RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 27

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La seduta comincia alle 16.15.


(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
Informo che sulla relazione sul sistema delle garanzie, presentata dal deputato Boato nella seduta antimeridiana di oggi, risultano iscritti a parlare sedici colleghi: del resto, siamo qui per soffrire!
Do subito la parola al senatore Ossicini.

ADRIANO OSSICINI. Signor presidente, onorevoli colleghi, amico relatore, attenuerò molto le vostre sofferenze, perché parlerò pochi minuti. La mia veste di psicologo mi ha insegnato che l'attenzione dura molto poco e poiché è molto tempo che ascoltiamo, ad un certo punto non saremo più capaci di ascoltare ulteriormente. Tra l'altro, avendo partecipato, come ha sottolineato il relatore Boato, a circa 70 ore di discussione in Comitato, ho potuto valutare momento per momento lo sviluppo di tale testo e comprenderne le interne ragioni. Ritengo, perciò, a questo punto, di dover accettare totalmente quella che il collega Boato chiama ipotesi numero 1. L'accetto totalmente non solo perché in larga parte sono convinto sia quella giusta, ma anche perché accettarla così significa accogliere un impianto organico, ossia qualcosa che ha una sua interna validità. Sia per la serie di proposte che in gran parte mi trovano d'accordo, sia per l'impianto generale, mi dichiaro completamente d'accordo - ripeto - sull'ipotesi n. 1. Oltre tutto, mi sembra sia il momento di assumere decisioni che vadano al di là di alcune contrapposizioni su un tema così complesso che, in qualche modo, si è rivelato anche spinoso, tant'è vero che abbiamo dovuto difenderci da una serie di invasioni di carattere polemico che spesso non avevano nulla a che fare con i testi che il povero amico Boato elaborava faticosamente. Mi pare invece sia il caso di dare il buon esempio, proponendo qualcosa di organico, che in qualche modo venga incontro ai problemi che abbiamo di fronte.
Ho in pratica esaurito il mio compito: ribadisco di ritenere che non solo come testo base (il che mi pare abbastanza ovvio) ma nella sua complessità l'ipotesi di articolato numero 1 costituisca un modo di risolvere il problema in termini organici. Certo siamo tutti aperti a che in sede di discussione si trovino degli accordi, anche introducendo varianti; ma ora mi pare importante non soltanto che vi siano alcuni orientamenti su determinati punti base, ma che il nostro assenso vada ad un impianto generale. Pertanto, confermo ancora una volta il mio parere favorevole all'impianto generale proposto dal collega Boato e all'ipotesi numero 1 che la rappresenta nell'articolato.
Detto questo, vi ringrazio e penso di non avervi fatto perdere troppo tempo.

PRESIDENTE. Il tempo dedicato alla discussione non è perso.


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ADRIANO OSSICINI. Perso, nel senso che evidentemente se si dicono cose inutili lo si perde.

FAUSTO MARCHETTI. I lavori del Comitato sistema delle garanzie si sono concentrati su alcuni punti «caldi» del sistema giudiziario, si sono svolti fra le polemiche politiche sul ruolo della magistratura ed hanno suscitato reazioni, talvolta eccessive, di alcuni magistrati. È ora auspicabile che la Commissione possa ulteriormente approfondirli, anche apportando al testo del relatore significative modifiche.
Prima di affrontare quelli che sono stati considerati i nodi centrali, vorrei soltanto rinviare, per quanto riguarda l'articolo 97-bis, relativo al difensore civico, e l'articolo 99-bis, concernente le autorità preposte allo svolgimento di attività imparziali di garanzia o di vigilanza su determinate materie, alle considerazioni svolte nella discussione di ieri sulla proposta del senatore D'Onofrio, facendo comunque presente che si pone, ove si insistesse nella scelta di costituzionalizzare l'istituto del difensore civico e le cosiddette autorità indipendenti, il problema di una scelta fra il testo proposto dal senatore D'Onofrio e quello proposto dall'onorevole Boato o comunque di una nuova formulazione che superi entrambi i testi.
Per la Corte costituzionale, di fronte alla prospettiva dell'ampliamento del suo intervento ritengo ancora più opportuno di quanto già non lo fosse in precedenza - tant'è che vi sono proposte di diversi gruppi parlamentari in questo senso - stabilire quanto in alcuni disegni di legge è stato prospettato e quanto è indicato nell'ipotesi di modifica n. 2 dell'articolo 136. Ritengo cioè opportuno stabilire che le decisioni della Corte siano soltanto di accoglimento, di rigetto o di inammissibilità.
Faccio presente che se la Commissione si orienterà - come auspico - per una netta affermazione costituzionale dell'autonomia comunale, dovrà essere prevista quanto meno la possibilità di accesso alla Corte anche da parte dei comuni e coerenza suggerirebbe che anche i comuni concorressero alla composizione della Corte, la quale potrebbe essere chiamata a giudicare anche sui conflitti fra i comuni e gli altri livelli istituzionali.
La discussione sul tema dell'unità e pluralità della giurisdizione è stata esattamente riferita dal relatore - il quale peraltro è stato molto preciso su tutti i punti che ha affrontato - ed io condivido la soluzione che egli propone, più contenuta rispetto all'impostazione iniziale, che pure condividevo. Concordo cioè essenzialmente su quanto il relatore ha qui esposto. Se la proposta sul tema dell'unicità della giurisdizione nei termini in cui viene presentata verrà accolta, si farà comunque un buon passo avanti. Anche i magistrati amministrativi acquisiranno lo status di magistrati veramente autonomi e indipendenti da ogni potere dopo cinquant'anni di mancata attuazione della Costituzione, la quale, anche se non prevede per i magistrati contabili e per quelli amministrativi uno status uguale a quello dei magistrati ordinari, stabilisce comunque che la legge assicura l'indipendenza del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei loro componenti di fronte al governo, norma che non è stata assolutamente attuata in tutti questi anni.
Con la costituzione di un vero ordine di magistrati amministrativi autonomo e indipendente, autogovernato da un suo consiglio superiore negli stessi termini previsti per il Consiglio superiore della magistratura ordinaria, si porrebbero le premesse per una soluzione positiva del delicato tema della sezione disciplinare, nel senso che evidentemente esso può avere più soluzioni, quindi anche con una riforma del tipo prospettato per la magistratura amministrativa. Prendendo occasione da questa riforma, è stata avanzata un'idea sull'organismo che dovrebbe essere preposto alla questione disciplinare dei magistrati, idea che ritengo positiva e che è presente nell'ipotesi n. 1 dell'articolo 105-bis. Questa può rappresentare una soluzione accettabile del problema,


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mentre l'ipotesi n. 2 dello stesso articolo ci riporterebbe in alto mare.
Sempre in tema di Consiglio superiore della magistratura non mi convincono le composizioni proposte, né quella contenuta nell'ipotesi n. 1, né tanto meno quella contenuta nell'ipotesi n. 2. Si dovrebbe tener ferma l'attuale composizione, prevedendo eventualmente anche una presenza di soggetti che svolgono attività giurisdizionale senza far parte della magistratura ordinaria (penso ad esempio ai giudici di pace). Altre ipotesi sono comunque possibili.
Le competenze del Consiglio superiore della magistratura vanno esattamente indicate: questo è chiaro, d'altronde già lo sono nell'attuale Costituzione. Occorre però rivedere l'ipotesi di modifica n. 1 dell'articolo 105, che le limita ai provvedimenti nelle materie già indicate. Al Consiglio superiore della magistratura devono spettare le funzioni o le competenze relative a queste materie e non i provvedimenti ad esse relativi. Non è possibile muoversi in un'ottica sospettosa, punitiva, che vuole impedire, come chiaramente emerge dall'ipotesi di modifica n. 2, atti in materia di interpretazione delle leggi, come se le attività proprie del Consiglio superiore della magistratura non comportassero necessariamente un'interpretazione delle leggi. Come non è possibile vietare deliberazioni di indirizzo politico, trasformando così il Consiglio superiore della magistratura in una specie di sorvegliato speciale. Esso deve restare evidentemente nel proprio ambito, ma la sua attività non può essere limitata ai provvedimenti. Certe norme sembrano essere dettate da astio, come quando si vuole affermare che i magistrati si debbono attenere agli ovvi principi di responsabilità, correttezza e riservatezza: immagino nell'esercizio delle funzioni, perché una diversa interpretazione porterebbe a dire che li vogliamo assolutamente muti.
Altro tema rovente è stato quello dell'obbligatorietà dell'azione penale. Resto dell'opinione che la soluzione migliore sia quella di lasciare le cose come stanno. Comunque, per quanto riguarda l'ipotesi di modifica n. 1 dell'articolo 112 sono nettamente contrario all'improcedibilità per interesse pubblico, cioè ove vi sia un interesse pubblico al perseguimento dell'azione penale. Infatti, un'ipotesi di questo tipo chiaramente metterebbe in discussione il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale.
Confermo la contrarietà al concorso per il passaggio dalle funzioni giudicanti penali a quelle requirenti e viceversa. Ritengo che occorra vietare che le funzioni giudicanti penali e quelle requirenti possano essere svolte nel medesimo distretto e che occorra prevedere che prima di essere assegnati a diversa funzione si debba aver svolto per un congruo termine le funzioni che si lasciano.
Considero positiva la tendenza, presente nel testo, ad ampliare il ruolo dei magistrati onorari e la nomina di avvocati e professori universitari in materie giuridiche nei vari gradi della giurisdizione e non, come ora è previsto, soltanto, in alcuni casi, per le giurisdizioni superiori, confidando però che le nuove norme non facciano la fine di quelle già esistenti.
Auspico che si indichino principi tesi a favorire il rapporto fra i consigli giudiziari e le realtà regionali e comunali.
La proposta di modifica dell'articolo 110 precisa opportunamente le competenze del ministro della giustizia. Ritengo debba essere trasferita nell'articolo 110 la disposizione dell'ultimo comma dell'ipotesi di modifica n. 1 dell'articolo 112, la quale prevede una relazione annuale del ministro della giustizia al Parlamento sullo stato della giustizia. Ritengo non si debba parlare di relazione sull'esercizio dell'azione penale o sull'uso dei mezzi di indagine impiegati, ma soltanto di relazione sullo stato della giustizia. La relazione tratterà ovviamente anche dell'esercizio dell'azione penale e dell'uso dei mezzi impiegati, ma essa riguarderà lo stato complessivo della giustizia. Allora, lasciare questa norma nell'articolo relativo all'esercizio dell'azione penale fa pensare che la relazione sia concepita come strumento di specifico controllo sullo stesso esercizio dell'azione penale, mentre dovrebbe

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consentire al Parlamento un organico esame dei problemi della giustizia e non di un suo, sia pure importante, spaccato. Per tali motivi la sua sede è nell'articolo 110, relativo alle competenze del ministro.
Credo che, attraverso una serie di modifiche, vi siano le basi per arrivare a conclusioni positive di revisione della Costituzione. Voglio però sottolineare che in questa materia è essenziale l'intervento del legislatore ordinario, con la modifica di tutta una serie di leggi ordinarie che impediscono un ragionevole svolgimento dei procedimenti civili, penali ed amministrativi. La modifica dovrebbe passare, lo ripeto, più attraverso l'impegno del legislatore ordinario che non del legislatore costituzionale, anche se evidentemente si sono individuati temi sui quali talvolta è opportuno anche un intervento di revisione costituzionale. Voglio indicare soltanto un tema, sul quale da tanti anni si attende una riforma che consenta di tradurre la norma costituzionale in realtà effettiva: l'articolo 24 della Costituzione, il quale dovrebbe assicurare anche ai non abbienti la possibilità non soltanto di difendersi in ogni stato e grado di giurisdizione, ma anche di agire in giudizio. Qui si tratta di intervenire, per rendere effettivo il principio, con norme ordinarie. Nel testo che ci è stato sottoposto è presente una proposta di modifica che riguarda questa materia: credo non aggiunga niente all'articolo 24; anzi, in un certo senso è limitativa perché si parla solo di difesa e non anche di garantire la possibilità di agire in giudizio. Ma in ogni caso, anche se quest'ultimo concetto fosse aggiunto, la modifica effettivamente non aggiunge nulla all'articolo 24.
Quando interveniamo sulla seconda parte della Costituzione dobbiamo sempre stare molto attenti a non introdurre surrettiziamente modifiche della prima parte. In questo caso la proposta che il relatore ha inserito nel testo è stata presentata certamente con intenti positivi (il tema è stato anche trattato nella discussione del Comitato), ma a mio avviso, poiché non aggiunge nulla, il problema nella sostanza resta quello di intervenire - così come su tante altre questioni - in sede di legislazione ordinaria. Ecco perché mi sembra che questa previsione potrebbe anche non essere inserita nel testo di cui ci stiamo occupando. Ripeto: non aggiunge niente e può anche far nascere qualche equivoco per il suo rapporto con la prima parte della Costituzione.

SALVATORE SENESE. Presidente, al termine di questa prima fase del nostro percorso possiamo rilevare come sul Comitato sistema delle garanzie si sia in qualche modo scaricato un paradosso relativo alla materia a noi affidata: una materia carica di domande di cambiamento, nella quale peraltro poche sono le modificazioni costituzionali che quelle domande impongono.
Per la verità, una parte dei nostri colleghi ha assunto quelle domande - e le esigenze ad esse sottostanti - a fondamento di proposte di radicale sovvertimento dell'assetto costituzionale della giustizia. Un'altra parte, alla quale mi annovero, ha ritenuto invece (e tutt'ora ritiene) che tale assetto, che ha il merito di aver dato al nostro paese una giustizia indipendente, debba essere confermato ed integrato con nuove disposizioni costituzionali che sviluppino l'ispirazione garantista della prima parte della Carta; i Commissari al cui novero mi ascrivo hanno ritenuto, inoltre, che alle domande di cambiamento che investono la nostra giustizia debba darsi risposta soprattutto a livello di legislazione ordinaria, essenzialmente lungo tre direttrici: innanzitutto, bonificando la nostra legislazione penale e processual-penale dalla curvatura «panpenalista», emergenziale ed inquisitoria che essa ha assunto negli ultimi anni; in secondo luogo, promuovendo una normativa ordinamentale e processuale più razionale di quella, in gran parte obsoleta, che oggi vige; in terzo luogo, adempiendo alla VII disposizione transitoria che prevedeva già nel 1948 l'emanazione di una nuova legge organica sull'ordinamento giudiziario, della quale siamo ancora in attesa.


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Nella situazione che ho appena descritto, vi era il forte pericolo che il Comitato svolgesse i suoi lavori instaurando una sorta di dialogo tra sordi. Invece - e spero di non ingannarmi - credo che un parziale, molto parziale, ma pur significativo terreno di incontro e di intesa sia stato trovato.
Invero, dopo una prima fase di distrazione, hanno trovato ascolto le nostre proposte intese ad inserire in questa parte della Costituzione disposizioni fortemente garantiste, idonee a costruire un garantismo effettivo, posto che il garantismo è innanzitutto un modello normativo di diritto e va costruito prima di tutto sul terreno della legislazione, come vincolo al legislatore ordinario e, attraverso di lui, ai magistrati, ai giudici, ai pubblici ministeri.
A questo riguardo mi riferisco alla proposta di riserva di codice per nuove norme penali che è stata alla fine accolta - mi pare - dalla quasi unanimità dei consensi e che oggi si trova nell'articolato che ci è stato sottoposto dal relatore: essa vale, assai più di tantissime misure organizzatorie, ad imbrigliare l'arbitrio del giudice, posto che questo arbitrio trova le sue radici più pericolose nella inefficacia dei vincoli attraverso i quali l'attività dei magistrati può essere in uno stato di diritto, regolata: i vincoli della legge.
Mi riferisco poi, ancora, alla proposta di costituzionalizzare alcune fondamentali disposizioni della Convenzione europea sui diritti umani, che pongono l'esigenza del contraddittorio nel processo penale, il diritto inviolabile, da parte di ciascun imputato, di interrogare e controinterrogare i testi, ed introducono introducono altre misure di questa natura come precise disposizioni costituzionali, atte ad impedire, per il futuro, che si verifichino derive inquisitorie come quelle che vi sono state, per esempio, con alcune sentenze della Corte costituzionale del 1992 e con la legislazione d'emergenza di quello stesso anno.
Mi riferisco, ancora, alla proposta di collegare l'esercizio dell'azione penale all'effettiva offensività del fatto reato.
Le prime due proposte - come dicevo - hanno trovato accoglienza pressoché unanime. La terza è ancora in discussione, ma io penso che, magari spostandone la collocazione - per così dire - o riformulandone anche le enunciazioni, essa possa concorrere con le altre due a stabilire quel quadro di solido garantismo idoneo ad implementare le risposte da dare alle tante domande che la questione giustizia oggi pone.
Naturalmente, vi sono ancora dei contrasti che ci dividono. Ed io non parlerò di tutti questi ma mi soffermerò, in modo particolare, sulle diverse opinioni che abbiamo a proposito del Consiglio superiore della magistratura. Su altri punti parleranno i colleghi del mio gruppo che mi seguiranno.
Ebbene, il Consiglio superiore della magistratura ha rappresentato un istituto assolutamente nuovo per la nostra storia costituzionale, nuovo - debbo dire - anche per la storia costituzionale europea: era stato preceduto, nel 1946, da un analogo istituto della Costituzione francese che, peraltro, non ha avuto un grande risultato. Nel momento in cui si pensa di modificare questo istituto, credo ci si debba far carico di un bilancio: come ha funzionato? E questo bilancio non può prescindere da quello che era il fine principale assegnato dal costituente al Consiglio superiore. Il fine principale era garantire, attraverso l'autonomia dei magistrati, l'indipendenza della magistratura e di ciascun magistrato. Credo che questo obiettivo sia stato complessivamente raggiunto.
Non so se i nostri lavori o le nostre vicende, al di là di questa Commissione, dell'impresa di riforma, avranno domani uno storico come Tocqueville, ma se lo avessero credo che questi potrebbe scrivere della nostra giustizia dagli anni sessanta ad oggi ciò che Tocqueville scriveva della giustizia dell'ancien régime: «la giustizia dell'antico regime era complicata, macchinosa, lenta e costosa; difetti gravissimi, certo, ma in essa non si ritrovava quel servilismo di fronte al potere, che non è che una forma di venalità; anzi, la

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peggiore». E tuttavia, nonostante questo riconoscimento di Tocqueville, noi sappiamo che la giustizia dell'antico regime fu spazzata via in una notte, con un tratto di penna.
Perché questo è avvenuto? Ci risponde un autore moderno: «chi ha fatto bruciare il dizionario filosofico? Chi ha condannato il cavaliere Della Barre ad aver tagliata la lingua, mozzato il capo e il corpo ridotto in cenere sotto l'accusa di gesti e parole antireligiose? Il Parlamento di Parigi. Chi condanna alla tortura e al supplizio della ruota l'infelice Jean Calas accusato, ingiustamente, dell'assassinio del figlio? Il Parlamento di Tolosa. Chi sostiene la procedura inquisitoria, terrorista, segreta, senza difensori, prescritta dalle ordinanze del 1539 e riattualizzata da quelle del 1670? I membri del Parlamento».
Tutti gli intellettuali come Voltaire, i filosofi, così come i giuristi moderni concordano nel denunciare le pratiche barbare delle quali i membri dei Parlamenti si onorarono di essere i custodi.
Ecco, io credo che queste considerazioni siano illuminanti anche per noi, perché, in realtà, non è possibile l'indipendenza dei magistrati senza un tessuto legale garantista. In una situazione di arbitrio normativo, noi vedremmo deperire l'indipendenza dei magistrati, vedremmo deperire l'istituzione e vedremmo deperire anche la società che questo tessuto sopporta.
Ecco perché, allora, noi dobbiamo sforzarci di bonificare il nostro tessuto normativo ma, al tempo stesso, di salvaguardare l'indipendenza della magistratura. E lo strumento che a tal fine la Costituzione ha previsto, il CSM, e che si è rivelato estremamente opportuno al riguardo, non giustifica le proposte di ritocco che adesso vengono avanzate.
Si addebita al Consiglio superiore una esorbitanza dalle sue funzioni ed una qualche indulgenza nell'esercizio della sua potestà di giudizio disciplinare. Ma se andiamo a leggere la relazione presentata al Presidente della Repubblica Cossiga dalla Commissione Paladin, formata da illustri costituzionalisti oltre che dal suo presidente, troveremo spiegato con grande chiarezza come quelle che noi oggi consideriamo esorbitanze furono un fatto di supplenza necessitato da un vuoto di disposizioni che imponeva, e ahimè ancora oggi impone al Consiglio, di operare in una sorta di assenza di regole, sicché lo stesso Consiglio è costretto, attraverso le circolari di cui gli si fa carico, a creare un minimo di tessuto normativo entro cui esercitare i propri poteri.
Si addebita una certa indulgenza (si è parlato di venature di indulgenza perdonistica). Su questo punto, non condivido l'analisi fatta ma mi basta che il problema sia stato sollevato per ritenere più che giustificato un intervento che valga, in qualche modo, a porre al riparo anche dal sospetto di simili indulgenze il funzionamento dell'organo e della giustizia disciplinare. E perciò noi abbiamo proposto ben due soluzioni: l'una, una composizione diversa della sezione disciplinare e la sua autonomizzazione dall'insieme dei compiti del Consiglio; l'altra la creazione di una sorta di corte disciplinare, anch'essa autonomizzata delle attività consuete, amministrative del Consiglio.
Questa seconda soluzione viene preferita dal relatore, ed invero anche noi la preferiamo. Ma allora, a questo punto, non c'è più ragione per modificare il rapporto e la composizione tra laici e togati cui avevamo acceduto nell'ipotesi che, attraverso la formazione paritaria di una sezione disciplinare, la presenza dei laici nel plenum del Consiglio incaricato delle attività amministrative venisse ad essere ridotta al di sotto del limite attuale. Non vi è nessuna ragione per questa modifica, che verrebbe intesa come una volontà di rivincita - per così dire - del tutto superficiale e non aiuterebbe quell'opera alla quale noi, insieme ai magistrati, siamo impegnati, un'opera di comprensione delle ragioni profonde dell'indipendenza e della sua finalizzazione alla garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini.
Osservo poi che, per quanto riguarda i compiti, le considerazioni che faceva il

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collega Marchetti paiono condivisibili, tanto quanto la elencazione rigida dei provvedimenti sembrerebbe inseguire l'idea che il Consiglio debba fare soltanto quei provvedimenti e non anche le attività strumentali ad esse preordinate, che sono proprie di ogni organo amministrativo che ha, insieme alla potestà di emanare provvedimenti su determinate materie, anche quella di predisporre le attività strumentali. In ogni modo, osservo che tra i compiti dovrebbe essere certamente indicata la formazione dei magistrati.
Noi pensiamo che sia venuto il momento di istituire nel nostro paese, come in tutti gli altri paesi, una scuola della magistratura che possa servire anche a valutare la professionalità dei magistrati. Chi gestirà questa scuola? Chi parteciperà a questa opera di formazione, se non prevediamo che la formazione dei magistrati rientra, a pari titolo, insieme alla valutazione, insieme ai trasferimenti, eccetera, tra i compiti del Consiglio? Quanto all'articolo 105-bis che disciplina la struttura del giudice disciplinare nei sensi che mi trovano d'accordo, osservo peraltro che c'è un quinto comma piuttosto bizzarro che prevede che di questo giudice faccia parte senza diritto di voto il ministro che, al tempo stesso, è anche accusatore. Ha un senso che il ministro partecipi, ovviamente senza diritto di voto, a tutte le riunioni del consiglio che opere come organo amministrativo; già oggi il ministro può dare il suo parere su qualsiasi attività ma, nel momento in cui definiamo un giudice nel cui ambito il ministro titolare dell'azione disciplinare si esprime portando l'accusa e difendendone le ragioni, non riesco a capire più questa previsione. Forse più che una bizzarria è un lapsus calami.
Concludo dunque dicendo che faremo un'opera meritoria se, al di là delle inevitabili insufficienze derivate da una transizione che non si è mai conclusa, legata al fatto che per cinquant'anni abbiamo dovuto governare la magistratura con norme che risalivano al 1942 e che in gran parte erano state caducate, riusciremo a salvaguardare le parti vitali di questa costruzione, se le aggiorneremo e le integreremo in modo che tutto possa servire all'obiettivo che oggi ci sta dinanzi.

