sono soffermati sulla non condivisione dell'ipotesi di costituzionalizzazione degli statuti prevista dall'articolo 4. Tuttavia, poiché so che il relatore ha già manifestato in più occasioni la sua totale disponibilità ad un ripensamento, non insisto su questo punto. Piuttosto, vorrei chiamare la sua attenzione e quella dei colleghi su un aspetto rilevante: allo stato, non vi è alcun articolo che preveda la configurazione generale degli statuti. È ovvio che, se si giungerà a non prevedere più il terzo comma dell'articolo 4, bisognerà introdurre un comma - o, meglio, un articolo - di configurazione istituzionale generale degli statuti. In questo senso ho presentato l'articolo aggiuntivo I.4.09, riportato a pagina 44 del fascicolo. È evidente che sono prevedibili altre formulazioni più ampie e definite; si tratta, quindi, di un promemoria per il relatore, rispetto al suo paziente lavoro di integrazione del testo base.
Vorrei anche ricordare la questione, più volte richiamata da altri colleghi, della salvaguardia degli statuti speciali; si tratta, in qualche modo, di mantenere ferma in Costituzione la sostanza dell'attuale articolo 116 con un rinvio, per quanto riguarda l'adeguamento alle più ampie competenze che fossero attribuite con la nuova ripartizione tra Stato e regioni, che più opportunamente dovrebbe essere a norme transitorie. Sarebbe in sostanza preferibile non inserire un testo in Commissione ma rinviare a norme transitorie per quanto riguarda il successivo adeguamento, una volta salvaguardata la specialità degli statuti. In particolare, mi riferisco alla regione Trentino-Alto Adige, Sudtirol. Da questo punto di vista, vanno considerati anche un riferimento ed un obbligo di carattere internazionale, che vanno salvaguardati. A riguardo, suggerisco al relatore di considerare l'emendamento I.4.37, che suggerisce un'ipotesi, tra le tante possibili; non ho formulato invece ipotesi di norme transitorie, che pure andranno configurate una volta che il relatore avrà definito il suo testo base integrato.
Dedicherò i pochissimi minuti residui del mio intervento alle questioni, che ovviamente mi stanno più a cuore, così come sta più a cuore ai colleghi che hanno lavorato nel Comitato sistema delle garanzie, sulle quali, tra l'altro, avevamo svolto una riunione congiunta tra i due Comitati interessati, visto che le stesse si intersecano nel lavoro dei Comitati forma di Stato e sistema delle garanzie. Per quanto riguarda, più specificamente, il ricorso alla Corte costituzionale, il testo del relatore sostituisce integralmente gli


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articoli da 114 a 136 della Costituzione vigente, quindi sostituisce anche il terzo comma dell'articolo 127, senza tuttavia inserire una previsione con riferimento alla possibilità per lo Stato di ricorrere alla Corte costituzionale. Ho presentato l'emendamento I.2.5, che prevede il ricorso alla Corte costituzionale sia per quanto riguarda il governo sia per quanto concerne la regione. Si tratta di una formulazione organica, fermo restando che anche in questo caso è possibile prevederne altre. Suggerirei al relatore e al presidente di accantonare l'intera materia e di affrontarla in modo organico quando, nell'ambito dell'esame del sistema delle garanzie, affronteremo il discorso relativo alle competenze della Corte costituzionale. In caso contrario, rischiamo di frammentare le possibilità di ricorso alla Corte costituzionale in una quantità di testi diversi, senza riuscire ad avere un quadro organico. Credo che il relatore D'Onofrio abbia già manifestato la sua disponibilità a riguardo. Ripeto: sarebbe opportuno rivedere queste materie nel loro insieme, salvo decidere dove collocarle dal punto di vista della sistematicità del testo costituzionale. È, questo, un tipico lavoro da Comitato di redazione, nel quale sono presenti tutti i relatori.
Un punto assolutamente decisivo, che segnalo al relatore, al presidente ed ai colleghi, riguarda gli ordinamenti giudiziari. Su questo versante vi è un dissenso di merito, che credo coinvolga l'intero Comitato sistema delle garanzie, tanto che molti colleghi - lo ricordava poco fa il collega Bressa - hanno presentato emendamenti. In particolare, alla luce del complessivo lavoro che abbiamo svolto su questa materia, considero non accettabile la formulazione, di cui all'articolo 4 del testo base, nella parte in cui si riferisce a «ordinamento civile e ordinamento penale e relative giurisdizioni - potestà legislativa dello Stato -; giurisdizione superiore amministrativa, contabile e tributaria». Ho pertanto presentato l'emendamento I.4.34, che prevede una formulazione secca, nel senso di sostituire la parte che ho appena citato con le seguenti parole: «ordinamenti giudiziari e relative giurisdizioni». Nel testo stampato la parola «giurisdizioni» è stata erroneamente scritta al singolare. L'idea di regionalizzare giurisdizioni diverse da quella ordinaria non credo sia accettabile. Diversa è invece la regionalizzazione e la territorializzazione degli istituti, ma tale discorso non può valere con riferimento alla giurisdizione amministrativa o addirittura a quella contabile e tributaria, perché confliggerebbe totalmente con l'impianto adottato nel testo base del Comitato sistema delle garanzie.
Si tratta di una questione non soltanto di coordinamento ma anche di merito: i due testi rischierebbero di confliggere frontalmente e, anche se a livello di merito si vuole riproporre la questione, credo che sarà opportuno riaprire il dibattito quando discuteremo della questione della giustizia e delle garanzie più generali.
Analoga questione si pone - ma in questo caso manifesto un'obiezione puramente formale al relatore - per quanto riguarda le cosiddette autorità indipendenti, che andrebbero meglio definite come autorità di garanzia e vigilanza. Il testo del relatore, così come quest'ultimo aveva correttamente preannunciato, riprende l'elaborato del Comitato sistema delle garanzie, salvo l'aggiunta dell'aggettivo «indipendenti».

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE LEOPOLDO ELIA

MARCO BOATO. Abbiamo riflettuto a lungo su questo punto e riteniamo che l'aggettivo «indipendenti» inserito in Costituzione possa rendere pericoloso l'istituto, in qualche modo configurando nuovi poteri dello Stato. Riteniamo, invece, che la formulazione adottata dal relatore D'Onofrio, la stessa adottata dal Comitato sistema delle garanzie, non prevedendo l'aggettivo «indipendenti», sia accettabile. Bisogna comunque prevedere un comma aggiuntivo in base al quale la legge garantisca l'indipendenza dei titolari dell'autorità di garanzia e di vigilanza.


