Comitato sistema delle garanzie
RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 21
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La seduta comincia alle 15.25.
Audizione di rappresentanti dell'Associazione magistrati del Consiglio di Stato, dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi, dell'Associazione magistrati della Corte dei conti, dell'Associazione nazionale magistrati militari, del Coordinamento magistrati militari, dell'Unione nazionale giudici tributari, dell'Associazione nazionale giudici tributari, dell'Associazione nazionale giudici di pace, dell'Unione nazionale dei giudici di pace e del Coordinamento nazionale dei difensori civici regionali.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti dell'Associazione magistrati del Consiglio di Stato, dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi, dell'Associazione magistrati della Corte dei conti, dell'Associazione nazionale magistrati militari, del Coordinamento magistrati militari, dell'Unione nazionale giudici tributari, dell'Associazione nazionale giudici tributari, dell'Associazione nazionale giudici di pace, dell'Unione nazionale dei giudici di pace e del Coordinamento nazionale dei difensori civici regionali.
Ringrazio gli esponenti degli organi di rappresentanza qui intervenuti e mi scuso con loro per il ritardo con cui si apre la riunione del Comitato, dovuto anche al fatto che la seduta della Commissione plenaria di questa mattina si è conclusa circa un'ora fa.
I ringraziamenti si estenderanno, poi, all'accettazione delle modalità di lavoro di oggi pomeriggio, visto che dovremo darci un ordine dei lavori particolarmente rigido a motivo dei tempi disponibili.
Credo sia quasi ovvio che rappresenti a voi il grande e doveroso interesse che nutriamo per le testimonianze che potrete darci sia oralmente sia attraverso i contributi scritti che vi abbiamo sollecitato per avere un più ampio approfondimento delle diverse materie e che vi siete dichiarati disponibili a fornirci.
Il Comitato sistema delle garanzie sta procedendo al suo lavoro da non molto tempo; devo dire che i tempi sono i veri tiranni di tutto quello che stiamo facendo (con la speranza che questa tirannia sia benevolente, cioè produttiva di buoni risultati, una volta tanto).
Le vostre testimonianze si inseriscono in un lavoro caratterizzato da un confronto molto sereno delle varie posizioni e da un generale spirito di servizio presente in tutti i commissari, finalizzato al tentativo di dare un contributo alla modernizzazione del nostro paese; intendiamo con ciò corrispondere alla precisa esigenza di rendere il nostro ordinamento sempre più compatibile e «competitivo» sul terreno dell'integrazione internazionale italiana. Ecco cosa intendiamo (in primissimo luogo, ma non solo in questo naturalmente) per modernizzazione. I lavori del Comitato sono stati improntati a questa attitudine: cercare di risolvere i problemi. Certamente proseguiranno nella stessa ottica. Abbiamo fin dall'inizio dato meno importanza alle soluzioni ritenute ottimali da ciascuno di noi: siamo ripartiti cercando di approfondire la natura dei problemi ed, approfondendola insieme, abbiamo cercato di individuare soluzioni che possano essere condivise quanto più ampiamente dal maggior numero possibile di commissari.
Lo dico anche per fare giustizia di una immagine esterna che spesso è costruita su brani o brandelli di informazioni: in quanto tali presentano di più l'aspetto del confronto/competizione (per non dire
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conflitto) di posizioni. Come sapete, nelle prime pagine le notizie di cronaca nera hanno sempre la prevalenza su quelle di cronaca rosa: nel nostro caso la cronaca rosa - come metafora assolutamente riduttiva e fatua della nostra attività - prevale di gran lunga sulla cronaca nera. Vorrei quindi rassicurare tutti voi sul fatto che abbiamo grande attenzione per le considerazioni che intenderete svolgere in questa sede e che comunque le vostre testimonianze si inseriranno in questo clima molto costruttivo e produttivo.
Ho accennato alle nostre scuse per le regole di questo incontro, legate a vincoli di tempo molto stretti. Come abbiamo avuto modo di annunciarvi già informalmente, pregheremo di prendere la parola i presidenti o, in loro assenza, i portavoce delle associazioni invitate; chiediamo loro di svolgere interventi possibilmente non superiori ai dieci minuti. Ve lo domandiamo per favore; chi consumerà meno tempo avrà tutta la nostra gratitudine (dobbiamo imparare ad essere un po' internazionali anche sotto il profilo della sintesi!). Vi confermo, peraltro, che leggeremo con estrema attenzione i contributi scritti che vorrete lasciarci.
Detto questo, vi informo che nove dei nostri ospiti prenderanno la parola e che i lavori potranno proseguire fino alle 17,29, ora in cui dovremo chiudere per procedere ad un'altra audizione. Dico questo per far comprendere che siamo costretti in tempi limitati.
Subito dopo la testimonianza dei presidenti, dovremo lasciare un congruo spazio di tempo per consentire ai commissari di formulare le domande.
Ringrazio ancora i nostri ospiti e do la parola al dottor Filippo Patroni Griffi.
FILIPPO PATRONI GRIFFI, Presidente dell'Associazione magistrati del Consiglio di Stato. A nome dell'Associazione magistrati del Consiglio di Stato vorrei ringraziare il presidente e i membri del Comitato per aver ritenuto di convocare la presente audizione. La nostra associazione depositerà un breve scritto e ha già inviato una lettera ai signori componenti del comitato, per cui non ripeterò le osservazioni già svolte.
Ci tengo a precisare sotto un profilo di metodo che un'associazione di magistrati per definizione non è un sindacato, nel senso che non è rappresentativa negli interessi degli associati, perché questi non possono essere portatori di interessi distinti dall'istituto cui appartengono.
Vorrei soffermarmi solo su alcuni punti, tenendo conto delle acquisizioni cui dai resoconti sembra pervenuto il dibattito all'interno del Comitato.
Per l'unità della giurisdizione l'orientamento sembra essere quello dell'unità funzionale, con il mantenimento di una giurisdizione amministrativa distinta da quella ordinaria, ferma restando peraltro l'omogeneità dello statuto di indipendenza tra gli appartenenti a tutte le magistrature. Questo è un orientamento che si condivide senz'altro e consente di superare l'attuale anomalia italiana che consiste non tanto nell'esistenza di diritti soggettivi e interessi legittimi quanto nell'aver fondato su tale differenza un riparto di giurisdizione. Forse potrebbe essere chiarito a livello costituzionale il criterio di individuazione della materia, cioè potrebbe forse essere utile costituzionalizzare la ratio della giurisdizione amministrativa che consiste nel sindacato sui pubblici poteri, indipendentemente dalla natura giuridica del soggetto che li esercita.
Quanto alla ventilata ipotesi di devoluzione alla giurisdizione amministrativa del giudizio di responsabilità contabile, vorrei solo far rilevare che forse una vera correlazione tra le due giurisdizioni non c'è: l'una valuta la legittimità dell'azione amministrativa, l'altra sanziona il comportamento di un agente sotto il profilo della responsabilità patrimoniale. Potrebbero esserci delle difficoltà notevoli nell'adattare il giudizio amministrativo a quello di conto, essenzialmente sotto il profilo processuale e dei soggetti del processo (mi riferisco soprattutto al pubblico ministero).
È stato già dibattuto nei lavori del Comitato il collegamento che può esserci
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in astratto, sia pure non necessariamente, tra scelte sulla forma di Stato e sull'assetto della giustizia amministrativa, perché qualora si voglia valorizzare il sistema delle autonomie, senza dubbio si potrebbe pensare a creare una correlazione tra modello organizzativo e funzionale dei pubblici poteri e modello organizzativo e funzionale della giurisdizione sui pubblici poteri. Qui ci sono varie scelte possibili.
Vorrei poi soffermarmi di più, quasi esaurientemente, sul problema della correlazione tra funzione consultiva e organismo giurisdizionale di vertice. Mi rendo conto di entrare in un argomento caldo, però vorrei suggerire, se possibile, un approccio un po' pragmatico - il pragmatismo non è necessariamente pressappochismo, come insegna la cultura anglosassone - che consenta di evitare la pastoia di contrapposizioni un po' ideologiche che possono peccare di astrattezza.
Desidero fare una precisazione preliminare. Non vi è alcuna correlazione tra il mantenimento della funzione consultiva in capo all'organo giurisdizionale di vertice e la cosiddetta consulenza esterna dei singoli magistrati delle amministrazioni, tant'è vero che ci sono magistrati nelle amministrazioni che appartengono a categorie di magistrati i cui organismi di appartenenza non esercitano funzioni consultive. Comunque, della consulenza esterna non parlerò minimamente, perché vorrei soffermarmi solo sul profilo della funzione consultiva di istituto.
Terrei presenti tre elementi: il modo concreto in cui opera la funzione consultiva; il raffronto comparato; la ricerca pragmatica di alcune soluzioni che abbiano come obiettivo quello di rafforzare il livello di garanzia dei cittadini piuttosto che quello di rispondere ad un certo modello astratto di giudice (ognuno può legittimamente avere il proprio modello di giudice).
L'Italia, come è riconosciuto a livello internazionale, ha un sistema giurisdizionale amministrativo che forse offre il tasso più alto di garanzia del cittadino in Europa, almeno quanto a possibilità di ricorrere al giudice e ai suoi poteri. L'ordinamento italiano ha sempre cercato un punto di equilibrio tra tutela del cittadino e salvaguardia dell'interesse pubblico generale rispetto agli interessi organizzati di privati e ha delineato il seguente sistema: un giudice amministrativo di primo e secondo grado profondamente diverso dal giudice civile, che è un mero arbitro di una lite tra privati, quindi è estraneo ad ogni considerazione dell'interesse pubblico generale. Il giudice amministrativo anche quando giudica valuta in concreto l'azione amministrativa, tiene presente l'interesse pubblico generale e orienta l'azione dell'amministrazione in modo da assicurare, anche oltre il processo, il rispetto della legalità sostanziale. Il secondo elemento di questo sistema è un giudice amministrativo di secondo grado attributario di funzioni di consulenza proprio per completare il colloquio con l'amministrazione, che va orientata al rispetto della legge fin dall'inizio della sua attività, in modo da prevenire la lite.
Dobbiamo tener presente che la lite tra amministrazione e cittadino è comunque una perdita di credibilità per l'amministrazione e pone in dubbio la certezza dei rapporti tra cittadino e amministrazione.
In concreto, in cosa consiste veramente questa funzione consultiva? Non nel dare consigli all'amministrazione o nel fare il consulente del principe. Sul punto vorrei mi fosse consentito non solo rappresentare la mia esperienza ma, come suggeriva il presidente, portare una testimonianza. Sono stato giudice ordinario; sono stato giudice di tribunale amministrativo e infine giudice del Consiglio di Stato. Ammetto che all'inizio avevo perplessità sulla funzione consultiva, perché venivo da un'altra formazione, avevo un'altra esperienza. Poi ho cominciato a svolgere attività consultiva e non ho avuto crisi di identità, nel senso che mi sono accorto che anche se non ascoltavo avvocati, ed emettevo pareri anziché sentenze, la mia attività di giudice non era mutata e, meno che mai, avvertivo un'attenuazione della mia indipendenza o della mia terzietà.
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Forse oggi il problema è proprio la denominazione che, oserei dire, è infelice o quanto meno fonte di equivoci, così come forse è inadeguato l'attuale assetto della funzione consultiva. Si dovrebbe forse chiamare «funzione di garanzia preventiva della legittimazione dei pubblici poteri».
Non usando parole mie, vorrei dire che verificare prima di un'impugnativa giurisdizionale la legittimità di un atto serve ad evitare le complicazioni scaturenti inevitabilmente dall'annullamento in sede giurisdizionale pronunciato dopo che l'atto abbia prodotto i suoi effetti. Questi sono i termini con cui si esprime la Corte di giustizia dell'Unione europea in numerosi pareri dagli anni settanta in poi. E ancora (non uso parole mie) «è pacifico che anche nell'esercizio della competenza consultiva un tribunale agisce nella propria qualità di organo giurisdizionale»: queste sono parole contenute in un parere della Corte internazionale di giustizia dell'ONU. Entrambi questi organismi, infatti, assommano alle competenze giurisdizionali competenze consultive in ordine agli stessi tipi di atti che poi giudicano. Dagli osservatori e dai commentatori di questi organismi la ragione è individuata in ciò: è naturale che l'organo giurisdizionale di vertice che verifica la legittimità degli atti sia chiamato a svolgere in via preventiva la stessa identica verifica di legalità, che viene effettuata con gli stessi criteri e gli stessi parametri. Del resto, di recente la Corte di giustizia dell'Unione europea ha ritenuto ammissibile l'esame di una questione pregiudiziale di interpretazione del trattato sollevata dal Consiglio di Stato italiano in sede consultiva proprio sul rilievo della natura sostanzialmente giurisdizionale dell'organo e dell'attività. Del resto, questa duplicità di funzioni, oltre che nelle corti menzionate, esiste, almeno limitandoci all'Europa, in tutti i paesi europei salvo che in Spagna, Germania, Portogallo ed Austria.
Forse, il motivo di fondo su cui si potrebbe riflettere è il seguente: le funzioni consultive non sono serventi rispetto all'organo che richiede il parere, sono piuttosto funzioni esercitate nei confronti dell'organo però a garanzia dell'ordinamento.
Vorrei focalizzare alcuni punti concettuali. In primo luogo, forse, non è opportuno esaltare la forma e il momento giurisdizionale del controllo di legalità. Dicendo che solo chi emette sentenze è giudice e che solo questi è e deve essere terzo, neutrale e imparziale si sminuiscono, quanto a effettività e prestigio, quelle attività di verifica che consentono di evitare il proliferare di giudizi e giudici, quando invece forse un paese è tanto più civile quanto meno sono importanti i giudici. In secondo luogo, se la consulenza attribuita all'organo giurisdizionale è in funzione di garanzia e consiste nella verifica preventiva di legalità, ne deriva (anche non volendo ovviamente) che scindere le funzioni significa rendere meno efficace e quindi attenuare il livello di legalità. Inevitabilmente, mi sembra, un Consiglio di Stato solo consultivo (che sarebbe un esempio pressoché unico se si eccettua il caso della Spagna, dove peraltro esiste una monarchia e il Consiglio di Stato ha altre funzioni) si ridurrebbe a poco più di un ufficio studi, sarebbe un mero organo consultivo interno all'amministrazione, di cui forse il nostro ordinamento non avrebbe necessariamente bisogno.
La funzione di garanzia è svolta per sua natura in posizione di terzietà; direi che intanto ha una logica in quanto sia svolta da un giudice terzo. Faccio qualche esempio. La commissione speciale pubblico impiego in genere individua, a fronte soprattutto di alcuni mutamenti normativi, la linea a cui poi è opportuno che le amministrazioni si attengano, per evitare che su questioni importanti si arrivi ad un assestamento della giurisprudenza solo al termine dei processi, cioè dopo cinque, sei anni. In occasione dell'attuazione della legge n. 241 del 1990 sulla trasparenza, il Governo intendeva emanare norme regolamentari che riducevano le garanzie di accesso. In quel caso, in sede di emanazione del parere, il Consiglio di Stato precisò che quelle disposizioni contrastavano
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con la legge e quindi correvano il rischio successivo di annullamento in sede giurisdizionale.
Dagli esempi si può evincere che la funzione consultiva - ripeto - è una funzione che assicura la legalità in via preventiva dell'azione amministrativa. Se questa verifica non fosse fatta in via preventiva, dovremmo aspettare anni, cioè la durata dei processi, per sapere se e come l'azione amministrativa sia legale. In definitiva, mi sembra che la funzione di garanzia preventiva e successiva, cioè la consultiva e la giurisdizionale, possano saldarsi tra loro in modo da assicurare una tendenziale stabilità dell'ordinamento (ovviamente solo tendenziale, perché non è che ciò poi riesca benissimo).
Diversa questione è quella dell'esercizio separato di tali funzioni da parte dei singoli magistrati. Anche qui va chiarito quello che mi sembra un equivoco. Anche nel nostro paese, l'incompatibilità dei magistrati a pronunciarsi due volte sulla stessa questione riguarda il fatto concreto, non l'interpretazione e l'applicazione della norma. Questo anche per gli organi giurisdizionali puri, per intenderci. Il giudice applica infinite volte, interpretandola, una norma: ogni volta che decide una causa si pronuncia di nuovo sulla stessa norma, che ha già interpretato, ma questo non crea incompatibilità. E questo è quello che fa il consigliere di Stato quando valuta una norma regolamentare in sede consultiva e in sede giurisdizionale: si pronuncia due volte non sullo stesso fatto, ma sulla stessa norma. Perciò forse negli altri paesi, dove l'attività consultiva riguarda prevalentemente gli atti generali e normativi, il problema dell'incompatibilità anche soggettiva non si pone: la Corte di giustizia dell'Unione europea e quella dell'ONU giudicano nell'identica composizione la stessa questione in sede consultiva e in sede giurisdizionale. In Lussemburgo, il consiglio di Stato emana nella stessa seduta pareri e sentenze. In Francia, addirittura, per i primi anni è obbligatorio che il consigliere di Stato sia addetto a due sezioni. Naturalmente, però, è ragionevole introdurre - se lo si ritiene opportuno - un principio di separazione delle funzioni in capo allo stesso organo. Questo tra l'altro consentirebbe poi alla legge ordinaria di utilizzare una serie di meccanismi che evitino che lo stesso magistrato possa pronunciarsi nella duplice sede: penso a meccanismi di assegnazione esclusiva e per durata predeterminata a una sezione o all'altra, a meccanismi anche concorsuali per il passaggio da una sezione all'altra.