TIZIANA PARENTI. Lascio da parte i ringraziamenti, che non sono scontati ma doverosi, per il grande impegno del relatore: credo che l'impegno debba sempre essere riconosciuto e apprezzato. Non so se mi devo riconoscere nella categoria degli eversori o dei sovversivi, ma questo mi preoccupa molto poco anche perché nei grandi momenti di trasformazione è chiaro che ci sono sempre reazionari e rivoluzionari, per quanto pacifici. Constatato che la magistratura di per sé è un potere fortemente conservatore per il fatto che deve conservare un determinato assetto dello Stato e determinati poteri, in particolare il proprio, può darsi che io sia dalla parte degli eversori. Ciò detto e con scarse o nulle preoccupazioni, direi che qui non dobbiamo parlare in termini di difensori della magistratura o del Parlamento, ma dobbiamo capire quali sono gli assetti di potere che andiamo costruendo nella Costituzione.
Vorrei partire da quanto di positivo, apprezzabile e condiviso - in quanto contenuto in entrambe le colonne - è stato scritto in questo articolato. Accanto alla sottolineatura che certi principi sono altamente positivi e condivisibili, osserverò poi come non si danno gli strumenti e le norme per attuarli.
Il primo principio altamente condivisibile è quello secondo il quale il procedimento si svolge in condizioni di parità nel contraddittorio fra le parti secondo un principio di oralità e di fronte ad un giudice imparziale. Principi altrettanto apprezzabili sono quelli contenuti nell'articolo 107, nel quale si stabilisce che il giudice e il magistrato del pubblico ministero si comportano secondo responsabilità, correttezza e riservatezza, il che non è poco. All'inizio ero piuttosto perplessa sull' opportunità di introdurre i principi della correttezza e della riservatezza, ma credo che anche i principi deontologici abbiano una valenza laddove si collega al principio di responsabilità.


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Altamente apprezzabile è anche l'incompatibilità della funzione giudiziaria - nel senso più ampio - con qualsiasi altro incarico, ufficio o professione, compreso anche il mandato parlamentare. Perché sia assicurata effettivamente la separazione di poteri, occorre impedire che vengano ricoperti incarichi diversi che annullano le garanzie di indipendenza. Analogamente è apprezzabile il fatto che l'articolo 111 contenga un comma piuttosto lungo - che però forse deve essere scritto proprio così - che stabilisce che il contraddittorio sia garantito mediante un interrogatorio diretto di colui che accusa, che ci sia la facoltà di interrogare, che si sancisca ancora meglio la parità fra accusa e difesa e anche, naturalmente, il gratuito patrocinio per coloro che non possono permettersi i costi della nostra giustizia. È apprezzabile anche aver scritto che le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico estensivo.
Se questi principi fondamentali fossero stati già scritti nella Costituzione, avrebbero sicuramente evitato dei processi defatiganti per l'andamento della giustizia ma, soprattutto, avrebbero evitato dei mostri di fattispecie penali che sono stati costruiti dalla giurisprudenza o costruiti in periodi emergenziali.
Apprezzati questi elementi positivi, bisogna vedere come evitare che essi siano mere petizioni di principio e restino sulla carta, come è probabile che avvenga dato che ripartendo dall'articolo 101 nella prima colonna troviamo un principio obiettivamente incomprensibile. Non si capisce cioè perché si debba cambiare la Costituzione quando va bene. Il testo attuale dice che i giudici sono soggetti soltanto alla legge e questo principio fa da corollario all'articolo 25 che prevede il giudice naturale precostituito per legge, il quale com'è ovvio, deve avere come punto di riferimento unicamente la legge, oltre alla propria coscienza. Poiché la coscienza non può essere richiamata nella Costituzione, deve essere soggetto solo alla legge. Questo serve ad evitare che possa esserci un principio di gerarchia o di omogeneità nell'ambito dei diversi collegi, tribunali o uffici dei giudici per le udienze preliminari, perché l'unica possibilità di soggezione per un giudice è la legge.
Lo stesso non può valere per il pubblico ministero per il semplice fatto che, è vero che esiste un principio di legalità a cui si debbono attenere giudici e pubblici ministeri, ma questo non può significare la stessa cosa che significa per il giudice, cioè l'imparzialità. Il pubblico ministero non è tenuto ad essere imparziale e lo ha detto anche in una recente sentenza alla Corte costituzionale nella quale ha affermato addirittura che la presunzione di innocenza è uno status dell'indagato, non è un problema del pubblico ministero, il quale non ha l'obbligo di ritenerlo presuntivamente innocente. Poiché nel pubblico ministero manca il principio della terzietà, né può essere diversamente visto che deve coordinare determinate forze per arrivare ad una conclusione che ritiene probabile o comunque prospettabile, è evidente che per rendere efficiente la sua azione il magistrato del pubblico ministero deve coordinare e al tempo stesso essere coordinato.
Se stabiliamo che è soggetto solo alla legge e poi aggiungiamo che le norme sull'ordinamento giudiziario assicurano il coordinamento diciamo due cose contrastanti che si annullano a vicenda, garantendo soltanto la prima, cioè la polverizzazione degli uffici del pubblico ministero. Ci sarà quindi qualcuno che perseguirà un certo reato nei confronti di una persona perché lo riterrà tale, mentre ci sarà qualcun altro che ne farà totalmente a meno perché la sua prospettazione potrà seguire le strade che riterrà più opportune.
Proprio perché nello stesso articolo si parla di parità delle parti non possiamo conseguirla laddove si mantenga inalterato il primo periodo, perché le parti presuppongono una situazione di non imparzialità e quindi di non soggezione solo alla legge. Allo stesso modo, il giudice imparziale di cui all'articolo 101 contrasta con la figura di imparzialità del pubblico ministero che inopinatamente costruiamo,

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quando sappiamo che per sua stessa natura questa figura non può e neppure deve essere imparziale.
Riscontriamo ancora di più l'esistenza dei principi che vengono resi inapplicabili da un lato nell'eccessivo ampliamento dello status del pubblico ministero, cui corrisponde, dall'altro, una riduzione di quello del giudice. All'articolo 107 si stabilisce addirittura che anche i giudici - e non solo i pubblici ministeri - possono essere trasferiti con le garanzie del contraddittorio.
Ora, non vi è chi non veda la pericolosità di questo principio. Non si capisce in che cosa consista la garanzia del contraddittorio; ciò che resta è comunque che il giudice non è più inamovibile, ossia può essere trasferito - ovviamente con il suo accordo eventuale - innescando così il principio della precostituzione dei collegi. Facciamo sì, in questo modo, che in quel determinato tribunale, collegio o processo, che duri sei mesi, un anno o due, i giudici siano già stati trasferiti al momento opportuno.
Se vogliamo mantenere armonica la prima parte della Costituzione, la quale all'articolo 25 sancisce il principio del giudice naturale, non possiamo inserire nell'articolo 107 il principio per cui i giudici sono trasferibili previo loro consenso, su richiesta del Consiglio superiore. Naturalmente, i giudici possono essere trasferiti quando vogliono, purché non siano richiesti da nessuno ed in modo che non ci sia un tribunale o un luogo nel quale si chieda di andare. Ciò può avvenire per il pubblico ministero, il cui ruolo è quello di funzionario rappresentante dello Stato, ma non per il giudice, il quale non è il rappresentante dello Stato ma colui che garantisce l'applicazione della legge secondo un principio di uguaglianza per tutti, in quanto rappresenta solo la legge alla quale è soggetto.
Vediamo quindi che principi che sembravano essere più forti, dopo aver esaminato la struttura dell'articolato risultano addirittura indebolenti la struttura attuale, perché si va a ledere proprio quei principi su cui è nata la civiltà giuridica: il giudice naturale precostituito per legge, la sua inamovibilità, la non precostituzione dei collegi, l'imparzialità del giudice e non quella del pubblico ministero sono stati i cardini fondamentali di una civiltà giuridica che in questo modo disarticoliamo totalmente.
Si tenga inoltre conto che introduciamo addirittura i giudici speciali. Se la nostra Costituzione, ben a ragione, nelle sue disposizioni transitorie, aveva previsto l'eliminazione di quelli che restavano, è contraddittorio reintrodurre la figura del giudice speciale. Ora, non vi è chi non veda che o il giudice speciale esercita un tipo di giurisdizione senza garanzie di indipendenza, di imparzialità e di terzietà, oppure non si capisce secondo quali parametri debba decidere, se secondo legalità o secondo equità. Non c'è bisogno allora che siano giudici speciali, tanto più che abbiamo previsto i giudizi di equità.
Vorrei veramente dissuadere dall'introduzione del principio del giudice speciale. Non si capisce perché in materia tributaria oppure anche in altre materie determinate dovrebbe esistere siffatto giudice, dato che i criteri di costituzione dello stesso resteranno ignoti fino all'ultimo e certamente non garantiranno i cittadini circa l'imparzialità della pronuncia più di quanto non accada oggi.
Come corollario di questo status del giudice e del pubblico ministero, noi parliamo impropriamente di separazione delle carriere; dovremmo parlare di separazione di ruoli, cioè di poteri, nell'ambito dello Stato, visto che il pubblico ministero rappresenta lo ius puniendi dello Stato, mentre il giudice rappresenta la legge nel momento in cui deve essere applicata al caso concreto. Mentre il pubblico ministero non ha la possibilità di spaziare su tutto il perseguibile umano, il giudice ha l'obbligo di giudicare solo sul fatto che gli viene sottoposto.
Si lascia quindi irrisolto il grande problema che attiene alla separazione dei poteri. Che cosa vogliamo? Un giudice o un pubblico ministero che sono la stessa cosa, come avviene in tutti i paesi autoritari? Tutti i regimi autoritari vogliono

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che l'inquirente ed il giudice siano la stessa persona; solo nei paesi a democrazia liberale tutto questo non esiste. Il che non significa che la nostra storia e la nostra maturità ci consentano di prevedere per il pubblico ministero uno status completamente diverso rispetto al giudice; pertanto gli riconosciamo le stesse garanzie di autonomia e di indipendenza, con un Consiglio superiore a parte. Ma non possiamo neanche lasciare irrisolto - ora che ci accingiamo a ridefinire i poteri dello Stato - questo nodo che caratterizza uno Stato autoritario, cioè il fatto che giudice e pubblico ministero siano la medesima persona, per cui inevitabilmente sarà il giudice a soccombere di fronte all'attività inquisitoria del pubblico ministero.
Occorre quindi risolvere questo nodo; può aiutarci a farlo la separazione dei Consigli superiori. Noi abbiamo un pubblico ministero che rappresenta l'autorità punitiva dello Stato e un Consiglio superiore proprio che gli garantisce indipendenza ed autonomia, in modo da liberare finalmente l'organo giudicante - che ha l'obbligo della giurisdizione, della terzietà e dell'imparzialità - e quindi risolvendo il problema dell'assetto dei poteri.
Non per essere ripetitiva o per innamoramento verso le mie idee, ma voglio ribadire che non abbiamo neanche risolto la questione dell'obbligatorietà o meno dell'azione penale. Apprezzo lo sforzo del relatore ma non posso condividere la soluzione che egli ha proposto. Si dice che la legge dovrebbe stabilire le misure idonee ad assicurare l'effettivo esercizio dell'azione penale: questo obiettivamente non significa molto. Si introducono due principi un po' particolari: la non offensività del fatto e la mancanza dell'interesse pubblico.
Per carenza di tempo non posso soffermarmi sull'argomento, ma si tratta di cose completamente diverse, che attengono comunque alla discrezionalità tecnica, non a quella politica. Uso un termine che mi farà annoverare ancora di più tra gli eversori, ma nessuno nei paesi di civil law o di common law ha mai trovato una soluzione al problema della obbligatorietà o discrezionalità dell'azione penale; non saremo quindi certo noi a proporre una formula risolutiva. Dobbiamo però stabilire un criterio tra esercizio dell'azione penale e responsabilità e lo possiamo porre solamente laddove ci siano principi che siano chiari o per lo meno cerchino di esserlo. Allora, se non abbiamo un criterio trasparente che provenga non dall'esecutivo ma dal Parlamento, scelte di politica criminale attinenti ad una valutazione di priorità e di proporzionalità (ossia quanti mezzi possiamo destinare, per quanti e quali fini), se annulliamo questo, annulliamo anche la concezione secondo cui la politica criminale non è solamente quella repressiva, ma riguarda anche quanti e quali mezzi vogliamo porre nell'attività di prevenzione, di rieducazione, che pure è oggetto di un principio costituzionale.
Se non armonizziamo e non creiamo un organo - che in realtà già esiste, il Parlamento - responsabile di un settore di politica pubblica quale quello che stiamo esaminando, ossia della politica penale e criminale nel senso più ampio, lasciamo insoluto un nodo fondamentale, rispetto al quale certamente non esiste una formula magica di soluzione, ma che comunque apre la strada a tutta una serie di soluzioni, che in qualche modo vogliano armonizzare una politica repressiva ad una politica di ampio respiro che riguardi, come ho detto, la prevenzione e la rieducazione.
Vi sono altri problemi che non posso affrontare avendo esaurito il tempo a mia disposizione, non ultimo quello del ministro di grazia e giustizia, al quale inevitabilmente vanno riconosciuti alcuni poteri. Credo tuttavia vi sia la necessità - quasi una sorta di statuto di garanzia delle opposizioni - di non avere un ministro di grazia e giustizia che si irriti solo se si parla male di casa sua, come è avvenuto nell'ultimo caso di promuovimento dell'azione disciplinare; occorre un organo sussidiario, che intervenga anche nei casi in cui il ministro, facendo parte di una maggioranza, potrebbe avere validi

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motivi per non essere totalmente imparziale. Tale organismo, naturalmente garantito e controllato nella sua indipendenza, svolgerebbe in qualche modo un'azione sussidiaria nei confronti del ministro; questo proprio per riequilibrare i poteri, per non creare una squilibrio tra maggioranza ed opposizione. È quindi necessario che nell'azione penale, nei criteri che comunque devono essere fissati per garantire il principio di indipendenza ma anche di responsabilità, questi poteri si bilancino, senza spaventare nessuno. Non si vogliono realizzare aberranti rivoluzioni con visioni apocalittiche; credo tuttavia che nessuno in questo momento storico possa negare che la grande confusione tra poteri che si è creata mina la democrazia e, soprattutto, la magistratura e le istituzioni democratiche di questo paese.

ORTENSIO ZECCHINO. Anch'io voglio sottolineare la positività del fatto che il dibattito sui temi della giustizia è giunto ad un grado di maturazione e di condivisione certamente più alto di quello raggiunto su altri temi. Credo che di questo dobbiamo dare atto, come merito, al lavoro instancabile e puntuale del relatore e alla saggia regia del presidente Urbani.
È inevitabile, intervenendo in questa fase del dibattito, che ciascuno di noi, avendo ormai una traccia abbastanza compiuta e completa, finisca per comparare le proposte attualmente sul tappeto con le cose che sono state prospettate da ciascuno. Devo dire che da questa comparazione implicita deriva un grado di soddisfazione molto elevato da parte dei popolari perché c'è una rispondenza ampia tra le cose prospettate e quelle contenute in questa bozza.
Il lavoro che abbiamo svolto ha fatto giustizia anche della polemica iniziale, quella relativa all'opportunità di ridiscutere l'assetto costituzionale anche in materia di giustizia. Avevamo allora e conserviamo ancora oggi il convincimento che molto in materia di giustizia vada fatto a livello di legislazione ordinaria; che lo stesso dettato costituzionale attuale sia stato, per così dire, forzato dalla legge ordinaria e da prassi di vario tipo; che sarebbe in gran parte sforzo vano quello che stiamo facendo se non vi fosse una ricaduta e un adeguamento puntuale della legislazione ordinaria.
Detto questo, non possiamo tuttavia non ribadire l'indispensabilità di un aggiornamento e di una revisione costituzionale anche in materia di giustizia. Questo dato è confortato dal grado di condivisione che mi sembra, tutto sommato, raggiunto sui vari temi.
Per non appesantire il testo costituzionale, che va mantenuto il più agile possibile, come abbiamo detto tutti, credo vada attuata l'ipotesi, che è stata avanzata, di accompagnare il testo definitivo che licenzieremo - speriamo di giungervi nella positività complessiva - ad un documento di orientamento per il legislatore ordinario sulle questioni che noi rinviamo a quest'ultimo, senza offrire nel testo costituzionale criteri definiti. Indicherò nel corso di questo mio intervento le due o tre sollecitazioni che dobbiamo rivolgere al legislatore perché venga fuori un sistema coerente e compiuto nell'integrazione tra norme costituzionali e norme ordinarie.
Detto ciò, posso limitarmi all'enunciazione degli obiettivi che ci eravamo prefissati, che sembrano in gran parte conseguiti già allo stato attuale del dibattito e che potranno essere oggetto da parte nostra di proposte emendative migliorative. Intenderò soffermarmi soprattutto sulle poche questioni che non hanno trovato accoglimento nella bozza Boato e che noi intendiamo fare oggetto di proposte emendative innovative.
Per essere schematico e rapido, posso dire che abbiamo conseguito cinque grandi obiettivi (naturalmente gli accorpamenti, come in tutti gli schemi, si possono fare in modo vario).
Siamo riusciti - io credo - nelle proposte che abbiamo sul tappeto ad esaltare anzitutto la terzietà del giudice, che mi sembra un fatto di grande importanza, un punto centrale del dibattito.


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Abbiamo introdotto due meccanismi di grande rilievo: relativamente alla giustizia amministrativa, la separazione tra funzione giurisdizionale e funzione consultiva (mi sembra un dato di grande importanza); rispetto all'attività della magistratura ordinaria, una più marcata separazione tra i due ruoli - eliminando probabilmente con una certa maggiore proprietà tecnica il riferimento alla carriera e alle funzioni, che, come si sostiene giustamente, già sono separate - del pubblico ministero e del giudice.
Il meccanismo complessivo è un ritorno all'antico; in questo dibattito che sembra tanto nuovo, in realtà ritorniamo in modo non molto difforme alla normativa contenuta negli attuali articoli 190 e 191 dell'ordinamento giudiziario, che però il Consiglio superiore della magistratura ha ritenuto essere abrogati a seguito della legge del 1951. È questo - lo vorrei dire al collega Senese - uno dei tanti interventi fatti in funzione della supplenza, dell'invadenza, attuati certamente in una condizione di travalicamento delle funzioni del CSM. Non mi soffermerò su questo aspetto; ho già avuto modo in tante occasioni di individuare punti specifici, questo è uno di quelli. Vorrei ricordare - l'ho evidenziato nel Comitato - il giudizio di un giurista che non è un bieco reazionario, Vladimiro Zagrebelsky, il quale ha considerato questa interpretazione del Consiglio superiore della magistratura fortemente arbitraria nel merito e nello stesso fatto di avervi posto mano. Noi creiamo, come è giusto, una netta separazione tra i ruoli del pubblico ministero e del giudice.
Ripristiniamo poi - secondo punto - l'unitarietà del pubblico ministero. È un punto di grande importanza, perché (mi riferisco anche alle osservazioni espresse dalla collega Parenti) c'è una diversità; sotto l'esigenza di legalità, che deve ricomprendere la funzione del giudice e del pubblico ministero, certamente esiste una diversità profonda, che è proprio nella struttura del pubblico ministero. La funzione solitaria, di responsabilità personale, non può infatti che appartenere al giudice e solo ad esso; il pubblico ministero è un ufficio, è una funzione legata ad un ufficio, che non può non conoscere un momento di coordinamento e di unitarietà: unitarietà all'interno dell'ufficio, ma, relatore Boato, io insisterei anche sul coordinamento tra gli uffici, che mi sembra in qualche modo non adeguatamente o per nulla sottolineato...

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Infatti nel testo è scritto «degli uffici».

ORTENSIO ZECCHINO. Noi ne abbiamo parlato, non mi pare che la formulazione ma l'importante è essere d'accordo; si tratta poi di proposte, emendamenti migliorativi. L'importante è che noi abbiamo conseguito ciò, senza ripetere le ragioni di una querelle ormai un po' stantia, anche qui rimediando ad un intervento del Consiglio superiore che aveva diversamente riformulato e riorganizzato la funzione del pubblico ministero, in contrasto con la sua ontologica essenza. Questo mi pare un altro passaggio di grande importanza.
Il terzo punto rilevante, il terzo obiettivo è il rafforzamento e l'esplicitazione delle garanzie, potremmo dire delle garanzie del giusto processo. Si tratta di un punto importante, uno dei pochi che ci rinviano inevitabilmente alla legislazione ordinaria. Faremmo opera vana se enunciassimo soltanto i principi del giusto processo senza poi trovare il modo per riscontrarne l'effettività nella vita del processo, il quale - sappiamo tutti -, tra rimaneggiamenti ed impostazioni in qualche modo contraddittorie, vive una sua vita che non è sempre ispirata ai principi di garantismo. Occorre questa sollecitazione al legislatore ordinario. Mi auguro che la Camera approvi la modifica, varata dal Senato, dell'articolo 513 del codice di procedura penale come un intervento molto significativo per rimuovere dal processo una delle più vistose anomalie e forzature ai principi che noi andiamo qui conclamando, affermando e potenziando, se così posso dire.