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Quanto all'altra questione oggetto di intersecazione, quella relativa al difensore civico, dobbiamo decidere se vi debba essere una previsione ampia nel testo costituzionale oppure una formulazione più secca. Su questo aspetto non ho posizioni precostituite. I colleghi sanno che il relatore del Comitato sistema delle garanzie, alla luce del dibattito, ha predisposto un'ipotesi di formulazione ampia, che potrebbe eventualmente essere ridotta anche soltanto al primo comma. Non sono quindi contrario ad una previsione più sintetica. Suggerirei di non utilizzare in Costituzione le parole «previsione generalizzata» all'articolo 10, secondo capoverso, del testo del relatore, poiché non mi sembrano appropriate dal punto di vista della formulazione tecnica. La formulazione del relatore, se vuole essere per così dire secca, può essere anche accettabile: tuttavia l'espressione «previsione generalizzata» mi sembra impropria in Costituzione; forse, se volessimo accedere ad un'ipotesi molto secca, il primo comma del testo elaborato dal Comitato sistema delle garanzie potrebbe essere utilizzabile. Sottopongo comunque al relatore una riflessione su questo punto: si può o eventualmente accantonare la questione e riconsiderarla insieme alle altre tematiche relative al sistema sulle garanzie, oppure valutarne un'eventuale riformulazione.
Chiederei inoltre l'attenzione del relatore per quanto riguarda l'articolo 13, laddove opportunamente a mio avviso non si fa più riferimento al concetto di nazione, che è da questo punto di vista superato: è molto più opportuno che parliamo sempre di Repubblica, sapendo che essa è una e indivisibile, anche quando a carattere federale, ed inoltre con la consapevolezza che nel suo ambito vi è una pluralità di identità nazionali. Mi sembra che questo sia un modo più avanzato di porsi: ho quindi apprezzato che il relatore abbia fatto riferimento ad un concetto diverso; forse, però, il concetto di pubblico interesse riferito al servizio esclusivo dei pubblici impiegati può essere riduttivo, perché il pubblico interesse potrebbe in qualche modo prevalere anche sul legittimo interesse dei cittadini. Probabilmente fare riferimento a «Repubblica», anziché a «nazione», potrebbe rappresentare la formula risolutrice; ne risulterebbe pertanto la disposizione «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Repubblica». In questo modo, avendo definito la Repubblica in altra parte del testo del relatore con quella complessità che conosciamo, con il riferimento al principio di sussidiarietà e così via, si potrebbe adeguare meglio il testo: comunque, al riguardo, ho presentato l'emendamento I.13.5.
Rimane aperta la questione se gli articoli 11 e 12 possano essere considerati validi in sé, magari in riferimento a leggi costituzionali o forse a leggi di attuazione costituzionale, e se sia opportuno prevederli direttamente in Costituzione, sempre con riferimento alla pubblica amministrazione. Su questo aspetto, però, rinvio all'esame puntuale degli emendamenti che effettueremo nelle sedute della prossima settimana. Ringrazio il relatore ed i colleghi per l'attenzione che mi hanno prestato.

MARIO RIGO. Signor presidente, sarò brevissimo innanzitutto perché mi riconosco ampiamente nel testo presentato dal relatore, in secondo luogo perché ho sottoscritto una serie di emendamenti identici nella stesura a quelli presentati dal collega Dondeynaz, che peraltro li ha già illustrati per cui sarebbe inutile ripetere le sue considerazioni. Diversamente da Dondeynaz mi riconosco nell'articolo 1 presentato dal relatore D'Onofrio; infatti non solo alle regioni, ma anche ai comuni, alle province e allo Stato va riconosciuto di essere soggetti costituenti della Repubblica.
Passo direttamente all'articolo 4: concordo con il collega Dondeynaz di limitare l'elenco delle materie sulle quali lo Stato ha la potestà legislativa, cosė come era la penultima stesura del testo D'Onofrio. Il terzo comma è relativo agli statuti costituzionali: il relatore D'Onofrio, al riguardo,


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ha spiegato più volte che gli statuti costituzionali sono collegati alla necessità di disciplinare la funzione legislativa dello Stato e delle regioni per quelle materie non ricomprese nel primo comma. Questa degli statuti costituzionali è la sede che viene riconosciuta istituzionalmente competente per definire questa parte dei rapporti tra lo Stato e le regioni.
Riteniamo ciò insufficiente: pensiamo che questi rapporti abbiano carattere di organicità, non solo per l'aspetto fiscale, come è stato più volte ricordato dal collega Salvati, ma anche per tutta una serie di materie che investiranno sicuramente la sfera della competenza istituzionale dell'uno e dell'altro soggetto. Non vogliamo invadere il campo della discussione sul Parlamento e le fonti normative, ma pensiamo ad una istituzione in cui questo confronto debba essere organico, cioè ad un Senato, o ad una seconda Camera delle autonomie territoriali (regioni ed enti locali). Se questo principio dovesse essere accolto (oggi non sappiamo come si svilupperà questo punto in Commissione), a me sembra importante che il meccanismo trovi a sua volta accoglimento a livello regionale: in sostanza, lo stesso confronto necessario a livello nazionale fra lo Stato e gli enti territoriali, si rende necessario nell'ambito regionale fra la regione stessa ed i relativi enti locali, ovviamente per le materie che possono avere natura conflittuale in quella sede.
Ecco perché abbiamo presentato un emendamento con il quale si prevede l'istituzione in ogni regione dell'assemblea delle autonomie locali. Mi fermo qui nell'illustrazione, signor presidente, perché mi sembra che la proposta sia molto chiara: non so se il Comitato di redazione potrà darci una prima risposta, oppure se su questo orientamento dovremo pronuciarci con la votazione finale della Commissione.
Un'ultima nota relativamente ai beni demaniali di cui all'articolo 6: in esso, si prevede che i beni demaniali che non siano espressamente riservati allo Stato possano appartenere solamente ai comuni. Ritengo invece che le regioni e le stesse province debbano essere destinatarie di quei beni che si caratterizzano in modo preciso per i loro riferimenti regionali e provinciali: è un aspetto da approfondire e ritengo che al riguardo debba essere data una risposta.

ADRIANA PASQUALI. Signor presidente, sono cofirmataria con il senatore Servello ed altri di molti emendamenti del gruppo di alleanza nazionale, per cui evidentemente ne condivido la ratio informatrice; semmai vi è stata qualche perplessità unicamente in ordine alle autonomie funzionali: al riguardo, infatti, ho presentato un mio autonomo emendamento, perché a me non è apparsa rigorosamente necessaria la loro costituzionalizzazione. Mi sembra peraltro che sia rilevabile una posizione trasversale in questo senso.
Vi sono altri emendamenti che portano la mia sola firma ma che non intendo illustrare singolarmente, fra l'altro perché per lo più si illustrano da sé. Forse devo soffermarmi un momento sui miei emendamenti I.5.8, I.5.9 e I.5.10. Mi rendo infatti conto che essi possono apparire contro corrente ed antitetici rispetto all'opzione federalista. Ma prevedere, come ho fatto nel mio emendamento I.5.8, ancora la figura del commissario del governo non mi sembra del tutto assurdo. Altro è il praefectus nel senso etimologico del termine, altro è il commissario del governo con poteri modificati rispetto agli attuali e che serva soltanto da organo di coordinamento tra lo Stato e la regione.
Lo stesso può dirsi per l'emendamento I.5.9. Ritengo infatti che l'articolo 126 della Costituzione, che in sostanza non è mai stato applicato e che prevede lo scioglimento del consiglio regionale, abbia un profondo significato in termini di tutela della legalità e della sicurezza nazionale. Mi domando se sia proprio conforme al principio federale creare barriere assolute tra Stato e regioni.
Vengo ora all'emendamento Nania I.4.29, del quale sono cofirmataria, che forse è quello che mi interessa di più


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illustrare e che si riferisce agli statuti speciali. La proposta base D'Onofrio non contiene l'esplicita esaltazione delle regioni a statuto speciale, in una prospettiva che a me sembra di implicita specialità riferita a tutte le regioni attualmente a statuto ordinario, prevedendo tuttavia che siano fatti salvi gli statuti speciali e prevedendo all'ultimo comma dell'articolo 4 l'adeguamento degli stessi a mezzo di legge regionale.
Ricordo che per il Trentino-Alto Adige come per il Friuli-Venezia Giulia la procedura che fin qui si è considerata congrua ed opportuna è quella stabilita dalla Costituzione per le leggi costituzionali. Noi comunque abbiamo inteso esplicitare che alle cinque regioni a statuto speciale restano attribuite le competenze indicate dagli statuti speciali vigenti secondo la disciplina da essi prevista.
Quanto alla modifica degli statuti, ci è apparsa formula equilibrata quella di proporre l'approvazione con legge costituzionale su proposta non emendabile della regione. Altro è il riconoscimento della specialità, per le particolari condizioni geopolitiche - riferite spesso alla collocazione su quel filo forse invisibile, ma pur sempre rilevante, che è la frontiera, che in una sia pure attenuata rilevanza permarrà anche nella nuova Europa - o per la coesistenza sul territorio di diverse etnie o di comunità differenziate sotto il profilo linguistico; altra cosa è la coerenza di metodo, che a nostro parere passa sempre dalla legge costituzionale e quindi dal vaglio del Parlamento, non per quanto attiene al merito in se stesso, ma per una verifica tesa ad escludere che si propongano testi confliggenti con la prima parte della nostra Carta costituzionale, nel qual caso la competenza passa ovviamente alla Consulta.