Per quanto riguarda l'organo di autogoverno, mi limito a richiamare il problema e a due notazioni, per rimanere nell'ambito dei dieci minuti assegnati dal presidente (se ho fatto bene i conti, dovrei avere a disposizione ancora due minuti). Vorrei sottolineare, in primo luogo, la necessaria presenza di membri laici, che hanno la funzione, come avvertì Mortati nei lavori della Costituente, di evitare la chiusura corporativa che sempre alligna nei grandi corpi dello Stato e nel potere giudiziario, e di garantire la stessa indipendenza interna dei magistrati nei confronti di logiche correntizie che inevitabilmente possono tendere a formarsi all'interno delle magistrature. Poi si potrebbe forse ripensare la logica della rappresentanza meramente proporzionale della componente togata, che è una logica forse più riferibile propriamente a sistemi elettivi di rappresentanze politiche. Si potrebbe quindi pensare a rappresentanze paritarie per componenti delle singole magistrature. Al riguardo, qualcosa più in dettaglio la troverete nel testo che poi lascerò a disposizione del Comitato.
Voglio fare solo una notazione finale. A me personalmente, signor presidente, crea disagio e riesce difficile comprendere perché chi fa il giudice da vent'anni, per aver sostenuto e superato il concorso per consigliere di Stato, non possa più ricoprire lo status di magistrato, ciò per il solo fatto (secondo la mia opinione) di fare il giudice anche prevenendo controversie e non soltanto giudicandole. Ma ovviamente il problema non è solo di persone, anche se le istituzioni vivono nella loro realtà attraverso gli uomini. Vorrei solo dire che l'attuale assetto della
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giustizia amministrativa caratterizza 150 anni della storia istituzionale del nostro paese. Vorrei quindi che si avvertisse noi tutti, ovviamente nei rispettivi ruoli, la responsabilità di questa scelta, che ha tutti i connotati - e lo dico senza retorica - di una scelta storica. Questo sia detto - ripeto - senza che appaia come una sorta di perorazione di una causa che miri a convincere l'interlocutore. Questo - vorrei ribadirlo - mi parrebbe in primo luogo poco rispettoso per il ruolo di costituenti oggi svolto dai membri del Parlamento. Ma per la verità non sarebbe rispettoso nemmeno per la dignità dell'istituto a cui abbiamo l'onore di appartenere, dignità che forse conta di più della sua stessa sopravvivenza. Ringrazio molto per l'attenzione.
PRESIDENTE. Do la parola al dottor Caruso, presidente dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi, pregando anche lui di mantenersi nei limiti di tempo indicati.
GIUSEPPE CARUSO, Presidente dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi. Saluto il presidente e ringrazio tutti i membri del Comitato per l'attenzione che hanno voluto avere nei confronti della categoria che rappresento in questo momento. Quello che i magistrati dei TAR intendono rappresentare al Parlamento nel momento in cui lo stesso assolve all'alta funzione di rivedere le regole fondamentali della nostra convivenza civile non può che attenere ovviamente alla giustizia amministrativa, che è la materia della quale ci occupiamo ogni giorno.
Rivendico per la categoria (se si può parlare al riguardo di rivendicazione) il fatto che tre quarti dei magistrati amministrativi lavorano presso i TAR. In tutto sono 400: 300 lavorano presso i TAR! L'86 per cento delle sentenze sono definitive, cioè la giustizia amministrativa in Italia oggi è esercitata all'86 per cento dai TAR. Dal 1974, anno in cui i TAR hanno iniziato a funzionare, forse vi è stato uno sviluppo della giustizia amministrativa e delle garanzie offerte ai cittadini che nei precedenti 130 anni non si era mai visto, tant'è che i 15 mila ricorsi che erano previsti nel 1974 come numero annuo di ricorsi sul quale sono stati appunto parametrati il numero dei magistrati e le strutture sono divenuti, nell'ultimo anno, ben 100 mila. Ciò significa che c'è una situazione di estremo disagio; ma questo attiene ai problemi del legislatore ordinario ed in un momento nel quale si parla di modifiche alla Costituzione non voglio trattare problemi di bottega e di funzionamento spicciolo. Mi atterrò quindi a temi di livello costituzionale.
Si è parlato di modello della giustizia amministrativa. Non trovo nulla di strano ad immaginare una giurisdizione unica con sezioni specializzate; funzionerebbe comunque ed i magistrati andrebbero bene, come accade in Spagna. Qualunque posizione di principio contraria secondo me non è fondata sui fatti ma sulla difesa dell'esistente: tutte le strutture tendono a continuare ad esistere, ma non è detto che sia bene che esistano. Probabilmente il principio di unità potrebbe migliorare certi aspetti assolutamente inaccettabili della situazione attuale, nella quale un pubblico funzionario o un amministratore può essere perseguito ed inquisito sotto vari aspetti.
In seguito ad una stessa decisione da lui assunta - e quindi per un stesso principio di diritto amministrativo - egli può essere chiamato in giudizio innanzi al giudice amministrativo per sentir dire se un ricorso avanzato da un privato nel suo interesse sia o meno fondato; può essere inquisito dalla procura cui lo stesso cittadino si sia rivolto con un esposto; può, dopo alcuni anni, essere chiamato a rispondere del danno erariale sulla pretesa illegittimità dello stesso atto.
Nessuno dei tre giudici ha oneri di coerenza con quanto hanno stabilito gli altri due: è questo un sistema giurisdizionale? E poi abbiamo da dire contro i funzionari o gli amministratori che stentano a firmare! Vorrei vedere: non è tanto semplice fare l'amministratore o il
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funzionario in un «non sistema» giurisdizionale come questo!
Quindi, il principio di unità della giurisdizione è sacrosanto sotto l'aspetto della funzionalità dell'ordinamento. Ovviamente, vi sono altre ragioni che hanno storicamente caratterizzato la giustizia amministrativa le quali - mi pare che la stessa Commissione bicamerale sia orientata in questo senso, e che siano state formulate due ipotesi - giustificano il mantenimento di un'autonomia quanto meno funzionale del settore.
Devo però dire che sono stanco di assistere a giudizi sugli appalti che passano indenni nelle aule dei tribunali amministrativi e del Consiglio di Stato, mentre qualche mese dopo emergono fatti incredibili e gravi al di fuori degli stessi giudizi. Che cosa può pensare il cittadino di tutto ciò? Non si tratta del fatto che molto spesso ci può essere una giustificazione di tipo logico, consistente nel rilievo che gli oggetti del giudizio sono diversi: a volte è così, nel senso che il giudice amministrativo valuta se il motivo che gli è dedotto contro un certo atto sia o meno fondato, mentre il giudice penale valuta comportamenti e lo stesso fa il giudice contabile. Però qualche volta la diversità di giudizio attiene proprio alla legittimità di un atto, ad una regola di diritto amministrativo. Mi chiedo allora come possa l'ordinamento allo stesso tempo istituire un giudice che ha lo scopo specifico di stabilire quale sia il diritto amministrativo e poi, nel momento in cui è più importante decidere quale sia la regola - quando, cioè, bisogna mettere o meno in galera la gente - far decidere in modo del tutto dissociato un altro giudice.
Sottopongo quindi alla Commissione come un'esigenza del corpo sociale l'adozione di misure di coordinamento, nell'ambito dell'autonomia funzionale - qualora si intenda mantenerla -, della giustizia amministrativa. Quali potrebbero essere queste misure? Penso che su certe materie - per esempio quella elettorale o degli appalti - un pubblico ministero amministrativo con il potere di impugnare gli atti, e quindi con la certezza che il giudice amministrativo non si pronuncerà solo su un motivo dedotto da un privato nel suo interesse ma sulla legalità complessiva del comportamento dell'amministrazione in quella fase, potrebbe essere utile.
Altre esigenze possono essere fronteggiate con la previsione della partecipazione dei magistrati amministrativi agli organismi giurisdizionali che si occupano di questioni nelle quali rientrano reati contro la pubblica amministrazione. Immagino quindi la possibilità che nei collegi che decidono su questo tipo di reati siano presenti magistrati amministrativi che portino il loro contributo di conoscenza di quella specifica branca del diritto. Mi riferisco anche alle procure: non dimentichiamo che per certi reati i maggiori problemi insorgono nel momento in cui viene inviato l'avviso di garanzia, per poi perdersi nel nulla. Anche in questa sede, un contributo come quello che ho descritto mi sembrerebbe opportuno.
Compiuta la scelta sull'autonomia funzionale, rimane da compierne un'altra. A quale modello si deve ispirare questo giudice amministrativo autonomo funzionalmente? Al modello del giudice interno all'amministrazione, evoluzione del funzionario consulente cui si rifaceva un momento fa il presidente Filippo Patroni Griffi, oppure al modello del giudice autonomo, terzo - secondo il concetto sattiano - non interessato alla causa? Dal tono delle mie parole è evidente a quale modello io mi riferisca: al giudice terzo. Non è ipotizzabile, anche a livello di immagine complessiva, una soluzione diversa; quali garanzie può avere il cittadino se sa che la sua causa è decisa da chi ha conosciuto in altra sede la stessa norma che ora applica? Non mi soffermo sul fatto che ciò possa avere giustificazioni di tipo funzionale; ma, a proposito della necessità di prevenire la lite, in un sistema come il nostro nel quale il Consiglio di Stato ha dato pareri su tutto registriamo ugualmente centomila ricorsi l'anno!
Inoltre, non passerei sotto silenzio il fatto che il giudice amministrativo, come singolo, è poi componente dei gabinetti. È
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vero che istituzionalmente ciò non rileva ma se 60 fra i 100 componenti del Consiglio di Stato hanno incarichi governativi, è difficile sostenere che ciò non abbia riverberi sulla sostanza dei fatti. Affermare il contrario equivale a nascondersi la realtà: il riverbero c'è. Ho sentito un attimo fa dire che altra era la formazione e l'esperienza necessaria per fare il giudice «puro»: è vero. Il nostro attuale sistema prevede che i giudici amministrativi di primo grado siano «puri» e abbiano altra formazione ed altra esperienza, come ha detto un attimo fa il presidente dell'Associazione dei consiglieri di Stato; i giudici di appello hanno un diverso modo di vedere la realtà.
Ora, mi chiedo: il legislatore costituzionale deve o no preoccuparsi di omogeneizzare una giurisdizione siffatta? Si può andare avanti in questo modo? I rappresentanti dei TAR in seno al Consiglio di Presidenza, che sono in minoranza pur essendo la maggioranza dei giudici amministrativi, (oggi sento dire che bisognerebbe non essere proporzionalisti) si sono dimessi; si tratta di una gravissima crisi istituzionale che sicuramente il Presidente Laschena avrà sottolineato in questa sede. Da venti giorni non c'è più un organo di autogoverno perché i rappresentanti dei giudici «puri» non ritengono di poter continuare a coabitare con i giudici consulenti.
Il modello di Consiglio di Stato «alla francese» non è neutro; in esso quest'organo assume un ruolo politico che andrebbe meglio sottolineato. Non dimentichiamo l'interscambio che esiste in quel paese - nel quale si applicano le regole auspicate in questa sede dai rappresentanti del Consiglio di Stato - in ordine alla gestione complessiva della cosa pubblica, senza che alcuno ne risponda agli elettori. Mi sembra che il punto meriti una discussione più attenta.
Non dimentichiamo inoltre che il controllo di legalità non può essere abbandonato alle procure della Repubblica. Ecco riemergere quell'esigenza di coordinamento e di intervento del giudice, che poi è colui che ha creato il diritto amministrativo.
Un altro aspetto che volevo sottolineare è relativo alla composizione del CSM ed allo status dei magistrati. Credo che la composizione del Consiglio superiore sia da mantenere nella forma attuale. Se un organo deve essere di autogoverno non può avere un carattere oligarchico. I magistrati sono soggetti solo alla legge e quindi sono uguali fra loro. Il principio «ogni uomo un voto» è stato applicato di recente anche in Sud Africa; introdurre il principio contrario in Italia mi sembrerebbe una forzatura antistorica sul terreno della rappresentatività.
Concludo esprimendo la piena e convinta adesione - forse sarà l'unica - della mia associazione alle linee del dibattito emerse nella Commissione bicamerale in ordine ai punti di cui ho parlato: giudice amministrativo, autonomia funzionale, rappresentatività effettiva delle categorie del CSM, unità di status dello stesso giudice amministrativo.
Auspico solo che le resistenze che indubbiamente ci saranno non facciano venir meno la spinta al cambiamento; del resto, centocinquant'anni di esistenza del giudice dell'amministrazione hanno in realtà prodotto l'amministrazione più inefficiente del mondo occidentale: che cosa abbiamo da perdere se tentiamo un rinnovamento?
FURIO PASQUALUCCI, Presidente dell'Associazione magistrati della Corte dei conti. Ringrazio il presidente del Comitato per averci dato la possibilità di esporre le nostre valutazioni in merito agli importantissimi temi all'esame di questa «Assemblea costituente».
In considerazione del tempo a disposizione, rinvio, per gli argomenti che non riuscirò a trattare o ad approfondire, alla relazione che abbiamo rassegnato agli atti.
Quello attuale è un momento particolarmente difficile per la Corte dei conti. Tali difficoltà nascono dal fatto che, leggendo i resoconti dei lavori del Comitato, abbiamo constatato come l'ipotesi di sottrazione della funzione giurisdizionale all'istituzione
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Corte dei conti sia spesso ricorrente. Ciò, naturalmente, non può che creare un certo turbamento nella magistratura contabile, che a questa attività si dedica con entusiasmo (secondo taluno, anzi, con eccessivo entusiasmo) e comunque con la convinzione di svolgere una funzione utile per la collettività.
Il turbamento è accresciuto dal dover constatare come dalla lettura degli atti non sia facile cogliere le motivazioni che presiedono alle diverse proposte tese a sottrarre la giurisdizione contabile alla Corte dei conti. Noi, proprio come giudici contabili, siamo abituati a chiedere la resa del conto: quale occasione migliore per rendere il conto di questa giurisdizione, di quella che ci vede oggi davanti ad un Comitato che rappresenta la massima espressione della sovranità popolare, con funzioni costituenti! La resa del conto, a mio avviso, deve passare anzitutto attraverso un dato quantitativo. La produzione annua collegata alla funzione giurisdizionale della Corte dei conti può essere riassunta nei seguenti termini: 22 mila sentenze in materia di pensioni; 1.500 sentenze in materia di responsabilità; 10 mila pronunce in materia di conti giudiziali; 46 mila procedimenti di archiviazione. Per quanto riguarda l'attività di controllo, successivamente alle modifiche introdotte nel 1994 dalla legge n. 20, il controllo preventivo è rimasto limitato ad alcune decine di migliaia di provvedimenti. Nell'ultimo anno sono state fatte 88 relazioni di carattere generale per quanto riguarda la gestione della finanza dello Stato, degli enti locali e degli enti pubblici più importanti. Ottantotto relazioni potrebbero sembrare un numero non particolarmente rilevante; se si pensa, tuttavia, che la Corte dei conti europea produce, in media, una quindicina di relazioni all'anno, ci si rende conto che si tratta di un'attività di una certa consistenza.
Ovviamente, sorvolo sugli aspetti qualitativi di questa attività, che non possiamo certo essere noi stessi ad indicare. Devo dire, però, che il legislatore ha finora ritenuto di sottolineare positivamente lo svolgimento della funzione giurisdizionale tanto che, con una serie di leggi (la n. 70 del 1975, la n. 335 del 1976, la n. 142 del 1990, le leggi n. 19 e n. 20 del 1994), ha continuamente ampliato l'ambito di applicazione di questa giurisdizione. Di recente, con la legge n. 639 del 1996, la giurisdizione contabile è stata ancora oggetto di un'accurata analisi da parte del legislatore e sono stati introdotti taluni paletti e correttivi per evitare un'ingerenza eccessiva della funzione giurisdizionale, specialmente nel campo dell'autonomia gestionale. Su questa base è stata delineata una giurisdizione che sembra aver raggiunto positivi equilibri nel rapporto tra il controllo della giurisdizione e l'esercizio dell'autonomia amministrativa.
Alla luce di queste leggi, credo si possa ritenere che si tratti di una giurisdizione vitale, una giurisdizione che ha un suo impatto nella realtà politica. In particolare dopo la regionalizzazione, abbiamo visto come i cittadini abbiano rivolto una forte aspettativa agli uffici giurisdizionali della Corte dei conti, con esposti e denunce. Tutto questo, insieme alle sentenze alle quali facevo prima riferimento, viene a creare un forte effetto di prevenzione generale, prima ancora che speciale. È chiaro, infatti, che i pubblici dipendenti, i pubblici funzionari e, in particolare, i pubblici amministratori, hanno bisogno di un punto di riferimento proprio per poter resistere alle pressioni continue provenienti dalla base. Pertanto, la presenza di un giudice che possa intervenire per prevenire ed anche per sanzionare determinati comportamenti di cattiva gestione rende forte lo stesso amministratore, consentendogli di opporre un rifiuto alle richieste continuamente avanzate dalla piazza.