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Naturalmente un principio al quale tutti con grande condivisione abbiamo fatto riferimento è quello dell'autonomia e dell'indipendenza. Il quarto punto è appunto quello della preservazione dell'autonomia e dell'indipendenza dei magistrati, però con una più rigorosa definizione dei limiti di tale autonomia; e qui il tema ci riporta al discorso del CSM. In due articoli, il 105 ed il 108, è stato introdotto l'avverbio «esclusivamente». Tale avverbio nell'articolo 105 si riferisce ai poteri del CSM, che sono quelli relativi alle assunzioni, alle assegnazioni, ai trasferimenti ed alle promozioni. L'articolo 105 innova introducendo questo avverbio e stabilendo che sono esclusivamente questi i poteri del CSM, sottolineando un travalicamento che c'è stato: storicamente poi valuteremo le ragioni della supplenza, l'opportunità, ma la nostra ragione d'essere, qui, come Commissione bicamerale che si occupa della giustizia, è anche quella di ritenere conclusa una fase di rapporti in qualche modo evanescenti.
Un'altra norma che incide nella definizione dei limiti di questa autonomia, nel senso di non travalicamento, è quella dell'articolo 107, che impone le dimissioni in caso di elezione. Il discorso non è di delimitazione di confini tra queste due attività; si lega alla necessità, rispetto all'invadenza mass-mediatica (usiamo questa espressione per capirci con grande rapidità), di arginare un fenomeno che è grave nel nostro paese, ma che lo è un po' in tutte le democrazie. Un mese fa il Senato ha avuto un incontro negli Stati Uniti su questi temi e finanche lì, dove le funzioni hanno tra l'altro una comune derivazione dalla sovranità, esiste questa forte preoccupazione della più grande facilità di conquista della popolarità da parte dei titolari della funzione giudiziaria rispetto alla funzione politica, con grande pericolo di compressione degli spazi di quest'ultima. Questo problema esiste anche in Inghilterra, immaginiamoci se non vi sia anche da noi.
Il quinto obiettivo (procedo con questa schematizzazione, che logicamente ha i suoi limiti e le sue approssimazioni) lo individuerei nel miglioramento del sistema dei contrappesi e nell'introduzione di meccanismi capaci di rendere più effettivo il principio di responsabilità. Responsabilità che non può e non deve essere una responsabilità politica, anche se ampi sono gli spazi, i margini di discrezionalità, soprattutto del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale; ma questo è tema che non può e non deve essere introdotto perché non ha possibilità di soluzione, nel senso che l'autonomia non può comportare valutazione e controllo politico sull'esercizio anche di poteri discrezionali. Né questa responsabilità può essere soltanto la responsabilità penale: è una patologia troppo vistosa, che non può assorbire tutte le deviazioni che possono esistere e che esistono vistosamente nell'attività dei magistrati. Non resta che la responsabilità disciplinare come momento unico e vero che, senza intaccare il principio di autonomia, costituisca un momento di verifica e di controllo. Credo che questo aspetto vada potenziato, ed è potenziato e rivisitato in modo opportuno.
Quando si parla di questo, sembra che si voglia caricare la funzione dei giudici di un controllo in più. Ma sono tante le manifestazioni di perplessità su come il sistema ha funzionato; basta ricordare l'espressione icastica del procuratore generale, che ha fatto riferimento al perdonismo corporativo, per dire che questa valutazione non è propriamente dei nemici (lo dico tra virgolette) dell'autonomia dei giudici.
Su questo tema abbiamo raggiunto dei punti fermi importanti. Quali sono? Lo dico con soddisfazione: l'accettazione della proposta, avanzata inizialmente proprio dai popolari, di costituzionalizzare l'organo di giudizio sugli illeciti disciplinari. Questo mi pare un fatto importante. Poi c'è stato un altro dato di grande rilievo: nella proposta che abbiamo sul tappeto passiamo dalla discrezionalità all'obbligatorietà dell'azione disciplinare. Questo ci pone però un problema rispetto al legislatore ordinario: dobbiamo spingere, sollecitare il legislatore ordinario alla tipizzazione degli illeciti disciplinari

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come conseguenza inevitabile; naturalmente una tipizzazione a maglie larghe, comprendendo che l'illecito disciplinare non può che essere per individuazioni più larghe di quelle individuali per le fattispecie penali, ma occorre questa tipizzazione. Questo è l'altro forte suggerimento che dobbiamo rivolgere al legislatore ordinario.
Esiste poi la terza scelta, cioè la fine della deresponsabilizzante contitolarità dell'azione disciplinare tra procuratore generale e ministro. Vi è infatti l'ipotesi di caricare di questa funzione il ministro, con possibilità di titolari in via sussidiaria. Auspico che in ordine a questo sistema, che già ha la sua positività, si introducano delle innovazioni.
Intanto, diciamo naturalmente «sì» a questo tribunale o a questa corte indipendente, ma si pone davvero il problema della sua composizione: non può che essere almeno paritetica dal punto di vista delle componenti, o forse - meglio - potrebbe essere composta anche di tutti magistrati, purché cessati dalle funzioni, eletti dal Parlamento. In sostanza, una formula che non faccia prevalere la spinta corporativa, che non deve esistere ma che non deve neppure apparire come esistente.
Concordo con il collega Senese sul fatto che non ha senso ipotizzare la presenza del ministro nel tribunale o nella corte di disciplina - mi pare una svista, un fatto che non si lega al sistema -, ma l'innovazione che vorrei riproporre (ho già vanamente avanzato questa proposta in sede di Comitato) è quella dell'individuazione di un organo ad hoc come titolare dell'azione disciplinare. Perché questa proposta? Intanto, perché mi sembra uno sviluppo coerente delle cose che abbiamo detto: il fatto di aver spostato l'impianto dalla discrezionalità all'obbligatorietà dell'azione penale mi pare significhi che il titolare non possa che essere un'autorità indipendente, correlata nella sua stessa composizione proprio ad un'esigenza di legalità. Non mi pare che il ministro nella sua legittimazione particolare, nel suo essere espressione di una maggioranza, possa garantire tutto ciò.
Vi è poi una seconda ragione, sottolineata qui, per ragioni diverse, dal procuratore generale della Cassazione: quest'ultimo ci ha invitato a riflettere bene sull'eliminazione della titolarità in capo al procuratore generale, perché - ha detto - è il più penetrante conoscitore delle vicende interne e quindi il più potenzialmente attivo nell'esercizio dell'azione disciplinare, e perché rischiamo di sguarnire la funzione, lasciandola solo al ministro, che è indaffarato in mille altre cose. Credo che questa sia una considerazione giusta, che può indurci ad esaltare questa funzione importante ma in testa ad un organo che abbia nell'esercizio dell'azione disciplinare la sua sola ragion d'essere.
Il riferimento ad un organo, ad un'authority, non è originale; nulla si inventa in materia. Infatti, nei lavori della Costituente ci sono precedenti anche in questo senso (modalità di elezione, designazione); naturalmente dovrebbe trattarsi di posizioni garantite da un'altissima qualificazione soggettiva, come avviene per esempio per i giudici della Corte costituzionale. Le modalità potranno appartenere e apparterranno, per quanto ci riguarda, ad una proposta più puntuale; io individuo qui le ragioni politiche della scelta che facciamo.
Vi sono poi due ragioni tecniche: in primo luogo, occorre risolvere la questione della partecipazione presso il giudice disciplinare. Chi va a fare il pubblico ministero? Il ministro? Bisogna allora trovare un meccanismo sostitutivo. In secondo luogo, vi è il problema dell'attività ispettiva, oggi incardinata presso il ministro, che è stata sempre una zona d'ombra che ha influito molto negativamente; siamo reduci, su questo tema, da vicende aspre e complesse, quindi sappiamo che si tratta di uno dei punti più complicati, che probabilmente ha inciso negativamente sull'efficienza di questo potere in capo al ministro. Allora, risolveremmo il problema politico di un bilanciamento e di un'effettività di funzione rispetto a questa responsabilità, che è

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l'unica della quale noi possiamo caricare la magistratura, risolvendo insieme questi problemi tecnici.
Mi fermo qui, ma naturalmente in sede di discussione degli emendamenti speriamo di essere più analitici e più organici.

GIULIO MACERATINI. Signor presidente, colleghi, mi domandavo se il nostro lavoro in ordine al documento che ci ha presentato oggi il relatore Boato si sia o meno semplificato, perché è in noi presente la consapevolezza che di qui a qualche giorno dovremo cominciare ad esprimere le nostre volontà su queste opzioni. È vero che l'amico Boato ci ha detto di preferire l'ipotesi n. 1, ma non sempre vi è un'ipotesi n. 1, qualche volta vi è solo un'ipotesi di modifica, che al momento non mi pare abbia alternative. È un'ipotesi di modifica, e questo lo chiarirà il collega Boato, che riflette - immagino - la sua preferenza rispetto all'attuale testo. In ordine ad alcune scelte alle quali il Comitato si è trovato di fronte io mi sono spesso domandato se non fosse il caso, in taluni esempi specifici, di lasciare le cose inalterate piuttosto che cambiare rispetto ad un futuro che si presentava, su quel versante particolare, incerto.
Non è escluso nemmeno che multa renascentur, quae iam cecidere, perché potremmo trovarci di fronte a delle contrapposizioni in Commissione che renderanno più saggio proporre di lasciare la vecchia norma costituzionale piuttosto che divaricare le forze parlamentari. In fondo, bene o male, il legislatore ordinario ha compiuto il suo dovere, e qualche volta - o più spesso - non lo ha fatto, ma il testo costituzionale è ancora lì a garantire certe cose. Ma queste sono considerazioni di carattere generale, che speriamo di superare. Sicuramente l'impegno di tutti è in questa direzione, ma non è detto che poi si realizzi; possiamo comunque affermare con certezza che vogliamo giungere ad una conclusione: i temi di fronte a noi sono diminuiti sicuramente nel numero, soprattutto per merito del relatore e di tutto il Comitato, ma il loro spessore è aumentato perché alcuni problemi non mi sembrano risolti. Credo quindi che arriveremo alla conta sugli emendamenti che le varie articolazioni presenti in Commissione proporranno al voto.
Innanzitutto, e qui c'è forse una tendenza a sottovalutare il tema, non abbiamo avuto il tempo di approfondire come era necessario la funzione della giustizia amministrativa e di quella contabile rispetto alla giustizia ordinaria, che l'ha fatta un po' da padrone nei nostri lavori; ciò perché lo stesso Comitato era composto più da operatori nel settore della giustizia ordinaria che in quella amministrativa o contabile e perché sui temi della giustizia ordinaria maggiore era stato il dibattito culturale, quindi il confronto di tesi, per cercare di uscire da una crisi che è indubbiamente sotto i nostri occhi. Ciò non toglie che abbiamo di fronte una soluzione dubbia circa l'utilizzo di una procura della Repubblica presso il giudice amministrativo e non si capisce perché si debba crearla ex novo dal momento che esiste una procura della Repubblica presso la Corte dei conti, da utilizzare allo scopo senza dilaniare l'attuale tessuto della giustizia amministrativa e contabile.
Mi spiego: se lasciassimo alla Corte dei conti il controllo, forse sarebbe saggio conservare alla stessa Corte l'azione penale davanti al giudice amministrativo o a quello ordinario affinché siano integri alcuni referenti del passato, che costituiscono un corpo di magistrati competenti in materia. Invece, secondo l'attuale testo, si procederebbe alla creazione di una nuova figura di pubblico ministero davanti al giudice amministrativo. Un tema questo sul quale sviluppare una maggiore riflessione e poi, con la presentazione di un emendamento, riconoscere che se la Corte dei conti non deve più esercitare la funzione giurisdizionale, ha certamente - anche per le funzioni di controllo affidatele - la capacità di fungere da stimolo per l'azione penale o amministrativa, in cui il giudizio sia lasciato al giudice ordinario o amministrativo. Tutto ciò,


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esistendo già un corpo di magistrati che ha acquisito una particolare competenza in materia.
Senza un sufficiente approfondimento, a mio giudizio, si prevede l'abolizione della magistratura penale per il tempo di pace. Sappiamo di essere coperti da quanto ha ricordato il relatore quando ha detto che «la quasi unanimità della Commissione respinge tale ipotesi». Onorevole relatore, mi lasci in quel «quasi» che conforta la mia coscienza, consapevoli che la legge dei numeri ha la precedenza assoluta e ad essa democraticamente ci arrendiamo. Credo che questo aspetto sia stato poco esaminato e poco approfondito e, forse, chissà che domani non ci pentiremo, perché si tratta di uno strumento che, in luogo di quanto affermato, tranquillizza la vita delle strutture militari in tempo di pace e che, diversamente, potrebbe portare quelle stesse strutture ad essere oggetto di interesse quotidiano nelle aule di giustizia, dove per mille ragioni - ovviamente estranee alla Bicamerale - l'attuazione della giustizia incontra moltissime difficoltà.
Siamo ancora in una fase interlocutoria, anche se si inizia a rassegnare le conclusioni - come si dice nei giudizi -, consapevoli che tra il momento in cui si rassegnano le conclusioni e quello in cui la causa arriva alla decisione, il momento cioè in cui si decide concretamente la strada da imboccare, c'è sempre molta distanza: nelle aule di giustizia, addirittura, vi è una distanza di anni, mentre qui per fortuna i termini costituzionali ci impongono di concludere entro il 30 giugno.
Non abbiamo ancora completato l'iter, ma si è compiuto uno sforzo e di questo occorre dare atto al relatore, al presidente ed all'intero Comitato. Il ruolo del pubblico ministero è intrinsecamente, ontologicamente diverso da quello del giudice e non può essere affrontato con le soluzioni, sia pur coraggiose, delineate nelle ipotesi al nostro vaglio. Prima di questo, ritengo che un'attenzione particolare vada prestata alla organizzazione del pubblico ministero.
Ho capito lo sforzo che, nell'ipotesi numero due, ha cercato di compiere il relatore con l'individuazione di una struttura del pubblico ministero caratterizzata da un coordinamento interno ed esterno con gli altri uffici, ma non è sufficiente; così com'è la formulazione della norma sembrerebbe contrapporre un ufficio che si coordina al suo interno, ma che ha un rapporto estremamente labile verso l'esterno ed insisto nel ribadire il principio della parità tra tutti i cittadini - il cardine della nostra Costituzione, rappresentato dall'articolo 3 - che impone che l'opera, l'azione, l'indirizzo e l'orientamento di tutte le procure della Repubblica sia unitario. Diversamente anche e soprattutto in una materia come la giustizia, che non consente differenze né distrazioni sul principio della parità dei cittadini, si produrrebbero disfunzioni inaccettabili.
Da questo punto di vista credo che si debba fare uno sforzo in più e dire che il coordinamento non è soltanto all'interno dell'ufficio, altrimenti avremo 156 o 158 uffici, quante sono le procure, autentiche monadi che spargono ed applicano la propria giustizia inquisitoria secondo valutazioni che nessuno è in grado di controllare.
Dobbiamo assicurare l'unità di indirizzo tra tutti gli uffici del pubblico ministero, perché serve a garantire la parità di trattamento tra i cittadini. Non si garantisce - in argomento la collega Parenti è più volte intervenuta e anch'io mi sento di spendere qualche parola - la parità tra tutti i cittadini se esiste un pubblico ministero che sia sospettato di esercitare l'azione penale o di individuare i possibili colpevoli secondo il proprio arbitrio o un criterio che non sia quello applicato sull'intero territorio della Repubblica. Ecco perché il coordinamento del pubblico ministero non è una norma liberticida dell'indipendenza e dell'autonomia dello stesso pubblico ministero, al contrario serve ad assicurare a tutti i cittadini lo stesso trattamento.
L'obbligatorietà dell'azione penale di cui tanto si è discusso, e lo ha fatto poc'anzi egregiamente anche il collega

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Zecchino, si collega alla funzione del pubblico ministero. L'azione penale è sicuramente obbligatoria, ma se non abbiamo garanzie circa l'effettiva obbligatorietà - e comunque essa si sostanzia di unità di indirizzo e di criterio applicativo e interpretativo delle norme - non avremo la sicurezza delle ricadute concrete che rappresentano la garanzia di quella parità, che è uno degli elementi sui quali si fonda il nostro ordinamento democratico.
Starei attento a scrivere che le authority possono essere create, astrazion facendo, dal principio del doppio grado di giudizio, perché ciò può creare ricadute, in termini periferici, rispetto alla struttura centrale dello Stato, che costituirebbero l'occasione per accusarci di un centralismo che nessuno vuole. È già scritto nella Costituzione che il territorio è decentrato dal punto di vista giurisdizionale in termini non solo di giustizia ordinaria, ma anche amministrativa. Si nota, invece, che mentre il Parlamento lavora - guarda caso non se ne è accorto nessuno, ma mi è stato fatto notare - il cosiddetto disegno di legge Maccanico in materia di sistemi radiotelevisivi prevede l'introduzione di un'autorità che esclude un grado di giudizio in periferia. Immaginate che le reti televisive locali, che hanno forti interessi da far valere appunto localmente, si troverebbero di colpo a ricorrere al Consiglio di Stato, evitando in questo modo il doppio grado, che è una garanzia per tutti.
Ecco allora che quando si scrive nella prima parte di questo documento, a proposito delle authority, «anche in unico grado», mi viene in mente che forse sarebbe più saggio evitare quell'inciso, affinché i principi che governano tale materia siano uguali per tutti.
Dobbiamo domandarci chi è il titolare dell'azione disciplinare e se occorre prevedere il potere ispettivo. Certamente si tratta di temi molto importanti, ma non mi pare che con il testo a nostra disposizione sia stata data una risposta a questi interrogativi. Il fatto che l'azione disciplinare sia in capo al ministro, credo sia ancora un principio da difendere e tuttavia potremmo anche accettare un organo di nomina parlamentare, ma mi domando - e vi domando - se un organo di nomina parlamentare non vada nella direzione di quello snellimento e rafforzamento dell'esecutivo che in altri Comitati della Commissione stiamo cercando di realizzare.
Alcuni ritengono che in materia di giustizia si dovrebbe prescindere dagli impulsi della politica, del quotidiano e delle cogenze che vengono da maggioranza e minoranza, dovendosi esprimere un giudizio di carattere il più possibile lontano dai conflitti e dai confronti tra le forze politiche. Potremmo allora ipotizzare un organo terzo, ma siamo pronti a creare un organo che sia espressione, a questo punto di chi? Della magistratura? Del potere ispettivo che ispeziona se stesso? Tale ipotesi mi pare poco convincente e quindi ritengo che su questo piano si debba approfondire l'analisi per mantenere l'attuale situazione, per cui il potere dell'azione disciplinare rimane affidato sia al procuratore generale, sia al ministro, oppure per individuare un'altra formula, che garantisca però che non vi siano zone franche rispetto all'intervento disciplinare che pure è necessario.
In conclusione, ritengo che sugli articoli 101, 104 e 106 sia ancora necessario un confronto e comunque ormai i tempi sono sufficientemente maturi per sancire l'indipendenza dei magistrati e del pubblico ministero da ogni altro potere, all'infuori del rispetto della legge. Credo sia stato detto tutto ciò che si poteva dire, ma se la situazione rimanesse immutata, sarebbe meglio lasciare immodificato l'attuale testo della Costituzione che divide nettamente il giudice dal pubblico ministero.
Per quanto riguarda l'articolo 104, credo che dovremmo ribadire che il Consiglio superiore della magistratura debba avere una struttura che risponda meglio di quanto non abbia fatto in questi trent'anni di vita alle esigenze di trasparenza e di specchiata condotta dei giudici dalle quali non si può prescindere. Anche

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in questo caso, quindi, non possono essere regalate franchigie di sorta in nome di una giustizia che nessuno vuole accusare, collega Senese, di essere sotto il tiro dei politici, ma che è interesse di quest'ultimi, in quanto espressione dei cittadini, riportare al ruolo di garanzia nei confronti di tutti, senza distinzioni e senza il rischio che la giustizia sia invece indirizzata politicamente a raggiungere obiettivi di un tipo o di un altro.
Inoltre, l'articolo 106, che è il terzo argomento sul quale vedo ancora aperta una forte polemica, riguarda la distinzione anche della genesi delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Confesso che la norma, che prevede un periodo di tre anni durante i quali i magistrati del pubblico ministero dovrebbero essere assegnati ai collegi giudicanti, non mi appare tanto una norma di carattere costituzionale, come espressione della Costituzione (tra l'altro, fra qualche anno, potremmo essere costretti a modificarla), quanto una norma che non si spiega e non spiega, oltre a creare problemi organizzatori al numero dei magistrati che verrebbero dislocati provvisoriamente in questa stanza di compensazione, in attesa di scegliere in quale dei due rami della magistratura operare: non vedo il perché di tale criterio e di tale scansione temporale. Penso sarebbe più giusto stabilire fin dall'inizio che le due funzioni, ugualmente appartenenti all'ordine giudiziario (e questo può essere ed viene ribadito in più parti del testo al nostro esame), debbano partire divise per rispondere meglio alle funzioni che, con le norme prima richiamate, abbiamo detto essere legate al principio della terzietà del giudice, alla parità delle parti e a tutte le altre questioni che abbiamo finora illustrato.
Faccio un'ultima osservazione, che mi pare abbastanza importante, sull'organo disciplinare (Consiglio superiore della magistratura), al quale verrebbe affidata anche la funzione di organo di impugnazione verso i provvedimenti delle due o tre sezioni del CSM, quale che sia la scelta che effettueremo. Guardate che se l'organo disciplinare deve sostituire l'attuale TAR del Lazio, svolgerà una funzione ancora più delicata, perché dovrà diventare garante di legalità dell'azione amministrativa resa in prima istanza dal Consiglio superiore della magistratura. Questa sua funzione deve essere resa ancora più estranea al meccanismo giudici-CSM, proprio per la funzione che gli vogliamo affidare.
Noi vogliamo accelerare l'iter dei provvedimenti amministrativi riguardanti i magistrati e riteniamo che il TAR faccia perdere tempo e può darsi che da questo punto di vista sosteniamo un principio giusto. Se però affermiamo questo, vuol dire che istituiremo un organo di impugnazione dei provvedimenti amministrativi, il quale sarà anche un organo disciplinare. Quindi, ne facciamo un organo molto complesso ed importante, nevralgico dal punto di vista della funzione e del rapporto tra magistratura e mondo esterno. Se è così, dobbiamo stare molto attenti al momento in cui ne individueremo le forme di compensazione; una di esse, peraltro, potrebbe anche essere quella che ha ipotizzato oggi il senatore Zecchino, il quale ha proposto di ricorrere a magistrati in pensione, ma potremmo prevedere anche altre garanzie. Dobbiamo ricordarci però che gli stiamo attribuendo una funzione che non è più solo quella di organo di appello per gli aspetti disciplinari, ma anche di garanzia di legalità sostitutiva del TAR. Si tratta quindi di una questione molto delicata, perché dopo quel grado vi sarà solo il ricorso in Cassazione per violazione di legittimità.
Mi pare di aver riassunto i temi sui quali un consenso sarebbe ipocrita affermare non esserci ancora, ma che credo votando si determinerebbe necessariamente.

GIOVANNI PELLEGRINO. Penso anch'io come altri colleghi intervenuti prima di me di dover esprimere una condivisione d'insieme sull'impianto della proposta che il relatore ha illustrato questa mattina e come altri colleghi penso anch'io che tale proposta, e soprattutto la dotta e diffusa


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relazione che abbiamo ascoltato, costituiscano la migliore risposta ad autorevoli intimazioni che abbiamo ricevuto nel senso che la Commissione bicamerale non si sarebbe dovuta occupare del sistema delle garanzie. Ciò non soltanto per le ragioni che più volte il nostro presidente ha indicato e che attengono ai contenuti della legge istitutiva della Commissione ed anche a regole elementari di diritto parlamentare, perché una volta che i disegni di legge che ci sono stati assegnati riguardano il sistema delle garanzie è difficile trovare un modo per non occuparsene.
Noi però abbiamo fatto bene ad estendere il nostro esame a questa materia anche per ragioni sostanziali e cioè perché in via generale, anche con riferimento all'attività degli altri comitati, sarebbe un grave errore restare indifferenti a quella mappa reale dei poteri che in tutto l'occidente si sta disegnando sotto la spinta ineludibile delle cose. Si tratta di un fenomeno al quale la dottoressa Paciotti ha fatto un accenno breve ma chiaro in sede di audizione, quando ha riconosciuto che l'ampliarsi dell'area dell'intervento giudiziario è una caratteristica attuale di tutte le democrazie occidentali. A mio avviso però, a guardarlo in profondità, il fenomeno appare più vasto, nel senso che ciò che va ampliandosi è l'ambito complessivo di una decisione neutrale e cioè una funzione che non è interamente riconducibile alla giurisdizione, nella quale questa ha indubbiamente un ruolo preminente ma dove esistono altri centri di imputazione di funzione neutrale che però - vorrei dirlo subito rispondendo alla collega Parenti - sono riconducibili allo Stato non come persona ma semmai come ordinamento.
A questo complessivo stato delle cose la bozza che abbiamo davanti dà una risposta che giudico adeguata tanto più perché il dibattito che si è acceso nel paese e che ci ha influenzato - non potevamo prescinderne - quando non è apparso culturalmente regressivo, non è complessivamente maturo per soluzioni più fortemente innovative di quelle che Boato ci ha proposto.
In questa logica, approvo pienamente la scelta iniziale che fa Boato attraverso i testi che propone relativamente agli articoli 97-bis e 99-bis e che si iscrivono nel discorso dell'individuazione nell'ambito della neutralità di luoghi di imputazione di funzione che non sono esattamente giurisdizionali ma in qualche modo partecipano della natura della giurisdizione.
Quanto alla figura del difensore civico, trovo preferibile l'ipotesi n. 2 (che prevede un difensore civico nazionale) per ragioni che illustrerò quando parlerò della giurisdizione. Sottolineo però che se dovesse preferirsi l'ipotesi n. 1, potremmo trovarci di fronte ad un'immediata incompatibilità col testo della nuova Costituzione di leggi ordinarie che abbiamo appena licenziato. Approvo la scelta di Boato di vedere nel difensore civico un organo sostanzialmente di iniziativa e di impulso, mentre in testi recenti il difensore civico regionale si atteggia a titolare di un potere di decisione, sia pure di controllo. Anche per questo esprimo una preferenza per l'ipotesi n. 2.
Per ciò che riguarda invece l'articolo 99 o 99-bis che riguarda le autorità indipendenti, mi domando come potremmo inserire una previsione in Costituzione. Boato questa mattina è stato chiarissimo: la compatibilità con l'attuale testo costituzionale delle autorità indipendenti è discutibile. È una fenomenologia della quale non possiamo fare a meno, perché la complessità e la modernità si esprimono anche attraverso queste figure: prevederle in Costituzione e quindi delimitarne meglio natura e funzioni mi sembra un fatto dovuto.
Rispetto alle due ipotesi, esprimo - proprio con riferimento all'intercambiabilità di cui parlava il relatore - una preferenza per la prima per quanto riguarda il primo comma e per la seconda per quanto riguarda il secondo comma. Circa il primo comma dico sin da ora che all'espressione «poteri regolamentari» preferirei l'espressione usata dal relatore quando ha parlato di una «regolazione imparziale», perché in fondo il regolamento si struttura sempre in previsioni