NATALE D'AMICO. Vorrei anzitutto spiegare il motivo dei miei molti emendamenti, i quali ovviamente non hanno alcun fine ostruzionistico. A me pare che il punto sia nella costruzione del nostro federalismo, del regionalismo spinto delineato nella proposta del senatore D'Onofrio: esiste o no un raccordo tra lo Stato e le regioni e i comuni? Esistono procedure che favoriscono questo raccordo oppure no?
Per ricostruire brevemente il percorso fin qui seguito, ricordo che sembrava che all'inizio prevalesse un modello duale, competitivo, di rigida separazione, nel quale tali procedure di raccordo non dovessero esistere affatto. Questo ovviamente postulava una chiara separazione ed individuazione delle competenze di ciascuno dei soggetti - per usare questa espressione - dello Stato federale. Sembrava quindi prevalere un'ipotesi di seconda Camera delle garanzie, senza alcuna rappresentanza delle regioni e degli enti locali.
Poi però siamo andati avanti; dal testo del senatore D'Onofrio è scomparsa la chiara individuazione delle competenze di ciascuno dei soggetti (in particolare la chiara distribuzione delle competenze tra Stato e regioni) e all'articolo 1 si dice espressamente che le relazioni fra comuni, province, regioni e Stato sono ispirate al principio di leale collaborazione. Ora, o questa leale collaborazione ha una sede e procedure per esplicarsi, oppure rischia di essere una pura petizione di principio, un moto dello spirito.
D'altra parte, nel testo presentato dalla collega Dentamaro compare - con poteri limitati ma sostitutivi di quelli della seconda Camera - una speciale commissione delle autonomie. Occorrerà prima o poi far chiarezza su questo punto: c'è o no un raccordo? Esistono procedure che garantiscano questa leale collaborazione?
A questo fine - per far chiarezza fin dall'avvio delle nostre votazioni in Commissione - avevo proposto che fosse invertito l'ordine di votazione tra forma di Stato e struttura del Parlamento. La mia proposta non è stata accolta e ne prendo atto. Anche per questo, però, i miei emendamenti intervengono sulle diverse ipotesi possibili. Mi pare che, in mancanza di decisione, non ci fosse alternativa a prevedere la prevalenza dell'una o dell'altra ipotesi riguardo all'esistenza o meno e


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alla forma che dovesse assumere questa sede di raccordo tra il sistema delle autonomie e lo Stato centrale.
Faccio inoltre presente, a proposito della preoccupazione per il numero degli emendamenti, che già in seguito al voto sull'emendamento I.1.59 se ne precluderebbero probabilmente molti altri, perché esso comporterebbe la scelta della sede di raccordo eventuale e secondo me desiderabile e necessaria, come anche l'esperienza internazionale insegna, tra Stato e autonomie.
Vorrei ora sottolineare alcuni degli aspetti più rilevanti dell'insieme degli emendamenti presentati. Alcuni di essi tendono esplicitamente ad escludere quel sistema a geometria variabile disegnato dal testo base del senatore D'Onofrio; in particolare, essi tendono ad escludere la possibilità che a regime - quando il processo federale sarà stato realizzato - sia possibile avere regioni con diversi gradi di autonomia e diverse competenze. La ragione dell'esclusione, a mio avviso necessaria, di questa geometria variabile a regime l'ho già illustrata nel corso della discussione generale su questo tema. Il motivo più ovvio è che si rischia di mantenere in piedi un assetto dello Stato centrale burocratico, ancora molto esteso e tuttavia finalizzato ad intervenire solo in aree limitate del territorio nazionale.
Accogliamo invece con favore l'ipotesi che la geometria variabile e la flessibilità riguardino il percorso lungo il quale si costruisce il sistema delle autonomie, in particolare la velocità con cui le regioni possono chiamare a sé le nuove competenze legislative che affideremmo loro con la riforma alla quale stiamo lavorando.
D'altra parte, nell'accogliere questa flessibilità del percorso, prevediamo che debba essere fissata una scadenza esplicita entro la quale esso debba compiersi da parte di tutte le regioni italiane.
Un'altra questione rilevante è relativa all'autonomia statutaria regionale. Accogliamo la proposta del senatore D'Onofrio riguardo alla disponibilità per le regioni di un'ampia autonomia in questo senso. Ci sembra necessaria; d'altra parte gli emendamenti I.2.02, I.2.03 e I.2.04 intervengono per prevedere alcune procedure minime per la formazione di questo statuto; un minimo predeterminato riguarda gli organi regionali, per esempio l'esistenza di un parlamento regionale, perché se non diciamo nulla non è neanche scontato che vi sia. Avanziamo poi una proposta specifica ulteriore, cioè della presenza di una camera dei comuni, perché anche a livello regionale sia possibile disporre di una sede di raccordo fra regioni e comuni.
Due emendamenti specifici, molto brevi ma incisivi, tendono ad introdurre, accanto al concetto della sussidiarietà verticale, il cosiddetto concetto della sussidiarietà orizzontale, cioè esteso anche agli enti non territoriali. Esiste un'apertura, nel testo del senatore D'Onofrio, riguardo all'autonomia funzionale e ci sembra necessario che questa venga integrata nel comma successivo, per cui avanziamo una proposta specifica al riguardo. Al secondo comma dell'articolo 1 è detto, nel testo del senatore D'Onofrio, che sono garantite le autonomie funzionali, ma credo che qualche piccola cosa, riguardo a questa garanzia, dovrebbe ancora essere detta: anzitutto, chiarire che si tratta di autonomia funzionale degli enti non territoriali; poi che venga garantita tale autonomia anche attraverso un'applicazione, in senso orizzontale, del principio di sussidiarietà.
Se la strada prescelta sarà quella, come noi riteniamo desiderabile, di una flessibilità del percorso, però con una geometria ben definita riguardo al punto d'arrivo, è assolutamente necessaria una definizione più puntuale delle competenze statali. Presentiamo quindi una serie di emendamenti perché ci sembra che ciascuna delle singole competenze debba essere deliberata di per sé. L'elenco proposto sembra lungo, ma vorrei ricordare che esso rappresenta, in qualche modo, l'intersezione dell'insieme delle competenze che ciascuno Stato federale ha nel mondo: normalmente, negli Stati federali, quando si attribuisce una competenza legislativa generale alle regioni, salvo nelle materie attinenti alla competenza dello