Accanto a questo, credo inoltre che si tratti di una giurisdizione in grado di determinare un forte effetto deflattivo, specialmente con riferimento al fenomeno penale; anzi, credo, sotto questo profilo (chiaramente, si tratta di un compito riconducibile più al legislatore ordinario che a quello costituzionale), che l'effetto deflattivo andrebbe accentuato attraverso un'ampia opera di depenalizzazione che
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convogli tutta una serie di ipotesi di cattiva gestione del pubblico denaro nei confronti della gestione contabile anziché verso il giudice penale. Tengo a sottolineare che una caratteristica fondamentale di questa giurisdizione, caratteristica che in ogni caso dovrebbe essere tenuta presente, è collegata alla presenza del pubblico ministero, elemento essenziale per lo svolgimento di tutta l'attività.
Abbiamo esperienze pluridecennali in ordine alle quali si verifica che, allorquando la funzione giurisdizionale sia affidata ad un giudice che non abbia un impulso di parte pubblica, la funzione stessa rimane inerte e non ha modo di esplicarsi. A tale riguardo, mi limito a citare gli esempi della giurisdizione nel campo degli enti pubblici economici e degli enti locali prima che intervenisse la legge n. 142 del 1990, con riferimento ai quali si è constatato come tutta una serie di ipotesi di cattiva gestione di pubbliche risorse non abbia trovato alcuna sanzione poiché, essendo competente il giudice ordinario, veniva a mancare l'attore (non vi sono state, quindi, colpe del giudice ordinario ma mancava chi potesse chiamralo in causa). Si tratta di un fenomeno pressoché analogo a quello ricordato da Caruso con riferimento agli interventi dei TAR.
A fronte dell'attività svolta dalla giurisdizione contabile, è chiaro che si pone il problema se mantenere la specificità di tale giurisdizione, ovvero convogliarla o nel quadro di una giurisdizione unitaria oppure in quello di una giurisdizione amministrativa, così come prospettato in diverse ipotesi. Credo che la specificità abbia un suo valore positivo, che va difeso. Il pluralismo culturale non è un fatto negativo, ma un fatto di sviluppo. La pluralità di approcci a medesime tematiche ha sempre comportato un progresso. Ciò che si deve temere è, invece, l'omogeneizzazione, che tende ad annullare le differenze, e sappiamo che le differenze sono moltissime. In considerazione dei tempi ristretti a disposizione, non mi soffermerò sulle differenze tra la responsabilità civile e la responsabilità che emerge nel campo della giurisdizione amministrativa e contabile, rinviando ai documenti che abbiamo consegnato; né mi soffermerò sulle specificità del giudizio di conto, che ha tutta una sua problematica che va dall'esame dei capitoli di bilancio finalizzato alla verifica di eventuali sfondamenti, all'osservazione dei limiti sull'anticipazione di cassa, fino alle modalità di pagamento. Potrebbe sembrare un discorso abbastanza routinario, ma si verifica spessissimo il caso di banche tesoriere che pagano male. Dopo che la legge n. 142 ci ha consentito di intervenire nel campo della gestione dei comuni, abbiamo addirittura riscontrato allarmanti fenomeni, molto frequenti, collegati ad una pluralità di mandati sui quali veniva aggiunta a mano la formula: «Pagabile nelle mani di Tizio». Si tratta per lo più di mandati di pagamento per contributi INPS, pagati nelle mani degli stessi soggetti che portavano il mandato i quali, invece che inviare i soldi all'ente destinatario, li hanno trattenuti presso di loro. Questo sembra un caso limite, ma si è verificato spessissimo: è un altro degli inconvenienti che si può evitare attraverso l'esame della modalità di pagamento dei titoli di spesa.
Corretta ripresa dei residui attivi e passivi, accertamento dei versamenti dei ticket per quanto riguarda le USL, gestione dei proventi contravvenzionali: è tutta una serie di attività specifiche che attengono all'esame sul conto che sarebbe assolutamente difficile - lo ricordava il presidente dell'Associazione magistrati del Consiglio di Stato - cercare di inserire nell'ambito del giudizio amministrativo.
Ritengo ci siano elementi sufficienti per sostenere la specificità di questa giurisdizione e per ritenere che, mantenendola distinta dalle altre, possa meglio raggiungere il risultato di cercare di concorrere in tutti i modi alla corretta gestione del pubblico denaro.
So bene che, a fronte di questa situazione di specificità, si pone il problema della pluralità di valutazione a fronte di uno stesso fatto; però, non sarei dello stesso avviso espresso dal collega Caruso,
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il quale ritiene che con l'unità della giurisdizione si verrebbe a superare il problema della diversità di valutazione di un'analoga fattispecie. Il problema è completamente diverso. Ce l'ha spiegato Chiovenda ponendo i principi della procedura civile: il giudicato si forma sul caso concreto, in relazione a quelle che sono le parti e in relazione a quella che è la richiesta. Uno stesso caso concreto, valutato fra parti diverse sulla base di un petitum, di una causa petendi, diversa ha dei risultati diversi. Se così non fosse, il giudice diverrebbe legislatore, perché pronunziando su un singolo caso darebbe poi ad esso una valenza generale che eccederebbe le singole parti del processo. Quest'ultimo deve assicurare la certezza di un bene specifico in riferimento alle parti del processo stesso; è questa la sua funzione. Pensare che il processo possa accertare in senso assoluto la legittimità o la liceità di un certo comportamento significa attribuire al giudice un ruolo che non gli compete e attribuire al pubblico ministero - vedo il senatore Pellegrino che mi guarda non molto convinto - un potere che non gli compete. Se infatti il pubblico ministero - unico - dovesse convenire in giudizio l'amministratore sotto tutti i profili ipotizzabili che si riferiscono al comportamento di questo amministratore, prima di tutto egli dovrebbe essere un controllore a 360 gradi: si dovrebbe cioè verificare proprio quello che si teme e che si vuole evitare, vale a dire che ci sia una fusione assoluta tra funzione di controllo e funzione del pubblico ministero; si verrebbe quindi a creare questo supermoloc titolare di tutte le azioni possibili nel campo della liceità contabile, della liceità penale, della legittimità amministrativa, il quale, con un'unica azione, dovrebbe assorbire tutto questo. Io penso che si verrebbe a creare un organo - questa volta sì - troppo forte e quindi un pericolo per le istituzioni.
Altri due accenni molto rapidi. Il Parlamento europeo ha sostenuto la validità del modello che abbiamo attualmente nella Corte dei conti italiana, cioè dello svolgimento comune di una funzione di controllo e di una funzione giurisdizionale - nei documenti che vi lascerò ve ne è una copia - ed ha auspicato che la stessa Corte dei conti europea, oltre a svolgere la funzione di controllo, possa svolgere una funzione di giurisdizione contabile, proprio per perseguire le responsabilità degli amministratori e dei dipendenti della Comunità.
Per quanto riguarda il controllo, vorrei insistere sull'importanza che coloro cui è affidato lo svolgimento del controllo abbiano carattere magistratuale: ciò, oltre che per garantire la neutralità di questa funzione, anche per un altro aspetto importantissimo, vale a dire la possibilità di adire la Corte costituzionale per quanto riguarda la copertura delle leggi. Noi sappiamo che, nel nuovo modello di Stato che si sta configurando, il policentrismo economico è uno degli elementi essenziali. C'è bisogno di una fase per ridurre ad unità l'equilibrio finanziario. La Corte dei conti - di recente la Corte costituzionale ha aperto molte possibilità - è forse l'unico organo che possa sistematicamente rilevare la mancanza di copertura nelle leggi di spesa ed investirne la Corte costituzionale; se si elimina il carattere magistratuale al controllo, questa funzione - in futuro essenziale - verrà meno ed è chiaro che i problemi saranno enormi.
Per il resto, signor presidente, mi rimetto alla documentazione. La magistratura contabile è senz'altro favorevole al concetto di un'unità funzionale della giurisdizione, con la costituzionalizzazione sia delle garanzie, sia di un organo di governo autonomo, sia - ci tengo a sottolinearlo, perché è una nostra forte istanza - delle incompatibilità. Noi riteniamo che debbano essere previste per tutti i magistrati delle incompatibilità e che debbano essere previste a livello di Costituzione, in modo da evitare problemi di interferenze tra funzioni, che possono essere negative.
Infine, si è detto a proposito del Consiglio di Stato - ho letto dagli atti - che eventualmente, nel caso in cui si ravvisino delle incompatibilità tra la funzione
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consultiva e quella giurisdizionale, la legge ordinaria potrebbe prevedere modalità di separazione tra le due funzioni: penso che la stessa cosa potrebbe dirsi per quanto riguarda l'attività di controllo e l'attività giurisdizionale della Corte dei conti; a nostro avviso, non hanno alcuna incompatibilità, ma nel caso la Commissione dovesse ravvisarne, lo stesso criterio che viene individuato per il Consiglio di Stato potrebbe essere adattato alla Corte dei conti.
ANTONIO INTELISANO, Presidente dell'Associazione nazionale magistrati militari. Vi ringrazio a nome dell'associazione che rappresento per l'averci offerto la possibilità di esprimere la nostra opinione in materia di giurisdizione. Dico subito, riservandomi di consegnare un documento molto più analitico sui singoli aspetti, che l'Associazione nazionale magistrati militari ha da tempo nel suo programma, in posizione di centralità, l'obiettivo dell'unità della giurisdizione. Poiché si tratta di un concetto un po' ambivalente, vorrei precisare che per unità della giurisdizione l'Associazione non intende solo l'accezione funzionale, perché, almeno fin dal 1981, i magistrati militari hanno per legge le stesse garanzie di status in generale e di indipendenza del magistrato ordinario. Di fatto dunque siamo già una sorta di appendice esterna della magistratura ordinaria, almeno per quanto riguarda le garanzie funzionali.
Quando parlo di unità della giurisdizione mi riferisco invece ad una accezione di tipo organizzativo, di tipo ordinativo, ad una soluzione che consenta di evitare quelle dispersività, quei doppioni, quelle lungaggini, in una parola sola quelle irrazionalità che oggi connotano il riparto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione militare. Le cause sono molteplici: il mancato adeguamento dei codici ai principi costituzionali ha provocato numerosi interventi della Corte costituzionale di tipo - giustamente - soppressivo di determinate norme; si è quindi arrivati ad una situazione per cui esistono delle antinomie, delle lacune e delle profonde contraddizioni.
Al riguardo ci sono delle posizioni che enfatizzano il dato della specialità; si tratta di posizioni che sono tendenzialmente verso lo status quo. Ci sono per converso delle posizioni (che mi pare si siano delineate anche nell'ambito del Comitato sistema delle garanzie, almeno per quanto ricavo dalla relazione riepilogativa) che sono nel senso della soppressione tout court, allorché si dice che in tempo di pace i tribunali militari sono soppressi, possono essere istituiti solo in tempo di guerra o nelle situazioni che sono previste in adempimento di convenzioni internazionali.
Noi riteniamo che a fronte di queste due posizioni contrapposte ci sia una posizione mediana, peraltro già oggetto nell'ambito del Comitato sistema delle garanzie di una precisa formulazione propositiva, cioè quella della trasformazione dei tribunali militari in sezioni specializzate della magistratura ordinaria. Questo sistema, peraltro, consentirebbe di realizzare dal punto di vista giurisdizionale, a tutto campo, quel controllo che con una brutta battuta, però significativa, viene definito controllo giudiziario della vita di caserma, o meglio la possibilità di garantire che vengano adeguatamente tutelati i beni interessi della coesione e dell'efficienza delle forze armate, ma non in questa maniera episodica, contraddittoria e, devo dire con una parola di sintesi, strana, come avviene adesso, in cui il riparto delle competenze è veramente molto confuso, bensì perseguendo un disegno unitario, un disegno di ragionevolezza.
Al di là, quindi, di opzioni di carattere ideologico, qui c'è un'esigenza di fondo che è l'esigenza della modernizzazione, l'esigenza del buon senso, l'esigenza di evitare che permangano strutture sottoutilizzate o in qualche caso dissipative, o comunque che sia realizzata quella unitarietà dello ius dicere per quanto riguarda beni interessi fondamentali per la vita dello Stato.
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Esprimo un'ultima osservazione, per rimanere nell'ambito dei dieci minuti. Noi come categoria siamo particolarmente sensibili al problema dell'indipendenza, perché nella nostra storia abbiamo vissuto il dramma di quella che può essere l'indipendenza del magistrato. Basti considerare che fino al 1981 si diceva con una battuta che il magistrato giudicante era il pubblico ministero in camera di consiglio (la battuta non è mia, è dell'onorevole Violante in un suo noto saggio), perché per ragioni di carattere ordinativo anche il magistrato giudicante dipendeva dal procuratore generale. Questa situazione è cambiata in relazione a quella feconda legge che in pratica ha assimilato lo status del magistrato militare a quello del magistrato ordinario, fino ad arrivare all'istituzione nel 1988 dell'organo di autogoverno della magistratura militare.
Credo quindi che la categoria sia particolarmente sensibile al problema dell'indipendenza e, per converso, anche al problema dell'indipendenza del pubblico ministero, se non altro perché, per questioni di contiguità con un mondo che è giustamente improntato a connotazioni di carattere organizzatorio che si imperniano sul principio di gerarchia, noi vogliamo che ci sia un comparto giurisdizionale assolutamente e completamente affine ed assimilabile a quello della giurisdizione ordinaria.
Con questo concludo il mio intervento, riservandomi, ripeto, di consegnare un documento al Comitato.
GIUSEPPE SCANDURRA, Presidente del Coordinamento magistrati militari. Signor presidente, signori parlamentari, mi associo al ringraziamento già espresso per l'invito rivolto a noi come rappresentanti delle associazioni dei magistrati. Desidero inoltre esprimere il mio ringraziamento per l'invito rivolto al Coordinamento magistrati militari e per averci concesso la facoltà di rappresentare le ragioni essenziali per un mantenimento della giustizia militare, così come vuole lo statuto della nostra associazione.
Questo Coordinamento desidera anche esprimere la propria adesione a tutte le argomentazioni che sono state già svolte dal procuratore generale militare presso la Corte di cassazione nell'audizione dell'altro ieri, nonché la propria adesione al documento approvato il 4 marzo dal Comitato di coordinamento fra le magistrature e l'Avvocatura dello Stato, con una sola variante, quella di aggiungere, accanto all'indicazione delle altre magistrature ordinaria, contabile e amministrativa, anche la magistratura militare.
MARCO BOATO, Relatore. Si erano dimenticati di convocarvi?
GIUSEPPE SCANDURRA, Presidente del Coordinamento magistrati militari. No, siamo stati convocati, abbiamo partecipato, ma per una questione di carattere interno non è stata aggiunta l'espressione «magistratura militare».
Naturalmente ci esprimiamo per un mantenimento di queste giurisdizioni speciali, volute dal costituente del 1948.
Nel 1981, con la legge n. 180 del 7 maggio, l'ordinamento giudiziario militare ha subìto una profonda riforma, imposta peraltro dalla Costituzione, in armonia con il dettato costituzionale. Furono creati infatti nove tribunali militari, con conseguente soppressione dei numerosi organi giudiziari militari che prima erano previsti; furono creati ex novo anche numerosi organi giudiziari, quali la Corte militare di appello, le sezioni distinte della Corte militare di appello, l'ufficio del procuratore generale militare presso la Corte di cassazione, e venne dato un ordinamento che rispondeva, sia pure con ritardo, ai principi voluti dal costituente e dalla Costituzione del 1948.
Questo processo di riforma si perfezionò con la successiva legge 30 dicembre 1988, n. 561, che istituì il Consiglio della magistratura militare, il quale, a simiglianza del CSM, ha una composizione mista: magistrati eletti dagli stessi magistrati, componenti di diritto rappresentati dai due organi di vertice della magistratura ordinaria e del procuratore generale
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presso la Corte di cassazione, nonché membri nominati dai Presidenti delle due Camere. La presidenza del tribunale militare fu affidata ad un magistrato militare; furono eliminati i presidenti e i giudici militari, furono istituiti, con una prevalenza nel collegio, i magistrati militari, con la componente di un giudice militare che era chiamato a portare l'esperienza e la conoscenza del mondo militare nell'ambito di questi tribunali militari.
L'opera svolta dai tribunali militari nella funzione d'interpretazione delle norme è abbastanza nota, anche perché essi hanno sempre cercato di porre il proprio operato al servizio degli ideali di giustizia, di rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Del resto, le eccezioni e le questioni di illegittimità costituzionale sollevate dagli organi giudiziari militari non credo trovino condizioni di parità rispetto agli altri organi giurisdizionali. Le conseguenti pronunce della Corte costituzionale hanno profondamente modificato il tessuto connettivo della legislazione penale militare e hanno dato origine ad un nuovo sistema penale notevolmente differenziato rispetto a quello delineato nel 1941. Il legislatore è stato molto attento per quanto riguarda le norme di carattere ordinamentale, ma ha trascurato di curare un aggiornamento delle norme di carattere penale sostanziale. A questo hanno cercato di ovviare le eccezioni di illegittimità costituzionale sollevate dai tribunali militari, con le conseguenti pronunce della Corte costituzionale che non hanno lasciato libero nessun campo: dall'affidamento in prova all'abuso di autorità, all'insubordinazione, a tutte le altre ipotesi di reato contemplate nel codice penale militare, sono state sempre oggetto di pronunce da parte della Corte costituzionale. Quindi, la Costituzione ha fatto compiere alla magistratura militare un salto di qualità e un notevole progresso rispetto al processo storico svoltosi nei decenni precedenti. Ha confermato i tribunali militari come giudici, riservando loro per il tempo di pace la giurisdizione sui reati militari e, per il tempo di guerra, quell'ulteriore giurisdizione che il legislatore ordinario dovesse ritenere di dover ad essi attribuire. Ha attribuito alla legge la competenza esclusiva a stabilire norme e criteri sul loro ordinamento e, al tempo stesso, ha imposto al legislatore l'obbligo di assicurare l'indipendenza dei giudici militari. Ne ha fissato la competenza ad emettere sentenze e provvedimenti sulla libertà personale, oltre a tutti gli altri provvedimenti di natura giurisdizionale.