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generali e astratte e quindi rigide e volte al futuro. La funzione di regolazione imparziale delle autorità indipendenti, per come invece concretamente si svolge, è flessibile e quasi sempre mirata sulla specificità del caso concreto.
Quanto al problema del raccordo con la giurisdizione di cui ha parlato il collega Maceratini, non trovo scandalosa l'idea di una giurisdizione di unico grado. Certo, questo dovrebbe portare la legge ordinaria istitutiva delle autorità indipendenti a prevedere, presso le stesse, la costituzione di organi specifici volti alla soluzione dei conflitti, con una funzione sostanzialmente arbitrale. Allora non è scandalosa l'impugnazione in unico grado, perché nessuno ha mai pensato che i lodi arbitrali possano dar luogo ad un doppio grado di giurisdizione: sono già espressione di una funzione paragiurisdizionale e quindi in questo l'unicità del grado di giurisdizione in sede di impugnazione si giustifica pienamente.
Passando al tema delicatissimo della giurisdizione, la scelta che complessivamente la bozza fa è quella di una visione unitaria della giurisdizione, ma con un dialettizzarsi al suo interno. Non quindi una giurisdizione unica ma un'unità funzionale della giurisdizione. Vi è però un punto sul quale vorrei richiamare l'attenzione: il presupposto delle diverse soluzioni che sono nella bozza Boato, ma direi il presupposto dell'intero lavoro che abbiamo svolto nel Comitato delle garanzie e il presupposto di tutti gli interventi che fino ad ora ho sentito, è che la funzione giurisdizionale, nel suo insieme, in una logica di Stato federale, appartiene allo Stato federale e non allo Stato federato, cosa che invece nella bozza che ci ha proposto D'Onofrio non c'è. In questa infatti la giurisdizione ordinaria penale e civile è funzione statale, mentre invece le giurisdizioni amministrative, contabili e tributarie sono funzioni dello Stato federale nel livello superiore e sarebbero invece funzioni dello Stato federato nel livello inferiore.
Una soluzione di questo genere finirebbe sostanzialmente per azzerare il lavoro del Comitato delle garanzie e, tutto sommato, non mi convince innanzitutto per la sua asimmetria. Per i modelli di Stato federale che conosco, le scelte possono essere di due tipi e sono simmetriche. O si ritiene che tutte le giurisdizioni nei livelli di merito appartengono allo Stato federato e le giurisdizioni di legittimità appartengono allo Stato federale, come in Germania, con un'ulteriore specificazione: la giurisdizione di legittimità ha una funzione nomofilattica soltanto per le leggi federali e mai quando la controversia riguarda norme dello Stato federato, perché lì la controversia si ferma a livello del singolo land. Negli Stati Uniti d'America il modello è diverso: vi è una doppia rete di organi di giurisdizione territorialmente diffusi all'interno dei singoli Stati, organi di giustizia federale per controversie che riguardano norme federali e organi di giustizia statuali del singolo Stato per ciò che riguarda le norme statali (ma riguardano sempre il complesso della giurisdizione). Questa asimmetria non mi convince.
Tutto sommato, però, penso che la funzione della giurisdizione tenda più di ogni altra a diventare europea e che quindi non risentirà del decentramento, perché sta diventando europeo l'ordinamento. La Corte costituzionale ce lo ha già ripetuto tante volte: le norme europee si sovrappongono comunque alle norme dello Stato federale e a quelle dello Stato federato; nel momento in cui ciò avviene, indubbiamente gli organi che devono pronunciarsi in materia di diritto sono espressione di una funzione unitaria. Andarli a parcellizzare, a dialettizzare a livello decentrato non mi sembrerebbe una buona idea.
La scelta che sta all'interno delle due ipotesi di Boato è il venir meno dell'autonomia della giurisdizione contabile della Corte dei conti, con un'opzione però. Possiamo pensare ad abolire tout court la funzione oppure - come è previsto nell'alternativa che ci propone Boato - a mantenere la funzione con un sostanziale accorpamento del giudice amministrativo e del giudice contabile. Dico subito che

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quest'ultima è l'opzione per la quale esprimo preferenza (ipotesi n. 1, articolo 103, comma 2). Le società complesse rafforzano l'esigenza di un controllo di legalità anche di tipo sanzionatorio. Quindi non riterrei giusto sopprimere la funzione: mi sembra invece giusto accorparla, raccordarla, unificando insieme il giudice amministrativo ed il giudice contabile.
Da parte mia non affronterei in Costituzione il problema se debba essere il pubblico ministero ordinario ad esercitare l'azione di responsabilità o se si debba prevedere l'istituzione di un pubblico ministero presso il tribunale amministrativo oppure - ancora - se (come ha ipotizzato il collega Maceratini) sia opportuno lasciare un ufficio di procura presso la Corte dei conti come organo di controllo. È una scelta che potremmo anche lasciare al legislatore ordinario. Mi sembra importante che, non compiendo questa scelta in Costituzione, sarebbe recuperato un dato: quella unicità di funzione del pubblico ministero affermata in alcune sentenze della Corte costituzionale, che mi sembra un valore da difendere anche nell'ipotesi in cui prevedessimo l'istituzione con legge ordinaria di un pubblico ministero amministrativo. Ho sempre sentito che in una logica unitaria della giurisdizione l'opponibilità ad un pubblico ministero della sentenza ottenuta nei confronti di un altro pubblico ministero dovrebbe essere un dato ineludibile: ma sono tutte questioni che io risolverei a livello di legislazione ordinaria.
Allo stesso modo, dovrebbe essere risolto a livello di legislazione ordinaria un problema che deriva dal carattere unitario della giurisdizione: consentire la translatio iudicii.
Quanto alla distinzione fra giurisdizione - o competenza - del giudice ordinario e del giudice amministrativo, la scelta compiuta nella bozza Boato è quella tante volte auspicata dalla dottrina: la separazione per materia; si tratterebbe quindi di superare la dicotomia diritto/interesse legittimo come criterio di ripartizione della giurisdizione.
Nei vari dibattiti che si sono già accesi intorno alla bozza Boato viene segnalata da più parti la necessità di inserire una clausola generale, che possa valere da un lato come criterio di indirizzo al legislatore ordinario nello scegliere quali materie assegnare al giudice amministrativo ed al giudice ordinario, dall'altro, come criterio ermeneutico, interpretativo, dinanzi all'insorgere di singoli casi di dubbio circa l'appartenenza all'una o all'altra materia. Però non è facile trovare la clausola generale. Quella più facilmente rinvenibile, la clausola di tipo soggettivo (le controversie contro la pubblica amministrazione), oggi non funzionerebbe più, perché il giudice amministrativo sta diventando sempre di più giudice della complessità e decide su controversie nelle quali non è ravvisabile la presenza di un pubblico potere o di una pubblica amministrazione in senso stretto. Pensiamo agli effetti che sta determinando la privatizzazione di pubblici servizi: in una causa è presente non un soggetto pubblico, ma due o tre società per azioni che sono parti di un conflitto (una SpA che ha attribuito un bene o un appalto ad un'altra SpA, una terza SpA che impugna). Si dà il caso di controversie, quindi, nelle quali non partecipa la pubblica amministrazione. La formula migliore, allora, potrebbe essere quella che nasce dalla mediazione fra criterio soggettivo e criterio oggettivo: pubblici poteri; servizi generali e pubblici servizi. Un'indicazione del genere potrebbe indubbiamente completare il testo di Boato.
Naturalmente da tali scelte derivano i due organi di autogoverno. La mia preferenza è analoga a quella espressa dal collega Senese: occorrerebbe inserire nel testo base l'articolo 105-bis, che prevede una Corte di giustizia che io definirei «della magistratura». L'organo indicherebbe nell'architettura istituzionale l'unità funzionale della giurisdizione: nel disegno complessivo i due organi di autogoverno si raccordano in questo organo superiore con funzioni disciplinari. Non mi scandalizza - vorrei dirlo al collega Maceratini - che sia organo di unico grado di

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impugnazione degli atti dei due CSM. Teniamo presente che all'impugnazione degli atti del CSM si è giunti attraverso una fictio iuris, cioè attraverso la valorizzazione del dato esternativo del decreto del Presidente della Repubblica (con la singolare conseguenza che, alla fine, il presidente della corte d'appello di Firenze lo sceglie il Consiglio di Stato, non più il CSM). Non sarebbe nemmeno logico, però, che a questo punto il Consiglio di Stato censurasse gli atti del Consiglio superiore della magistratura amministrativa. Quindi c'è la necessità di risolvere il problema: mi sembra che la creazione di questo organo di giurisdizione speciale sia una soluzione adeguata.

AGAZIO LOIERO. Signor presidente, anch'io vorrei porgere un non formale ringraziamento al relatore ed al presidente del Comitato sistema delle garanzie, che ha lavorato intensamente (come è stato rilevato anche dalla stampa) con l'impegno di tutti i componenti.
Non sono completamente d'accordo con alcune caute folate di ottimismo che abbiamo avvertito anche oggi in questa sala per quanto riguarda i lavori del Comitato. D'altra parte, perché dovremmo respirare questa aria di ottimismo dopo tutto quello a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi? Sono convinto, presidente, che il Comitato sistema delle garanzie sia stato oggetto dei più forti condizionamenti e sia stato investito dalle maggiori polemiche (è stato sotto gli occhi di tutti); in particolare, il relatore è stato costretto a elaborare quattro bozze, con molti problemi - come abbiamo sentito oggi - ancora completamente aperti (senza nulla togliere al lavoro dell'onorevole Boato ed alla sua dedizione assoluta a questo impegno). Non c'è dubbio che siamo di fronte al prodotto di un'attività di infinita mediazione nella quale si sono scontrate non voglio dire due concezioni della giustizia, ma due concezioni del sentire comune.
Mi soffermerò brevemente su questo condizionamento, perché non è estraneo ai nostri lavori né al futuro dei nostri lavori, se è vero - come ho accennato ieri - che la riforma dell'articolo 513 del codice di procedura penale ha visto bloccato il suo iter legislativo - che appariva così spedito - perché un procuratore si è alzato e ha dato il la.
Su questo tema - che senso ha negarlo? - c'è un clima di scontro nel paese; possiamo anche edulcorarlo, però esso esiste, e la politica, che è attenta al consenso nella società, non solo ne ha risentito ma temo che ne risentirà ancora. Per alcuni attacchi che gli sono stati rivolti, secondo me bisognerebbe porgere al relatore Boato un ringraziamento supplementare. Però, questa bozza è lo specchio dei conflitti avvenuti tra le grandi formazioni politiche, in quanto le voci della minoranza non sono apparse quasi mai significative, forse perché il relatore veniva da un'esperienza di minoranza e finiva per assimilare tutte le altre. Si tratta di un testo che - ripeto - è stato sfilacciato da mediazioni infinite, per cui oggi ci troviamo, come diceva poc'anzi il senatore Maceratini, sostanzialmente d'accordo su pochi articoli.
In ogni caso, anche se quel condizionamento c'è stato ed è stato spinto fino agli estremi limiti della legittimità, rilevo - senza alcuna polemica e chiudendo questa prima fase del mio intervento, che sarà contenuto nel tempo che mi è stato assegnato - che negli ultimi tempi vi è stato, di fronte alla bozza, chi ha affermato, dall'esterno, che essa era censurabile. Vi è dunque un senso di straniamento, un capovolgimento delle posizioni. In ogni caso, noi ci chiediamo, a proposito di tutte le benemerenze acquisite in questi ultimi anni dalla magistratura e di tutto quello che è avvenuto in termini di supplenza, se queste supplenze possano durare in eterno, se possano essere cristallizzate per sempre, se debba esservi una deroga eterna. Sono convinto che la giustizia non sopporti né le supplenze né le emergenze.
Riteniamo che parlare di queste cose non significhi attentare all'autonomia della magistratura: la politica, che è autrice di molti garbugli legislativi, ha il


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dovere di correggere dove è necessario. Sono peraltro convinto, signor presidente, che bisogna toccare poco dell'attuale Costituzione. Dobbiamo affrontare pochi temi. Il resto deve essere delegato alle leggi ordinarie. Tratterò disordinatamente pochi punti, ma tutti quelli dove sorgono più forti i dubbi, dove vi sono temi non risolti, più controversi.
Comincio, per esempio, con il tema del difensore civico, che non è uno dei temi fortissimi della bozza ma uno di quelli importati, anche se importante. Il difensore civico ha assunto un suo aspetto sacrale negli ultimi tempi (organo di iniziativa, come diceva il senatore Pellegrino) ma noi rischiamo di creare una funzione senza magari immaginare una struttura, perché vi sarà bisogno di un ufficio con centinaia di persone, piuttosto elefantiaco. Noi creiamo un controllore ma la macchina controllata come la facciamo funzionare? E lo stesso vale per l'authority: sono convinto che questo organismo vada posto e regolamentato in Costituzione, ma non finiamo, per questa via, per irrigidirlo? L'authority, priva di qualsiasi responsabilità, è infatti un organismo che assicura che il mercato proceda nel rispetto delle regole date. Fissarlo enfaticamente non significa dare un eccesso di speranza? Non finiamo, forse, per irrigidirlo oltre misura?
Per quanto riguarda il tema della giustizia amministrativa, come ho fatto nel Comitato difendo, anche qui in condizioni di minoranza, perché nessuna delle mie proposte è stata recepita dalla bozza, il valore ed il ruolo del Consiglio di Stato. L'ultima bozza Boato - mi riferisco all'ipotesi numero 1 - negli articoli 100 e 103 non tiene conto di due esigenze che devono essere soddisfatte se si vuole che il nuovo ordinamento assicuri allo Stato la qualità del servizio consultivo e la correttezza delle relazioni istituzionali. La prima è che il Governo perderebbe la possibilità di avvalersi di un patrimonio di conoscenza e di esperienza di alto valore tecnico cui fa riferimento per l'attività consultiva. È di tutta evidenza, peraltro, che ben pochi tra i magistrati del Consiglio di Stato opterebbero per restare in un istituto che perde il prestigio della giurisdizione. La seconda esigenza consiste nella necessità di affidare al Consiglio di Stato la giurisdizione su settori particolarmente delicati non già sulla base della vetusta distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi ma per blocchi di materia o di atti in ragione della loro importanza o complessità tecnica.
Per la grande parte di questi atti, il Consiglio di Stato dovrebbe giudicare in grado d'appello sulle sentenze dei TAR. Ma per alcuni settori si impone l'esigenza di un unico ed alto grado di giudizio. Ciò accade, ad esempio, per gli atti delle authority o del Consiglio superiore della magistratura o per i regolamenti governativi emanati a firma del Presidente della Repubblica. In questo senso, la prima ipotesi di questa quarta bozza è da superare e nella seconda ipotesi l'articolo 100 potrebbe essere così modificato: «Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo e svolge le funzioni giurisdizionali indicate nell'articolo 103». Nell'articolo 103 si potrebbe inserire il seguente comma: «Il Consiglio di Stato è giudice di legittimità in via esclusiva sulle seguenti materie: atti regolamentari emanati, previa delibera del Consiglio dei ministri, dal Presidente della Repubblica; atti delle autorità indipendenti; atti del Consiglio superiore della magistratura». La scelta sarebbe giustificata dalle seguenti ragioni che, in parte, ho esposto nel Comitato: celerità del processo ed uniformità di giurisprudenza; in breve, certezza del diritto quando il giudizio è affidato al Consiglio di Stato in un unico grado; particolare specializzazione di questo giudice in settori complessi e ricchi di implicazioni per la vita economica e sociale del paese (si pensi agli atti dell'autorità per la concorrenza, del garante per l'editoria, della Banca d'Italia, eccetera); attitudine del Consiglio di Stato a comprendere le esigenze di conseguimento degli interessi pubblici che gli atti in questione intendono perseguire; competenza a decidere affidata allo stesso giudice che, in via preventiva, con la

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funzione consultiva esprime un parere di legittimità sugli atti normativi del Governo, parere che si differenzia da quello dell'avvocato dello Stato, perché reso non già nell'interesse dell'amministrazione ma da un organo indipendente nell'interesse esclusivo del rispetto della legge. Ne deriva che il Governo può perseguire fini di giustizia in via preventiva, evitando il prodursi di un contenzioso successivo, il cui rischio crea indecisione nei funzionari e incertezza sull'esito finale dell'azione di governo.
Credo, signor presidente, che distruggere sia facile. Ma noi dobbiamo avere attenzione più alla pars construens, perché in un paese come l'Italia, sfornito di scuola di alta amministrazione, come vi è in Francia o in Inghilterra, non dobbiamo con facilità dissipare un patrimonio di conoscenze e di sapere; magari dobbiamo stabilire - e questo è giusto - in maniera netta i paletti tra funzione consultiva e giurisdizionale.
Altro punto controverso: le separazioni delle carriere. Qui vi è stata una plateale mistificazione della realtà. Sappiamo bene che questo è un nervo scoperto ma vi è stato un ampio dibattito interno con scansioni esterne e con punte di altissima polemica, alcune sicuramente prive di senso, perché neanche la posizione del Parlamento di Strasburgo, arrivata in un momento topico del nostro dibattito, è riuscita ad avere effetti dirimenti. In tutto l'occidente - dico «in tutto l'occidente» - le carriere sono separate, dalla Gran Bretagna alla Danimarca, tranne che in Francia e in Italia (della Francia si parla poco perché si sa che il pubblico ministero è sottoposto all'esecutivo). Voglio dare una notizia un po' bizzarra che ho letto un anno fa. Uno studioso italiano ha fatto una ricerca per verificare a quale altro paese potesse essere assimilabile la posizione del pubblico ministero italiano: dopo una attenta e minuziosa ricerca ha accertato che una posizione analoga è esistita solo nel Portogallo di Salazar.
Nel Comitato si è svolto un lungo dibattito su questa tematica e abbiamo cercato di immaginare come liberare il giudice terzo dall'incombere del pubblico ministero. In alcuni palazzi di giustizia, soprattutto al sud, il pubblico ministero è sulla soglia della camera di consiglio; noi abbiamo immaginato di poter ripristinare in un ruolo la funzione ed il valore del giudice terzo perché ora si determina un grave squilibrio non solo nella società ma anche nell'ordinamento. Siamo pervenuti alla suddivisione delle funzioni, ma avremo preferito - su questo c'è stato scontro - la suddivisione delle carriere.
Un altro punto controverso è l'obbligatorietà dell'azione penale prevista dall'articolo 112. Questo resta il punto più grave e più drammaticamente irrisolto; so che è un problema difficile, ma anch'esso è acutissimo nel sud dove l'enorme massa dei reati e la lentezza dei procedimenti spesso costringono il pubblico ministero a scegliere, trasformando un'azione obbligatoria in un'azione oltremodo discrezionale. Questo dato non possiamo ignorarlo. Nella nuova stesura l'ipotesi di modifica n. 1 prevede che il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale e che la legge stabilisce le misure idonee ad assicurarne l'effettivo esercizio. Quali sono le misure idonee? Nel secondo comma non si accentua la discrezionalità?
Capisco che questo è un nodo difficilissimo da sciogliere, resta però un nodo incombente sul lavoro di questo Comitato. Sappiamo che c'è un numero infinito di processi prescritti, di indagini aperte e chiuse a discrezione, accelerate o rallentate. Una materia così delicata, con la quale si possono procurare danni irrisarcibili, non può essere lasciata alla discrezionalità del pubblico ministero. Concludo affermando che, soprattutto dopo la decisione della Corte costituzionale cui ha fatto riferimento l'onorevole Parenti, che ritaglia un più accentuato ruolo di parte al pubblico ministero ed annulla di fatto gli effetti dell'articolo 358 del codice di procedura penale, peraltro inapplicato nel nostro paese, dobbiamo porci questo problema in sede plenaria con maggiore forza, anche perché la lettura dell'articolo non offre soluzioni.

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Vorrei infine introdurre un tema che non siamo riusciti ad approfondire nel Comitato. Mi riferisco alla fase complessa che precede il processo vero e proprio e che, a mio parere, dovrebbe essere disciplinata meglio, perché molti atti e molti danni negli ultimi tempi si sono prodotti nella fase preprocessuale o in quella iniziale del processo. Penso, per esempio, agli atti urgenti del processo civile, all'indagine del pubblico ministero, alla carcerazione preventiva; c'è una drammatizzazione della fase delle indagini preliminari che, come si sa, è una fase imperfetta perché l'organo dell'accusa svolge un ruolo preponderante: la difesa è più debole perché gli atti sono del pubblico ministero e lo stesso GIP non gestisce atti suoi. Questa fase, che possiamo tranquillamente lasciare alla legge ordinaria, a mio avviso deve essere chiamata meglio nella Costituzione, perché diversa è l'ingerenza intrusiva dei media rispetto a cinquant'anni fa; l'idea che l'opinione pubblica venga ormai soddisfatta e appagata dall'accusa che si realizza prima del processo e non dal giudizio, che arriva troppo tardi rispetto all'impazienza dei media, è un fatto gravissimo.
In conclusione, o abbiamo la possibilità di sancire nella Costituzione alcune norme che finiscano per incidere nel tessuto connettivo della legislazione vigente oppure concordo con il senatore Maceratini che bisognerà lasciare le cose come stanno, delegando alle leggi ordinarie la possibilità di modificare alcune norme divenute paradossali, in attesa che una futura stagione politica meno condizionata muti alcuni equilibri che minano alla base la stessa democrazia nel nostro paese.

LEOPOLDO ELIA. Presidente, colleghi, mi occuperò esclusivamente, come ho già fatto nel Comitato sistema delle garanzie, della Corte costituzionale non perché rivendichi un ruolo monopolistico di defensor della Corte - che per fortuna non ne ha bisogno - ma semplicemente perché essendo l'unico di questa Commissione che ne abbia fatto parte posso fare ricorso a quel tanto di esperienza che nove anni passati alla Consulta mi fanno ancora ricordare, sia pure con un certo appannamento perché sono ormai passati circa dodici anni.
Innanzitutto, dobbiamo sincera gratitudine al relatore perché ha trattato questo tema difficile con grande capacità sia di informazione sia di argomentazione per quanto riguarda i suggerimenti che sono venuti maturando anche dall'esperienza straniera in questi decenni. Bisogna però partire da una considerazione che mi pare condivisa dalla Commissione e dal relatore, cioè dal fatto che questa istituzione è sicuramente una di quelle che, malgrado le critiche che si possono rivolgere, come in tutte le giurisdizioni, a singole sentenze (pensiamo alla corte suprema degli Stati Uniti che prima della guerra di secessione ha ammesso la legittimità della schiavitù), nell'insieme ha funzionato piuttosto bene. Inoltre, nell'ultimo periodo, insieme alla Corte di cassazione nel settore penale, ha costituito una coppia di giudici che fanno giustizia rapidamente, sia pure a livelli diversi: in pochi mesi si ottengono le sentenze. Ha funzionato bene anche come alimento della vita della Costituzione, soprattutto per quello che riguarda la prima parte; forse meno felice, in alcuni periodi, è stata l'attività dedicata al contenzioso Stato-regioni. La Corte ha funzionato bene ed allora bisogna stare attenti a non rompere il giocattolo, anche con le migliori intenzioni.
Questo mi dà modo di esprimere alcuni timori rispetto a certe proposte che avanzano nelle ipotesi che sono state presentate, accanto però a motivi di soddisfazione per alcune soluzioni che vengono prospettate. La prima preoccupazione nasce dalla modifica del numero dei componenti: preferirei che rimanesse quello attuale, anche perché è una garanzia, seppure non assoluta. In Spagna i giudici sono dodici e quindi esistono due sezioni (le famose Sale primera e segunda); vorrei che non nascesse la tentazione anche da noi - aumentando il numero dei giudici, magari a sedici - di arrivare ad


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una collegialità articolata in due sezioni che il numero pari sembra meglio favorire.
Penso che il valore della collegialità, anche se alquanto pesante - perché quindici persone intorno ad un tavolo che intervengono danno certamente luogo a camere di consiglio piuttosto lunghe - sia pur tuttavia da preservare. Soprattutto starei attento - anche per una ragione di principio - a quel quarto di membri nominati dalle regioni.
Tutti gli Stati federali fanno nascere la composizione delle Corti da organi federali. In Germania metà dei giudici sono eletti dal Bundestag e metà dal Bundesrat; ma quest'ultimo, per quanto non venga considerato organo parlamentare in senso proprio, è - come dice il nome - un organo tipicamente giudicato dalla legge fondamentale come organo federale. Non parliamo del Senato degli Stati Uniti, che ovviamente è «federalissimo», né della Spagna. Anche in questo paese interviene il Senato che ha una rappresentanza sia pure in parte indiretta non tanto degli enti territoriali quanto del territorio, delle autonomie vere e proprie, viste non da un punto di vista istituzionale ma come cittadini e comunità. Ma in Spagna non c'è un'elezione diretta da parte delle comunità autonome.
Pregherei quindi di arrivare ad un contatto con candidature provenienti dalle regioni in modo filtrato da un organo federale; mi pare che altrimenti diminuiremmo il ruolo stesso della Corte attraverso una forma di elezione diretta che non trova riscontro in altre Repubbliche federali. Non mi soddisferebbe nemmeno la riunione dei delegati regionali per l'elezione del Presidente della Repubblica, salvo a vedere come sarà il collegio che lo eleggerà. Anche in questo caso si tratterebbe di un organo diretta espressione delle regioni.
Non sono sospettabile di antiregionalismo né di antifederalismo ma mi pare che la costante delle Repubbliche federali abbia un suo valore in relazione al carattere di esponenzialità unitaria che la Corte deve possedere.
Altri timori mi nascono da ipotesi di un ricorso individuale alla Corte a tutela dei diritti fondamentali. Anzitutto vi sono i dati molto gravi riportati a pagina 57 della relazione, che dimostrano quantitativamente come in Austria siano state assunte nel 1990 dalla Corte costituzionale 2.252 decisioni, in Spagna 337 decisioni su 346 giudizi nel 1994, e così via; sono dati che sono venuti aggravandosi negli ultimi anni. Nella stessa Spagna, nel corso del 1996, siamo arrivati a 4.689 ricorsi, con quattro gruppi di lavoro composti di tre giudici, che hanno esaminato ciascuno ogni settimana 60 ricorsi dal punto di vista della loro ammissibilitą sotto il particolare profilo della manifesta infondatezza; sicchč in ogni settimana sono stati esaminati ben 240 ricorsi. In Germania le cose sono ancora peggiori: nel 1996 vi sono stati 6 mila ricorsi di costituzionalità (Verfassungsbeschwerden).
Tutto questo dimostra come sia difficile far funzionare bene questi filtri. Se funzionano «a vapore», per così dire, fanno cadere la Corte in una situazione di profondo disagio, consistente nel dichiarare l'inammissibilità praticamente senza motivazione. Tutto questo allora contraddice la natura stessa del giudice costituzionale. Noi che deploriamo la giustizia per sospensive praticamente immotivate dei TAR, degli articoli 700 nella giustizia civile, non possiamo vedere con favore una prospettiva di dichiarazione di inammissibilità non motivata quale poi finisce per essere in larga misura il risultato di questa massa di ricorsi inviati alla Corte.
Mi si dirà che il relatore ed il Comitato sono stati consapevoli di questa difficoltà. Tralasciando le cifre - questo catalogo è meno gradevole di quello di Don Giovanni - vorrei dire che non mi lascia tranquillo nemmeno la soluzione che certo ingegnosamente è stata trovata nell'ipotesi A dell'articolo 134, laddove si dice che la Corte giudica su ricorsi presentati da chiunque ritenga di essere stato leso in uno dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione - qui viene il punto delicato - da un atto dei pubblici poteri avverso il quale non sia dato rimedio giurisdizionale.