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Stato, questo elenco deve essere, necessariamente, piuttosto lungo.
Può essere discussa ogni riserva che introduciamo per lo Stato federale su singole materie e su singoli oggetti ma faccio presente che alcune di esse ci sembrano assolutamente necessarie per non mettere a rischio talune caratteristiche essenziali di unità dell'intero paese.
Non mi soffermo sugli emendamenti, di cui sono cofirmatario, del senatore Vegas in materia di autonomia finanziaria, in quanto egli li ha già illustrati. A me sembra, comunque, che quello dell'autonomia finanziaria sia un terreno importante, sul quale sarà necessario compiere uno sforzo cercando di prendere il meglio delle numerose proposte all'attenzione della Commissione. Si tratta infatti di un elemento decisivo al fine di determinare il nuovo assetto regionalistico federale dello Stato.
Abbiamo presentato anche alcuni emendamenti in materia di pubblica amministrazione. Il primo riguarda le cosiddette autorità indipendenti, a proposito delle quali mi sembra che sia necessario distinguere, perché alcune di queste cosiddette autorità indipendenti, istituite non solo in Italia, hanno una funzione naturalmente provvisoria: se istituiamo un'autorità per fissare i prezzi dell'energia elettrica, a parte il fatto che non è detto che debba essere indipendente in senso proprio, un'autorità autonoma, è desiderio di tutti che abbia un ruolo assolutamente transitorio, fin quando non sarà possibile lasciare che la determinazione delle tariffe, per esempio, venga fatta sul mercato. Questo vale in molti altri settori. In realtà, se vogliamo, in Costituzione, isolare alcune questioni che è bene, in qualche modo, sottrarre all'indirizzo politico di governo per affidarle ad un'autorità che mantenga un elevato grado di autonomia, a me pare che sia necessario isolarne solo due: una è la moneta, in quanto esistono motivi teorici e storici per sostenere che essa debba essere amministrata da chi non è sensibile alle sollecitazioni politiche di breve periodo; cose di questo genere esistono anche nell'esperienza internazionale e mi pare opportuno che l'amministrazione della moneta venga in qualche modo isolata, anche perché essa entra in tutti i processi di produzione e di scambio, a differenza di molte altre cose alle quali ci si riferisce quando si parla di autorità indipendente. La seconda ci pare debba essere l'autorità per la tutela della concorrenza e del mercato, in quanto capace di influire sulla struttura dei mercati e, quindi, sull'efficienza complessiva del nostro sistema economico e non già su singoli settori, sui mercati di singoli beni, di singoli prodotti, di singoli servizi, di singoli fattori; un'autorità di questo tipo, intervenendo sulla struttura complessiva dei mercati, contribuisce a determinare le condizioni complessive di efficienza del sistema. Abbiamo quindi presentato un emendamento che limita la norma prevista dal senatore D'Onofrio alla sola autorità per la tutela della concorrenza e del mercato.
Sempre in merito alla pubblica amministrazione, pensiamo che sia opportuno, anche in un'ottica di ampio decentramento, ribadire, al pari di altri gruppi politici, la necessità che, di norma, l'accesso all'impiego nella pubblica amministrazione avvenga per concorso. Inoltre propongo, con il mio emendamento I.10.26, un'articolazione della pubblica amministrazione legata più ai fini della stessa che agli strumenti che devono essere seguiti per raggiungerli: in materia di controllo fisico della produttività o della singola linea produttiva, per esempio, piuttosto che gli strumenti crediamo che sia opportuno indicare i fini che la pubblica amministrazione deve seguire, lasciando alla legge la determinazione sia degli strumenti per il raggiungimento dei fini sia degli elementi necessari per misurarne il raggiungimento o meno. Faccio un esempio: non so se sarebbe necessario, nella nostra ipotesi, disciplinare in Costituzione l'istituzione di un difensore civico, ancorché possa essere utile prevederlo nella legislazione ordinaria.
Non mi soffermo, in quanto già illustrato, sull'emendamento che ho firmato assieme all'onorevole Urbani e al senatore

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Vegas riguardo alla necessità che i servizi pubblici a domanda individuale siano di norma resi da una pluralità di produttori. Passo pertanto alle disposizioni transitorie e all'emendamento I.16.5, il primo di quelli presentati su questa materia, che tende appunto a concretizzare ciò che avevo detto all'inizio, cioè il fatto che la flessibilità abbia un termine, per cui deve essere in qualche modo fissata una data entro la quale tutte le regioni chiamino a sé tutte le nuove competenze loro affidate con la nuova Costituzione. Così come, pur nella salvaguardia della più ampia autonomia statutaria da parte delle regioni, è anche necessario prevedere alcune, anche se poche, norme di cornice sull'impianto minimo essenziale di questi statuti, allo stesso modo ci sembra necessario, almeno nelle disposizioni transitorie, prevedere regole minime circa le modalità con le quali le regioni possono darsi gli statuti iniziali per avviare la nuova fase.

MICHELE SALVATI. Sarò molto breve perché il fine che mi propongo è di illustrare un emendamento che, rispetto al testo del senatore D'Onofrio, risulta interamente sostitutivo della disciplina del federalismo fiscale. Risulta tale più per comodità di redazione che non per mancanza di apprezzamento di molte disposizioni contenute in quel testo.
Ho già esposto in un precedente intervento sia le osservazioni critiche al testo base per ciò che attiene alla materia del federalismo fiscale, sia i criteri cui deve rispondere un ordinamento federale della finanza pubblica. Mi limiterò pertanto ad illustrare il nostro emendamento, cioè il modo concreto con il quale abbiamo ritenuto opportuno soddisfare tali criteri. Crediamo che un ordinamento federale della finanza pubblica debba comporsi di almeno tre blocchi normativi in qualche modo disposti nell'architettura dell'articolo. Riteniamo utile un primo blocco normativo per l'illustrazione, relativamente dettagliata, dell'autonomia finanziaria, tributaria e delle sue forme, sia per le regioni, sia per gli enti locali. Un secondo blocco normativo deve affrontare il problema della perequazione; come sappiamo, il decentramento di funzioni in presenza di autonomia finanziaria fa emergere ciò che è nascosto in condizioni di spesa e di prelievo centralizzati, cioè l'esigenza di trasferire risorse verso aree a minore capacità fiscale (questo è il punto cruciale su cui deve insistere la disciplina costituzionale). Un terzo blocco normativo riguarda le regole di bilancio per gli enti substatali, regionali e subregionali, in un momento in cui le loro responsabilità finanziarie vengono estese in un modo così ampio e tanta parte della finanza pubblica passa attraverso essi.
Questi tre blocchi normativi di cui deve comporsi la disciplina del federalismo fiscale nel nostro emendamento I.6.04 sono contenuti negli articoli 6 e 6-bis (pagine 51 e 52 del fascicolo n. 1 degli emendamenti ed articoli aggiuntivi sulla forma di Stato). Non intendo descrivere con soverchio dettaglio tali articoli, ma soltanto fare presente come i due blocchi normativi, relativi alla descrizione del federalismo fiscale da un lato ed alle regole di bilancio dall'altro, sono contenuti nell'articolo 6, mentre l'articolo 6-bis viene dedicato appositamente al problema della perequazione.
L'architettura dei due articoli può essere cambiata e considerando che i singoli commi sono relativamente indipendenti, essi possono essere riorganizzati in modo diverso. In ogni caso sarebbe opportuno che nel testo finale l'articolo riguardante la perequazione, un problema delicato e nuovo, avesse una sua autonomia; per questo abbiamo ritenuto opportuno distinguerlo.
Il primo comma dell'articolo 6 descrive, con un dettaglio che può sembrare eccessivo, le forme dell'autonomia tributaria e finanziaria delle regioni, partendo da un'affermazione di principio importante e proseguendo poi con le diverse fonti attraverso le quali si sostanzia la loro autonomia. Credo che questo articolo possa essere prosciugato nella