Nell'attuale crisi di identità in cui si è voluta far entrare la giurisdizione militare - il cui eco abbiamo naturalmente raccolto anche nelle relazioni e negli interventi che si sono svolti dinanzi a questo Comitato -, uno spazio argomentativo primario, nell'ampio ventaglio delle proposte abolizionistiche, è stato occupato dall'affermazione secondo cui l'Italia sarebbe uno dei pochissimi paesi al mondo a mantenere ancora in vita quella giurisdizione.
Questa affermazione è dotata di indubbio fascino e quindi è accettata piuttosto acriticamente, e tuttavia deve essere contraddetta. Secondo un campione significativo, effettuato tra i paesi di tutti i continenti, la Germania, l'Austria, il Giappone, insieme a qualche altro paese, non hanno una giurisdizione militare, per ragioni facilmente spiegabili sul piano storico; in Germania, anzi, esiste una giurisdizione disciplinare che volge una funzione quasi analoga a quella di carattere penale. Prevedono, invece, un ordinamento giudiziario misto, in parte civile ed in parte militare, l'Ungheria, la Lettonia, la Bulgaria, l'Olanda, la Norvegia e anche la Francia. Quest'ultimo paese prevede un codice penale militare, mentre la giurisdizione militare viene esercitata da collegi specializzati, competenti a giudicare i reati militari e quelli comuni commessi in servizio; esistono tribunali militari presso corpi di spedizione all'estero. Una giurisdizione militare penale esiste in Canada, Corea del Sud, Danimarca, Israele, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Svizzera, paesi dell'ex URSS, USA e, con qualche limitazione dovuta alla diversità di ordinamento, anche nel Regno Unito.
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Si tratta di un panorama molto vario che va da soluzioni minimaliste a soluzioni che vogliono i magistrati militari come vero e proprio corpus distinto ed autonomo dalla magistratura ordinaria (Polonia e Spagna). Su questa strada - tengo a precisare - l'Italia occupa particolarmente la posizione più avanzata: il processo militare, dalla fase delle indagini preliminari a tutto il giudizio di appello, per finire a quello di legittimità dinanzi alla Corte di cassazione, è gestito secondo norme di garanzia comuni a quelle richieste per le forze armate nei processi comuni.
L'esistenza di una giurisdizione penale militare è a nostro avviso un elemento indispensabile per l'ordinamento delle forze armate, che, altrimenti, sarebbe portato a rendersi sempre più impermeabile a qualsiasi tentativo di penetrazione giudiziaria, con le intuibili conseguenze di un aumento esponenziale della cifra «nera» dei reati non denunziati, ai quali potrebbe essere riservata la via di una ignoranza assoluta o di una impropria prosecuzione in via disciplinare.
Insomma, una visione comparata immune da precostituite ostilità dovrebbe indurre ad una maggiore cautela nella valutazione dell'attuale sistema della giustizia militare italiana ed a considerarla non un fenomeno da terzo mondo, ma il punto di arrivo di un percorso storico secolare e proponibile come esempio per molti Stati.
In questa prospettiva, vorrei venisse riaffermata questa prospettiva di un mantenimento della giurisdizione penale militare, nell'ambito dell'attuale sua competenza, con l'eliminazione delle incongruenze che una carenza legislativa ha finora determinato.
Ciò non esclude che noi possiamo anche applicare il codice penale militare di guerra. Effettivamente un elemento importante è la distinzione tra stato di guerra e stato di pace; il tempo di guerra è una concezione di carattere naturalistico che non esclude l'applicabilità del codice penale militare di pace, così come il tempo di pace non esclude quella del codice di guerra. In altri termini, anche in un periodo di pace tale codice può essere applicato qualora si verifichino le particolari condizioni volute dalla legge.
Ho voluto così rappresentare l'importanza e l'utilità della giurisdizione militare, del resto svolta da appena 103 magistrati in organico (attualmente siamo molto vicini alla settantina). Mi auguro che le argomentazioni così svolte servano a prevenire il danno di una eliminazione della giustizia militare ritenuta rappresentativa di interessi minori rispetto ad altri.
GIOVANNI ROSSO, Rappresentante dell'Unione nazionale giudici tributari. Signor presidente, signori commissari desidero esprimere un vivo ringraziamento da parte dei giudici tributari, che forse oggi per la prima volta assumono una posizione nel momento in cui si trattano argomenti di giustizia.
Quasi quotidianamente leggiamo sui giornali dei problemi della giustizia, ma poco si dice di quella tributaria. Desidero anzitutto precisare che non appartengo alla magistratura, né contabile, né amministrativa, né militare, sono un avvocato che esercita la sua attività professionale, sono qui insieme al segretario generale dell'Unione, l'avvocato Ermanno Fera.
Desideriamo portare le nostre aspettative rispetto ad un disegno che ci sembra ancora confuso in merito al futuro assetto di questa particolare branca della giustizia. La nostra è una posizione peculiare, nel senso che le commissioni tributarie sono composte essenzialmente di laici e di pochi magistrati; solo la riforma del 1992 ha stabilito che il presidente di ogni sezione di commissione tributaria sia un magistrato. Anche questa è questione che va affrontata forse in sede legislativa costituzionale perché fino ad oggi il giudice tributario non ha trovato una collocazione in sede costituzionale.
Noi riteniamo che la giustizia tributaria abbia un'importanza grandissima, perché forse il 90 per cento dei cittadini italiani in qualche modo ha avuto a che fare con questa realtà; è probabile che molti nella loro vita non abbiamo avuto
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bisogno di ricorrere alla magistratura in campo civile o penale, ma certamente tutti hanno sentito la necessità di accostarsi a questo tipo di giustizia.
Molto spesso la nostra funzione è stata male interpretata, siamo stati quasi definiti come rappresentanti dell'amministrazione finanziaria, il che è profondamente errato. Con la riforma del 1992 finalmente abbiamo avuto un organo di autogoverno, al quale mi onoro di partecipare come componente del consiglio di presidenza; questo è stato l'inizio di un processo volto a rafforzare l'autonomia, l'indipendenza, la terzietà che questo giudice deve comunque rappresentare.
Abbiamo poche cose da esporre anche perché - ripeto - non costituiamo una categoria con interessi specifici da difendere. La nostra attività viene svolta quasi per passione e non per guadagno. Sapete benissimo che per ogni decisione scritta un giudice tributario ha una retribuzione pari a circa 7 mila lire nette - dico 7 mila lire -; oggi si parla di un'indennità mensile che si aggira intorno alle 500 mila lire lorde al mese, cioè nemmeno 250 mila lire nette al mese.
Possiamo comunque vantare a nostro pregio che, in 23 anni, abbiamo assicurato una giustizia tributaria in Italia che si può dire di alto livello, nonostante qualche critica ci è pervenuta anche da qualche ministro, che dobbiamo assolutamente respingere con tutta la forza. Abbiamo deciso decine di milioni di controversie tributarie e va tenuto presente che la controversia tributaria assume a volte un rilievo di grande importanza, perché vi sono questioni, sulle quali siamo chiamati a decidere, che assommano a centinaia di milioni, o a miliardi.
Abbiamo esercitato questa funzione con dignità e con appassionato impegno; abbiamo portato avanti questa giustizia in maniera veramente esaustiva. Ci preoccupa piuttosto quella che sarà la nostra posizione: mi rivolgo essenzialmente al relatore, onorevole Boato, perché siamo desiderosi di sapere quale sarà la fine di questo giudice tributario che, ripeto, è un giudice collegiale, a composizione mista laica e togata. Vi è in materia un ordine del giorno approvato dalla Camera non molto tempo fa, con il quale si chiedeva anche che il presidente della sezione potesse essere anche un laico e non solo un magistrato. Abbiamo quindi questi dubbi e queste perplessità: siamo comunque grati al Comitato per averci sentito, perché vogliamo portare in questa sede una testimonianza della necessità di avere una Costituzione italiana che parli anche della giustizia tributaria, discipliandola nelle sue competenze.
Saremo forse degni di un ringraziamento da parte del Comitato per la nostra sinteticità: abbiamo predisposto un breve documento, di una sola pagina, nel quale riassumiamo le caratteristiche del giudice tributario, che si articola in 103 commissioni su tutto il territorio nazionale, in 21 commissioni regionali, con un organico di 8.500 unità, per il 90 per cento costituito da professionisti, laureati in legge o in economia e commercio. Vi è un problema di incompatibilità, che però dovrà essere definito in sede di legge ordinaria.
Il nostro interesse è che la nuova Costituzione tenga conto di questa giustizia, che deve essere considerata a pari dignità di tutte le altre giustizie: non può essere relegata in un cantuccio. Ultimamente abbiamo avuto notizia che all'inizio di questa legislatura la questione della giustizia tributaria era stata appropriatamente assegnata alle Commissioni giustizia della Camera e del Senato, mentre successivamente, per un intervento pressante da parte dell'amministrazione finanziaria, è passata nuovamente alla competenza delle Commissioni finanze della Camera e del Senato. Questo non ci sembra coerente, perché, se si tratta di giustizia, deve essere affidata agli organi istituzionali effettivamente competenti, che sono poi quelli con maggiore rilevanza ed efficienza rispetto a chi, come l'amministrazione finanziaria, è parte nel processo, per cui deve essere posta nelle stesse condizioni del contribuente, che non può essere posto in una posizione di minore importanza.
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Abbiamo ascoltato con attenzione coloro che ci hanno preceduto, i quali, però, hanno parlato da una posizione ormai definita, perché il loro rapporto organico con l'amministrazione, con lo Stato, con la legge è stabilito; noi, invece, abbiamo un dubbio sull'avvenire. Riteniamo comunque che la Commissione bicamerale possa fare un lavoro efficiente dando spazio al giudice non togato, che ha dato prova di sé anche sotto il profilo dell'economicità e della chiarezza delle decisioni. Lascio agli atti il documento dell'Unione nazionale giudici tributari.
MARCO BOATO, Relatore. Voglio soltanto chiarire un aspetto a lei e a tutti i nostri cortesi interlocutori: lei, ad un certo punto, ha avuto il garbo di rivolgersi a me, per la mia veste di relatore, e la ringrazio di questo, ma come è chiaro a tutti voi è il Comitato sistema delle garanzie che istruisce la problematica al nostro esame, come sta facendo, è la Commissione bicamerale nel suo insieme che ha il potere referente nei confronti del Parlamento, sono Camera e Senato che decideranno. La mia possibilità di decidere, riguardo qualunque delle questioni che stiamo discutendo, è di un settantesimo in bicamerale e di un novecentocinquantesimo in Parlamento.
VINCENZO POLITO, Componente del consiglio di presidenza dell'Associazione nazionale giudici tributari. Signor presidente, mi permetto di chiederle di poter suddividere i dieci minuti a nostra disposizione tra me e il vicepresidente vicario dell'Associazione.
PRESIDENTE. Certamente.
VINCENZO POLITO, Componente del consiglio di presidenza dell'Associazione nazionale giudici tributari. Signor presidente, le chiedo inoltre di consentire la pubblicazione del testo da noi predisposto in calce al resoconto stenografico della seduta.
PRESIDENTE. Sta bene, il testo sarà allegato al resoconto stenografico della seduta odierna.
VINCENZO POLITO, Componente del consiglio di presidenza dell'Associazione nazionale giudici tributari. Dal decreto del Presidente della Repubblica n. 636 del 1972 il Parlamento si è continuamente occupato del processo tributario. Numerosi sono stati i disegni di legge presentati da folti gruppi di deputati di tutte le forze politiche, alcuni caparbiamente ripresentati al rinnovarsi delle successive legislature. Nel 1991 vi è stata una legge delega che ha prodotto due decreti, il n. 555 per la parte ordinamentale e il n. 546 per la parte procedurale, che hanno visto l'inchiostro della Gazzetta Ufficiale il 30 dicembre 1992. Anche la precedente Commissione parlamentare per le riforme costituzionali ha ben riconosciuto, nei suoi lavori, la pari dignità a livello costituzionale della giustizia tributaria, della giustizia ordinaria, civile e penale, della giustizia amministrativa.
Da quanto scritto dal Parlamento risultano alcuni postulati: in primo luogo, i giudici tributari sono oggi compiutamente organizzati anche con un proprio organo di autogoverno, attivamente operante con criteri di selettività e di piena autonomia, e stanno dando prova di professionalità, di efficienza e di produttività; in secondo luogo, le funzioni dei giudici tributari hanno natura particolare e specifica in relazione appunto alla peculiarità della materia tributaria, che forma l'oggetto della loro attività e che certamente non la rende aggregabile alla competenza di altri organi giurisdizionali, tenuto specificamente conto della loro diversa composizione ed estrazione oggettiva e soggettiva.
Ci sono oltre 3 milioni di processi pendenti: i giudici tributari, dopo il concorso bandito nel 1992, sono entrati in servizio il 1^ aprile 1996. Il nuovo apparato istituzionale, oltre tutto poco costoso, sta funzionando egregiamente, certamente non dando lavoro alla Corte di Strasburgo per le sue censure.
Pertanto, sarebbe impensabile e improponibile qualsivoglia commistione aggregativa ad altre distinte categorie giurisdizionali.
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Si creerebbe un vero e proprio sconvolgimento nell'attività dei giudici ordinari o amministrativi, già afflitti da enormi problemi di carichi di lavoro.
Il Parlamento di tanto è stato ben consapevole ed ha messo a punto per ulteriori adeguamenti due ordini del giorno. Uno, presentato alla Camera dei deputati il 15 ottobre 1996, a firma Benvenuto, Piccolo, Pistone, Agostini, De Benetti, Repetto, Carlo Pace, D'Alia, Conte, Fronzuti, Targhetti, Piscitello, Lumia e Di Fonzo; l'altro, presentato al Senato il 24 ottobre 1996, a firma Angius, Pasquini, Bonavita, Albertini, Sartori, Caddeo, Montagna, Polidoro, Pettinato e Bertoni. Come si vede, la maggior parte del Parlamento ha firmato i due ordini del giorno.
In immediata attuazione, il sottosegretario di Stato Gianni Marongiu, personalmente coordinando un gruppo di studio che sta ultimando con i professori Glendi e Minieri ed il direttore generale del contenzioso, dottor Leo, i suoi lavori, presenterà al Parlamento nei prossimi giorni il provvedimento legislativo di attuazione degli ordini del giorno che ho poc'anzi citato.
Onorevole Marco Boato, ho letto con molta attenzione la sua relazione, della quale è certamente compartecipe l'intera Commissione. Alle pagine 5 e 6 prende in considerazione l'articolo 102 della Costituzione e prospetta la «possibilità ed utilità di istituire giudici speciali ad eccezione che in materia penale». Rispondiamo, in attuazione, che «l'esperienza del giudice speciale già sussiste con specifico riferimento al giudice tributario».
È ben vero, però, che la commissione regionale di Lecce ha sollevato la questione - non ho capito se a scopo provocatorio o per qualche altro motivo - di legittimità costituzionale dei nuovi giudici tributari per contrasto con l'articolo 102 della Costituzione. E a questa ordinanza ha fatto riferimento il senatore Pellegrino nell'audizione del 15 aprile 1997.
MARCO BOATO, Relatore. Però non è un motivo perché questa eccezione di costituzionalità venga accolta.
VINCENZO POLITO, Componente del consiglio di presidenza dell'Associazione nazionale giudici tributari. Assolutamente no. Le dico perché va respinta...
MARCO BOATO, Relatore. Perché la Costituzione vigente esclude i giudici speciali.
VINCENZO POLITO, Componente del consiglio di presidenza dell'Associazione nazionale giudici tributari. Glielo chiarisco subito. La questione dell'eccezione di costituzionalità si ripercuote in pedissequa ripetizione: già in passato è stata respinta dalla Corte costituzionale - ricordo la sentenza n. 215 del 1976, la sentenza n. 196 del 1982 e la sentenza n. 217 del 1982 - in quanto l'articolo 102, secondo comma, della Costituzione può ritenersi violato «solo con la creazione ex novodi un organo giurisdizionale».
GIUSEPPE MARINUCCI, Vicepresidente vicario dell'Associazione nazionale giudici tributari. Sono il primo firmatario del documento che è stato già prodotto alla segreteria della Commissione. I punti sono tre. Vogliamo che la dignità costituzionale che abbiamo già ottenuto venga ribadita: del resto, ce l'aveva già riconosciuta la precedente Commissione per le riforme istituzionali, presieduta prima dall'onorevole De Mita e poi dall'onorevole Iotti. Abbiamo mostrato sul campo di meritare questa dignità e, con la costituzione del consiglio di presidenza di giustizia tributaria, con il rigore con cui affronta il problema delle incompatibilità e delle decadenze, riteniamo che sul campo abbiamo dimostrato di meritarla ampiamente.