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Ci troveremo quindi in una situazione diversa rispetto alla Spagna o alla Germania perché in quei paesi i ricorsi si attuano proprio quando si è esaurito l'intero iter dei rimedi giurisdizionali e quindi il ricorso alla Corte funge da extrema ratio ma anche da terzo grado di giurisdizione (in generale i gradi sono due e non tre come da noi), mentre in Italia diventerebbe un quarto grado. Certamente la cosa prolungherebbe i processi. Tutti ricorrerebbero in Cassazione (questo già avviene) perché sarebbe l'unico modo per arrivare poi alla Corte costituzionale. Il risultato sarebbe un ulteriore aggravio ed allungamento dei processi.
Ma la soluzione trovata dal relatore e dal Comitato lascia molto perplessi perché non dovrebbero esistere nel nostro ordinamento atti per i quali non sia dato un rimedio giurisdizionale in via di massima. È compatibile una norma di questo genere con l'articolo 24, primo comma, per cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi? Ci può essere un atto che sia sottratto al rimedio giurisdizionale? Mi pare molto dubbio, anche perché l'articolo 24 ha impedito che avessero carattere definitivo ed irrimediabile i deliberati del Consiglio superiore della magistratura, delle autorità amministrative indipendenti. Di fronte a tale constatazione, mi pare difficile scrivere un atto che non abbia rimedio giurisdizionale. Quali sarebbero? Gli atti politici di fronte al giudice amministrativo? Non ci sono più. Si parla di atti contro deliberazioni non legislative delle Camere, ma cosa intendiamo? Potrebbe essere impugnato, per esempio, un atto in tema di verifica delle elezioni, ma in quel settore si potrebbe meglio provvedere con ricorso alla Corte contro le deliberazioni della Giunta delle elezioni della Camera in materia di verifica delle elezioni. Le altre delibere parlamentari hanno un carattere molto limitato: facciamo impugnare le concessioni o i dinieghi delle autorizzazioni a procedere date in base all'articolo 96 della Costituzione di fronte al giudice ordinario per reati ministeriali? O altre deliberazioni delle amministrazioni parlamentari? Per ora il rapporto di impiego presso le Camere in generale non è soggetto al giudice del lavoro, salvo forse la possibilità di conflitti di attribuzione di fronte alla Corte; renderemmo così giustiziabili i rapporti di impiego presso le Camere, ma mi pare che sarebbero casi non tali da giustificare una giurisdizione della Corte di questo tipo.
Si parla delle leggi, ma questo punto mi preoccupa molto, perché si potrebbe dar luogo ad una impugnazione di fronte alla Corte di atti del giudice ordinario che dichiara manifestamente infondata o irrilevante una questione di legittimità costituzionale su una legge rispetto alla quale per ora effettivamente non c'è rimedio; la legge rimarrebbe invulnerabile e quindi, dato che si parla come atto da prendere in considerazione di atto legislativo o atto avente forza di legge, mi pare pericolosa in sede di giudizio di delibazione da parte del giudice ordinario poter pervenire per questa strada a un giudizio della Corte.
Sarei quindi favorevole su questo terreno a non disciplinare la materia. Avevo concordato, anche con il collega Folena, l'ipotesi B), un rinvio ad una legge costituzionale che semmai determina le forme e i casi di questo ricorso. Anche una forma più facoltizzante di quella proposta - sostenere che, così come nell'articolo 132 della Costituzione, si può con legge costituzionale organizzare questo ricorso, magari con una particolarità di procedura, sentita la Corte costituzionale - mi pare pericoloso perché farebbe pendere un ombra, una specie di prospettiva; se proprio si vuole introdurla, si abbia il coraggio di farlo con l'articolo 138 della Costituzione o con quella che sarà la revisione costituzionale.
Penso che su questo piano piuttosto si debba procedere per evitare mali che in altri paesi non sono stati evitati, che noi vorremmo evitare con una normativa la quale apparentemente è restrittiva, ma invece poi può prestarsi ad un ampliamento in sede di applicazione pratica.
Mi lascia ancora profondamente perplesso, anzi contrario l'accesso di un quinto di parlamentari alla Corte. Capisco

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lo statuto dell'opposizione, ma dobbiamo situare storicamente questo rimedio dell'ordinamento francese, dove questa grande innovazione, voluta dal presidente Giscard D'Estaing come primo atto della sua presidenza, fu effettivamente qualcosa di liberatorio, perché il Conseil constitutionnel poteva essere investito soltanto da autorità di vertice (presidente del Senato, presidente della Camera, il primo ministro, il presidente della Repubblica); aver quindi aperto le porte alla minoranza, all'opposizione parlamentare è stata effettivamente un'invenzione molto positiva. Questo rimedio si inquadra in una situazione in cui non è previsto il sindacato incidentale di costituzionalità, per cui quello è l'unico rimedio per far intervenire il Conseil su una legge prima della sua promulgazione. Nella bozza Boato si sostiene che questa ipotesi non è compromettente perché, anche in caso di rigetto da parte della Corte costituzionale di una questione di costituzionalità sollevata da una minoranza, questo non preclude che la Corte possa essere nuovamente investita da un giudice per via incidentale, a differenza - si dice - che in Francia dove la dichiarazione di costituzionalità è definitiva. Non vorrei che qui ci fosse un'illusione ottica: non è tanto che in Francia fa cosa giudicata il rigetto della questione di costituzionalità; in Francia c'è piuttosto la cosa «legiferata», come dicono i costituzionalisti francesi, ossia quando la legge è promulgata non vi è più possibilità di impugnarla. Di qui la definitività del giudizio della Corte: essendo stato rigettato il tentativo di Mitterrand di rendere possibile la via incidentale, l'assoluta definitività del giudizio del Conseil deriva dal fatto che, una volta ottenuta la promulgazione, non vi è nulla da fare.
Quello che disturba di più in questa possibilità di ricorso non è tanto la cosa in sé - potrebbe apparire un completamento dello statuto dell'opposizione molto positivo - quanto il pericolo che, anche spostandolo a dopo la pubblicazione come prevede la bozza Boato, la Corte venga sovraesposta. La Corte in Italia, come abbiamo visto nel caso dei giudizi di ammissibilità dei referendum, rischia una sovraesposizione di tipo politico, appare sempre più come una terza Camera se interviene dopo le prime due. Se fossimo all'opposizione probabilmente anche noi lo faremmo: non reagiremmo ai collegati, alle finanziarie che ci sono piovute sul capo in questi anni? Chi rinuncerebbe a tanti ricorsi contro leggi opinabili, discutibili? Se potessi lo limiterei alla conversione di decreti-legge, probabilmente a qualche atto specifico. Dare la possibilità di intervenire su leggi a così breve distanza dall'intervento del Parlamento mi preoccupa, per la Corte prima di tutto. Effettivamente, infatti, questa politicizzazione ha in sé un rischio grave.
Concludo per davvero dicendo che è molto difficile poi conciliare, con il tempo ulteriore che comunque sarà impiegato per scrivere, le dissenting opinions e le concurring opinions. Credo che anche questa combinazione renda più difficile investire ulteriore tempo in altri, in troppi accessi alla Corte, che pure ne avrà, perché il ricorso dei comuni, il ricorso contro la verifica delle elezioni certamente accresceranno e non diminuiranno il lavoro della Corte. Comunque ci sono parti senz'altro positive, come quella riguardante la durata in carica del presidente della Corte; c'è il rifiuto, nell'ipotesi A, di entrare nella tipologia delle sentenze della Corte (il che è molto più idoneo ad un organo di giustizia costituzionale che è sul self restraint che deve basare in qualche modo la scelta degli strumenti); e c'è anche questa dissenting opinion, che può essere un modo per esercitare un principio di responsabilità nella pubblica opinione e nell'opinione dei giuristi nei confronti anche dell'operato dei singoli giudici della Corte costituzionale.

ERSILIA SALVATO. Mi soffermerò su alcune questioni che sono state all'attenzione del Comitato garanzie e soprattutto sono state seguite in modo molto puntuale, a volte anche con un eccesso di passione, da parte dell'opinione pubblica. Si tratta in particolare della collocazione istituzionale del pubblico ministero, del


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CSM, dell'obbligatorietà dell'azione penale.
Ritengo che se continueremo nello sforzo, che mi è sembrato di intravedere nella parte di dibattito che ho ascoltato, di individuare non soltanto determinazioni di merito ma anche premesse di principio condivise, potremo giungere alla fine del nostro lavoro su questa parte, che è così importante e delicata, a delineare strumenti normativi tali da costruire una trama molto forte di garanzie e di libertà per i cittadini.
Primo punto: indipendenza del pubblico ministero. Nessuno ha messo in discussione, non solo nel dibattito odierno ma anche in quello di queste settimane, questa scelta che dobbiamo fare. Per questo devo dire che mi sarei aspettata, rispetto anche al comma 4 dell'articolo 107, un'indicazione più netta da parte del relatore, perché il comma 2 dell'ipotesi 2, confermando la Costituzione vigente, opera una scelta che dalla Costituente fu obtorto collo assunta, in quanto anche allora era una scelta di compromesso tra chi voleva il pubblico ministero indipendente e chi lo voleva sotto il controllo dell'esecutivo.
Credo che a questo punto del dibattito, per queste premesse che mi sembrano condivise nella nostra riflessione, potremmo invece andare non soltanto ad un superamento di questa formulazione che risulta troppo angusta, ma anche ad una riformulazione dell'articolo 101, estendendo formalmente al pubblico ministero la garanzia di indipendenza del giudice. Ritengo che anche nel secondo comma dell'ipotesi n. 1 (i colleghi mi scuseranno se uso questi termini, ma penso che ciò possa essere utile al relatore nel prosieguo del suo lavoro, nel momento in cui davanti alla Commissione dovrà decidere e presentare un testo base) vi sia una lesione del principio dell'indipendenza interna che non mi convince e quindi vorrei che fosse superata.
Per quanto riguarda invece il merito dei commi 3, 4 e 5 sempre dell'ipotesi relativa a questa prima parte, essi sono dal mio punto di vista molto condivisibili. Vi è un problema che intendo affrontare ad alta voce perché non può essere fuori dalla nostra riflessione, in quanto questi commi vanno ad insistere sulla prima parte della Costituzione, sul titolo I, articoli 24-26. Credo che dobbiamo avere questa consapevolezza nel momento in cui assumiamo queste determinazioni. Sul merito vi è il mio sostanziale accordo; sulla legittimità ad operare in tale direzione non ho perplessità personali, però esiste questo problema di ricaduta sulla prima parte della Costituzione che qualche questione la pone.
Sul principio della terzietà del giudice si è molto riflettuto e ragionato. Sono convinta che l'acquisizione del modello accusatorio nel nuovo processo penale accentui, così come hanno detto tanti colleghi, anche del Polo, la natura di parte nel processo dell'organo del pubblico ministero. Questo teoricamente; così dovrebbe essere anche nella prassi e sappiamo che così non è, per cui credo che, nel momento in cui andiamo a ridisegnare la Costituzione, l'individuazione di norme tese a distinguere più nettamente giudice e pubblico ministero sia dovuta non soltanto ad una riflessione ma una scelta da fare con audacia ed anche con una certa coerenza.
Noi ci siamo mossi in questa direzione con la presentazione di un disegno di legge ordinario, che incide sulla materia della distinzione delle funzioni in realtà con una griglia che può essere senz'altro arricchita e rivista, ma che mi sembra già abbastanza determinata. So benissimo che chi sostiene con convinzione la separazione delle carriere a tutela della terzietà del giudice trova questa scelta non adeguata, insufficiente a costituzionalizzare la terzietà del giudice. Su questo vorrei dire che da parte mia non c'è un'opposizione preconcetta su questa esigenza, che da un punto di vista teorico non dovrebbe sollevare alcuno scandalo; c'è invece una preoccupazione di politica istituzionale di cui già in altre occasioni abbiamo affrontato il contenuto e il merito, su cui abbiamo continuato a riflettere e su cui mi sembra di dovermi attestare ancora

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oggi. Mi riferisco alla preoccupazione della costituzione di un corpo separato di magistrati addetti all'accusa, cui sarebbe affidato il concreto esercizio dell'azione penale, con un potere in capo a questo corpo professionale chiuso, addestrato soltanto a tale mansione, che se non sufficientemente disciplinato potrebbe dare adito a più rischi rispetto a quelli che invece una distinzione delle funzioni può mettere in campo.
Ripeto, nessuna chiusura pregiudiziale. Credo che forse ci sia stata su questa materia troppa enfatizzazione da tutte le parti. Penso che vi sia stata anche una chiusura, soprattutto da parte di significativi esponenti della magistratura, ma a volte anche nelle stesse forze politiche, ed una enfatizzazione che però non è e non può essere estranea ad una riflessione più complessiva che ha pesato e continua a pesare non solo nel lavoro della nostra Commissione ma, più in generale, sulla questione così delicata dello scontro (lo definisco così, non so trovare altro nome) che da tempo si è instaurato tra politica e magistratura, che spesso da tutte le parti ha trovato secondo me un'accentuazione sbagliata. Da parte mia, io attribuisco una responsabilità forte anche a singoli esponenti della magistratura, non alla magistratura nel suo complesso, ma do soprattutto una responsabilità ancora più forte a quanti nel mondo politico si sono mossi non per tentare composizioni ma per trovare strade e strumenti di risoluzione di uno scontro, di un conflitto politico tali da non essere, nei fatti, strade e strumenti di risoluzione. Quello che noi stiamo facendo e che dovremmo fare è anche la riscrittura di un equilibrio tra poteri dello Stato; non a caso uso questo termine perché sul punto in cui, nella bozza Boato, si solleva la questione, superando appunto la dizione «poteri», a mio avviso dovremmo riflettere e ragionare di più. Infatti, definire soltanto «ordine» la magistratura mi sembra abbastanza riduttivo rispetto a ciò che è nei fatti ma soprattutto in relazione a quello che dovrebbe essere un equilibrio tra i poteri; certo, a patto che ognuno resti realmente nel suo ambito, che la politica faccia la politica e che i magistrati facciano i magistrati, amministrando la giustizia e non assumendo un ruolo, come purtroppo abbiamo visto troppo spesso nella prassi, con una delega a volte concessa loro dal potere politico o con un'autodelega, tale da far pensare quasi ad una sorta di rivoluzione giudiziaria, cosa che a me sembra assolutamente improponibile così come è stata formulata.
Ripeto, alla fine ci siamo attestati sulla separazione delle funzioni; mi sembra una scelta certamente non audace ma equilibrata ed atta a trovare una soluzione per questo punto molto delicato. Infatti, a questa scelta si accompagna l'altra, presente nella bozza Boato, di costituzionalizzazione di alcuni principi fondamentali del processo accusatorio. Per esempio, per il diritto alla difesa mi pare più forte la soluzione prospettata da Boato nel comma 5 dell'ipotesi n. 2 rispetto all'altra.
Per quanto riguarda il Consiglio superiore della magistratura, credo che da tutti - o almeno da larga parte - sia stato ribadito il principio dell'autogoverno della magistratura; non voglio assolutamente generalizzare, ma da larga parte questo principio viene accolto. Dobbiamo tradurlo in norme, e ciò, rispetto alla composizione, significa operare nettamente le scelte che Boato ha indicato nella bozza nel momento in cui ha riproposto una preminenza della magistratura sulla parte politica del CSM. Significa anche - e qui c'è un dissenso molto netto - non andare a separazioni del Consiglio in sezioni, così come è stato prospettato in entrambe le formulazioni. D'altra parte, questa separazione non viene neanche riempita di contenuti e quindi mi sembra molto funzionale alla scelta della separazione delle carriere, che viene riproposta nel CSM. Credo che su questo ci sia realmente ancora da riflettere e da ragionare; mi auguro che riusciremo a superare la questione.
Ciò vale anche per quel che concerne l'ordine del giorno del Consiglio superiore della magistratura: anche un condominio predispone il proprio ordine del giorno e

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non capisco perché il CSM, organo di autogoverno, debba avere l'ordine del giorno dettato dal Presidente della Repubblica. Certo, vi è stata tutta una teoria cossighiana intorno a questo, ma penso che siamo nelle condizioni - almeno me lo auguro - di superare questa impostazione.
Quanto alla questione disciplinare, su cui abbiamo riflettuto anche altre volte, anche intervenendo in Commissione, c'è una nostra apertura a configurare diversamente anche la sezione disciplinare. Vorrei però capire di più e meglio, e mi auguro che l'onorevole Boato sciolga questo nodo; infatti, avere le sezioni disciplinari così come sono state formulate e il tribunale dei magistrati e intrecciare insieme le due figure mi sembra comporti una distorsione della formulazione, che abbiamo scelto, di indipendenza e di autonomia della magistratura, senza con ciò affrontare i veri nodi che sono davanti a noi: da una parte quello di lavorare seriamente sulla responsabilità disciplinare, dall'altra parte quello di prevedere l'obbligatorietà dell'azione disciplinare, con condizioni chiaramente tipizzate della stessa azione disciplinare. Di questo si tratta. Anche l'allarme dei cittadini e, soprattutto, i tanti casi di denegata giustizia o addirittura di ingiustizia chiedono questo, e su questo appunto dovremmo riflettere e lavorare.
Infine, per quanto riguarda l'obbligatorietà dell'azione penale, è inutile ribadire qui che la sua radice è nell'uguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi. Certo, è un'affermazione su cui credo tutti concordiamo e che tutti saremmo pronti a sottoscrivere, ma se così è non capisco le scelte effettuate dal relatore in tutte le bozze, fino ad arrivare all'ultima, che in una certa misura finiscono per sminuire tale principio dell'obbligatorietà, assunto con tanta enfasi. Conosciamo i problemi esistenti e sappiamo che, nei fatti, una previsione che non sia concretizzata con trasparenza può anche perdere la propria ragione d'essere; però, credo innanzitutto che questa funzione di presidio dell'uguaglianza dei cittadini debba restare immutata. Non può esserci nessuna legge che la diminuisca, che ne detti i contenuti e i limiti: deve essere un principio molto fermo.
In secondo luogo, come superiamo la discrezionalità? Credo che non possiamo superarla attribuendo un potere troppo vasto a magistrati di carriera burocratica, che sono privi della necessaria legittimazione democratica per esercitarla, altrimenti si dovrebbe andare ad altro tipo di scelta, al pubblico ministero elettivo, quindi anche ad un'azione penale scelta con discrezionalità. Ma qui andremmo all'assoggettamento del pubblico ministero al potere politico, e non è questa la strada che abbiamo intrapreso e che vogliamo intraprendere. Le strade sono altre: quella della relazione del ministro di grazia e giustizia al Parlamento è sicuramente interessante. Un'altra strada potrebbe essere quella del coinvolgimento nell'amministrazione della giustizia di una platea più ampia, che non sia composta soltanto da chi lavora quotidianamente in tema di giustizia (magistrati, avvocatura) ma che veda una sorta di partecipazione popolare. So che il relatore Boato di fronte alla nostra ipotesi di consigli regionali di giustizia, che non dettino contenuti dell'azione penale ma che studino il territorio e che riflettano sul territorio, ha avuto un moto di sussulto; credo che l'obbligatorietà dell'azione penale non possa essere assolutamente né limitata né prescritta dai consigli giudiziari ma neanche da un ministro di grazia e giustizia e in una certa misura, starei per dire, neanche dal Parlamento; è infatti un principio che deve essere costituzionalmente garantito. Il terreno su cui lavorare è un altro: è da una parte quello del codice penale, su cui c'è un ritardo enorme, e dall'altra quello del codice penale minimo e del diritto nella pena, che non dobbiamo costituzionalizzare ma su cui bisogna lavorare con grande serietà proprio al fine di evitare nei fatti quella discrezionalità di cui ci lamentiamo.
Concludo auspicando che questo rasserenamento del nostro dibattito diventi poi concreto ausilio, per ognuno di noi,

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nella scelta da operare e soprattutto che il relatore Boato sciolga le riserve su taluni punti delle bozze, che assolutamente non si equivalgono, in modo che alla fine, per assumere il testo base, ognuno di noi sia messo nelle condizioni di sapere quale sia la scelta che il relatore propone su questi punti nodali.