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versione finale, perché al momento è troppo lungo e dettagliato. Tuttavia data l'importanza della materia ed il fatto che il testo che la Commissione sottoporrà all'esame del Parlamento sarà oggetto di ulteriori revisioni e prosciugamenti in quella sede, riteniamo sia opportuno dare un'idea abbastanza precisa di ciò che la Commissione ha inteso esprimere in questa fase. I prosciugamenti potranno poi avvenire in sede di redazione finale.
Il secondo comma dell'articolo 6 è importante: esso si riferisce ad un problema che nella scienza delle finanze è definito come tax exporting, ma non solo a questo. È abbastanza chiaro che, se concediamo autonomia nella fissazione delle aliquote alle singole regioni, influiamo sull'attività economica e sul gettito fiscale di altre regioni. Proprio in questi giorni i giornali riportano della querelle in atto in Spagna, dovuta al semplice fatto che alcune regioni hanno la possibilità di modificare le aliquote dell'imposta sulle società (corrispondente alla nostra IRPEG); è così accaduto che una regione, abbassando l'aliquota d'imposta, ha provocato il trasferimento di attività della regione contigua. Tali fatti avverranno in continuazione, perché questo è il succo essenziale del federalismo fiscale. Inoltre, se in una regione hanno sede legale importanti società e quella regione modifica un'aliquota di tributi riguardanti l'attività di queste società, ciò può avere ripercussioni sui prezzi dei suoi prodotti, che sono pagati anche dai cittadini di altre regioni. Sono questi i problemi che si pongono e che devono essere segnalati. La disposizione che noi proponiamo non impedisce l'autonomia tributaria, ma questa, in un certo senso, va tenuta sotto controllo e la legge bicamerale deve farne un centro d'osservazione importante: il nostro emendamento si limita a prevedere ciò.
Il terzo comma dell'articolo 6 contiene criteri generali sull'autonomia tributaria degli enti locali i quali, come sappiamo, non possono essere per definizione autosufficienti e, quindi, hanno bisogno di trasferimenti ordinari. Si pone allora il problema della provenienza di tali trasferimenti e di conseguenza nasce la querelle di cui siamo stati investiti noi stessi: mi riferisco al fatto che comuni e province preferiscono avere come centro di perequazione ancora lo Stato e non la regione. Invece di avere un sistema di perequazione a cascata preferiscono, infatti, una triangolazione diretta con il centro. La formulazione dell'articolo è tale, tuttavia, da consentire un'ulteriore scelta da parte del legislatore, poiché il problema è lasciato sostanzialmente aperto; vorrei soltanto sottolineare che si tratta di un problema di architettura molto importante.
Il comma 4 dell'articolo 6 prevede un qualcosa che è del tutto diverso dal problema della perequazione, poiché disciplina una situazione nella quale lo Stato può intervenire per provvedere a scopi distinti dal normale esercizio delle funzioni spettanti alle regioni (quindi in molti casi, ma in particolare in quelle riguardanti lo sviluppo economico). Anche in questo caso il problema è lasciato aperto e deve essere così. La disciplina degli interventi straordinari, come per esempio l'istituzione (se lo si volesse) di un nuovo intervento straordinario per il Mezzogiorno, è disposta in totale autonomia dallo Stato centrale o deve passare attraverso una camera delle autonomie? Deve cioè essere sottoposta anche alla valutazione ed al confronto degli altri soggetti ai quali non è destinato il finanziamento straordinario? In questo caso, nell'emendamento abbiamo utilizzato il termine legge, senza specificare se si tratti di legge bicamerale. Il problema - ripeto - rimane aperto, perché i fondi di cui dispone lo Stato per operare interventi straordinari derivano pur sempre dalla fiscalità generale e, quindi, dalla diversa capacità finanziaria delle regioni. Di conseguenza, una di esse potrebbe giustamente obiettare che attraverso il suo surplus finanziario viene realizzata un'operazione straordinaria o di intervento speciale a vantaggio di un'altra

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regione. Si tratta quindi di un problema reale, vero, che lasciamo aperto, e abbisogna di ulteriore riflessione.
Il comma 5, sempre dell'articolo 6, contiene norme molto severe in materia di bilancio e credo che esse debbano essere di tale natura, soprattutto se la finanza locale è destinata ad avere un'importanza così grande. Se in futuro le funzioni affidate alle regioni, ai comuni e agli enti locali comprenderanno anche l'istruzione e la sanità nel suo complesso, ci sarà una massa di circa 230 mila miliardi, in base ai valori attuali del bilancio dello Stato, che verrà spesa attraverso le regioni. In tale situazione fissare regole molto severe per il controllo della finanza locale è assolutamente essenziale. Ribadisco che quelle contenute nel quinto comma sono regole molto severe, che comunque non illustrerò in modo particolare.
Anche la disciplina del patrimonio è lasciata aperta; peraltro l'affermazione generale, contenuta in altri testi, secondo cui il patrimonio è comunale e appartiene ad altri enti solo in via eccezionale, non mi sembra opportuno inserirla in Costituzione.
Il comma 7 dell'articolo 6 riguarda il punto essenziale del coordinamento tra la finanza dello Stato e quella locale e la sua ratio č evidente.
Ho poco da dire sull'articolo aggiuntivo 6-bis, che è quello cruciale sulla perequazione. A differenza delle spese straordinarie o di sviluppo, la perequazione ha a che fare con le spese ordinarie delle regioni; avendo le regioni la necessità di svolgere un insieme di attività molto simili ed avendo altresì una base fiscale molto diversa, si rivelerà (ciò che oggi sappiamo dalle statistiche, perché ancora non viene rilevato), che alcune di esse non sono in grado di finanziare mediante entrate proprie le spese ordinarie. Qui si dice molto semplicemente che ci sarà un gruppo di regioni le quali finanzieranno completamente mediante entrate proprie le loro spese ordinarie, mentre altre regioni non lo faranno. Per queste ultime è istituito un fondo perequativo. Al riguardo rimangono aperti alcuni problemi di architettura di questo fondo. Si deve trattare di un fondo orizzontale, per cui le regioni ricche, come in Germania, finanziano direttamente le regioni povere? O è meglio un fondo verticale, per cui le regioni ricche sono autosufficienti mentre alle povere, che sono al di sotto della norma, provvede un fondo statale? La struttura del fondo, insomma, deve essere verticale o orizzontale?
Il testo non scende in questi dettagli. In generale, infatti, rispetto a formulazioni precedenti che avevo dato di questo articolo ritenendo che si potesse scendere nel dettaglio nello stesso testo costituzionale, abbiamo preferito una formulazione più generale, che pone però dei princìpi abbastanza chiari (e spero che essi risultino dalla lettura dell'emendamento). Si tratta di princìpi che si collocano a metà tra l'esigenza di perequazione, quindi un'esigenza solidaristica, e l'esigenza di efficienza, che appare chiarissima in alcune formulazioni. Come si legge nel nostro emendamento, scopo di tale fondo perequativo è infatti quello di consentire alle regioni beneficiarie e agli enti locali in esse compresi di «erogare i servizi di loro competenza ordinaria ad un livello di adeguatezza medio ed in condizioni di massima efficienza ed economicità». In altri termini, le regioni non possono pretendere che vengano loro date somme a scopo perequativo per svolgere servizi ad un livello eccezionale. Come vedete, il tentativo è sempre quello di combinare e tenere insieme solidarietà ed efficienza.
Questo è quanto volevo dire per illustrare lo spirito di questo emendamento, che spero sia condiviso da gran parte della Commissione.

LUIGI GRILLO. La ringrazio, presidente, perché, avendo esaurito il gruppo a cui appartengo tutto il tempo a disposizione per illustrare gli emendamenti, so che devo alla sua benevolenza e generosità la possibilità di esprimere, sia pure in breve sintesi, un concetto sulla questione


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del federalismo fiscale che mi sta particolarmente a cuore.
In modo molto schematico voglio osservare che uno dei principali motivi per i quali questa Commissione si è costituita credo sia proprio quello di rispondere ad un'esigenza forte di decentramento e di autonomia fiscale che è avvertita nel paese. Per questo ritengo che nessun gruppo politico possa evitare di misurarsi sulla questione del federalismo fiscale. Per questo motivo, nella proposta emendativa che ho presentato, emerge la mia palese contrarietà all'affermazione di princìpi generici o generalizzati. Allo stesso tempo mi rendo conto ovviamente che, dovendo riscrivere la Costituzione, non possiamo confondere la Carta costituzionale con le norme che solitamente inseriamo nei disegni di legge finanziaria. Credo quindi anch'io che dobbiamo avere l'intelligenza e la capacità di esprimere in modo sintetico tutti i princìpi e le impostazioni che vogliamo siano affermati.
Da dove partire, quindi? Ritengo si debba partire da una duplice constatazione: l'esigenza di dare una risposta in positivo, come ho già detto, alle richieste di decentramento vero e di autonomia fiscale delle regioni, delle province e dei comuni, nonché l'esigenza di fare tutto questo in un paese nel quale il divario economico tra nord e sud, tra zone ricche e zone sottosviluppate esiste, così come esiste la necessità, se vogliamo mantenere il paese sempre più unito e sempre più stabile, di superare tali diversità.
L'emendamento che io ho proposto assieme al collega Greco va quindi nella direzione di un federalismo competitivo, sia pure corretto al fine di tenere conto delle profonde differenze di sviluppo che esistono nel nostro paese, recuperando e quindi esplicitando le caratteristiche di solidarietà che a mio parere devono essere tenute presenti.
Il principio chiave del modello a cui mi ispiro è che le regioni, soggetti fondamentali del nuovo assetto federalista, devono finanziare le proprie spese essenzialmente con entrate proprie o comunque con entrate riferite al gettito fiscale del proprio territorio. La perequazione è operata in base al principio della capacità fiscale. I trasferimenti perequativi devono cioè compensare la diversa capacità delle singole regioni di produrre gettito pur applicando una pressione fiscale media. Data la tecnicità di questi concetti, ovviamente sono aperto e disponibile a sintetizzarli e a riassumerli.
Nel mio emendamento, quindi, si prevede la possibilità di disporre anche dei trasferimenti straordinari a favore di regioni, province e comuni per provvedere, tuttavia, a scopi ben determinati. La straordinarietà di tali trasferimenti deriva anche dalla procedura di approvazione, che io prevedo debba essere affidata a leggi approvate da entrambe le Camere con l'intervento della Commissione delle autonomie territoriali di cui al testo proposto dalla senatrice Dentamaro. Il particolare procedimento legislativo di approvazione rappresenta tra l'altro, a parer mio, il fulcro di un modello che potremmo definire di concertazione, di gestione dei rapporti relativi alle autonomie. Tale procedura, a mio parere, dovrebbe garantire un riconoscimento delle esigenze degli enti territoriali minori, che non verrebbero ricondotti esclusivamente (in questo mi diversifico dalla proposta del collega Salvati) alla competenza delle regioni. Non è possibile continuare a parlare di regioni, enfatizzandone il ruolo, dimenticando che esse rappresentano il fallimento della riforma istituzionale del nostro paese. Le regioni, quell'ente voluto per dare una risposta istituzionale alle rivoluzioni del 1968, in Italia, checché se ne dica, sono fallite, dal momento che sono i livelli di governo meno efficienti del nostro paese. Immaginare pertanto un filtro delle regioni per organizzare la perequazione negli enti territoriali minori, a parer mio, è cosa da evitare.
Le regole di formazione e distribuzione del fondo perequativo (che anch'io prevedo nel dettaglio) sono - concordo con i testi di Salvati e Bressa - definite su basi triennali, perché riconosco validità all'assunto, sostenuto da tanti economisti del nostro paese, che occorre, per non modificarle