Il secondo punto che ci interessa - non voglio invadere il tempo dedicato ad altri, ma in quattro minuti devo per forza di cose parlare in estrema sintesi - è la natura della giurisdizione tributaria, una giurisdizione che questa Commissione dovrebbe
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coltivare ed esaminare con grande attenzione, perché nelle commissioni tributarie viene coniugato il principio della giurisdizione della magistratura professionale, propria dei regimi di common law (della Gran Bretagna in primo luogo), con quello di una magistratura - uso questo termine perché è usato dalla dottrina - burocratica. Questa commissione dà vita ad un tertium genus, ricco, perché permette, tra l'altro, di far sentire veramente il cittadino vicino ai problemi della giustizia. E il problema della giustizia tributaria è il problema per eccellenza. Pertanto, non solo per la professionalità acquisita nell'arco di ormai 20-25 anni, ma anche perché è un esperimento che alcuni paesi europei già hanno effettuato, deve essere vista con grandissima attenzione. L'unico problema della giurisdizione tributaria, il rimprovero più grande che sia stato fatto (lasciamo stare le questioni dell'incostituzionalità, tutte le questioni sulle quali c'è ormai una spessa coltre di polvere) riguarda le incompatibilità e le decadenze. Adesso, con il consiglio di presidenza giudiziaria e con le sue recenti disposizioni, si è visto che il giudice ha acquistato anche sotto questo profilo una terzietà degna di grandissima considerazione.
Permettetemi di leggere poche righe: «Non c'è dubbio che il reclutamento operato nei settori vitali della società ed arricchito dalla presenza di giudici togati renda la magistratura tributaria più sensibile alle problematiche economiche della società, più vicina alle sensibilità fiscali dei cittadini, più aliena dalle possibili tentazioni corporative che possono insorgere in un corpo burocratico selezionato con un concorso tecnico aperto a giovani freschi di studi giuridici ma scevri, nella maggior parte dei casi, di esperienze operative di natura economica, importanti per la comprensione dell'eziologia delle controversie fiscali». Ho sentito alcuni colleghi che hanno posto al servizio di questa commissione anche le proprie esperienze personali. Personalmente, sono quarant'anni che svolgo la professione di avvocato e venticinque quella di giudice. Adesso, presiedendo il tribunale regionale del Lazio, vedo che i cittadini si sentono vicini e la presenza dei laici rende la giustizia
Nelle aule di giustizia, specialmente nelle aule di giustizia tributaria, si crea uno Stato di diritto, si crea una Repubblica, molto più che con un corpo selezionato con un concorso fatto nei primissimi anni - siamo stati tutti membri di commissione di esame -, cioè a venti o venticinque anni, e che non è stato valutato senza alcune altre valutazioni nel corso della propria carriera. Questo è un punto chiaro. In fondo, la nomina dei giudici tributari avviene con un concorso, un concorso per titoli.
PRESIDENTE. Passiamo ai rappresentanti dei giudici di pace.
FRANCO PETRELLI, Presidente dell'Associazione nazionale giudici di pace. Signor presidente, con due anni di attività alle spalle il giudice di pace è il più giovane fra tutti i magistrati. Ma è già portatore di una significativa esperienza di carattere giurisdizionale: oltre 700 mila procedimenti ordinari e speciali portati a conclusione, con una percentuale di appelli che non supera il 2 per cento, sono significativi della qualità e della quantità del lavoro che il giudice di pace sta sviluppando.
Il giudice di pace è davvero il giudice vicino alla domanda di giustizia del cittadino, non solo perché è competente sulle materie che toccano da vicino la vita quotidiana dei cittadini, ma anche perché il suo modo di rendere giustizia corrisponde all'attesa di una giustizia rapida e il più possibile economica, e soprattutto attenta agli interessi sostanziali dedotti dalle parti in giudizio più che agli eccessi del formalismo e del tecnicismo.
Oggi i giudici di pace si trovano a prendere posizione su una serie di problemi che li toccano come magistrati e come cittadini, e sono quelli che questa alta sede sta esaminando. Senza spiegarne le ragioni, perché sono già state ampiamente illustrate dai colleghi dell'Associazione nazionale magistrati, diciamo tutta
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via che ci auguriamo che non si vada oltre una distinzione tra le funzioni del pubblico ministero e le funzioni del magistrato giudicante. Crediamo che l'obbligatorietà dell'azione penale sia un patrimonio di civiltà che si traduce nella garanzia di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge e pensiamo che soluzioni diverse adottate dal Parlamento italiano (in ragione della diversità delle esperienze storiche e della cultura giuridica di cui i vari paesi sono i portatori) siano compatibili con quelle per cui in questo momento spendiamo la nostra fiducia (come quelle assunte recentemente dal Parlamento europeo).
Per quanto attiene alle garanzie di legalità nell'ambito del processo penale, auspichiamo che la Carta costituzionale affermi il principio di un contraddittorio fondato sulla parità fra accusa e difesa. Introdurre all'interno del processo penale la cultura della mediazione, come previsto dal testo unificato approvato dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati nel giudizio dinanzi al giudice di pace, è a nostro avviso un importante passo avanti. Il giudice di pace è mandatario di un cambiamento culturale - sia nel civile sia nel penale - che in qualche modo contrasta con la frequente sottovalutazione dell'idoneità di questo giudice a rendere giustizia.
Per quanto riguarda la competenza penale che - come noi riteniamo - sarà affidata al giudice di pace, ci sembra che l'ambito di competenza sia traguardato sulla base di una residuale diffidenza nei confronti di questa figura. In sostanza si tratterebbe di uno spazio residuale fra la depenalizzazione, spinta al di là di quanto la coscienza civile e sociale del paese può accettare circa la rilevanza di comportamenti illeciti, e l'accettazione - francamente supina, come in qualche momento ci sembra - del rischio della prescrizione. Al giudice di pace si ritaglia uno spazio minimale. Ci domandiamo se collocarlo in un ambito così ristretto rifletta il bisogno di giustizia del paese. Lo abbiamo già detto in altre sedi: qui abbiamo semplicemente voluto ricordarlo, sapendo che probabilmente non sarà materia sulla quale condurrete le vostre analisi e raggiungerete le vostre conclusioni.
Per quanto riguarda la competenza civile del giudice di pace e, in generale, lo svolgimento del processo civile, sarebbe importante costituzionalizzare il principio che ogni cittadino ha diritto ad un processo contenuto, in termini di durata accettabile. Non sono necessarie le sanzioni inflitte al nostro paese per affermare questo principio, che corrisponde alla nostra coscienza di cittadini adulti e maturi.
Il tema centrale del nostro intervento riguarda la riforma del Consiglio superiore della magistratura. L'Associazione ritiene che una modifica della composizione prevista dall'articolo 104, a favore della componente laica (la vera componente laica: avvocati e professori universitari), possa attenuare quel forte richiamo alla responsabilità dei singoli magistrati e dell'intero ordine giudiziario che rappresenta il presupposto dell'autogoverno loro riconosciuto.
Riteniamo che occorra riversare nella norma costituzionale quegli adattamenti che la realtà del giudice di pace sta prospettando come non più dilazionabili. Nel corso di due anni di attività, nei nostri confronti il Consiglio superiore ha esercitato le sue funzioni sia in termini di salvaguardia dei principi di indipendenza e di autonomia propri di qualsiasi giudice sia sul piano della sorveglianza e del potere disciplinare previsti dall'articolo 105 della Costituzione (la faccia speculare del potere del Consiglio superiore). Si impone ora - a nostro avviso - la necessità di assicurare ai giudici di pace, anche in seno al Consiglio superiore, pari dignità rispetto agli altri magistrati: come questi ultimi, stabilmente inseriti nell'ordine giudiziario e distinti - secondo la Costituzione - soltanto per le funzioni esercitate. Di ciò riterremmo importante dare atto, nell'ambito dell'articolo 102, primo comma, della Costituzione, prevedendo espressamente la figura del giudice di pace quale organo di giurisdizione,
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premessa dalla quale conseguono le formulazioni alle quali particolarmente teniamo.
Anche qui, e lo abbiamo scritto nella lettera con la quale abbiamo sottoposto alla vostra attenzione le nostre posizioni, non crediamo sia realistico e corretto rivendicare semplicisticamente il diritto del giudice di pace all'elettorato attivo e passivo. Piuttosto si deve tener conto - da una parte - che allo stato il giudice di pace è l'unica figura di magistrato onorario titolare di un potere giurisdizionale autonomo (parlo ovviamente del settore civile e penale) e - dall'altra - che alcune connotazioni specifiche caratterizzano la sua figura: l'onorarietà della funzione, la temporaneità dell'incarico, l'assenza della carriera, la specialità del regime indennitario, l'impraticabilità dei trasferimenti. Ne consegue una diversa e minore ampiezza (ma non una diversa natura) degli ambiti entro i quali l'esercizio dei poteri del Consiglio superiore trova occasione di esprimersi. Trascuro gli esempi; una minima indicazione circa le possibili soluzioni è contenuta nel documento che vi è stato consegnato. A noi sembrerebbe importante l'affermazione di questo principio della pari dignità dei magistrati e delle sentenze da loro pronunciate dinanzi alla legge. Non ci sono giudici di serie A e giudici di serie B; e forse qualche eco di questa nostra preoccupazione sarà stata da voi trovata nella sede ordinaria del Parlamento. Non ci sono sentenze importanti ed altre meno importanti, sentenze elevate ed altre meno elevate: tutti i giudici che si pronunciano in nome del popolo italiano hanno pari dignità.
Se, signor presidente, signori commissari, vorrete dare una risposta positiva a questa aspettativa del giudice di pace (e forse non soltanto dei giudici di pace), credo che questi nuovi magistrati potranno dare ancora di più e fare ancora meglio di quanto è accaduto fino ad oggi. Soprattutto, affermeranno dinanzi a tutti che c'è veramente un principio di equilibrio e di equità non dimenticato in nessuna sede. Assumiamo dinanzi a voi formale impegno che i giudici di pace sapranno rendersi degni di questo ulteriore importante riconoscimento.
CARLO MALVANI, Presidente dell'Unione nazionale dei giudici di pace. Signor presidente, signor relatore, signori membri del Comitato, desideriamo innanzitutto esprimere il nostro ringraziamento per questo invito, che interpretiamo come riconoscimento del rilievo che ormai ha assunto la figura del magistrato onorario ed, in quest'ambito, del giudice di pace.
Vengo subito al tema dell'intervento. Forse perché sono di mamma inglese, tendo al pragmatico: vorrei arrivare al concreto dei due aspetti che abbiamo ritenuto opportuno indicare nel documento predisposto per la Commissione, che riguarda essenzialmente il riconoscimento di una rilevanza costituzionale per il magistrato onorario.
Si possono fare molti discorsi sul giudice di pace, tutti o quasi tutti interessanti; d'altra parte, anche i problemi sono tanti. Ma non è questa la sede per soffermarsi su questi temi. Questa è la sede nella quale si devono valutare i suggerimenti - nulla di più può accogliere la Commissione, non certo delle proposte - o le raccomandazioni di riflessione su alcuni punti che riguardano le eventualità di modifica della Costituzione.
Noi pensiamo che, se si ritiene che il trascorrere di cinquant'anni abbia portato ad una modifica della situazione socio-politica e giuridica del paese e quindi si possano apportare migliorie ad una pur buona Costituzione, forse sul titolo IV si può intervenire. Nel 1948, ancora prima della chiamata dei pretori onorari per iniziativa di una nota personalità politica, il magistrato onorario non aveva una presenza quale quella che è venuta ad assumere oggi, in particolare negli ultimi due o tre anni con l'istituzione dell'ufficio del giudice di pace; tenendo presente che una volta completato l'organico dei giudici di pace rappresenterà circa la metà dell'organico dei magistrati ordinari. Se a questo si aggiunge l'istituzione delle sezioni stralcio, con una definizione - sembra - di magistrati aggregati (non è molto
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chiaro in che modo questa definizione dovrebbe differenziare tali magistrati destinati alle sezioni stralcio dai giudici di pace), nel complesso il magistrato onorario sta assumendo un rilievo numerico nell'esercizio della giurisdizione previsto dall'articolo 102 per il quale non sembra essere più sufficiente affermare che «la giurisdizione è esercitata dai magistrati ordinari». Finiremo per avere una giurisdizione esercitata da un numero quasi pari di magistrati onorari ed ordinari.
Ecco dunque che il punto essenziale sul quale ci permettiamo di attirare l'attenzione del relatore, dei membri del Comitato e della Commissione bicamerale è proprio quello di vedere come la situazione giuridica, politica e sociale del paese si sia modificata. È bene che la Costituzione - se vi si deve mettere mano - venga a rappresentare qualcosa che assomigli alla nuova realtà.
La tentazione è quella di passare ad un secondo punto che ci sembra essenziale, però è forse inutile perché una volta che si arrivi al riconoscimento della rilevanza costituzionale del magistrato onorario in quanto tale, ne consegue che anche il problema della composizione del Consiglio superiore della magistratura - al quale non siamo certamente insensibili - trova un obbligo di soluzione. Esiste una sezione di giudici di pace presso il CSM. In base all'articolo 105 della Costituzione spettano al Consiglio i provvedimenti disciplinari, per cui riteniamo impossibile pensare che decisioni di questo tipo, che riguardano per ora un corpus di 3.200 giudici (secondo l'organico 4.700), possano essere assunte in assenza del giudice di pace, che non è presente né rappresentato in seno al CSM.
Ci troviamo su un terrain vague, una terra di nessuno, nella quale è stato istituito un magistrato onorario con caratteristiche estremamente professionali - tant'è che l'articolo 1 della legge n. 374 del 1991 dice che si tratta di un magistrato che appartiene all'ordine giudiziario - però non sono state previste ancora
Entro certi limiti, ciò è comprensibile perché i passi si fanno uno per volta, però qui vi è una disattenzione. A questo punto mi fermo perché rischierei di entrare in un campo che non riguarda la sede nella quale ci troviamo, alla quale compete valutare eventuali possibilità di aggiornamenti e modifiche alla Carta costituzionale, però non posso fare a meno di fare un cenno, perché i membri del Comitato che ci ascoltano sono parlamentari: colgo l'occasione, quindi - mi sia perdonato se ne approfitto - per lamentare l'assoluta disattenzione delle istituzioni in genere (il Parlamento se ne sta occupando) verso le vicende di questo istituto che ha già mostrato, nonostante la corrente contraria, di portare a risultati vantaggiosi e che molto meglio e di più potrebbe fare ma è completamente abbandonato nelle sue strutture, nella fornitura di testi, di giurisprudenza, di tutto; manca di qualsiasi assistenza ed attenzione. Però siamo fiduciosi e pensiamo che quando questa Commissione - nella quale riponiamo tutti grande speranza - darà un segno tangibile nel senso che ho delineato, vi sarà una serie di altri sviluppi vantaggiosi non tanto e non soltanto per la figura del giudice di pace il quale, una volta esercitato il suo ministero per quattro anni ed eventualmente per altri quattro, se ne va, quanto per l'istituto che rimane e per la cittadinanza che ne può trarre grande vantaggio.
Con questo auspicio vi ringrazio e deposito un documento.
PRESIDENTE. Il documento del dottor Malvani - che ringrazio - e tutti gli altri che sono già stati consegnati, come quelli che vorrete farci pervenire nei prossimi giorni, saranno distribuiti a tutti i membri del Comitato. Do ora la parola ai colleghi che intendano svolgere considerazioni o porre quesiti.
GIOVANNI PELLEGRINO. Il tempo purtroppo mi costringe a sacrificare un'occasione della mia vita. Per tanti anni nella aule di giustizia mi sono sentito porre difficili domande dai giudici amministrativi di primo e secondo grado e dai giudici contabili, per cui mi avrebbe fatto
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piacere giocare per una volta a parti invertite. Però il tempo è pochissimo e mi limiterò soltanto ad alcune osservazioni nelle quali sono implicite delle domande e delle spiegazioni, perché mi sembra giusto far capire in che direzione il Parlamento, la Commissione e il Comitato ritengono di muoversi.
Il primo grosso problema sollevato è quello delle funzioni consultive del Consiglio di Stato. Penso che sul piano astratto il consigliere Patroni Griffi abbia ragione: una volta che anche il giudice amministrativo fosse ricondotto nel medesimo statuto del giudice ordinario, uno statuto di autonomia ed indipendenza, non sarebbe contrario alla terzietà o in contrasto con questa che quello stesso giudice potesse preventivamente pronunciarsi in ordine all'atto di cui successivamente fosse giudice nell'eventualità dell'impugnazione giurisdizionale. Ovviamente - ma questo è un fatto che già avviene - non potrebbero essere le stesse persone, ma è un problema di composizione del collegio e non di incompatibilità fra le due funzioni.
Effettivamente vi sono frasi che vengono pronunciate ed alle quali tutti ci affezioniamo, ma non riflettiamo abbastanza per verificare se siano o meno vere.
Tuttavia, vorrei che il consigliere Patroni Griffi si rendesse conto che noi abbiamo anche altri problemi con i quali misurarci, il primo dei quali è quello dell'armonia dell'architettura costituzionale che stiamo faticosamente provando a costruire. Se l'ipotesi è l'unità funzionale della giurisdizione e se ad essa dovesse accedere l'idea di un unico CSM, da articolare come organo complesso che ingloba più organi collegiali, sarebbe disarmonico prevedere che solo l'organo di vertice di una delle due magistrature eserciti una funzione che, per quanto neutrale ed esplicata in posizione di terzietà, non è riconducibile alla giurisdizione in senso proprio.