ANTONIO LISI. L'intervento puntuale del collega presidente Maceratini mi ha facilitato oltremodo il compito nella partecipazione all'odierna discussione, che ritengo un passaggio obbligato. Non avrebbe altrimenti senso, perché penso che d'ora in poi si potrà e si dovrà discutere soltanto su testi alternativi o su emendamenti; non riusciremo altrimenti a superare l'impasse in cui - diciamolo con tutta tranquillità e franchezza - oggi siamo. Siamo infatti qui a discutere ancora su ipotesi alternative fatte proprie dal relatore Boato, al quale va comunque e sempre il mio ringraziamento e quello del gruppo al quale appartengo per la sua attività; ma egli non ha potuto fare altro che trasferire sulla carta ciò che riteneva potesse avere una prevalenza nell'orientamento al momento del voto. Dico «potesse avere prevalenza», perché non si è mai votato e, quindi, tutto è frutto della valutazione personale del carissimo collega Boato, il quale ha dovuto interpretare con molto sforzo, per colpa non sua, ma nostra, ciò che non sempre abbiamo fatto intendere chiaramente. Fatta questa doverosa premessa, che credo debba far parte della storia della bicamerale, e considerato che siamo dinnanzi ad un passaggio obbligato, cercherò di dare un contributo al dibattito.
Ho già avuto modo di dire che il presidente Maceratini ha indicato la strada, dando la misura della valutazione della nostra parte politica con riferimento a quella unità funzionale per la quale non abbiamo mai ritenuto di condurre battaglie ultimative. Al contrario, abbiamo accettato l'indicazione che la stragrande maggioranza del Comitato ha dato. Riteniamo auspicabile che la Corte dei conti rimanga nella pienezza dei suoi poteri ed abbia le caratteristiche evidenziate dal collega Maceratini. In ordine alla proposta di modifica del secondo comma dell'articolo 101 della Costituzione, a nostro avviso dovrebbe rimanere l'attuale formulazione, secondo la quale «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Del resto, l'attuazione di tale prescrizione costituzionale fino ad oggi non ha presentato rilevanti problemi, né mai qualcuno si è peritato di chiederne la modifica, con legge costituzionale o ordinaria. È giusto non modificare il dettato della Carta costituzionale, poiché è bene che giudici terzi siano soggetti soltanto alla legge, mentre per i pubblici ministeri, divenuti parte, è sufficiente - così come previsto - spostare la previsione dell'articolo 107 all'articolo 101, ribadendo che essi godono delle garanzie stabilite dalle norme sull'ordinamento giudiziario ed aggiungendo che assicurano il coordinamento.
Il collega Maceratini ha avuto modo di dire come ci si dovrebbe muovere in argomento, se cioè utilizzare la specificazione «coordinamento interno» oppure limitarsi al più generale «coordinamento», comprensivo di quello interno ed esterno, basti pensare al coordinamento delle procure distrettuali e antimafia, per esempio.
Riteniamo necessario ed indispensabile inserire nell'articolo 101 quanto contenuto nel terzo comma dell'ipotesi di modifica n. 1, cioè che «la giurisdizione si attua mediante giusti processi regolati dalla legge, che ne assicura la ragionevole durata». Si dovrebbe poi accogliere la previsione di modifica del quarto comma dell'ipotesi di modifica n. 2, secondo cui «il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità e davanti al giudice imparziale. Il processo penale si svolge inoltre secondo il principio dell'oralità».
È altresì opportuno stabilire, come previsto nel quarto comma dell'ipotesi di modifica n. 1 - si tratta della modifica indicata nella prima colonna del prospetto predisposto dal relatore: ecco perché è difficile stabilire quale possa essere l'ipotesi prevalente rispetto a quella soccombente;


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vi sono alcuni commi di talune proposte che potrebbero ritenersi soccombenti e che invece, all'atto della votazione, potrebbero rivelarsi prevalenti - che «la legge assicura l'effettivo esercizio del diritto di difesa, in ogni fase del procedimento, anche da parte dei non abbienti». È un principio questo che deve essere introdotto nella Costituzione, trovando la sua collocazione nell'articolo 101.
Per l'articolo 102 sarebbe valida l'ipotesi di modifica n. 1 con l'esclusione della istituzione dei giudici speciali. Faccio mie le motivazioni della collega Parenti, fermandomi alla previsione concernente l'istituzione di sezioni specializzate per determinate materie, con la partecipazione di cittadini idonei.
Per quanto riguarda l'articolo 103, come ha sostenuto il collega Maceratini, sono opportuni il ripristino della previsione della norma costituzionale con riferimento alla Corte dei conti ed il mantenimento della norma costituzionale concernente i tribunali militari in tempo di pace. È inutile che faccia perdere altro tempo anche perché, come ho sostenuto all'inizio del mio intervento, credo che questa debba diventare materia di discussione al momento della formalizzazione degli emendamenti.
Relativamente all'articolo 104, vorrei sottolineare un aspetto a tutti noto - non scopro certo l'acqua calda, - con riferimento al Consiglio superiore della magistratura: finora il CSM è stato un organo politicizzato, eccessivamente politicizzato, direi politicizzato oltre ogni ragione. Questo problema si è posto fin dal primo giorno e si continuerà a porre in tutta la sua crudezza, vista la necessità di apportare correttivi all'eccesso di politicizzazione. Chi non era d'accordo con noi circa l'aumento del numero dei giudici laici componenti il CSM supportava la sua tesi con la considerazione che così facendo sarebbe aumentato il tasso di politicizzazione. Sarebbe facile obiettare che di fronte alla politicizzazione dei magistrati è bene che vi sia, come controaltare, la politicizzazione dei cittadini, rappresentati nel CSM attraverso la nomina da parte dei parlamentari dei componenti il Consiglio. Ciò, per tentare di bilanciare la politicizzazione del CSM che finora ha costituito, ripeto, un argomento da tutti dibattuto.
Paradossalmente, per evitare la politicizzazione del CSM, si potrebbe pensare ad una designazione particolare: fatta come? Per il tribunale dei ministri si è pensato al sorteggio, proponendo che esso avvenga fra tutti i giudici aventi la stessa età o almeno cinque anni di anzianità, proprio per garantire ai politici incriminati giudici rispetto ai quali non poter nemmeno lontanamente dubitare che possano essere ab initio politicizzati e quindi avere una visione particolare delle cose, inserendo il loro modo di essere politici o la loro idea politica all'interno della proprio attività. Certo, pensare ad un sorteggio anche per il Consiglio superiore della magistratura sarebbe il massimo, ma al momento non possiamo permettercelo. Perciò dobbiamo pensare a contemperare le varie esigenze, quelle della magistratura e quelle dei cittadini.
Si impone dunque l'aumento del numero dei laici nel contesto di quello che dovrebbe essere il nuovo Consiglio superiore della magistratura, prevedendo il raggiungimento di un livello paritario fra laici e togati. Così come si impone, sempre a livello paritario, la previsione della costituzione della sezione disciplinare.
Dichiaro subito che, come ipotesi di carattere principale, sarei favorevole alla istituzione di due CSM, anzi tre, perché sostanzialmente i giudici amministrativi avrebbero il proprio Consiglio superiore: su questo punto non abbiamo alcun dubbio, siamo convinti che debba essere istituito, quindi non tornerò a trattare questo punto successivamente. Per quanto riguarda la magistratura ordinaria, sarebbe auspicabile che i Consigli superiori fossero due: uno per i giudici ordinari, l'altro per i magistrati del pubblico ministero. Sul punto certamente ci troveremo a discutere quando sarà il momento di esaminare gli emendamenti o la ipotizzabile bozza alternativa a quella del collega Boato, il quale speriamo non ci presenti

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un'ulteriore stesura del suo testo, che recepisca le indicazioni venute dagli interventi odierni, sulla quale votare.
Chiedo scusa al collega Boato se in termini molto confusi, sto cercando di richiamare la sua attenzione. Ritengo peraltro che, in mancanza di una direttiva precisa in ordine al comportamento procedurale, ci si debba in parte affidare ad una prevedibilità degli eventi e solo a quelli.
Con riferimento al Consiglio superiore della magistratura, sarebbe auspicabile - ripeto - che, perché escluso quello per i giudici amministrativi, se ne costituissero due, uno per i giudici ordinari ed uno per i magistrati del pubblico ministero. L'ipotesi subordinata potrebbe essere quella del CSM diviso in due sezioni, una per i magistrati giudicanti e l'altra per quelli del pubblico ministero, sempre prevedendo la presenza paritaria tra togati e laici. Lo stesso si dovrebbe prevedere per la sezione disciplinare, sulla composizione della quale non avvertiamo particolari esigenze; riteniamo tuttavia che si debba assicurare la parità della presenza tra laici e togati, proprio per quel principio che ho cercato di illustrare a proposito del Consiglio superiore della magistratura.
Sempre in merito all'articolo 104, è evidente che dalla scelta che effettueremo scaturiranno le varie conseguenze della elezione dei presidenti o del vicepresidente: dei presidenti delle sezioni nel caso si dovesse giungere alla suddivisione per sezioni, o del vicepresidente del Consiglio nell'ipotesi non si dovesse arrivare a tale suddivisione e si dovesse introdurre invece l'autonomia, nel senso dei due CSM, quello per i giudicanti e quello per i magistrati del pubblico ministero.
Siamo convinti che il ministro della giustizia possa partecipare alle riunioni delle sezioni riunite e di ciascuna sezione del Consiglio, presentare proposte e richieste; così come siamo d'accordo sulle incompatibilità, rispetto alle quali non credo vi siano problemi di natura specifica.
Per quanto riguarda l'articolo 104-bis, ho già detto che non avrei speso nemmeno una parola e non la spenderò. Non riteniamo che si pongano problemi particolari e siamo convinti che il CSM amministrativo si debba e soprattutto si possa fare istituire.
Per quanto concerne l'articolo 105, la proposta di modifica di accogliere è ravvisabile nella ipotesi n. 1, poiché quell'«esclusivamente» potrebbe (sottolineo potrebbe) essere sufficiente per fissare determinati paletti (chiedo scusa se utilizzo questo termine, ma credo sia comprensibile e possa rendere meglio l'idea). Tuttavia, poiché personalmente, forse per deformazione professionale, non sono convinto che certe limitazioni possano essere utilizzate solo in un senso, ma penso che potrebbero esserlo anche in altri, credo sarebbe opportuna un'ulteriore specificazione. Mi riferisco a quella prevista nel comma secondo dell'ipotesi di modifica n. 2: «I Consigli non possono adottare deliberazioni di indirizzo politico od altri atti in materia di interpretazione delle leggi e organizzazione giudiziaria»; non ritengo che in una riforma così come la si vuole fare - e riteniamo si debba fare - possa mancare tale previsione.
A proposito dell'articolo 106, il primo comma non pone problemi di particolare natura. I problemi iniziano nel momento in cui si comincia a parlare della famosa separazione delle carriere o delle attribuzioni delle funzioni, che dir si voglia. Al riguardo, abbiamo una convinzione precisa, una certezza che ci deriva dalle esperienze da noi vissute e soprattutto da quelle attraversate dalla giustizia italiana.
Passo ora ad illustrare cosa si potrebbe prevedere, cosa è scritto e cosa non ci trova consenzienti. L'ipotesi di modifica n. 1 prevede che i magistrati ordinari esercitino inizialmente funzioni giudicanti (in organi collegiali) per un periodo di almeno tre anni. Come il collega Boato sa molto bene, la previsione di collegi giudicanti è di per sé stesso un primo problema, poiché con l'introduzione del giudice unico si creeranno discrasie o comunque momenti di perplessità in ordine a quello che dovrebbe essere lo svolgimento reale del tirocinio. È vero, comunque,

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che la stessa legge sull'introduzione del giudice unico prevede che per un certo tipo di reato vi sia un collegio giudicante, composto da almeno tre giudici, per cui si tornerebbe, per una specificazione della legge sulla istituzione del giudice unico, ad una previsione del collegio giudicante per i reati di particolare gravità. Sappiamo benissimo che tra quei reati vi sono quelli più gravi; possiamo quindi anche lasciare l'espressione «collegio giudicante», perché permetterebbe all'uditore di fare la sua esperienza in un organo di carattere collegiale, cioè di partecipare a processi e fare parte, come uditore, dei collegi che si occupano di processi istruiti per reati di particolare gravità.
Ci lascia perplessi il fatto che gli uditori debbano effettuare il loro tirocinio per un periodo di almeno tre anni in organi giudicanti. Mi pongo, e la pongo al collega Boato ed anche ai commissari la seguente domanda: se prevediamo un'esperienza di tre anni presso organi collegiali, dobbiamo poi indicare all'uditore dove prestare servizio, cioè se presso gli organi giudicanti o quelli inquirenti? Presso questi ultimi non farebbe alcuna esperienza se i tre anni fossero impegnati presso i collegi giudicanti. Presso di questi avrebbe la possibilità di acquisire la cultura della giurisdizione, sulla quale si sono scritte tante e belle pagine, peraltro tutte interessate, almeno fino ad oggi. La cultura della giurisdizione, dunque, entrerebbe certamente a far parte del suo bagaglio di magistrato, ma rimarrebbe un vuoto pneumatico costituito dalla impossibilità di aver prestato un pari periodo di tirocinio presso un magistrato inquirente, in modo da conoscere anche quella cultura.
Non credo che possa essere mantenuta una proposta avanzata in questi termini, perché veramente urta contro i principi fondamentali della cosiddetta cultura della giurisdizione.
Si potrebbe prevedere un periodo fisso come collegio giudicante ed un periodo di uguale durata presso il magistrato inquirente, quindi come uditore. Entriamo così in un'ottica diversa e consentiamo all'uditore di farsi carico della cultura della giurisdizione come giudicante e di comprendere cosa significa nel momento in cui intraprende la carriera di pubblico ministero. Mi pare che poi non si possa consentire a chi abbia effettuato la pratica di giudice di fare il pubblico ministero. Potremmo dire in questo caso - nessuno se ne dispiaccia, perché così andremo a finire - che i pubblici ministeri non sanno fare le indagini, cosa che da tanto tempo l'avvocatura nazionale - e non solo essa - sottolinea. Infatti, molti pubblici ministeri e molte procure della Repubblica si sono acquietati, non fanno più indagini, si sono adagiati sulle dichiarazioni rese dai vari collaboratori di giustizia, dimenticando che il compito principale del pubblico ministero non è quello di leggere o di far leggere al giudice di competenza quelle dichiarazioni dando per acquisite prove che tali non saranno mai. Spero che la modifica dell'articolo 513 del codice di procedura penale trovi finalmente la possibilità di un varo definitivo presso la Camera dei deputati in modo che ci si possa liberare almeno da questo incubo.
Desidero sottolineare che una volta concessa all'uditore un'esperienza biennale come giudicante e un'analoga esperienza come pubblico ministero e quindi come inquirente, occorre raggiungere un risultato. A questo punto l'uditore si sarà fatto un'idea di come si giudica e di come si fa il pubblico ministero, per cui non si può nemmeno prendere in considerazione il passaggio da una funzione all'altra, perché una volta effettuato un certo tipo di scelta che deriva da un'esperienza personale, non dovrà più essere consentito un passaggio che - lo dico con molta franchezza - non può essere mitigato dalla norma che si vuole costituzionalizzare, secondo la quale in nessun caso le funzioni giudicanti penali e quelle di pubblico ministero possono essere svolte nel medesimo distretto. Ciò non basta, non è sufficiente; l'inserimento di questa norma non può essere sufficiente per porre rimedio a quanto accade quotidianamente. Avrete letto in questi giorni la richiesta, avanzata dal procuratore della

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Repubblica di Milano, dottor Borrelli - la legge glielo consente -, di andare a fare il presidente della Corte d'appello di Milano. Non sto qui a dire che non può farlo o che gli è vietato da qualche norma, perché nessuna norma vigente lo fa, però - vivaddio - occorre pensare che il dottor Borrelli andrà a costituire le sezioni della Corte d'appello, ad indicare i magistrati che la formeranno, dopo essere passato attraverso un'esperienza che l'ha visto alla guida - certamente prestigiosa - della procura della Repubblica di Milano, con tutto ciò che segue per quanto riguarda le indagini svolte e i processi avviati da tale procura e dai sostituti procuratori dello stesso dottor Borrelli.
Chiedo quale cittadino si presenterà domani in Corte d'appello con tranquillità, sapendo che la composizione di quel collegio è stata decisa dal presidente Borrelli che altri non era che colui il quale aveva richiesto l'arresto per il reato del quale aveva deciso che lo stesso cittadino era responsabile. Mi pare che quanto meno sul piano deontologico, morale, etico, aberrazioni di questo genere non debbano più avvenire, fatti di questo genere non possano essere inseriti nella Carta costituzionale. Come dicevo, non è sufficiente il trasferimento in altra sede. Anche lo spostamento da procuratore della Repubblica a giudicante civile pone gli stessi problemi, perché in questo caso non vi sarebbe nemmeno l'ostacolo, collega Boato, costituito da quanto è stato previsto in questa norma. Non sarebbe di ostacolo allo spostamento del pubblico ministero dalla sede penale a quella civile, rimanendo nello stesso distretto, perché questa norma non glielo vieterebbe.
Quindi, separazione delle carriere: non vi è alcun dubbio, non credo si debbano spendere altre parole in ordine alla separazione con attribuzione definitiva delle funzioni. Non può esservi la possibilità di un passaggio da una parte all'altra né con filtri, né con concorsi; vi deve essere una separazione netta, precisa, inequivocabile, perché frutto di una scelta fatta dal magistrato nel momento in cui gli è stato chiesto se preferisse fare il pubblico ministero o il giudicante.
Sotto l'aspetto formale e sostanziale forse sono andato un po' al di là di quanto mi era consentito. Di ciò vi chiedo scusa, ma desideravo puntualizzare questi nodi che verranno al pettine nel momento in cui a seguito della presentazione di una bozza alternativa o di emendamenti dovremo discutere su questi nodi della riforma costituzionale sulla quale ci dovremo misurare, dovremo contarci e votare. A quel punto i garantisti per natura voteranno come crederanno, i garantisti d'occasione voteranno come crederanno, i garantisti per mestiere voteranno come crederanno, però staneremo i garantisti falsi che fino ad oggi si sono prestati alla campagna architettata e costruita anche contro i lavori di questa Commissione. Non si è trattato di una cosa ben fatta da parte di chiunque, ivi compresi i signori magistrati.

PRESIDENTE. Raccomando una certa brevità, anche se ho consentito a tutti i gruppi di sforare abbondantemente rispetto ai tempi massimi previsti.

GIOVANNI RUSSO. È stato già osservato da molti colleghi che il lavoro svolto in Comitato, attraverso un serrato confronto tra posizioni diverse, ha avuto uno sviluppo positivo, che trova la sua espressione nell'ultima proposta del collega Boato (l'ipotesi n. 1) sulla quale vi sono molti punti di convergenza e di consenso. Rimangono tuttavia alcuni punti importanti di dissenso, che lo stesso relatore ha richiamato. Su alcuni di questi in particolare desidero soffermarmi, perché credo che il contributo che si può dare all'ulteriore sviluppo della nostra discussione passi attraverso la verifica dei punti di dissenso.
Vorrei fare un'osservazione di carattere generale e invitare i colleghi, la Commissione, il relatore a questa riflessione.
Mi domando se non vi sia stato - e non vi sia tuttora - per certe parti un eccesso di costituzionalizzazione. Indico soltanto due esempi, ma potrei


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citarne qualcuno di più. Mi soffermerò successivamente sul problema della distinzione delle funzioni, in particolare sulla proposta di separazione delle carriere che è stata nuovamente avanzata in questa sede dai colleghi Lisi e Parenti. Qui osservo soltanto che, a mio avviso, sarebbe più appropriato se in Costituzione ci si limitasse ad un rinvio alla legge ordinaria per quanto riguarda la regolazione del passaggio fra le diverse funzioni, senza pretendere di entrare nei dettagli individuando i criteri ai quali il passaggio di funzioni deve rispondere. Soprattutto, però, vorrei sottolineare un altro punto, relativo all'ultima parte dell'articolo 107: introdurre in Costituzione norme deontologiche (i magistrati debbono comportarsi secondo correttezza e riservatezza), specificare nel dettaglio i casi di l'incompatibilità mi sembra non proprio, anche per un equilibrio generale della Costituzione. Non credo che in altre parti, per esempio laddove si affronterà il tema della forma di Governo e si parlerà del Presidente del Consiglio e dei ministri, si entrerà nel dettaglio delle regole di comportamento. Credo quindi che anche per questa parte sarebbe più opportuna la scelta di un rinvio alla legge ordinaria, trattandosi di materia tipica di una disciplina ordinaria, non costituzionale.
Mi soffermerò ora su due temi: il pubblico ministero e l'obbligatorietà dell'azione penale.
Questa mattina il relatore ha richiamato l'origine storica della figura del pubblico ministero e la sua evoluzione. Mi pare che da questa vicenda derivi un insegnamento importante: è vero che la figura del pubblico ministero è nata in una certa ambiguità, ma è altrettanto vero che la sua evoluzione l'ha portata a liberarsi progressivamente dal vincolo del potere politico esistente in origine e ad identificarsi sempre di più nello status e nelle garanzie proprie del magistrato. Questo lungo processo storico ha trovato la sua sanzione proprio nella nostra Costituzione: in realtà è stata costituzionalizzata nel suo complesso l'indipendenza non soltanto del giudice ma anche del pubblico ministero. Nonostante il testo dell'articolo 101, che nel prevedere la soggezione soltanto alla legge fa riferimento ai "giudici" e non ai "magistrati" (sappiamo che questa limitazione era nata in sede di coordinamento finale), l'interpretazione costituzionale costante è che dal complesso delle regole costituzionali si ricava l'indipendenza non soltanto dei giudici, ma anche dei pubblici ministeri.
Ho ascoltato oggi alcuni interventi che francamente mi destano preoccupazione, perché in qualche maniera tendono a mettere in discussione l'indipendenza del pubblico ministero: si chiede di limitare la norma dell'articolo 101 ai giudici, con l'intenzione - questa volta vi sarebbe l'intenzione manifesta - di affermare il principio dell'indipendenza soltanto per il giudice e non anche per il pubblico ministero. L'onorevole Parenti ha detto che il pubblico ministero non ha la qualità della terzietà e che quindi questa figura non richiede il vincolo della soggezione soltanto alla legge. Non vedo assolutamente il nesso fra terzietà ed obbligo di soggezione alla sola legge. Certo, se per terzietà si intende una posizione esterna all'accusa ed alla difesa, il pubblico ministero non è terzo: ma questo non significa che non debba essere «soggetto soltanto alla legge». È questo infatti un valore molto importante. L'indipendenza dei giudici e del pubblico ministero non è una garanzia o un privilegio per queste figure, ma rappresenta una garanzia per i cittadini, i quali devono sapere che anche nell'esercizio dell'azione penale - delicatissimo - hanno di fronte un magistrato che è soggetto soltanto alla legge e non ad altri. Essere soggetti soltanto alla legge significa proprio questo: non ad altri poteri.
Il relatore questa mattina ha detto: non è un dogma democratico. Indubbiamente vi sono ordinamenti democratici nei quali è previsto che il pubblico ministero sia incardinato nel potere esecutivo. Non sarà un dogma, ma certo considero un principio fondamentale per la garanzia dei cittadini che il pubblico ministero non sia incardinato nel potere esecutivo, non abbia vincoli o non sia dipendente dal

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potere esecutivo. È chiaro che, se si mette in discussione il valore dell'indipendenza, in prospettiva tutto questo può succedere. Del resto, negli interventi che abbiamo ascoltato, il collegamento, la raffigurazione del pubblico ministero come espressione del potere politico sono emersi più volte.
Quali sono le implicazioni del principio di indipendenza? Certamente l'inamovibilità. La collega Parenti ha espresso qualche preoccupazione circa una modifica proposta dal relatore all'articolo 107: sostituire la garanzia di difesa, prevista oggi nella norma, con la garanzia del contraddittorio. Non mi sento di condividere questa preoccupazione, perché la garanzia dell'inamovibilità, come espressione dell'indipendenza dei giudici e dei pubblici ministeri, č garantita dal fatto che le destinazioni ad altre sedi sono possibili soltanto per decisione del Consiglio superiore della magistratura, nei casi previsti dalla legge e, appunto, con la garanzia del contraddittorio. Se, però, qualche preoccupazione avesse ragione di essere (sono disponibile a verificarla, perché non possiamo in alcun modo incrinare il valore dell'inamovibilità), allora sarei dell'idea di tornare alla formulazione originaria della nostra Costituzione. Ciò non vale soltanto per i giudici, ma anche per i pubblici ministeri, perché l'inamovibilità deve operare per gli uni e per gli altri.
Vi è poi il problema del coordinamento. È autentica l'esigenza di un coordinamento interno degli uffici del pubblico ministero: ad essa si deve dare risposta. Nel momento in cui stabiliamo che i magistrati del pubblico ministero sono soggetti soltanto alla legge, è giusto prevedere che la legge sull'ordinamento giudiziario possa stabilire norme che assicurino il coordinamento: non vedo contraddizione tra questi due elementi. Appunto perché non esiste contraddizione, allora, è bene rendere esplicita questa possibilità. Però deve essere un coordinamento interno del singolo ufficio. È un punto su cui vorrei richiamare l'attenzione del relatore. Certo l'attuale formulazione della sua proposta è ambigua, poiché si parla non solo di coordinamento, ma anche di unità di azione, mentre poi si parla di coordinamento degli uffici: così si presta ad essere interpretata come riferita ad un coordinamento a livello nazionale. Alcuni colleghi hanno sostenuto la necessità di unità di azione, di unitarietà degli uffici del pubblico ministero. Ma cosa vuol dire? Necessariamente tutto il discorso porta ad una verticalizzazione degli uffici del pubblico ministero, ad una gerarchizzazione. Questo, sì, può mettere in pericolo l'indipendenza dei magistrati del pubblico ministero. Vi è un'esigenza di uniformità, è vero; ma tale condizione va realizzata attraverso le verifiche, attraverso il controllo del giudice sulle azioni penali che possano risultare promosse senza fondamento. Non deve essere realizzata attraverso un vincolo gerarchico ed un comando dall'alto, perché ciņ puņ portare ad un ufficio che indirizza in maniera arbitraria l'azione di tutti gli uffici del pubblico ministero nel loro complesso. Credo quindi sia un punto che richieda una modifica.
Vengo ora al problema della separazione delle carriere o della distinzione delle funzioni. Sul tema ci siamo confrontati a lungo e non voglio diffondermi su di esso ulteriormente. Anche in questo caso sono convinto che sia la garanzia dei cittadini a richiedere che il pubblico ministero resti a tutti gli effetti magistrato. Questo può avvenire attraverso una partecipazione comune ad una comune cultura e attraverso quella pluralità di esperienze che costituisce un arricchimento per il magistrato. Il magistrato che sia, in qualche maniera, rinchiuso nel suo ruolo di pubblico accusatore, professionalmente, per tutta la vita, per tutto lo sviluppo della carriera, garantirà meno i cittadini di quanto non li garantisca un magistrato che, attraverso la pluralità delle esperienze, assume anche una distanza e una capacità critiche rispetto all'esercizio dell'azione penale.
Quindi, sono nettamente contrario alla separazione delle carriere. Riconosco che