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troppo e facilmente, affermare il principio della triennalità.
Per i comuni e le province si afferma nel mio emendamento il principio di massima autonomia fiscale compatibile con la propria base imponibile e con i compiti da essi svolti. Tuttavia vi è un rifiuto evidente di fare dei comuni i soggetti principali del federalismo, perché non c'è né un fondamento teorico né un fondamento pratico in nessuna realtà istituzionale dei paesi civili e moderni. Tuttavia, il ruolo essenziale svolto dalle comunità locali trova, nella mia proposta emendativa, un ampio riconoscimento sia in termini di un'ampia autonomia fiscale sia in termini di un coinvolgimento nelle procedure legislative riguardanti le autonomie territoriali con l'intervento della particolare commissione.
Naturalmente - e mi avvio al termine, presidente - il modello di federalismo fiscale che io propongo è strettamente correlato con l'ampliamento delle competenze sul lato delle funzioni svolte e quindi delle spese. È evidente, cioè, che, più ampio è il processo di decentramento sul versante delle competenze, maggiori saranno per le regioni le esigenze di finanziamento da entrate proprie e maggiori saranno i flussi perequativi che dovranno essere attivati per compensare le diversità regionali, soprattutto in materia di base imponibile. Nella mia proposta emendativa, pur senza dirlo, prevedo che la perequazione debba essere verticale. Mi sembra inopportuno, infatti, immaginare - Dio non lo voglia! - che in un processo di decentramento spinto si debba sperare in una perequazione orizzontale. Dovremmo pensare che i Lombardi, per esempio, siano disponibili a dare 10 mila miliardi in più ai calabresi in un paese nel quale vi sono forze politiche scellerate e irresponsabili che parlano di secessione (dal momento che già adesso dicono che lo Stato eroga risorse in maniera diversa)! Non vi è dubbio quindi che nel mio emendamento faccia riferimento ad una perequazione di tipo verticale.
Conseguentemente - e concludo - il mantenimento di un sufficiente grado di solidarietà nel sistema o, se si vuole, l'impedire che esso scivoli verso forme non solidali è anche legato alla gradualità con cui verrà realizzato il decentramento delle competenze, che deve tener conto delle perduranti diversità economiche e territoriali, nonché delle questioni ancora aperte relative al risanamento dei conti pubblici. Questo vuol dire che, quando parlo di federalismo fiscale, ho in mente un processo che necessita di tempo per potersi realizzare concretamente.

PRESIDENTE. Dopo il senatore Passigli, che è l'ultimo iscritto a parlare, il relatore D'Onofrio svolgerà una breve dichiarazione.

STEFANO PASSIGLI. Illustrerò una serie di emendamenti ad un testo nel quale, in buona sostanza, si è optato per un sistema di poteri esclusivi, per il cosiddetto federalismo competitivo, un sistema caratterizzato dalla mancanza di un'area di poteri concorrenti. Ad illustrazione degli emendamenti che ho presentato, credo si debba innanzitutto sottolineare che questa scelta di fondo configura un sistema molto rigido, che potrebbe in futuro creare notevoli problemi; la mancanza di un'area di poteri concorrenti può, infatti, in futuro, specie in presenza dell'emergere di possibili nuove funzioni da affidare alla Repubblica in tutte le sue articolazioni, creare taluni problemi.
In questa luce vanno visti gli emendamenti da noi presentati, il primo dei quali, che reca il numero I.1.39, è fondato sul riconoscimento che le regioni non hanno una sovranità originaria. Non stiamo pensando ad uno Stato federale che nasce in conseguenza delle decisioni di soggetti istituzionali portatori di una sovranità originaria: stiamo attribuendo ad unità subfederali delle competenze legislative attraverso il processo di revisione di uno Stato già esistente come Stato unitario.
Si tratta di un punto molto importante; non dobbiamo, quindi, pregiudicare per il futuro la possibilità di una diversa allocazione


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delle competenze legislative tra Stato e regione; dobbiamo, insomma, mantenere la possibilità che sia la sola Costituzione, senza alcun rinvio agli statuti regionali, a determinare una futura, diversa allocazione di competenze legislative. L'emendamento propone (come molti altri e quindi, se gli altri verranno precedentemente approvati, esso verrà ritirato) che sia la sola Costituzione o legge costituzionale a determinare l'allocazione di funzioni legislative tra Stato e regione e non anche il rinvio agli statuti regionali, che potrebbe essere aggirato solo aggravando il processo di revisione costituzionale, quindi modificando quest'articolo e poi intervenendo sulle competenze delle regioni.
Gli emendamenti I.1.40 e I.3.17 si illustrano da soli e quindi per ragioni di tempo evito di farlo. L'emendamento I.4.45, così come l'analogo I.4.46, presentato dal presidente della Commissione cultura del Senato, il collega Ossicini, che prega di considerare l'illustrazione fatta anche in suo nome, indica tra le funzioni legislative lasciate allo Stato, insieme all'ordinamento generale dell'istruzione, dell'università e della ricerca, anche quello delle attività culturali. Anche altri colleghi, ad esempio il collega Pieroni, hanno presentato emendamenti in questo senso.
La dizione che ho usato è quella di «ordinamento generale e sostegno dell'istruzione, dell'università, della ricerca scientifica e delle attività culturali». Mi sembra che da un lato sia importante sottolineare come in un sistema sottoposto alle tensioni di natura secessionista che poc'anzi venivano ricordate le attività culturali in genere siano formative di una cultura politica comune e quindi è importante che siano mantenute quanto più possibile uniformi sul territorio nazionale; si configura, pertanto, una forte funzione dello Stato federale in questo senso. Dall'altro lato, ritengo opportuno introdurre la parola «sostegno», perché non so se la dizione «ordinamento generale» sia sufficiente a coprire, nel caso dell'istruzione, la questione, che mi sembra rilevante venga uniformemente disciplinata sul territorio nazionale, del rapporto tra scuola pubblica e scuola privata. Credo che debba essere la legge nazionale a disporre in materia di questa fondamentale questione; sarebbe veramente grave se su alcune parti del territorio nazionale o in alcune regioni si statuisse in una certa maniera per quanto riguarda l'allocazione delle risorse tra scuola pubblica e scuola privata ed in altre ciò avvenisse in maniera diversa. Quindi, quando si parla di ordinamento generale dell'istruzione, non necessariamente si identifica con questo termine qualcosa che va al di là degli aspetti puramente ordinamentali del sistema educativo. Sarebbe pertanto opportuno fare un'eccezione in questo caso e mantenere il termine «sostegno» in Costituzione.
Per quanto riguarda l'emendamento I.4.47, esso interviene sul problema creato dal rovesciamento dell'articolo 117 della Costituzione, un rovesciamento verso il quale confesso di aver sempre nutrito e di continuare a nutrire forti dubbi. Incamminandosi sulla strada, come mi sembra faccia non solo il testo del relatore D'Onofrio ma anche la maggioranza dei commissari, del rovesciamento dell'articolo 117, diventa estremamente importante identificare correttamente le funzioni che rimangono allo Stato centrale. L'emendamento I.4.47 indica tre materie (lavoro, informazione, ordini professionali) che mi sembrano costituire chiaramente aree di competenza nazionale, aree non presenti nell'originaria elencazione del relatore D'Onofrio e presenti, sia pur parzialmente, invece in alcuni emendamenti, non in tutti.
Il punto di fondo è che, stando al complesso degli emendamenti, verifichiamo che in realtà il testo base proposto dal senatore D'Onofrio ha bisogno di queste significative integrazioni; mi chiedo anche quante funzioni di valenza complessivamente nazionale come Commissione stiamo dimenticando di attribuire allo Stato e soprattutto quante future funzioni emergenti saranno automaticamente