Aggiungo che, se invece andassimo verso l'ipotesi dei due consigli superiori distaccati e diversi si porrebbero problemi di armonizzazione con i giudici di primo grado. Non riuscirebbe a comprendersi per quale ragione il Consiglio di Stato debba fungere da organo consultivo del Governo ed il TAR non debba fungere da organo consultivo del governo regionale, una volta che conservassimo l'organizzazione su base regionale della giurisdizione di primo grado.
C'è poi una ragione ancora più di fondo che mi rende perplesso rispetto alla permanenza della funzione consultiva. Oggi c'è in misura drammatica la necessità di coniugare legalità ed efficienza: è il dramma eterno della giustizia. L'«in sé» del giudicato sta in questo: altrimenti non si capisce perché ad un certo punto la vicenda processuale debba arrestarsi; potrebbe continuare all'infinito perché ogni volta sarebbe possibile correggere un errore.
Quello che mi rende perplesso sulla funzione di indirizzo preventivo del giudice amministrativo rispetto all'atto è la stessa ragione che mi rende perplesso sul controllo di legittimità da parte della Corte dei conti, cioè sul controllo preventivo come condizione di efficacia. Penso che bisognerebbe andare verso una forma di controllo che parli in maniera autorevole ma una volta sola; altrimenti sacrifichiamo all'esigenza di un controllo di legalità ripetuto e per piani successivi la necessità forte di efficienza. C'è un bisogno di semplificazione e di rapidità, tenendo presente che il restringersi di questi apporti anteriori alla formazione del giudizio viene largamente bilanciato dall'ampia giustiziabilità- cioè dalla possibilità di attivare il controllo giurisdizionale - che stiamo introducendo, e che vorrei potesse avvenire anche per iniziativa pubblica.
Se c'è un organo pubblico che può attivare il controllo giurisdizionale di legittimità dell'atto, l'esigenza del parere preventivo di legittimità si attenua. Resterebbe il problema del parere consultivo sugli atti normativi, che è molto delicato e che abbiamo difficoltà per ora ad affrontare nel nostro Comitato perché non sappiamo ancora quale soluzione verrà
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data da altro comitato al problema del ruolo che Governo e Parlamento avranno nella produzione delle fonti primarie. Il problema comunque si complicherebbe perché, estendendo questa funzione al giudice amministrativo di primo grado, l'istanza del decentramento potrebbe entrare in crisi. Ci si potrebbe attribuire la volontà di prevedere una specie di cane da guardia che atterrebbe ad una funzione che lo Stato riserva a sé; vero è che se il parere fosse facoltativo il problema si attenuerebbe.
Ho detto questo per sottolineare le logiche complessive con cui stiamo affrontando il tema. Altro invece è il problema che vorrei porre ai giudici del Consiglio di Stato e dei TAR. Ci stiamo occupando molto, per quanto riguarda il giudice ordinario (impegnandoci addirittura in esercitazioni di tipo statistico), del problema disciplinare; dello stesso problema per il giudice amministrativo non parla nessuno. Oggi l'organo disciplinare è il Consiglio di presidenza e quello di attivazione del procedimento disciplinare è la Presidenza del Consiglio dei ministri: qui vedo una disarmonia. Poiché infatti il giudice amministrativo è comunque giudice del Governo, chiedere a quest'ultimo di attivare il procedimento disciplinare non mi sembra una scelta di estrema efficienza.
Vorrei allora sapere che cosa pensino i giudici del Consiglio di Stato e dei TAR dell'idea che sia invece il Parlamento a creare un organo che possa svolgere nei loro confronti quella funzione che rispetto ai giudici ordinari è esercitata dal ministro di grazia e giustizia e dal procuratore generale della Cassazione, anche perché ancora non abbiamo un procuratore generale nel sistema della giustizia amministrativa.
Vorrei anche sapere che cosa penserebbero di un organo disciplinare che possa essere comune per il giudice amministrativo e per quello ordinario. È un tema di cui non abbiamo ancora parlato ma che le audizioni di questa mattina e di oggi pomeriggio mi hanno fatto venire in mente.
Ai magistrati della Corte dei conti vorrei dire che da parte nostra non c'è alcuno sfavore rispetto alla specificità della funzione e della cultura. Penso che, quale che sia l'evoluzione, dovremo mantenere un giudizio di responsabilità amministrativa e contabile così come concretamente lo conosciamo. Vorrei però che si ragionasse su questo punto: possiamo avere in Costituzione tre consigli superiori della magistratura? Cosa dovrebbe fare il Capo dello Stato che dovrebbe presiederli tutti e tre (visto che vorremmo che la sua fosse una funzione effettiva)? Dovrebbe muoversi come la pallina del flipper dall'uno all'altro, recandosi il lunedì dall'uno, il martedì dall'altro, il mercoledì dall'altro ancora? E se i consigli dovessero diventare cinque, come faremo a creare armonia tra di loro, dovendo prevedere giurisdizioni di grado elevato ed altre di grado minore? Abbiamo questi problemi.
La soluzione potrebbe essere quella di far continuare a vivere il mondo della Corte dei conti come sezioni specializzate del giudice ordinario o del giudice amministrativo. Personalmente propendo più per la seconda ipotesi, se non altro perché l'ordinamento è più simile. La struttura è composta da organi regionali e da un organo centrale e somiglia di più a quella della giustizia amministrativa; inoltre, poiché frequento tutti e tre i mondi, vedo una maggiore vicinanza culturale tra il giudice della Corte dei conti e quello amministrativo rispetto a quella tra il primo e il magistrato ordinario. Il fatto che il giudice amministrativo sia giudice dell'atto è qualcosa che ci stiamo già lasciando alle spalle; andando verso una ripartizione delle competenze per materia e non più per interessi mi sembra che chi giudica del comportamento sia molto vicino a chi giudica dell'atto, che è sempre la conclusione di un comportamento.
Francamente non capisco affatto il discorso sul pubblico ministero unico o duplice. Che cosa è preferibile fra avere un avversario che colpisce con la sciabola e un altro che colpisce di fioretto, per cui ci si deve difendere da tutti e due, e avere un avversario unico che sceglie la sciabola
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o il fioretto e determina il terreno dello scontro? Mi si dice che vorrei un pubblico ministero troppo forte; rispondo che è vero: voglio un pubblico ministero forte e ne sono orgoglioso. Mi domando poi perché debba leggere sui giornali che voglio mettere la mordacchia al pubblico ministero; mi piace un pubblico ministero forte, insieme con un giudice terzo che mi garantisca da prepotenze di quel forte potere.
Quello che vorrei tutti riconoscessimo è che oggi il rapporto tra giurisdizione penale e giurisdizione contabile non appaga la razionalità. Non sappiamo mai quale pubblico ministero si attiva per primo. Se parte il giudizio di responsabilità contabile esso continua anche se prende il via l'azione del giudice penale; anche davanti al giudice penale abbiamo però l'amministrazione lesa che si costituisce parte civile e quindi la stessa pretesa risarcitoria che, di fronte a due giudici diversi, viene vantata da una parte da una specie di avvocato dell'ordinamento (il pubblico ministero) e dall'altra da quello dell'amministrazione che ha subito il danno.
Mi chiedo: tutto ciò è razionale? Risponde ad esigenze di logica? È qualcosa che ciascuno di noi riesce a spiegare al tassista? Il tassista non ci capisce. Certo, noi giuristi facciamo tanti bei discorsi: il comportamento è una cosa, l'atto è un'altra, per cui i canoni di giudizio sono diversi; ma comunque dobbiamo razionalizzare. Questo è un punto sul quale è necessario incidere a livello di norme costituzionali, al fine di introdurre maggiore razionalità.
Ai giudici tributari vorrei precisare di aver citato la rimessione alla Corte costituzionale (aspetto che, probabilmente, non è apparso chiaro in ragione della sommarietà del verbale) per esprimere un giudizio esattamente diverso. In particolare, credo che esperienze come quella dei giudici tributari non soltanto debbono essere difese ma che la stessa norma costituzionale vada modificata nel senso di prevederne un ampliamento. In una società complessa come la nostra, ritengo sia necessario creare più luoghi di soluzione neutrale dei conflitti, che non siano giurisdizione togata; ciò per impedire a quest'ultima di implodere, di esplodere a fronte di un eccesso di domande di giustizia che non riescono a trovare risposta. Questo vale anche per l'esperienza dei giudici di pace.
L'audizione di questo pomeriggio è stata molto utile e mi suggerisce una domanda. È vero che aumentare il numero della componente ad investitura parlamentare può suonare come una volontà della politica di prendersi una rivincita rispetto alla giurisdizione; ma perché i giudici onorari non debbono avere una rappresentanza nel Consiglio superiore della magistratura? È, questo, un interrogativo che mi accompagnerà nelle prossime ore.
FAUSTO MARCHETTI. Credo che il Comitato abbia fatto bene a porre il problema della unicità della giurisdizione quasi come tema preliminare dei suoi lavori. Non sappiamo ancora quale tipo di sbocco avrà la questione; probabilmente, sta maturando un orientamento a favore non di una reductio ad unum ma, in qualche modo, di una riduzione relativa della pluralità delle giurisdizioni. Si tratta, in sostanza, dell'affermazione di un concetto della unicità della giurisdizione, anche se in effetti ripartito tra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa. In tale quadro, se sarà questa l'ipotesi che andrà avanti, verrebbe meno - di qui la preoccupazione dei magistrati della Corte dei conti - la giurisdizione contabile e resterebbero soltanto le funzioni di controllo.
Se questa forte riforma della forma dello Stato andrà avanti, al di là del fatto se essa determinerà l'adozione del federalismo - parola molto usata - e presumendo che vi sarà un forte rafforzamento dei poteri di regioni e di enti locali, un connotato della nuova autonomia che andrà a svilupparsi atterrà agli aspetti finanziari e tributari. Non ritenete che, sotto questo profilo, la presenza della Corte dei conti, anche sotto l'aspetto del
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controllo, sia da ridimensionare, nel senso almeno di mantenere il controllo sugli organismi centrali e ponendo invece un problema per quanto riguarda il controllo attualmente esercitato dalla Corte sugli organismi periferici e sugli enti locali (comuni e regioni)? Ripeto: al di là del fatto se la riforma introdurrà il federalismo o la repubblica delle autonomie, definizione, quest'ultima, che preferisco, mi chiedo se il ruolo della Corte dei conti possa essere ancora considerato compatibile. Non intendo certo sostenere che tale ruolo debba cessare del tutto: sono favorevole a che il controllo continui ad essere esercitato, anche se non riferimento agli enti nazionali e non in rapporto ad una riforma come quella che si sta configurando.
Se noi procederemo nella direzione dell'unicità della giurisdizione, nei termini e nei limiti che non consentono in questa fase una soluzione più complessiva (anche se, dal punto di vista teorico, qualora si creassero le condizioni per realizzarla sarei anche disponibile a sostenerla), se procederemo cioè ad un rafforzamento del ruolo del giudice amministrativo, che accorperebbe in sé determinate competenze, si porrà con forza l'esigenza - della quale mi pare il Comitato si stia facendo carico - di un giudice amministrativo che abbia tutte le caratteristiche e lo status del magistrato ordinario. Mi stupisce che si faccia la difesa dell'esistente. Credo che, nell'interesse stesso dei magistrati amministrativi, al di là dei problemi interni al complesso di cui fanno parte (dei quali abbiamo avuto una eco nella discussione di oggi), l'esigenza fondamentale sia quella di una loro effettiva indipendenza. Mi stupisce che non ci si sia soffermati - ed in questo senso rivolgo una domanda agli interessati - su questo punto, nel senso di aver chiarito se si ritenga che lo status attuale del giudice amministrativo sia soddisfacente ai fini dell'autonomia e dell'indipendenza di giudizio che questi debba avere, se cioè abbia avuto attuazione l'articolo 100 della Costituzione, cosa che a me non pare.
PRESIDENTE. Prima di ascoltare la replica dei nostri ospiti, vi informo che mi sono permesso di fare accomodare in aula i rappresentanti del Coordinamento nazionale dei difensori civici regionali. I tempi dell'audizione hanno subito uno slittamento e ho voluto evitare che questi ultimi attendessero fuori dell'aula senza capire bene le ragioni dell'attesa.
Ciò premesso - e, quindi, stabilita una sorta di improvvisata continuità tra la prima e la seconda audizione di questo pomeriggio - darò ora la parola al professor Strumendo, che interverrà a nome del coordinamento nazionale dei difensori civici regionali, pregandolo di contenere il suo intervento in dieci minuti, anche considerando che i documenti gentilmente inviatici sono già stati sottoposti all'attenzione dei commissari nei giorni scorsi. Successivamente, i commissari che lo riterranno potranno porre domande, quesiti e richieste di chiarimento al professor Strumendo. Ovviamente, una fase della discussione sarà dedicata alle repliche degli ospiti della prima audizione. Il tutto dovrà concludersi entro le 18.15, termine per noi invalicabile, essendo stato convocato l'ufficio di presidenza della Commissione integrato dai rappresentanti dei gruppi.
Invito il professor Strumendo al tavolo della presidenza.
LUCIO STRUMENDO, Coordinatore nazionale dei difensori civici regionali. Presidente, la ringrazio per avermi dato la parola e, soprattutto, per aver ritenuto di ascoltare, nel corso dei lavori del Comitato sistema delle garanzie, anche i rappresentanti del coordinamento dei difensori civici regionali. Si tratta di un dato molto importante che rappresenta il segno di una sensibilità nuova di fronte ad esigenze di giustizia e di buona amministrazione, che credo rappresentino un'espressione del nostro tempo e della nostra realtà attuale.
Abbiamo salutato come un fatto molto importante il primo rapporto reso dal relatore, onorevole Boato, nell'ambito del Comitato indicando fra i temi di interesse
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del Comitato medesimo, oltre agli altri - molto importanti e significativi - anche quello delle autorità amministrative indipendenti e del difensore civico.
Come è noto, nel nostro ordinamento costituzionale non è previsto l'istituto del difensore civico né vi è la previsione di forme non giurisdizionali di tutela dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione. Da un lato vi sono gli articoli dal 100 al 113, che riguardano complessivamente l'ordinamento giurisdizionale, dall'altro abbiamo l'articolo 97, che fa un riferimento molto icastico e sintetico alle esigenze di buon andamento e di imparzialità, cioè di efficienza, di giustizia e di equità, senza però una previsione esplicita all'istituto del difensore civico. Ne è seguito che tutta la legislazione del nostro paese, nel corso di questi cinquant'anni, non abbia dedicato alcuna attenzione a questo tema, diversamente che in altri paesi europei ed occidentali. Questo nonostante sia ormai chiaro che le performance della pubblica amministrazione non procedono all'insegna dell'efficienza e dell'efficacia, nonostante nel corso di questi anni - soprattutto dal 1990 ad oggi - siano intervenute importanti leggi di riordino della pubblica amministrazione all'insegna dei principi di trasparenza e di partecipazione e nonostante nella dottrina, oltre che nel dibattito parlamentare, si affermi l'esigenza della parità del rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione.
In questa situazione di vuoto legislativo con riferimento all'istituto del difensore civico c'è stato qualche evento episodico: mi riferisco alla legge n. 142 del 1990, che all'articolo 8 consente l'istituzione del difensore civico a livello locale. L'altro ieri la Camera ha accolto un emendamento nel contesto del provvedimento Bassanini sulla semplificazione, che in qualche modo sottolinea il ruolo dei difensori civici regionali anche nei confronti della pubblica amministrazione dello Stato. Di fatto però la presenza sul territorio nazionale sotto questo profilo è stata assicurata da leggi regionali, varate per la prima volta in Toscana nel 1975 ma che oggi coprono quasi tutto il territorio nazionale, tranne le cinque regioni del sud.
Nel 1995 è nato un coordinamento di difensori civici regionali, che si è posto alcuni obiettivi: tentare di estendere e rendere omogenea l'esperienza in atto dei difensori civici regionali; proporre e sollecitare un dibattito in sede parlamentare per una legge nazionale sulla difesa civica, cui si fa riferimento anche nell'emendamento ieri approvato. Noi abbiamo colto come un'importante occasione, della quale vale la pena di sottolineare il significato e l'importanza, che nell'ambito della più complessiva revisione della seconda parte della Costituzione, nel contesto delle garanzie (giurisdizionali e non) ma anche nel contesto di una riflessione sulla pubblica amministrazione - articolo 97 della Costituzione - così come fu fatto nel 1985 ad opera del presidente della prima Commissione per le riforme costituzionali, Bozzi, si possa ipotizzare una formulazione di tutela e di garanzia dei diritti dei cittadini nei confronti delle disfunzioni della pubblica amministrazione. Nella documentazione che abbiamo prodotto l'abbiamo indicato.
Sappiamo di poter fare riferimento ad esperienze di dibattiti e di risoluzioni costituzionali di altri paesi, anche molto interessanti (dalla Danimarca alla Svezia), ma vorrei richiamare soprattutto l'attenzione sulla Costituzione spagnola, che da questo punto di vista configura il ruolo del defensor de pueblo anche con prerogative e poteri di ricorso alla Corte costituzionale e addirittura il ricorso de amparo a tutela dei diritti fondamentali della persona. Probabilmente questa è un'esemplificazione che sarebbe troppo coraggiosa per il nostro contesto costituzionale, ma credo comunque che si possa guardare con molto interesse a questa esperienza, al Trattato di Maastricht e all'istituzione del mediateur europeo del 1995.