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esistono problemi specifici più riconducibili ad ipotesi di incompatibilità: l'esercizio delle funzioni giudicanti penali nella medesima sede. Ho già espresso prima una mia propensione piuttosto per un rinvio alla legge ordinaria. Ma se vogliamo stabilire anche alcuni criteri, sta bene quello della incompatibilità nell'ambito dello stesso distretto, non però - su questo punto esprimo un dissenso e richiamo l'attenzione del relatore - al concorso per il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti. Tra l'altro, trovo contraddittorio che si preveda questo per chi ha superato quello di magistratura all'inizio e non lo si preveda invece, per esempio, per la nomina a magistrato di professori di università o di avvocati. Questa mi sembra veramente una grave contraddizione.
Infine, sempre per quanto riguarda il problema del rapporto pubblico ministero-giudici, noi siamo contrari alla previsione delle due sezioni del Consiglio superiore della magistratura: deve essere un Consiglio superiore unico per tutti i magistrati, siano essi giudicanti o requirenti.
Alcune osservazioni, prima di concludere, sulla obbligatorietà dell'azione penale. L'obbligatorietà, collegata al principio di uguaglianza, va confermata senza limitazioni. La formula nell'ipotesi n. 1 del relatore mi pare convincente: si riafferma il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale e si dice che la legge individua gli strumenti che rendono effettivo l'esercizio. Quindi, questa aggiunta rinforza, non indebolisce il concetto dell'obbligatorietà dell'azione penale. È un'indicazione al legislatore ordinario a fare in modo che l'esercizio sia effettivo, e alcune strade sono state indicate nel dibattito: una più ampia depenalizzazione; una estensione della procedibilità a querela; lo stesso principio di non offensività, che, forse, potrebbe trovare più appropriata collocazione nella legge ordinaria ma che può essere anche costituzionalizzato. Però, volendo costituzionalizzare il principio di non offensività, credo che debba esserci un approfondimento sulla formulazione, sulla enunciazione, che deve essere più precisa e più legata alla tenuità del fatto, alla irrilevanza del fatto, e sulla collocazione; il principio non va collocato nell'articolo 112, perché non deve essere inteso come una deroga all'obbligatorietà dell'azione penale ma, semmai, come indicazione verso quello che la collega Salvato chiamava il codice penale minimo, cioè verso una riduzione dell'area della repressione penale che consenta un esercizio più rigoroso dell'azione penale nei casi in cui ciò è necessario.
Devo dichiarare la mia ferma contrarietà, invece, all'indicazione dell'interesse pubblico come criterio nell'esercizio dell'azione penale, perché questa indicazione, per un verso equivoca, per un altro verso si presta ad essere intesa in senso assai pericoloso: l'interesse pubblico può essere considerato come interesse politico lato sensu, puņ portare a discriminazioni in base alla posizione istituzionale di una persona, alla sua forza politica od economica, a decidere di procedere in un caso e non in un altro secondo ragioni politiche o "ragione di Stato". Quindi, per ragioni politiche, credo che non sia opportuno procedere in un caso piuttosto che in un altro. Ritengo, pertanto, che questo riferimento debba essere eliminato.
Sono anche d'accordo con quello che ha detto il collega Marchetti, cioè che la relazione, che si prevede che annualmente faccia il ministro al Parlamento (reputo opportuno sia riferita allo stato della giustizia), non sia collocata in seno all'articolo 112, perché non deve riferirsi - per lo meno prevalentemente o esclusivamente - all'esercizio dell'azione penale. Quindi, trova una sua più adeguata sistemazione nell'ambito dell'articolo 110 che prevede quali sono le funzioni del ministro.
Concludo facendo mia una raccomandazione che, con piacere, ho sentito fare questa sera dai colleghi Maceratini e Loiero: sui punti di dissenso ancora aperti, anche su questioni rilevanti, confrontiamoci, cerchiamo di superarli e di realizzare delle convergenze. Ma se non trovassimo tali convergenze, credo che

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sarebbe più saggio rinunciare a modificare la Costituzione. Se su un tema non c'è consenso largo, meglio rinviare l'intervento piuttosto che approvare a stretta maggioranza modifiche al testo vigente che non siano sufficientemente convincenti e meditate. Mi pare che sarebbe cosa saggia se potessimo procedere in questo modo: modificare dove ci convinciamo che è utile farlo con largo consenso; rinunciare alla modifica, impregiudicate le diverse posizioni, dove questo consenso non si realizza.

MARIDA DENTAMARO. Signor presidente, il mio intervento riguarderà soltanto i temi della giustizia amministrativa e contabile.
Dico subito che per questa parte ritengo molto soddisfacente l'impianto complessivo della proposta di modifica n. 1 elaborata dal relatore, perché mi sembra che nel suo complesso soddisfi più esigenze. Con l'affermare il principio dell'unitarietà della funzione giurisdizionale, nel cui ambito viene tuttavia mantenuta la distinzione tra giudici ordinari e giudici amministrativi, la proposta conserva alla giurisdizione - direi nella giurisdizione - un patrimonio di esperienza, di specializzazione, di cultura amministrativa che è stato accumulato in oltre un secolo di attività del giudice amministrativo nel suo complesso, in particolare del Consiglio di Stato, e che ha avuto il significato sostanziale di conquistare nuovi campi di diritto e di libertà ai cittadini. Lo rilevava Meuccio Ruini, che ho citato testualmente, in sede di Assemblea costituente.
La giurisdizione amministrativa, in effetti, nacque non come restrizione dell'area di tutela del cittadino (sospetto che sempre accompagna l'istituzione di un giudice speciale, e con questo esprimo lapidariamente un giudizio sulla previsione fatta in proposito nella bozza n. 1: è una delle poche parti che non condivido) ma come ampliamento della tutela giurisdizionale a un'area di situazioni soggettive che, nell'impianto della giurisdizione unica del 1865, ne era completamente priva. Lo stesso giudice amministrativo ha poi saputo progressivamente ampliare tale area con una raffinata giurisprudenza pretoria che ha ricevuto impulso ulteriore dall'introduzione del doppio grado di giurisdizione e, quindi, dal lavoro, dall'opera dei tribunali amministrativi regionali.
Ecco perché sono convinta che mantenere un giudice amministrativo distinto dal giudice ordinario in un quadro di unitarietà funzionale (questo è importante per altre sottolineature che farò tra poco) consentirà ulteriori progressi in questa direzione.
L'altra esigenza, che è in parte soddisfatta dalla formulazione della prima ipotesi, è quella di superare quello che è stato finora l'inconveniente più serio della duplicità della giurisdizione, cioè la difficoltà di applicazione derivante dal criterio di riparto fondato sulla natura della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio.
Per questo aspetto, però, mentre condivido l'abbandono di questo criterio, cioè la pars destruens della soluzione del relatore, nutro molte riserve sulla proposta alternativa dei blocchi omogenei di materie. La soluzione presenta caratteri sin troppo evidenti di equivocità e non offre una chiara direttiva al legislatore ordinario per procedere all'individuazione delle materie, che viene devoluta sostanzialmente in bianco. Si disegnano due scatole vuote, la giurisdizione civile e quella amministrativa, e si lascia al legislatore ordinario, quindi ad una maggioranza politica di volta in volta, il compito di riempirle. Questo è inaccettabile da parte del costituente: un indirizzo di contenuto a mio avviso è assolutamente necessario.
Del resto, è facile rendersi conto che già oggi in quest'opera di riempire i contenitori si imporrebbe un lavoro molto difficile a fronte della complessità della legislazione vigente. Faccio un solo esempio: le difficoltà di inquadramento cui si presterebbero istituti trasversali che costituiscono magna pars del diritto amministrativo


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(l'appalto, l'espropriazione per pubblica utilità), istituti cioè che sono applicati in molteplici settori della pubblica amministrazione, ma che rischierebbero con questo criterio di essere ancora una volta ripartiti tra due giudici, con conseguenze inaccettabili. Né a questo potrebbe ovviarsi con sicure forzature, quale sarebbe quella di catalogare l'espropriazione o l'appalto tra le materie.
Ma il punto di fondo è un altro. Il riparto per materie imprimerebbe al giudice amministrativo un carattere inequivocabile di giudice speciale; non a caso quando si prevede la possibilità di istituire nuovi giudici speciali si dice «per determinate materie». È un criterio tipico di giurisdizione speciale, che però contraddice il principio dell'unitarietà della funzione giurisdizionale che invece, come rilevavo prima, più che giustamente si propone di consacrare nella nuova formulazione dell'articolo 102.
Ecco perché in coerenza con questo ben condivisibile principio è, invece, l'individuazione di un giudice amministrativo che sia giudice per così dire ordinario o, se preferiamo, generale della pubblica amministrazione, la cui giurisdizione sia individuata attraverso una clausola generale, salva eventualmente la possibilità di prevedere eccezioni da stabilirsi in sede di legge ordinaria.
Ho ascoltato con soddisfazione l'apertura del senatore Pellegrino all'introduzione di una clausola generale. Io propendo per il criterio soggettivo, cioè individuare le controversie di cui sia parte una pubblica amministrazione; quello che propone Pellegrino, che riguarda l'esercizio di pubblici poteri o pubblici servizi, è in fondo un chiarimento del criterio soggettivo perché le società per azioni risultati dalle privatizzazioni, cui si riferiva nel suo intervento, hanno nelle controversie di cui parliamo la qualità soggettiva di concessionarie di pubblici servizi. Mi pare quindi che, alla fine, ci intendiamo sul tipo di clausola generale che è indispensabile: la pura e semplice devoluzione al legislatore ordinario dell'individuazione dei blocchi di materie a mio avviso non è accettabile.
L'opzione per il giudice amministrativo quale giudice unico dell'amministrazione, da compiere con coraggio e senza ambiguità, conduce all'ulteriore approdo della devoluzione a questo dei giudizi di responsabilità nei confronti dei pubblici funzionari. Questa scelta è coerente anche con le linee di tendenza più recenti della legislazione, in tema di procedimento amministrativo prima di tutto. Ricordiamo i principi di efficienza e di economicità ormai elevati a canoni di legittimità dell'azione amministrativa, i risultati notevoli già raggiunti dal giudice amministrativo nel sindacato di legalità sostanziale della decisione mediante lo strumento dell'eccesso di potere, infine la previsione dell'ultima novella in materia di giudizi di responsabilità amministrativa, che opportunamente ha precluso in modo esplicito il sindacato della Corte dei conti sulle decisioni discrezionali della pubblica amministrazione.
Di conseguenza, la scelta di un unico giudice dell'amministrazione sia per le controversie con i cittadini sia per quelle che riguardano il rapporto tra l'amministrazione pubblica ed i suoi funzionari, è una scelta di coerenza del sistema. Rispetto a questa è stato anche opportuno, a mio avviso, prevedere l'istituzione dell'ufficio del pubblico ministero presso il giudice amministrativo per il promuovimento dell'azione, essendo assolutamente da escludere l'ipotesi di eliminare il carattere pubblico dell'azione di responsabilità.
Un supplemento di attenzione chiedo all'onorevole Boato sulla definizione dei poteri del giudice amministrativo. È sostanzialmente unanime il giudizio di insoddisfazione circa l'attuale limitazione di questi poteri all'annullamento dell'atto che, da un lato, spesso non è idoneo a soddisfare l'interesse sostanziale dedotto in giudizio, cioè a far conseguire al cittadino la utilitas, il bene della vita, dall'altro, spesso, determina gravi inconvenienti sul versante dell'interesse pubblico

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ogni qualvolta - e non è un caso raro - vengano annullati, per esempio dopo un lungo periodo di vigenza, atti generali, programmi, piani regolatori, regolamenti.
Di fronte a questi problemi, che sono quotidiani per gli operatori e gli utenti della giustizia amministrativa, credo si debba essere più coraggiosi nel riformulare l'articolo 113, ribadendo certamente l'illimitatezza della tutela giurisdizionale nei confronti non solo degli atti ma anche dei comportamenti della pubblica amministrazione materiali o omissivi (questo è uno dei punti dolenti della tutela amministrativa); affermando esplicitamente un riferimento alla pari ampiezza della tutela cautelare, perché anche questa allo stato è il cuore della giustizia amministrativa per ragioni non fisiologiche ma divenute tali; ammettendo infine per il legislatore ordinario la possibilità di prevedere strumenti di reintegrazione alternativi all'annullamento degli atti. Anziché riprodurre le vetuste norme sull'individuazione del giudice che abbia il potere di annullare gli atti e su quali atti siano annullabili, si dovrebbero prevedere strumenti di reintegrazione alternativi, naturalmente lasciandone la concreta determinazione al legislatore ordinario. Questo significherebbe far cadere ogni residuo ostacolo a rimuovere quella perdurante anomalia del nostro sistema rappresentata dalla irrisarcibilità della lesione di posizioni di interesse legittimo. È un'anomalia evidente che ci viene contestata anche da parte dell'Unione europea.
La terza istanza cui risponde positivamente l'ipotesi di modifica n. 1 - e questa volta la soluzione data è pienamente coerente con il principio dell'unitarietà funzionale - è quella di portare a compimento uno statuto di indipendenza del giudice amministrativo analogo a quello riconosciuto al giudice ordinario, sia attraverso la previsione costituzionale dell'organo di autogoverno sia attraverso lo scioglimento del nodo della separazione delle funzioni rispettivamente consultiva e di controllo da quella giurisdizionale. Il principio della netta separazione tra le diverse funzioni appare indispensabile in un contesto di parificazione piena del giudice amministrativo a quello ordinario quanto all'effettività della terzietà e dell'indipendenza, in un quadro di assoluta separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato. Il che non esclude affatto la possibilità, anzi l'opportunità, di conservare garanzie magistratuali che ben si addicono all'esercizio di funzioni neutrali di grande rilevanza ordinamentale. Ma sarei molto perplessa se alla questione della separazione si intendesse dare soluzione diversa con riguardo alla funzione consultiva e a quella di controllo.
Sarebbe questa una scelta davvero priva di fondamento sul piano dei principi e difficilmente giustificabile di fronte all'opinione pubblica, che non mancherebbe di interpretarla come apprezzamento negativo sull'operato degli organi della giustizia contabile, apprezzamento che credo non sia nell'atteggiamento e nel giudizio di alcuno di noi, così come certamente non lo è nei confronti degli organi della giustizia amministrativa; anzi, in apertura, credo di aver tributato ad essi il doveroso riconoscimento per il contributo decisivo che hanno dato alla realizzazione effettiva dello Stato di diritto.
Il punto è semplicemente che i tempi sono maturi e quest'occasione non può essere persa per portare a compimento in modo definitivo, pieno e senza equivoci quel percorso di civiltà giuridica di cui - ribadisco - le stesse istituzioni di cui parliamo sono state protagoniste.

MARCELLO PERA. Presidente, preferisco interpretare il gran numero di sedie vuote, in quest'aula e a quest'ora, come effetto della sindrome di Bach sui loro occupanti: lei sa che essa consiste nel venire, toccare e fuggire. Se dovessi attribuire la quantità di sedie vuote alla scarsezza di interesse, mi sentirei molto preoccupato per la Commissione ed i suoi lavori.
Il testo che abbiamo di fronte si caratterizza, come è noto, per la presenza di due colonne. Ma, come è già stato detto


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più volte, non sempre la seconda colonna è alternativa alla prima. Non siamo di fronte a due indirizzi completamente diversi perché talvolta la seconda colonna è diversa ed opposta, talvolta è solo diversa, talvolta - come il relatore ha detto stamane - è equipollente.
Ci sono anche molti casi in cui le colonne si riducono ad una sola e credo che ciò sia in primo luogo merito del relatore, il quale ha saputo ridurre ad una sintesi il dibattito, sia pure mantenendo un suo personale grado di originalità: di ciò gli do volentieri atto. Credo però che il merito - specialmente nei casi in cui la colonna si riduce ad una sola - vada anche all'andamento del dibattito nel Comitato; il relatore ha potuto trovare la sintesi in quanto una forma di sintesi si è manifestata tra i membri del Comitato medesimo.
Ho sentito quest'oggi, all'inizio del dibattito pomeridiano, l'unica nota stonata della giornata, quella pronunciata dal senatore Senese, il quale addirittura ha parlato di un tentativo di radicale sovvertimento dell'ordine costituzionale messo in atto da parte di alcune forze politiche. Il riferimento del senatore Senese era ovviamente diretto alla mia parte politica ed io lo trovo ingiusto; trovo anche offensiva questa affermazione e la respingo.
La reazione dell'essere offeso si è attenuata quando ho riflettuto - ascoltando successivamente il senatore Senese - sul fatto che egli, più che parlare per essere ascoltato da lei, presidente, dal relatore e da tutti noi, presumibilmente parlava per un uditorio che qui non è presente e per soddisfare il quale ha assunto i panni del bravo maestro, il quale finalmente avrebbe ridotto a miti consigli gli eversori dell'ordine costituzionale. Io non ne ho avvertiti e penso che nessun altro lo abbia fatto, comunque non ritengo di essere un eversore dell'ordine costituzionale laddove svolgerò alcune critiche e solleverò obiezioni al testo del relatore.
Si tratta di un testo anche coraggioso, che dimostra un buon lavoro svolto da tutti noi e dal relatore personalmente, in ordine a varie esigenze che noi avevamo di fronte. Ricordo, all'inizio della discussione in sede di Commissione plenaria sul tema delle garanzie, di aver detto - ma non fui il solo - che avevamo di fronte diversi problemi. Dovevamo garantire le libertà fondamentali dei cittadini, l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, il rispetto della sovranità democratica (soprattutto in ordine alla responsabilità delle azioni anticriminali o della politica giudiziaria), l'esercizio efficiente della legalità.
Se richiamo queste quattro esigenze, che avevamo sottolineato e che mi sembravano comuni, devo anche aggiungere che il testo presentato dal relatore mi pare soddisfacente rispetto al primo punto: garanzie per la libertà individuale dei cittadini. In particolare, vi sono dei principi fissati nell'articolo 101 e poi nell'articolo 111, comma 3 (che guarda caso è uno di quegli articoli che si riduce ad una colonna sola), che effettivamente tutelano libertà fondamentali dei cittadini: parlo della parità, del contraddittorio, del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso. Sono principi fondamentali che il testo assicura.
Si può qui aprire e chiudere immediatamente una parentesi per dare uno sguardo complessivo alla Costituzione che avremo, una volta approvate tutte queste proposte, la quale conterrà nella primissima parte alcuni principi fondamentali sui cittadini, ai quali seguiranno cento articoli, mentre l'articolo 101 conterrà altri principi fondamentali che starebbero benissimo nella prima parte che non possiamo toccare.
Chiusa la parentesi, mi dichiaro quindi assai soddisfatto per la tutela delle libertà individuali. Credo che sia anche stata soddisfatta l'esigenza dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura. Lo si evince dall'articolo 101, sia nella prima sia nella seconda colonna, ed anche dall'articolo 104, laddove si afferma che i pubblici ministeri rappresentano un ordine autonomo indipendente dagli altri poteri.

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Quello che non mi sembra completamente soddisfacente e sul quale richiamo l'attenzione del relatore, perché penso vi sia ancora una zona d'ombra, è la tutela per quanto riguarda la sovranità democratica e l'efficienza dell'azione di legalità. Per spiegarmi devo procedere a zig zag perché apprezzo alcune norme contenute nella prima colonna ed altre contenute nella seconda; se dovessi dare una valutazione complessiva, dovrei appunto procedere a zig zag, cioè assemblare ora la prima ora la seconda colonna.
L'efficienza dell'azione anticriminale è presa in considerazione prevalentemente dall'articolo 101; essa non è questione che riguardi solo l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, che - ripeto - nel testo sono garantite. Né basta per avere efficienza in quest'azione l'obbligatorietà dell'azione penale, che qui è addirittura rafforzata quanto ai mezzi e mitigata nell'articolo 112 quanto alle occasioni del suo concreto esercizio. Per avere questa efficienza occorre in particolare un coordinamento tra coloro che svolgono l'azione di tutela della legalità pubblica, un potere d'impulso, un'unitarietà ed un'armonia tra i soggetti - i pubblici ministeri - che esercitano tale azione. Mi pare che questa sia una zona d'ombra perché, se si guarda l'articolo 101, nel quale è contenuto il punto fondamentale su questo problema, sia nella prima sia nella seconda colonna si trova una certa tensione, come se non ci fossimo ben decisi tra due logiche diverse.
Faccio un esempio: il secondo comma dell'articolo 101 di cui all'ipotesi n. 1 ci dice che tutti i magistrati, giudicanti e requirenti, sono soggetti soltanto alla legge, mentre i pubblici ministeri sono soggetti ad un coordinamento. C'è un'ovvia tensione perché se i singoli magistrati, dell'uno e dell'altro ufficio, sono soggetti soltanto alla legge, a mio avviso, questo crea una tensione con quella parte degli stessi che devono essere soggetti anche al coordinamento.
D'altro canto, l'ipotesi n. 2 (seconda colonna) dell'articolo 101, quella che io preferisco, scioglie questa tensione, perché ritorna al testo vigente della Costituzione, distingue i giudici dai pubblici ministeri e tuttavia parla di un coordinamento interno; questa è ancora una difficoltà, a meno che sia solo una questione di interpretazione.
Chiedo (non vorrei scandalizzare il collega Russo): esiste l'esigenza di un coordinamento o di una armonizzazione unitaria in questo paese per le varie politiche o azioni anticriminali? Ci dobbiamo affidare al pluralismo degli uffici del pubblico ministero, che l'onorevole Folena dichiarò essere una ricchezza? Qual è il limite tra il pluralismo del pubblico ministero e la polverizzazione, quindi la disorganicità delle azioni nella politica anticriminale?
Se coordinamento interno degli uffici vuol dire coordinamento interno di ciascuno ufficio, ci troviamo di fronte ad un rischio notevole. In questo paese abbiamo creato alcuni anni fa un'istituzione nuova, la Direzione nazionale antimafia, il cui procuratore nazionale svolge un'azione - è scritto nella legge - di impulso, di coordinamento, di direzione, addirittura di avocazione sull'intero territorio nazionale. Allora, o questo istituto nuovo che abbiamo creato - credo si voglia mantenerlo - ha una copertura costituzionale, per cui anche in Costituzione deve essere possibile l'esistenza di un coordinamento nazionale, oppure se lo lasciamo interno - e interno deve essere inteso - rispetto ai singoli uffici, corriamo il rischio che domani in base ad un'interpretazione letterale (ed anche non letterale) della nostra nuova Costituzione si dichiarerà incostituzionale la Direzione nazionale antimafia. Non vorrei si celebrasse il quinto anniversario della morte di Giovanni Falcone sostenendo che quell'istituto, per il quale egli in particolare si battè, è anticostituzionale.
Si potrebbe dire che è stata fatta un'eccezione per l'emergenza mafia, ma, poiché questo è un paese che vive di parecchie emergenze e queste sono per definizione imprevedibili, domani potremmo avere l'emergenza corruzione, poi l'emergenza microcriminalità, l'emergenza