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attribuite, grazie al rovesciamento dell'articolo 117, alle regioni anziché allo Stato.
Porto un solo esempio: certo, se il costituente del 1947 avesse adottato quest'approccio, non avrebbe inserito le telecomunicazioni (anche perché allora erano di là da venire: penso, per esempio, ai media televisivi) tra le materie riservate alla competenza nazionale. Credo, quindi, che, se adottiamo l'articolo 117, al di là dell'emendamento I.4.47 che specifica alcune funzioni che a mio avviso è opportuno lasciare allo Stato, si debba anche prevedere una qualche clausola di salvaguardia che faccia sì che sulle future funzioni emergenti si pronunci la Costituzione e che non vengano automaticamente determinate dal rovesciamento dell'articolo 117.
L'emendamento I.4.50, che riformulerò perché nel testo attuale non è sufficientemente chiaro il concetto che intende esprimere, si propone proprio d'intervenire con una clausola di salvaguardia a fronte di future funzioni che, se non esercitate oggi né dallo Stato né dalle regioni, dovrebbero in futuro essere oggetto di legge costituzionale e non ricadere automaticamente sotto il rovesciamento dell'articolo 117, cui accennavo precedentemente.
L'emendamento I.4.48 solleva il problema, ben noto al relatore, delle autorità di garanzia e di vigilanza e della necessità di far sì che le competenze attribuite con legge nazionale a tali autorità non siano limitate dalle competenze legislative attribuite dalla Costituzione riformata alla regione.
Se guardiamo al ruolo che queste agenzie regolatorie hanno avuto nei sistemi in cui sono state introdotte e si sono affermate non possiamo certo pensare che le autorità di garanzia e di vigilanza, che intervengono in molti casi in materie che la nuova allocazione lascia alla competenza regionale, possano poi incontrare limiti diversi sul territorio sanciti appunto dalla legislazione regionale. Anche qui dobbiamo prevedere che le competenze regolatorie lasciate alle agenzie di garanzia e di vigilanza prevalgano sulla legge regionale.
L'emendamento I.4.49 si riferisce alla questione della forma di governo regionale; la tradizione politica che rappresento in questa Commissione si pronuncia chiaramente per l'uniformità della forma di governo regionale, almeno delle leggi regionali, proprio al fine di evitare che la legge elettorale venga poi utilizzata in funzione degli interessi contingenti delle maggioranze politiche che si determinano a livello regionale.
Gli emendamenti I.6.21 e I.6.22 intervengono in materia di fiscalità. Il primo ricorda che la giusta funzione di perequazione lasciata allo Stato dovrebbe agire non solo nei confronti delle aree sottosviluppate e deboli e del Mezzogiorno ma anche a sostegno delle necessità funzionali delle aree metropolitane. Queste ultime non possono essere garantite nella loro funzionalità dalla fiscalità propria nel sistema che andiamo a costruire, né possiamo pensare di fare esplodere la conflittualità già latente, in taluni casi palese, tra le grandi città e le regioni di cui sono capoluogo, facendo gravare le esigenze delle aree metropolitane interamente sulla fiscalità regionale. Dobbiamo lasciare almeno in Costituzione - poi via via il legislatore ordinario deciderà, i governi si pronunceranno sull'utilizzo concreto del fondo di perequazione - la possibilità che la perequazione avvenga anche in funzione delle crescenti esigenze delle aree metropolitane; si tratta di esigenze cui tali aree non potrebbero far fronte - ripeto - né con la fiscalità propria né con quella regionale, al prezzo probabilmente di utilizzare in massima parte le risorse delle stesse regioni, ingenerando quindi un conflitto tra centro e periferia all'interno della regione.
L'emendamento I.6.22 tende ad evitare che nella Costituzione venga inserita la previsione che l'indebitamento da parte del sistema delle autonomie locali avvenga soltanto «sul mercato»; credo che non sia buona politica introdurre Costituzione rigidità che riflettono giudizi su una situazione

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congiunturale, non necessariamente strutturale. Che il sistema delle autonomie si debba finanziare autonomamente e non a carico del bilancio dello Stato o di organismi centrali rientra sicuramente nella logica dell'intera riforma che intendiamo attuare; sancire nella Costituzione il principio che gli enti locali debbano finanziarsi «sul mercato» piuttosto che ricorrendo a strumenti che possono continuare tranquillamente ad esistere (penso appunto alla Cassa depositi e prestiti) e che hanno garantito negli anni la possibilità di indebitarsi a tassi nettamente inferiori a quelli di mercato, mi sembra sbagliato, in quanto introduce una rigidità inutile. Sarà poi il legislatore ordinario - regionale o nazionale - che incentiverà il ricorso all'una o all'altra forma di indebitamento da parte del sistema delle autonomie locali. Evitiamo di introdurre un inutile vincolo di principio in Costituzione che riflette, ripeto, una situazione del debito pubblico, che mi auguro sia contingente, e non un principio generale.

PRESIDENTE. Con questo intervento è conclusa l'illustrazione degli emendamenti. Do ora la parola al relatore sulla forma di Stato, senatore D'Onofrio.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Relatore sulla forma di Stato. Non intervengo per una replica, che sarebbe non solo inopportuna ma anche impropria, perché si è convenuto di passare alla votazione sugli emendamenti martedì prossimo. Sarebbe assolutamente errato dare una valutazione complessiva sugli interventi.
Desidero invece svolgere due considerazioni essenziali. In primo luogo, all'inizio del nostro lavoro, quando il 22 maggio scorso ho presentato il primo testo, che poi, con qualche modifica, è diventato il testo base, ho indicato che la Bicamerale era di fronte ad una scelta di fondo: proseguire sulla strada del decentramento o imboccare quella di un modello federale. La prima avrebbe comportato una serie di modifiche costituzionali tutte dentro il principio dell'originaria potestà legislativa onnicomprensiva dello Stato; la seconda avrebbe avuto un aspetto di tipo pattizio, richiedendo visibilmente un accordo tra lo Stato e le entità da costituire.
In quel momento mi sembrava evidente che il dibattito in corso in riferimento alla struttura del Parlamento non avesse ancora dato vita alla possibilità che il Parlamento nazionale assumesse, nel contesto del ruolo delle autonomie locali, una garanzia del processo di federalizzazione tale da potersi ritenere che talune materie o interventi riferiti allo Stato fossero non più nella vecchia logica della centralizzazione delle competenze ma parte di un processo di nuova federalizzazione. Mancando quel dibattito, avevo detto - e sono grato ai colleghi Bressa, Soda, Villone ed altri che l'hanno ricordato ancora una volta oggi - che quella dell'indicazione degli statuti speciali costituzionali era una strada che a me per primo, in mancanza di altre, sembrava necessaria e che, se ne fossero emerse altre, sarebbero state valutate.
Mi pare che la maggior parte delle reazioni contro il federalismo a geometria variabile degli statuti speciali emerse nella discussione sulla mia prima indicazione si siano progressivamente trasformate in un'opposizione che ha maturato l'idea di un Parlamento nazionale, con una seconda Camera nella quale emerge un ruolo molto più significativo delle autonomie locali. Vedremo poi in che misura gli emendamenti illustrati oggi e quelli che lo saranno lunedì prossimo mi consentiranno, come mi sembra del tutto ragionevole, di superare gli statuti speciali costituzionalizzati, i quali - ripeto ancora una volta - avrebbero rappresentato una garanzia non soltanto per le regioni contro lo Stato ma anche per lo Stato nei confronti delle regioni, perché l'approvazione con legge costituzionale degli statuti non garantiva né lo Stato né le regioni in ordine ai rispettivi contenuti. L'ipotesi che sta prevalendo, anche alla luce degli emendamenti presentati o preannunciati dai colleghi di gruppi politici che hanno molto riflettuto sulla questione, mi fa ritenere che il punto centrale del dissenso sul processo di federalizzazione venga