A questo proposito credo che le considerazioni svolte un momento fa dal senatore Pellegrino possano avere attinenza anche riguardo al diritto amministrativo
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e al rapporto fra i cittadini e la pubblica amministrazione: non sempre la tensione fra i diritti dei cittadini, le loro aspettative, i loro interessi e la pubblica amministrazione devono avere una ricaduta, un risvolto di carattere giurisdizionale, perché anche sotto questo profilo si può determinare, nella giurisdizione amministrativa, un'implosione per il ricorso che si viene a determinare.
Pensiamo quindi, sulla base delle esperienze regionali e di quelle dedotte anche dalla comparazione con gli altri paesi dell'Europa (Francia, Spagna, Gran Bretagna e paesi scandinavi), che sia importante e utile inserire anche nella nostra Costituzione la previsione dell'istituto del difensore civico come forma di tutela dei diritti non giurisdizionali deicittadini.
Da questo punto di vista, l'elaborato di un progetto di legge che noi abbiamo a suo tempo presentato e che è allegato alla documentazione presentata ne traccia le caratteristiche: un magistrato di persuasione, dotato più di auctoritas che di poteri coattivi, un difensore civico che intervenga nei confronti della pubblica amministrazione a difesa del cittadino e dia sollecitazione e impulso al miglioramento delle performance di comportamento della pubblica amministrazione.
Credo che la questione che si pone con riguardo alla pubblica amministrazione trovi peraltro nel nostro tempo anche delle similitudini e delle analogie: mi riferisco alle esigenze per esempio di comitati etici nel mondo della sanità, alle esigenze di Costituzione alle quali il Parlamento già in parte ha provveduto (penso alle autorità amministrative indipendenti o alle autorità pubbliche indipendenti). Pur avendo caratteristiche diverse, la stessa istituzione del giudice di pace mi pare corrisponda ad una domanda di risoluzione non giurisdizionale di tensioni e di conflitti che in una società complessa si vengono a determinare.
Per questo insieme di ragioni, pur valutando con grande attenzione e interesse la prospettiva di una legge nazionale del Parlamento istitutiva del difensore civico, riteniamo che un accoglimento in Costituzione di una previsione come questa darebbe diverso profilo, diversa autorevolezza e diversa certezza anche di riferimento.
Mi consenta, presidente, un'ultima breve annotazione. Riteniamo che sia stata individuata in modo assai pertinente ed appropriato presso il Comitato sistema delle garanzie la configurazione di questa audizione e quindi anche dell'eventuale discussione attorno a questo tema, pur non trascurando e non dimenticando che il riferimento alla pubblica amministrazione è nel titolo III, pur sapendo che a questo riguardo proprio il titolo III e la formulazione contenuta nell'articolo 97 probabilmente esigerebbero una diversa esplicazione, in particolare l'esplicazione che i valori di buon andamento e di imparzialità devono essere riferiti sostanzialmente alla tutela dei diritti dei cittadini, oltre che all'amministrazione in quanto tale. Credo che un problema di questo genere debba e possa essere affrontato nell'ambito del coordinamento in sede di Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, alla luce degli impulsi che dai due Comitati potranno venire.
La ringrazio molto, presidente. Vorrei far presente che sono con me il dottor Di Mauro, difensore civico della regione Lazio, la dottoressa Vacchina, difensore civico della regione Val d'Aosta, il dottor Barbetta, difensore civico della regione Lombardia, il dottor Fantappiè, difensore civico della regione Toscana.
PRESIDENTE. La ringrazio molto; la ringrazio due volte perché lei mi consente di rimediare ad un'omissione, quella di dare il benvenuto singolarmente ai membri della delegazione.
Detto questo, do la parola al senatore Russo che desidera porre ancora una domanda.
GIOVANNI RUSSO. Vorrei rivolgere una domanda ai rappresentanti delle associazioni della magistratura amministrativa. Una delle ipotesi all'esame del Comitato, come è già stato ricordato, è
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quella del mantenimento nella nostra Costituzione di una giurisdizione amministrativa e di una giurisdizione ordinaria, entrambe costituzionalizzate, con la soppressione invece della giurisdizione contabile. In questa ipotesi rimarrebbe aperto il problema se attribuire la competenza in materia di responsabilità amministrativa al giudice amministrativo o al giudice ordinario e rimarrebbe aperta una questione di grande rilievo, cioè a chi attribuire l'iniziativa dell'azione di responsabilità amministrativa. Una delle ipotesi che sono state affacciate è quella di affidare questo potere di iniziativa al pubblico ministero, ma l'ipotesi ha incontrato molte obiezioni, che io personalmente condivido.
La mia domanda è la seguente. Ritengono i rappresentanti di queste associazioni che sia un'ipotesi praticabile quella di attribuire la legittimazione all'azione di responsabilità alla Corte dei conti, che rimarrebbe come organo di controllo? L'ipotesi è stata avanzata nell'audizione, svoltasi nei giorni scorsi, mi pare da parte del presidente o del procuratore generale presso la Corte dei conti. Si è osservato che, poiché l'iniziativa dell'azione di responsabilità è strettamente collegata al controllo, la Corte dei conti potrebbe mantenere questa funzione, essere cioè organo di azione amministrativa, o presso il giudice ordinario o presso il giudice amministrativo, secondo la soluzione che si vorrà dare al problema della competenza.
Ascolterei volentieri l'opinione dei rappresentanti delle associazioni, che sono esperti giudici amministrativi, su questa ipotesi che è all'esame, così come le altre.
PRESIDENTE. Prima di procedere ad un rapidissimo ventaglio di risposte da parte di chi si è sentito in qualche misura interpellato (decidete voi chi debba intervenire), mi permetto di formulare un paio di domande, rivolte soprattutto ai rappresentanti della Corte dei conti e del Consiglio di Stato. Dico questo perché si è ravvisata da molte parti, nell'ambito del Comitato, un'esigenza di doppia valorizzazione.
Da un lato, per quello che riguarda le funzioni tradizionali del Consiglio di Stato, si è parlato dell'esigenza di valorizzare la funzione consultiva. Si sono usate tante metafore, ma quella che rende meglio l'idea è che dal punto di vista consultivo noi non abbiamo avuto un'ENA; come nostra ENA, non come scuola, non come luogo di formazione, ma come luogo di consultazione, abbiamo finito per usare, fra gli altri e massicciamente, il Consiglio di Stato, nel bene e nel male (ma noi adesso consideriamo naturalmente l'aspetto bene).
Dall'altro lato è emersa l'esigenza, per ciò che concerne le funzioni tradizionali svolte dalla Corte dei conti, di valorizzare al massimo quella particolare forma di controllo che attiene non tanto al tradizionale controllo contabile, quanto al più urgente e più importante oggi controllo di gestione. Naturalmente uso queste espressioni per quello che evocano in tutti noi, nella letteratura specialistica e così via; sono due titoli, i sottotitoli li conoscete meglio di me, quindi evito di soffermarmi su questo.
La domanda parte dal presupposto che l'esigenza di valorizzare questi due momenti sia presente comunque; quindi tutti i vostri suggerimenti, sia quelli forniti subito oralmente, sia quelli che dovessero pervenirci attraverso memorie scritte (però nei prossimi due o tre giorni, non oltre
!), saranno particolarmente bene accetti.
Voi capite che poi la valorizzazione di questi due momenti acquisterebbe un significato particolarissimo qualora si accedesse all'ipotesi - uso un brutto termine - di scorporare le funzioni giurisdizionali dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti; come avete visto dalla bozza dei nostri lavori, esiste anche questa ipotesi. Al Consiglio di Stato tradizionalmente inteso e alla Corte dei conti tradizionalmente intesa resterebbero solo queste due attività da valorizzare; naturalmente sarebbe ancora più delicata tale valorizzazione, trattandosi delle sole attività che
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svolgerebbero i nuovi Consiglio di Stato e Corte dei conti.
Questa è la cosa importante comunque, ma che sarebbe due volte importante, nell'ipotesi in cui prevalesse, nell'ambito prima del Comitato e poi della Commissione bicamerale, questa seconda soluzione. Il relatore Boato vi ha più volte ricordato che per ora i nostri lavori procedono in modo molto aperto, molto problematico; lo stato dei nostri documenti testimonia questa apertura e questa problematicità. Tuttavia avevo il dovere di dirvi che una delle ipotesi è questa e che essa richiederebbe la messa a punto di queste due attività in modo ancora più marcato e caratterizzante, perché diventerebbero le attività esclusive dei due organismi, non più in compresenza dell'attività giurisdizionale. Si tratta di una questione che immagino desti qualche curiosità anche in voi stessi.
FURIO PASQUALUCCI, Presidente dell'Associazione magistrati della Corte dei conti. In merito alla richiesta del senatore Marchetti per quanto riguarda l'articolo 100, osservo che lo status dei magistrati della Corte dei conti è ampiamente garantito dalla legge n. 117 del 1988, che prevede l'istituzione di un consiglio di presidenza della Corte dei conti con rappresentanti scelti dai Presidenti delle due Camere.
Rimane un punto che invece deve essere ancora risolto e su cui più volte abbiamo richiamato l'attenzione del Governo e del Parlamento, vale a dire il problema della nomina del presidente e del procuratore generale, che tuttora è affidata al Governo, il che chiaramente contrasta con la previsione dell'attuale articolo 100, secondo cui la legge ordinaria deve stabilire le forme per garantire l'autonomia dell'istituto proprio nei confronti del Governo. Permane quindi ai fini della completa realizzazione dell'articolo 100, secondo noi, il problema della nomina del presidente e del procuratore generale.
Per quanto riguarda il controllo sugli enti locali, oggi la Corte esercita un controllo preventivo solo sulle regioni a statuto speciale, perché si è ritenuto che questa forma di controllo fosse più garantista proprio per quelle regioni, mentre invece per le altre a statuto ordinario l'articolo 125 affida tali funzioni alle commissioni governative. Sugli enti locali la Corte esercita solo un controllo-referto sulla gestione complessiva giacché - voi mi insegnate - l'articolo 130 affida invece l'esercizio di questa funzione ai cosiddetti comitati regionali di controllo.
A mio avviso, in un modello futuro l'aspetto che dovrebbe essere particolarmente valorizzato è proprio quello di un controllo-referto sulla gestione, di un controllo che interviene a cose fatte anche nei confronti delle regioni e degli enti locali, con quella funzione di collaborazione che bene ha messo in evidenza la Corte costituzionale con la sentenza n. 29 del 1995 ed anche - è importante indicare - con una funzione servente nei confronti del principio dell'unità della finanza pubblica. È chiaro che ogni regione e ogni comune può avere il proprio organo di controllo, ma nell'ottica del principio dell'unità della finanza pubblica - che resterebbe anche in un'ipotesi di Stato ampiamente decentrato, federale (non sappiamo quale forma uscirà) - questo controllo-referto, che quindi non viola le autonomie ma interviene solo a posteriori, a cose fatte, potrebbe risultare molto utile.
Presidente Urbani, è chiaro che l'ipotesi di perdere la funzione giurisdizionale sembra alla Corte dei conti, per così dire, molto triste. Peraltro, il mantenimento o meno di tale funzione non dovrebbe avere effetto nei confronti del controllo sulla gestione, al quale, specialmente dopo l'entrata in vigore della legge n. 20 del 1994, la Corte sta dedicandosi con il massimo impegno.
Il problema del controllo sulla gestione, purtroppo, non riguarda solo la Corte dei conti; è un problema di amministrazione, di bilancio. L'amministrazione deve organizzarsi in un certo modo, deve avere i suoi organi interni; il bilancio deve essere fatto in un certo modo - ed in
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proposito è importantissima la legge n. 94 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell'8 aprile ultimo scorso - su un input che viene specialmente da parte della Corte dei conti, il quale dovrebbe consentire un'articolazione del bilancio per piani, progetti e programmi di spesa. Allora sì che diventa facile effettuare il controllo sulla gestione, vedere questi piani, questi progetti, questi programmi come si evolvono nel tempo, cosa che non è possibile con l'attuale bilancio, impostato solo per capitoli di spesa, nei quali sono le risorse provenienti da varie leggi, per cui non siamo in grado di sapere attraverso il bilancio come procedano i singoli piani e progetti di spesa.
Allora, il problema del controllo sulla gestione è molto più ampio della Corte dei conti, coinvolge tutto l'assetto della pubblica amministrazione, addirittura a partire dal bilancio. Ci stiamo sforzando di procedere per quanto possibile, ma senza questi adeguamenti che ho indicato difficilmente potremo dare un risultato soddisfacente.
Riteniamo, peraltro, che accanto ai famosi parametri delle tre «e» - economicità, efficienza ed efficacia - in sede di controllo sulla gestione debbano anche essere tenuti presenti i parametri dell'equilibrio finanziario, essenziali, e della legalità, anch'essi costituenti un elemento positivo, come del resto avviene in tutti gli organi di controllo esterno (nel documento abbiamo citato questo aspetto).
Mi fermerei qui; alle notazioni dei senatori Pellegrino e Russo risponderà il collega Ristuccia, segretario generale dell'associazione.
Se l'elemento per cui si vuole passare dalle tre giurisdizioni (ordinaria, amministrativa e contabile) alle due giurisdizioni (da una parte ordinaria, dall'altra amministrativa-contabile) è da individuare nel fatto che altrimenti il Presidente della Repubblica deve presiedere troppi consigli di presidenza, devo dire che, pur essendo estremamente onorati se il Presidente presiedesse il nostro, qualora la sua presenza avesse come prezzo la cancellazione della giurisdizione, forse potremmo fare un sacrificio.
PRESIDENTE. Le testimonio personalmente che una parte dei commissari della bicamerale sostengono la priorità dell'ipotesi semipresidenzialista proprio per non corre questi rischi!
MARIO RISTUCCIA, Segretario generale dell'Associazione magistrati della Corte dei conti. Ho trovato molto stimolanti le osservazioni del senatore Pellegrino, soprattutto quando ha parlato, iniziando il suo intervento, della conferma della giurisdizione contabile, quindi del sistema della responsabilità amministrativa. Penso che l'intero discorso sulla funzione giurisdizionale della Corte dei conti debba passare attraverso questa affermazione.
Farei un passo avanti, direi che il problema della giurisdizione contabile e della responsabilità dei pubblici funzionari dipendenti nei confronti della pubblica amministrazione debba essere costituzionalizzato. Nell'attuale Carta costituzionale abbiamo un articolo 28 che soltanto con una diversa lettura e con molto sforzo può comprendere un principio del genere, ed un articolo 103 secondo comma che si limita a parlare di materia di contabilità pubblica. Ben diverso sarebbe inserire in Costituzione il principio che i pubblici amministratori, i funzionari dipendenti che nell'esercizio delle loro mansioni recano danno all'erario ne debbano rispondere.
Dico questo perché, in definitiva, un forte problema che si è prospettato negli ultimi anni è stato risolto dal legislatore: la legge 639 del 1996, che è intervenuta dopo una serie di ben dodici decreti-legge (il famoso problema della decretazione d'urgenza reiterata), ha introdotto nella legislazione sostanziale relativa alla responsabilità amministrativa una serie di principi che senza dubbio garantiscono fortemente i pubblici amministratori. Se vi è un problema di fuga dalla firma dei pubblici amministratori, in definitiva con legge n. 639 del 1996 è stato superato dal legislatore.
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Questo perché è stato fatto? Perché cinquant'anni di giurisprudenza della Corte dei conti hanno costruito un modello di responsabilità che non è sicuramente assimilabile all'ordinaria responsabilità patrimoniale, è qualcosa di diverso: i beni e i valori tutelati sono beni e valori che sì appartengono a qualche ente pubblico, a qualche amministrazione, ma appartengono all'intera collettività. Non c'è niente a che vedere con la responsabilità patrimoniale tra soggetti, individui comuni. Quindi, se questo è stato fatto, ben venga un'affermazione della salvaguardia di questo principio.
Debbo dire che il problema della giurisdizione rispetto ad una costituzionalizzazione di questo principio diventa secondario, anche se per noi è importantissimo.
Il senatore Pellegrino ha ricordato anche che le giurisdizioni dovrebbero essere ripartite in base al criterio delle materie. Un tipo di responsabilità e di giurisdizione che ha questi connotati di pubblicità, di particolarità, di differenziazione rispetto alla comune responsabilità patrimoniale non può che essere esercitata da un giudice specializzato. Certo, se diciamo questo, riproponiamo in prima battuta la nostra specializzazione. Noi conosciamo dell'attività amministrativa anche nell'attività di controllo per quanto riguarda gli esiti dell'attività dell'amministrazione in senso generale, sotto il profilo degli atti o dei risultati, ma con questo tipo di giurisdizione si completa il quadro del controllo per la garanzia della correttezza della finanza pubblica, perché vi è la possibilità di perseguire anche i comportamenti dei singoli che abbiano arrecato danno. Ecco, se deve valere il criterio della specializzazione e della specificità, perché sottrarlo alla Corte dei conti? È vero, possiamo anche accedere ad un discorso di architettura diversa e più coerente, ma allora dovrebbe essere ideato un organo nuovo di giustizia, che sia l'organo di giustizia della pubblica amministrazione, che conosce sia della giurisdizione amministrativa tradizionale sia di questa giurisdizione, che però sicuramente richiede sempre e comunque un altissimo grado di specializzazione.