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immigrazione. Se andassimo a creare giurisdizioni ad hoc con coordinamenti nazionali, tanto varrebbe avere una previsione costituzionale per la quale gli istituti che già ci sono o potrebbero sorgere hanno già una loro legittimità costituzionale. Questa è l'esigenza che pongo: si può dire che non si accetta questo o quell'istituto, ma non si può sostenere che l'esigenza non esista.
A me pare una lacuna e mi chiedo - insisto sull'articolo 101 - il perché della sua esistenza. Noi non abbiamo sciolto un nodo, che è emerso anche oggi, quello della separazione tra giudici e pubblici ministeri. Signor presidente, da anni - non in questa Commissione, ma nel dibattito pubblico, nei giornali, nei convegni, nelle sedi scientifiche - stiamo facendo - non vorrei essere irriverente con nessuno - una sorta di batracomiomachia, una guerra di parole: separazione, distinzione, funzioni, carriere; sono quattro termini che vengono combinati insieme, per cui si parla o di separazione di carriere, o di separazione di funzioni, o di distinzione di carriere o di distinzione di funzioni. Spero che nessuno voglia parlare della distinzione delle separazioni o della separazione delle distinzioni, perché le parole ormai stanno andando in libertà.
Non vorrei richiamare le parole ed impiccarmi sulla questione delle carriere e delle funzioni. Questa è una questione di ruoli! Dobbiamo sapere se c'è un ruolo, una figura, uno status del giudice, colui che esercita l'attività giurisdizionale, e del pubblico ministero, colui che non esercita l'attività giurisdizionale. Propongo di superare il dibattito inserendo in Costituzione né separazione di funzioni né separazione di carriere, ma lo status (questo sì) dell'uno e dell'altro. Questa è una separazione che occorre perché sono due figure diverse che fanno cose diverse.
Non l'abbiamo fatto, abbiamo oggi una Costituzione ambigua su questo terreno, ma se fosse approvato il testo del relatore avremmo una nuova Costituzione ambigua; alla domanda se il giudice ed il pubblico ministero siano dello stesso ordine giudiziario, siano organi giurisdizionali, dovremmo rispondere «sì, forse, ma» e via dicendo.
Niente di male ci sarebbe se questo non avesse conseguenze pratiche, invece ne ha proprio in ordine all'efficienza. Se introduciamo delle distinzioni e separiamo le figure, allora ha un senso parlare di coordinamento, ma se non facciamo questo e lasciamo un'ambiguità, il coordinamento è sempre a rischio. Vorrei che questo nodo venisse sciolto e per essere uomo di buona volontà propongo che ciò avvenga semplicemente con la distinzione dei due statuti o dei due ruoli (né carriere, né funzioni).
Non sono laureato in giurisprudenza, ma mi si dice che coloro che si laureano in questa materia vengono sempre addestrati a questa espressione: il pubblico ministero è organo dello Stato-persona; se è organo dello Stato-persona, secondo antichissima dottrina, è organo amministrativo o esecutivo, comunque svolge l'accusa pubblica. Allora, questo statuto glielo vogliamo dare oppure no?
D'altra parte, mi chiedo come si faccia a prevedere nell'articolo 101 - altra tensione presente in questa previsione - i bellissimi principi che tutti concordi abbiamo scritto insieme, per esempio a proposito della parità, e al tempo stesso lasciare l'ambiguità sulla figura del pubblico ministero e del giudice. La parità ha un senso in quanto il pubblico ministero è lontano dal giudice tanto quanto lo è la difesa; altrimenti, è una parola. L'unica parità che ha senso stabilire è quella dell'equidistanza: pubblico ministero e accusato sono equidistanti dal giudice terzo. Se il pubblico ministero ancora una volta rimane ambiguo - giurisdizionale o paragiurisdizionale - la parità da una parte è affermata a parole, dall'altra è negata nei fatti.
Si potrebbe sostenere che queste sono le opinioni personali di colui che è più amico o nemico dei pubblici ministeri. In questo paese è stato introdotto nel 1989 un nuovo codice di procedura penale, un codice accusatorio, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 febbraio 1987 e del 24 ottobre 1988. Non io, ma la relazione

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che lo accompagna afferma che quel codice richiede piena e netta separazione in ogni fase del rapporto processuale tra il ruolo, i poteri e la struttura (guardate quanto erano bravi, non litigavano sulle parole «funzioni» e «carriere») dell'accusa ed ogni potere decisionale, cioè il giudice. Afferma che questo codice richiede che il pubblico ministero sia organo ed abbia poteri soltanto di accusa; che al pubblico ministero deve essere riconosciuta per intero e senza concessioni ad ibridismi di sorta la posizione di parte.
Perché sostenere quest'oggi ancora una volta, con le parole del collega Russo, che colui riafferma queste posizioni vuole sottoporre il pubblico ministero all'esecutivo? Qui nessuno vuole sottoporre alcunché, perché nessuno l'ha proposto. Si tratta di definire chiaramente quali siano lo statuto, il ruolo, i poteri, la struttura: leggo da una legge dello Stato. Purtroppo questo nel testo dell'onorevole Boato è rimasto con una certa ambiguità; io capisco ed apprezzo l'ambiguità, perché voleva raggiungere quel compromesso, però l'ambiguità fa sì che il testo che avremo sarà altrettanto di difficile applicazione, o consentirà gli stravolgimenti che ha consentito l'attuale Costituzione.
Vi è da ultimo l'altra esigenza, che a mio avviso è rimasta nella zona grigia, quella della responsabilità delle azioni anticriminali e giudiziarie. Rifaccio la domanda: in questo paese, anche con questa nuova Costituzione, se sarà la nuova Costituzione, chi è responsabile dell'azione anticriminale? Chi dà gli impulsi? Chi ne risponde? E chi risponde a chi? Qui non è detto; anzi, avendo da un lato indicato che giudici e pubblici ministeri giustamente costituiscono un ordine indipendente dai poteri dello Stato, avendo per un verso rafforzato l'obbligatorietà dell'azione penale, il rischio è che di nuovo noi facciamo della magistratura un potere chiuso ed appartato. Poiché era un'esigenza che avevamo posto fin dall'inizio, vorrei capire dove sia il collegamento tra l'azione anticriminale della magistratura e la sovranità popolare. Non si deve ritenere che se si pensa al coordinamento allora si pensa al ministro della giustizia che ha sotto di sé, come vertice gerarchico, i pubblici ministeri, perché tanti istituti esistono per effettuare il collegamento. O non esiste l'esigenza di alcun coordinamento, di alcun raccordo con la volontà democratica, si dice che ci si deve fidare dell'azione della magistratura e che non c'è bisogno di indirizzare alcunché, la magistratura non deve rispondere a nessuno, e allora si accetta l'armonia prestabilita; oppure, se ci poniamo il problema del raccordo (e non si può non porlo, perché per motivi nazionali ed internazionali ce lo dobbiamo porre) vorrei sapere dove sia.
Faccio una proposta che in parte riprende quella formulata in precedenza dal senatore Zecchino ma in parte la amplia. Non sono favorevole all'uso del ministro della giustizia che è colui che dirige la politica anticriminale, perché questo comporterebbe di nuovo una subordinazione dei pubblici ministeri alla politica ed alle maggioranze politiche. Ma poiché l'esigenza del raccordo con la sovranità democratica e popolare la avverto, propongo un istituto (che peraltro non è una mia invenzione originale, è un'invenzione di Piero Calamandrei), un'autorità la quale sia garante presso il Parlamento, eletta dal Parlamento con ampia maggioranza qualificata e che abbia la funzione di coordinare ed assicurare l'unitarietà di indirizzo, che abbia la funzione della sorveglianza ispettiva, di promuovere l'azione disciplinare e di esercitarla.
Il collega Zecchino si è fermato soltanto su queste ultime due esigenze, quella di promuovere l'azione disciplinare e quella di esercitare l'azione disciplinare presso il Consiglio superiore della magistratura. Io vorrei che questa autorità facesse qualcosa di più. Abbiamo creato

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tante autorità in questo paese; addirittura nel testo del relatore costituzionalizziamo le autorità. Perché abbiamo paura di un'autorità che si occupa di cose assai più importanti della privacy, delle televisioni, dell'editoria, della competizione economica eccetera? Un'autorità per le libertà fondamentali dei cittadini. Ripeto, non il ministro, ma un commissario della giustizia (l'espressione più o meno è quella di Calamandrei) il quale, eletto dal Parlamento oppure, se volete, nominato dal Presidente della Repubblica su una rosa indicata dal Parlamento a maggioranza qualificata, abbia questa funzione di raccordo tra la volontà democratica e l'azione anticriminale. Non vedo niente di antidemocratico. Mi pare un istituto molto garantista, in riferimento alla sua nomina o elezione che sia; mi pare un istituto democratico, perché deve collegare due poteri dello Stato: uno è quello della sovranità popolare e del Parlamento, l'altro è quello della magistratura. Dove sta lo scandalo? Dove sta il timore dell'asservimento dei pubblici ministeri? Non piace questo istituto? Possiamo inventarne un altro. L'unica cosa che credo che non possiamo fare è fingere che il problema non ci sia, perché esiste, tant'è vero che con l'emergenza mafia l'abbiamo in qualche modo risolto, con altre emergenze dovremo risolverlo; ma oggi, nel riscrivere la Costituzione, non possiamo far finta di non dare a questo problema la dignità costituzionale che merita. Mi pare una proposta sennata e pacata, certamente più pacata che sennata; non vedo ragioni di scandalo, per contraddire ancora una volta il collega Senese.

PRESIDENTE. La pacatezza a quest'ora è quasi d'obbligo, è il frutto naturale della lunga discussione.

PIETRO FOLENA. A questo punto evidentemente non aggiungerò altre considerazioni di merito, che del resto i colleghi del mio gruppo hanno già espresso. Vorrei solo fare qualche valutazione politica. Noi consideriamo la relazione dell'onorevole Boato una base buona; poi deciderà il relatore se e come tenere conto dei suggerimenti venuti nel corso di questo dibattito, nella formulazione del testo che assumeremo come testo base, una base comunque che si può emendare su alcune questioni che, come hanno detto i colleghi del mio gruppo, per noi sono importanti. Credo che bisognerà ragionare con grande apertura, con spirito costruttivo su altre soluzioni prospettate dai colleghi nel corso della discussione di oggi.
Il fatto che vorrei rimarcare è che nel corso di queste settimane è avvenuto un processo abbastanza reale di ascolto reciproco. Intendiamoci, senza enfasi: questo processo di ascolto reciproco si è fatto strada con una certa fatica, anzi direi con grande fatica. Fatica al nostro interno e fatica all'esterno, per il clima che ha circondato i lavori del Comitato. Si è sviluppata all'esterno, ma in qualche modo anche all'interno, una duplice campagna. Da un lato, si è detto che in questa discussione c'era chi è succube dei magistrati, prende ordini, cambia posizione in relazione alle prese di posizione ed alle proteste dei magistrati. Dall'altro, si è aggiunto, o si è contrapposto da parte di qualche osservatore, per la verità soprattutto all'esterno, il fatto che al fondo del lavoro del nostro Comitato e della bicamerale ci sarebbe uno scambio, la volontà di mettere una mordacchia, come si è detto, ai magistrati, di ledere alcuni principi fondamentali dell'obbligatorietà dell'azione penale o del controllo di legalità a 360 gradi.
Ritengo che queste due campagne, mosse da intenti opposti, siano totalmente infondate e costituiscano, rispetto al lavoro svolto, che ha animato sicuramente la nostra parte politica, un depistaggio. Intendiamoci, anche nella discussione di oggi qualche tono c'è stato. Non voglio replicare al senatore Pera, ma quando si


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afferma (non l'ha detto lui, l'ha detto il collega Loiero) che la quarta bozza Boato è una specie di bozza slavata rispetto alla terza, che era slavata rispetto alla seconda, che era slavata rispetto alla prima, rappresentando questa discussione come un cedimento progressivo, si dice qualcosa che non è vero, perché io nella terza e poi nella quarta bozza Boato ho trovato l'affermazione di garanzie per i cittadini in modo molto più forte. Quando si aggiunge che l'articolo 513, che è stato rapidamente approvato al Senato, sarebbe oggi bloccato chissà da quanto tempo alla Camera si dice una cosa non vera, perché esso è stato esaminato nel corso di nove mesi al Senato, è da venti giorni alla Camera e non penso che qualcuno possa parlare di un blocco dell'esame di questa riforma alla Camera, magari ordinato da qualche procuratore della Repubblica. La verità è che ci vuole molta pacatezza in questa discussione. Per quel che ci riguarda oggi bisogna fare i conti con una sinistra garantista a tutto tondo, sobriamente, che proprio in nome delle garanzie dei cittadini sottolinea, in una forma diversa, in un'epoca nuova, i problemi legati all'indipendenza e alla responsabilità del ruolo della magistratura.
Vorrei dirlo con nettezza: già nella bozza presentata dal relatore questa mattina e nella discussione che ne è seguita non vedo alcun cedimento nei confronti di proteste venute dai magistrati né alcuna volontà di rivincita nei confronti dei magistrati. È anche giusto che la politica, nel momento in cui si riforma la Costituzione, dialoghi (tutta, non solo la nostra parte politica; credo sia interesse anche dei colleghi del Polo dialogare apertamente) con la magistratura associata nelle sue forme; e non vi è alcuna lesa maestà nel fatto che la magistratura associata esprima le sue opinioni e fornisca i suoi suggerimenti. Noi siamo liberi, decidiamo: è una politica forte, capace di ascoltare, se necessario anche di cambiare opinione e poi liberamente, senza condizionamenti, di decidere, e se si ascoltano delle sciocchezze di replicare.
Credo che i magistrati che leggono questa bozza e che leggeranno questo lavoro ci possano trovare il potenziamento dell'indipendenza del pubblico ministero, con elementi che non erano previsti dalla Costituzione del 1948, ed una forma di coordinamento dell'ufficio del pubblico ministero. Al collega Pera non è sufficiente; credo che noi non possiamo far rientrare una forma di gerarchizzazione del pubblico ministero, da cui, con la Costituzione del 1948, ci si liberò. Avevamo infatti, in Italia come in Francia, un ordine giudiziario nel quale una parte - il pubblico ministero - era di fatto sottoposta ad una forma di gerarchizzazione, che fu pagata anche abbastanza duramente durante il ventennio della dittatura fascista.
I magistrati potranno trovare anche una forma molto forte di affermazione di indipendenza della magistratura amministrativa, nonché una forma di netta distinzione di funzioni, pur tuttavia in una prospettiva - non voglio ritornare su questi argomenti già molto sviscerati - di osmosi; osmosi vuol dire non un passaggio facile con il fatto che chi ha esercitato la funzione del pubblico ministero poi eserciterà quella del giudicante penale nell'ambito dello stesso distretto e così via, ma la possibilità comunque di un sistema in cui, con regole e con filtri precisi, determinati ed anche rigorosi, che dovranno essere determinati dalla legge ordinaria, pubblico ministero, giudice e - io aggiungo - anche avvocato siano partecipi della medesima cultura della giurisdizione.
I magistrati, leggendo questa bozza, troveranno un Consiglio superiore della magistratura come organo di autogoverno e l'idea nuova, che ritengo sia una delle cose più significative del lavoro svolto, di una corte di giustizia, come efficacemente l'ha definita il senatore Pellegrino, della magistratura o delle magistrature, che può

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diventare non solo il luogo simbolico del giudizio disciplinare ma anche un'istituzione prevista in Costituzione con un compito più generale per quel che riguarda il sistema dell'unità delle giurisdizioni.
La filosofia di fondo che i magistrati che leggeranno questi lavori e che si confronteranno con la nostra iniziativa parlamentare potranno scorgere in questa impostazione è una filosofia di sottolineatura dell'indipendenza della magistratura e contestualmente della responsabilità della stessa. Più indipendenza presuppone più responsabilità, attraverso meccanismi intrinseci e non di dipendenza rispetto al potere politico. Credo quindi che ciò vada fortemente sottolineato e ritengo piuttosto che siano certe solidarietà non richieste tante volte a finire per danneggiare l'indipendenza della magistratura.
Per quanto riguarda l'avvocatura, essa ci trova grandi novità. In questi giorni si assiste all'astensione dal lavoro molto ampia da parte degli avvocati, che ci dipinge un malessere che non nasce dal lavoro della Bicamerale (è un po' curioso che si attui uno sciopero degli avvocati contro il lavoro che sta attuando la Commissione); in realtà, dietro tale astensione c'è un malessere, e la politica deve saperne comprendere le ragioni. Tali ragioni risiedono da un lato nella paralisi del giudizio civile e dall'altro nello squilibrio fra accusa e difesa nel processo penale. Allora, l'avvocato ci trova non il cedimento ai magistrati, come abbiamo letto ancora in questi giorni ma la costituzionalizzazione del principio del processo accusatorio, l'equo processo in tutte le sue forme, la scuola di formazione comune nei suoi principi, il reclutamento laterale in magistratura come forma ordinaria che possa regolare questa osmosi di funzioni tra avvocato, pubblico ministero e giudice e tra giudice, avvocato e pubblico ministero e così via. Certo, ci sono questioni molto più di fondo che rinviano alla legge ordinaria, alla riforma della professione e via dicendo, ma io credo che l'avvocato italiano possa trovare, nel disegno che si sta dispiegando, elementi di novità.
Ma le novità più sostanziali le troveranno i cittadini: come ha detto il senatore Senese nella prima parte del proprio intervento, in realtà ci sono su questo punto gli elementi più significativi di novità, attorno all'affermazione di garanzie estremamente importanti. L'ho detto all'inizio del dibattito in Commissione bicamerale: il nostro punto di vista è più attento alla coppia società-giustizia che non alla coppia politica-giustizia, ma questo detto senza polemica. Il problema vero è che a forme vecchie di tutela della politica su diritti dei cittadini non vogliamo sostituire forme di panpenalismo, di governo penale delle contraddizioni e dei conflitti della società. In questa direzione vanno la riserva di codice, la parità, l'accesso dei cittadini alla Corte costituzionale, il difensore civico, le autorità indipendenti. Vi è la filosofia di una società più libera, meno costretta dentro certe ossificazioni istituzionali, più giusta in virtù di alcuni meccanismi regolatori.
Per quanto riguarda tutta questa campagna che abbiamo sentito, soprattutto all'esterno del Comitato, in ordine allo scambio sulla giustizia, ritengo si tratti di sciocchezze che vanno rinviate con nettezza e anche con un certo sdegno, da parte mia e da parte nostra, al mittente. Mai scambi sulla pelle di grandi valori, non solo dell'indipendenza della magistratura ma anche civili e morali, forze politiche degne di questo nome possono fare!
La verità è che bisogna tornare ad un confronto civile, molto pacato, con la capacità di non farsi condizionare da ombre esterne, di commenti su procedimenti giudiziari in corso e su vicende di un ufficio o di un altro, alle quali si deve guardare con grande rispetto ma che non debbono essere l'oggetto, né direttamente

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né indirettamente - e non lo saranno - del lavoro che dobbiamo compiere.
Voglio conclusivamente domandare a tutti noi, per il prosieguo del nostro lavoro, visto che avremo dei voti anche abbastanza impegnativi e visto che ci saranno dei passaggi non facili: possiamo, al di là di questi voti e del merito del dissenso che abbiamo, su molti punti (il pubblico ministero, i giudici, il CSM), lanciare al paese con il nostro lavoro un messaggio di fiducia, di serenità, un messaggio che dica basta con le risse continue della politica sulla giustizia e tante volte anche della giustizia o della magistratura sulla politica? Si può dire in un patto costituente, come quello che siamo impegnati a fare, che nessuno toccherà mai, in questo nostro paese, in futuro, l'indipendenza della magistratura, un valore non disponibile, non nella disponibilità della maggioranza che governa? Si può dire in un patto costituente che gli illeciti di ogni tipo, soprattutto quando riguardano i poteri, le classi dirigenti di qualsiasi colore, sono e saranno sempre colpiti? Ma si può anche dire che nessuno toccherà mai i diritti delle persone e che tali diritti vanno affermati e, ancora, che una giustizia che si occupi prima di tutto dei meno abbienti è l'obiettivo cui vogliamo tendere? Se noi lavoreremo con questo spirito in questa ottica, anche solo parzialmente, credo che con questo dibattito sulla Costituzione avremo fatto compiere un passo avanti a quella grande riforma della giustizia a cui larga parte del paese aspira.

PRESIDENTE. Il relatore desidera fare una breve precisazione?

MARCO BOATO, Relatore sul sistema delle garanzie. Grazie, signor presidente. Non farò alcuna replica e del resto i colleghi del Comitato sanno che non ho mai replicato ai dibattiti svolti; ho sempre cercato di dar conto ed acquisire le riflessioni, gli stimoli e le proposte per le ulteriori fasi del lavoro. Farò così in questo caso, anche se l'ulteriore fase sarà particolarmente difficile e delicata.
Vorrei sinceramente ringraziare tutti i colleghi intervenuti, dal collega Ossicini che ha parlato due minuti e mezzo per esprimere il suo totale consenso con l'ipotesi 1, fino all'ultimo intervento del collega Folena. Non entrerò nel merito delle sue specifiche proposte, perché sarebbe scorretto, anche se condivido le considerazioni politiche generali rispetto al rapporto tra clima esterno e dibattito interno. Da questo punto di vista, però, queste considerazioni danno pienamente ragione al collega Pera allorché ha rivendicato la piena correttezza costituzionale e legittimità delle posizioni manifestate. Questa è sempre stata e continuerà ad essere la mia convinzione.
Mi corre l'obbligo di due precisazioni. La collega Salvato mi ha chiesto di sciogliere il nodo circa sezione disciplinare interna al CSM e tribunale o corte di giustizia. Non c'è nessuna sovrapposizione, nel senso che l'una ipotesi è alternativa all'altra. Compete a noi operare una scelta; il relatore l'ha compiuta ponendo l'ipotesi sezione disciplinare - che nella terza bozza era in prima colonna e nella quarta nella seconda - e ponendo al 105-bis come ipotesi principale, quella del tribunale o corte di giustizia.
Mi correva l'obbligo di risolvere il problema, così non se ne discuterà più.
Con grandissimo garbo faccio l'ultima osservazione all'amico e collega Senese, non su tutto quello che ha detto nel merito, ma su un riferimento di carattere storico, rinviando ulteriori dibattiti ad un seminario storico non in bicamerale. Sono state citate una quantità di nefandezze di una serie di Parlamenti francesi: per tutela del Parlamento italiano dovrei ricordare che quei Parlamenti francesi erano organi non rappresentativi, ma giudiziari composti da magistrati che di solito acquistavano o ereditavano la carica. È il caso di Jean Calas, citato, che ha dato spunto a Voltaire per scrivere il


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trattato sulla tolleranza. Con questo, invito alla tolleranza reciproca (a cominciare da me stesso).

SALVATORE SENESE. Questa è una chiosa, non una precisazione. Ho parlato di Parlamento nel senso di organo giudiziario per sostenere la tesi che una magistratura che non rispetti le garanzie dei cittadini, anche se dispone di una fortissima indipendenza, come la magistratura dell'ancien régime organizzata in Parlamenti, è destinata ad essere travolta. Questo era un messaggio molto importante che chiariva al di là dell'equivoco, ma vi è equivoco solo per chi non avesse cognizione storica sul termine Parlamento che nel linguaggio dell'ancien régime designava le corti di giustizia, e consentiva gli esiti ai quali mi sono riferito.

MARCO BOATO. Siamo totalmente d'accordo. Poiché c'è stato un dibattito sul ruolo del Parlamento nella vicenda giustizia, volevo che rimanesse traccia - e lei ne ha dato conferma - che non vi può essere alcun equivoco rispetto ad altre istituzioni parlamentari, a cominciare dalla nostra. Grazie a tutti.

PRESIDENTE. Avverto che nelle sedute convocate per domani avranno luogo, alle ore 11, la relazione del senatore Salvi sulla forma di governo ed, alle 15.30, il relativo dibattito.

La seduta termina alle 21.5.



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