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meno. Sono quindi lieto di constatare che la scelta di un processo di tipo federalistico continua ad orientare la valutazione della Bicamerale su una strada diversa da quella da me indicata, anche se la sostanza del processo va avanti.
In ordine a due questioni ritengo necessaria una riflessione più approfondita di quella maturata fino ad ora anche alla luce degli emendamenti illustrati poco fa: la questione del federalismo fiscale e quella dell'autonoma deliberazione politica delle regioni in ordine alla forma di governo e alla propria legge elettorale.
Per quanto riguarda il federalismo fiscale non mi sembra necessario, opportuno e prudente da parte mia assumere una decisione e dire che alcuni emendamenti vanno bene ed altri no; mi pare invece opportuno che martedì prossimo, in Commissione plenaria, le opinioni - anche radicalmente diverse - si esprimano al meglio e vengano ascoltate dal maggior numero di colleghi, al fine di valutare se esistano le condizioni per una modifica della mia proposta, trattandosi di una proposta che rimette di fatto alle decisioni anno per anno, prevalentemente in sede di legge finanziaria, la quantificazione della perequazione della solidarietà (sono norme che rimettono a procedimenti che oggi vedo più garantiti di prima). Se si riterrà di introdurre limiti e criteri della perequazione e della solidarietà, ciò farà parte del dibattito. Mi sembra che quanto abbiamo ascoltato porti più d'uno dei colleghi in questa direzione, ma considero altrettanto rilevante che gli emendamenti presentati fino ad oggi siano molto più lunghi di ciò che gli stessi presentatori ritengono possa costituire oggetto di norma costituzionale.
Sull'ultimo punto, relativo all'autonomia statutaria e alla forma di governo, interverrò ancora, sperando di concorrere a far maturare un'opinione favorevole alla libertà politica ed organizzativa delle regioni, perché da questo punto di vista le garanzie (mi riferisco in particolare all'intervento del collega Villone) vanno ricercate nei procedimenti aggravati e non nella predeterminazione dei contenuti, quelli nazionali in via generale o quelli indicati oggi. Tuttavia anche questo è un tema su cui la riflessione mi sembra non sia stata sufficientemente ampia.
Per il resto, mi regolerò secondo il criterio adottato di norma da un relatore. Leggerò tutti gli emendamenti con calma, perché oggi è stato possibile illustrarli soltanto nelle linee essenziali. Vi saranno gli emendamenti di linea federalista, sui quali esprimerò in anticipo il gradimento, quelli di linea di decentramento, sui quali esprimerò in anticipo il non gradimento, e gli altri per i quali invece mi rimetterò alla valutazione della Commissione, come avviene in un normale procedimento legislativo. Se lunedì sera, dopo l'illustrazione degli emendamenti sul Parlamento, in sede di Comitato di redazione risulterà preferibile che gli emendamenti da me ritenuti accoglibili siano assorbiti in una formulazione nuova, anche per semplificare la nostra decisione, lo farò ed indicherò sia gli emendamenti che ritengo di accogliere sia il modo in cui intenderei tradurli in formulazioni nuove, rimettendo alla valutazione del Comitato di redazione la scelta dell'una o dell'altra strada: la semplice indicazione degli emendamenti graditi lascerebbe uno spazio enorme ad una migliore scrittura dei testi, la seconda soluzione renderebbe possibile questa strada.
Non vedo grande difficoltà per l'elenco delle materie, soprattutto se riuscirò a far capire (come forse non ho fatto finora) che in molti casi la questione non è tanto di indicare l'oggetto quanto di dire che l'oggetto è compreso in una formulazione più larga. Comunque, poiché si sceglie una strada di tipo più svizzero, tedesco, mi sembra opportuno che l'elencazione sia precisa. Una disposizione certamente non inserirò: una riserva a favore dello Stato per leggi-quadro nelle materie di competenza regionale: questa sarebbe logica di decentramento. Quindi l'elenco preciso può essere anche più articolato, ma non può esserci una riserva generale dello Stato di intervenire in materie di competenza regionale.

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Questi erano i discrimini indicati il 22 maggio scorso; mi sembra di capire che l'approfondimento li stia rendendo sempre più chiari. Sono molto grato per tutti gli approfondimenti svolti, perché oggi si è visto che molte delle critiche erano dirette non al principio del decentramento di tipo federale ma alle soluzioni tecniche adoperate, e questo mi sembra del tutto normale: non vi è norma costituzionale che possa andare in porto se non dopo una lunghissima discussione.
Il coordinamento con la giustizia e gli altri temi vedremo in quali termini operarlo. Per le questioni semplici non vi sono problemi; se quella della potestà giurisdizionale, in parte regionale ed in parte nazionale, dovrà essere oggetto di un dibattito più ampio nel contesto delle garanzie, si procederà in tal senso, fermo restando che si tratta di una questione di merito e non di coordinamento di testi.
Ringrazio nuovamente i colleghi ancora presenti. Le osservazioni svolte servono soprattutto per la costruzione progressiva delle decisioni.

MARCO BOATO. Brevemente, sull'ordine dei lavori, per consentire che martedì prossimo si cominci effettivamente a votare, vorrei suggerire al relatore di predisporre già al termine della seduta di lunedì, quando si riunirà il Comitato di redazione, quello che lui considera il testo integrato, perché altrimenti in quel Comitato si riaprirebbe un lavoro che non avremmo il tempo di svolgere.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Relatore sulla forma di Stato. Lunedì sera saranno presentati l'elenco degli emendamenti ritenuti da parte mia acquisibili e la traduzione in norme nuove. Se il Comitato riterrà di prendere in considerazione non le norme nuove, come se fossero un nuovo testo, ma gli emendamenti, questa è la strada peggiore, ma sarà il Comitato stesso a decidere. Se preferirà il testo riscritto, ribadisco che si tratterà solo del testo riscritto assorbendo gli emendamenti: non esiste una mia nuova proposta.

MARCO BOATO. Un testo integrato.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Relatore sulla forma di Stato. Certo, più leggibile rispetto ai vari emendamenti presentati.

MARCO BOATO. Più le questioni sono risolte a monte dal relatore, meno complesso risulta poi l'esame degli emendamenti.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Relatore sulla forma di Stato. Presenterò le due versioni per consentire ai colleghi di pervenire ad una decisione adeguata.

PRESIDENTE. A conclusione dei lavori odierni, avverto che nella prossima seduta, convocata per lunedì 16 giugno alle 15.30, avrà luogo l'illustrazione degli emendamenti sul Parlamento e le fonti normative e sulla partecipazione dell'Italia all'Unione europea.

La seduta termina alle 13.50.


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