Il collega Pasqualucci ha già risposto sul problema del Consiglio superiore. Non credo che possa costituire un ostacolo soltanto il problema del Consiglio superiore, se questi sono valori e principi che devono essere garantiti. Né posso pensare che un problema di unità dei giudici possa derivare soltanto dall'osservazione che in ordine ad un medesimo fatto vi possono essere più pronunce: è nell'ordine delle cose, non c'è nulla da fare. Se un atto o un provvedimento lede interessi di un cittadino, vi è un tipo di valutazione; ma davanti alla Corte dei conti non c'è la salvaguardia dell'interesse legittimo del cittadino leso da un atto della pubblica amministrazione, c'è la valutazione degli effetti sulla finanza pubblica di comportamenti tenuti dai singoli: sono due problemi completamente diversi.
Nella pratica, dobbiamo constatare che l'ipotesi di contestuale giudizio penale, e con l'azione civile di danno, e di giudizio sulla responsabilità amministrativa, rappresenta sì e no il dieci per cento dei casi: quello di cui conosciamo come responsabilità amministrativa è tutta la gran parte di quei casi di cattivo uso, di dilapidazione delle pubbliche risorse anche a prescindere dai profili penali e da precedenti pronunce del giudice amministrativo. Chi impugna il riconoscimento illegittimo di inquadramenti? Tutti se lo prendono; quindi, non vi è una pronuncia del giudice amministrativo che precede, per cui vi è un problema di incoerenza fra una valutazione di legittimità e l'altra, sono materie completamente separate e distinte. Ecco perché insistiamo nel dire che ci vuole un giudice specializzato.
Comunque, se un problema di questo genere esiste, non credo che richieda una modifica costituzionale: vi è un sistema di preclusioni e di pregiudiziali che possono appartenere tranquillamente alla legge ordinaria. Non capisco, per esempio, perché l'ultimo codice di procedura penale abbia eliminato la pregiudizialità penale, che c'era ed aveva la sua brava validità. Questo per dare alcune risposte.
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Vi è poi il problema posto dal senatore Russo circa la titolarità di questa azione: il senatore Pellegrino, al riguardo, ha sostenuto che darla ad un unico pubblico ministero sarebbe una soluzione che rafforzerebbe questa funzione; si farebbe un pubblico ministero potente che può conoscere in tutte le direzioni di questa attività. Personalmente ritengo che il pubblico ministero non possa che essere un organo molto connesso all'organo giurisdizionale, per cui probabilmente dovrebbe trattarsi di un pubblico ministero presso questo giudice al quale dovrebbe spettare questa giurisdizione in materia di responsabilità, fra l'altro per lo stesso motivo in base al quale sosteniamo le ragioni della specificità. Non può essere un pubblico ministero che agisce secondo criteri ordinari: ci vuole un pubblico ministero che partecipi di quella cultura particolare della pubblica amministrazione e dell'attività amministrativa, che si può avere soltanto se, come il giudice, è specialmente dedicato.
FILIPPO PATRONI GRIFFI, Presidente dell'Associazione magistrati del Consiglio di Stato. Signor presidente, risponderò per flash, partendo dalla sua domanda, perché ovviamente sappiamo che fra le varie ipotesi vi è quella di soppressione delle funzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. Ovviamente però si tratta di capire perché si voglia tornare ad un modello che l'Italia ha conosciuto fino a circa cento anni fa e che ha poi abbandonato, modello che fra l'altro in Europa avrebbe l'unico riferimento di diritto positivo nella Spagna, in una situazione completamente diversa, perché il Consiglio di Stato spagnolo solo consultivo è un organo della Corona, e non del potere esecutivo.
L'impressione che deriva dalla mia esperienza è la seguente: penso che, se serve la funzione consultiva, è difficile pensare che possa essere esercitata da altri che da un organo giurisdizionale di vertice; altrimenti, sarebbe forse meglio eliminarla. In sostanza, se deve restare una funzione consultiva svincolata dall'organo giurisdizionale di vertice, esercitata da soggetti che non abbiano lo status dei magistrati, quindi di terzi, se cioè la funzione consultiva non solo dovesse rimanere «da sola» ma dovesse trasformarsi in una consulenza legale al Governo, cosa che oggi non è assolutamente (non so se la mia precedente esposizione sia stata felice), mi chiedo se una consulenza di questo genere serva nel nostro ordinamento. In parte c'è l'Avvocatura dello Stato, in parte si potrebbe migliorare, per esempio, la Scuola superiore della pubblica amministrazione arrivando ad una semi-ENA, ma non so se serva una consulenza di quel tipo.
MARCO BOATO, Relatore. Posso chiederle di chiarire perché non serve? Siccome in Assemblea fra un'ora voteremo la fiducia su un provvedimento che, tra l'altro, istruisce la IV sezione consultiva del Consiglio di Stato, se lei ci spiega perché non serve, magari può orientarci nel voto!
FILIPPO PATRONI GRIFFI, Presidente dell'Associazione magistrati del Consiglio di Stato. Oggi come oggi è attribuita allo stesso organo che esercita la funzione giurisdizionale, quindi la mia tesi è che oggi serve; dico che, se non deve essere attribuita allo stesso organo, ho dei dubbi che serva. Non sono voluto entrare nelle questioni che sono state poste prima in quanto mi sembravano non strettamente attinenti, ma essendo stato sollecitato dall'onorevole relatore, ovviamente, a questo punto, ritengo che l'argomento rientri a pieno titolo nella discussione.
Il problema si riaggancia a quello che stavo per dire: probabilmente oggi la funzione consultiva così come è ha poca ragion d'essere (su questo ha ragione il senatore Pellegrino), perché è ancora prevalentemente una funzione atto per atto, che quindi in qualche modo si ingerisce nella gestione. Se la funzione consultiva si trasforma nel senso indicato da quell'emendamento, che la riduce fortemente (basta leggerlo) perché abroga tutte le competenze obbligatorie tranne tre, allora si può pensare che tale funzione sia concentrata e limitata (e si potrebbe anche affermarlo in Costituzione) soltanto
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agli atti normativi generali, come avviene in tutti i paesi europei, tranne quattro. Vi è anzi un modello interessante, che non è quello francese; si tratta del modello svedese, nel quale vi è un organismo, che non è un Consiglio di Stato ma una corte di cassazione amministrativa (separata dalla corte di cassazione civile e penale) che esercita alcune funzioni consultive direttamente, mentre allo stesso tempo esiste il meccanismo per cui i membri della corte suprema amministrativa - non tutti contemporaneamente, come è ovvio - sono membri di diritto di un organismo distinto, che ha funzioni consultive sugli atti normativi.
Pongo allora la seguente questione: chissà se non si possa pensare a fare del Consiglio di Stato un organismo prevalentemente giurisdizionale (come è oggi, checché se pensi), e che i suoi membri (non tutti, ovviamente, perché non servirebbe) possano essere membri di diritto di un distinto organo che esercita le funzioni consultive di cui si è parlato. Si tratterebbe di un modello svedese un po' spinto: così non si potrebbe dire sempre che noi vogliamo il modello francese.
Rispondo brevemente e per flash al senatore Marchetti. Per quanto riguarda l'indipendenza, dal punto di vista formale la legge n. 186 prevede il consiglio di presidenza, quindi un organo di autogoverno, e fa un richiamo generale, dove non espressamente previsto in modo diverso, alle norme dell'ordinamento giudiziario in quanto applicabili. Probabilmente, è meglio che si costituzionalizzi, soprattutto se si vuole del tutto omogeneizzare lo status dei magistrati, questo principio di indipendenza. Certo, il Consiglio di Stato è formato in prevalenza da persone provenienti dalla magistratura: è difficile pensare che abbiano compiuto grossi sforzi, superando anche un concorso, per cercare di ottenere una diminuzione dello statuto di indipendenza; io, almeno, non me ne sono accorto nel passaggio dalla magistratura ordinaria a quella amministrativa.
Per quanto riguarda, infine, le domande sul CSM del senatore Russo, penso che si possa fare sia un Consiglio superiore unico sia un Consiglio superiore distinto tra magistratura ordinaria e magistratura amministrativa. Mi sono soffermato su quello distinto perché mi sembrava prevalesse in Commissione, ma per noi anche un Consiglio superiore unico non creerebbe alcun problema.
Per quanto riguarda la domanda del senatore Russo che presuppone che la giurisdizione sia sottratta alla Corte dei conti, il mio unico dubbio è il seguente. So, come osservava il senatore Pellegrino, che non abbiamo più una giurisdizione su altre attività, ma al massimo abbiamo una giurisdizione sul rapporto amministrativo. Oggettivamente, la giurisdizione della Corte dei conti consiste nella repressione di un comportamento che ha riflessi sulla contabilità pubblica. Non dico che è impossibile che il giudice amministrativo faccia questo, perché lo può fare chiunque; però, oggettivamente, richiederebbe un adattamento del giudizio amministrativo che sarebbe quasi uno stravolgimento. Tutto sommato, il giudice civile, il giudice della responsabilità, ha addirittura il pubblico ministero. Però è anche vero che la responsabilità pubblica è diversa dalla responsabilità civile. Perciò questo presuppone che si risolva il problema.
GIOVANNI RUSSO. La legittimazione?
FILIPPO PATRONI GRIFFI, Presidente dell'Associazione magistrati del Consiglio di Stato. Per la legittimazione, se va al giudice civile non c'è problema, perché la può avere il pubblico ministero in sede civile, come oggi avviene, ad esempio, anche in materia societaria; altrimenti, se è un'azione di responsabilità, si può pensare, ad esempio, anche all'Avvocatura dello Stato come avvocato della parte danneggiata. Però, dico la verità, non ho una grande esperienza di giudizio contabile, e quindi ho qualche difficoltà a rispondere nel dettaglio.
GIUSEPPE CARUSO, Presidente dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi. Per quanto riguarda le richieste del senatore Pellegrino circa eventuali idee della nostra associazione in ordine
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alla possibilità di attribuire ad un organo di derivazione parlamentare l'azione disciplinare nei confronti dei giudici amministrativi, osservo che da parte nostra non vi è alcuna difficoltà, ovviamente purché non vi sia un collegamento funzionale di parte dei magistrati con il Parlamento, perché altrimenti si riproporrebbe il problema. Poiché si discuteva della sezione consultiva che forse andrebbe ad esaminare anche atti del Parlamento, si porrebbe questa questione. In ogni caso, non vi sarebbe alcuna opposizione da parte nostra neppure dei confronti dell'unicità dell'azione disciplinare, cioè di un organismo unitario per tutti i magistrati, siano essi amministrativi od ordinari.
Per quanto riguarda le questioni poste dal senatore Marchetti, a giudizio della nostra associazione e come risulta evidente dalle tesi che abbiamo sostenuto prima, non esiste oggi una effettiva garanzia di indipendenza del giudice amministrativo. Non esiste anche per la funzione consultiva di cui si è ampiamente discusso; rilevo anche, per incidens, che non credo che i membri della corte suprema svedese siano al 60 per cento membri dei gabinetti governativi (il che fa una certa differenza).
Passando ad altro punto, osservo che vi è un'istituzionale vicinanza al Governo di una parte della magistratura amministrativa. Il 25 per cento di essi è ancora oggi addirittura di nomina governativa, benché questo sia stato fortemente oggetto di contestazione da parte della dottrina. Inoltre, la composizione del CSM vede nel nostro organismo di autogoverno l'assenza di membri laici, e questo secondo me non è utile ai fini dell'indipendenza del plesso, considerando anche che è una minoranza che governa la maggioranza, il che suscita dei problemi.
Per quanto riguarda l'azione disciplinare, abbiamo detto prima che anche sulla titolarità vi sono dei dubbi perché in effetti, come è stato rilevato, la Presidenza del Consiglio è il principale organismo vicino ad una parte della magistratura amministrativa. Auspichiamo che la Commissione proceda sulla linea che ha correttamente individuato.
Per quanto attiene all'azione di responsabilità da esercitare nell'ambito della magistratura amministrativa unitaria che si va delineando, mi sono sforzato di esporre prima la necessità che comunque, nel giudizio amministrativo, sieda un pubblico ministero che, quando emerga qualche questione relativa ad appalti in cui è evidente che qualcosa non va, abbia la possibilità di intervenire attraverso sia un'impugnativa sia una deduzione di motivi sia, ancora, eventualmente - se nell'ambito della giustizia amministrativa confluisce quella contabile - esercitando azioni. Quindi, non vedo quale sia il problema se, come non potrà non essere, le persone fisiche che confluiscono nella magistratura amministrativa riunita sono le stesse che oggi fanno parte delle due magistrature separate.
Molto spesso si pone il problema se un comportamento dell'amministrazione sia legittimo o meno. È difficile che i tre giudici attualmente competenti diano risposte diverse. In questo momento l'ordinamento si contraddice. Io auspico, perché mi pare logico, che il giudice amministrativo, quando una questione di principio, cioè una regola di diritto amministrativo, non un comportamento, è rilevante, sia quello che ha l'ultima parola, perché altrimenti non si capirebbe a che titolo sarebbe chiamato in causa: solo per dare ragione ad un privato? Non mi pare sia corretto.
Relativamente alle funzioni consultivo-giurisdizionali, infine, auspico, a nome dell'associazione di cui faccio parte, che vi sia comunque un chiarimento. La rottura istituzionale interna alla nostra magistratura - che ha fatto sì, ripeto, che da venti giorni non funzioni più il consiglio di presidenza - è dovuta proprio a questa diversità, che è talmente forte da provocare problemi di questo tipo. Che poi si voglia negare è veramente difficile da sostenere. Quindi, la magistratura amministrativa in un modo o nell'altro va omogenizzata: se vogliamo un giudice che faccia anche il consulente, deve essere tale in primo e in secondo grado, altrimenti non funziona.
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ERMANNO FERA, Segretario generale dell'Unione nazionale giudici tributari. Signor presidente, onorevole Boato, sono una persona che ha la continua necessità di chiedere e di avere certezza. Ho ascoltato con molto interesse gli interventi di tutti i rappresentanti delle diverse categorie ed associazioni. Debbo confessare, con estrema franchezza, un dubbio, mi si perdoni, un dubbio che mi tormenta e che, in un certo senso, sembra essere confermato dagli interventi che ho ascoltato. Tutti coloro che hanno parlato nell'interesse delle proprie associazioni e categorie sembrano essere più interessati a salvaguardare delle posizioni che a indicare delle situazioni che si conciliano con l'attività innovativa di questa Commissione bicamerale, che deve apportare modifiche alla Costituzione per quanto riguarda l'istituendo giudice unico che tengano conto non tanto delle esigenze delle categorie di appartenenza, quanto, scusate se lo dico - potrei essere molto banale -, principalmente degli interessi del cittadino.
In questa situazione, in costanza di tutto ciò che è stato detto, dicevo prima al senatore Russo che mi domando cosa facciano qui i giudici tributari in una situazione - scusate la mia franchezza - già acclarata da parte di altri, laddove la nostra presenza deve invece sollecitare questa Commissione bicamerale affinché anche la giustizia tributaria abbia la sua rilevanza e il suo ruolo partecipe. In conclusione, vorrei soltanto chiarire se ho letto e compreso bene la modifica dei due commi dell'articolo della Costituzione. Mi sembra non sia chiarita in modo sufficiente una modifica che dovrebbe essere portata avanti con coraggio: noi auspichiamo che sia istituita una magistratura tributaria autonoma, che abbia il rango della magistratura ordinaria. Non si può conciliare la posizione del laico nelle sezioni specializzate, onorevole Boato, con una condizione diversa del magistrato ordinario che partecipa alla stessa commissione. Dovete avere il coraggio di chiarire una volta per tutte qual è il ruolo della partecipazione del laico nell'ambito delle commissioni tributarie provinciali e regionali.
Se il Governo, se il legislatore ritiene che in pratica le commissioni tributarie possano essere garantite - dal punto di vista della giurisdizione istitutiva e del funzionamento - soltanto da magistrati ordinari, lo si dica chiaramente: perché non si può conciliare la posizione del laico che viene chiamato a partecipare alla commissione tributaria (attribuendo allo stesso la medesima responsabilità, l'obbligo di aggiornamenti, il divieto dei cumuli e tutta una serie di comportamenti e di prescrizioni restrittive) con l'osservanza di prescrizioni comportamentali al di fuori delle quali egli va incontro anche a responsabilità penali e civili.
Per quanto riguarda la posizione dei giudici tributari - che allo stato, scusate l'espressione, non sono né carne né pesce - bisogna affrontare con serietà questo punto: se si ritiene che la giustizia tributaria sia meritevole di una modifica sostanziale. Il cittadino vuole chiarezza, certezza; desideriamo averla anche noi.
PRESIDENTE. Sento il dovere ed il piacere di ringraziarvi per tutte le testimonianze e le opinioni che ci avete offerto, le quali saranno oggetto di considerazione da parte di tutta la Commissione. Colgo l'occasione per ricordare che tutta la documentazione consegnata sarà posta a disposizione della Commissione e che il resoconto stenografico della seduta sarà disponibile già da domani mattina.
Vi ringrazio nuovamente e vi auguro buon lavoro.
La seduta termina alle 18,30.
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A L L E G A T O
(Testo presentato dal dottor Vincenzo Polito)
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Dal D.P.R. n. 636, del 1972, il Parlamento si è continuamente occupato del Processo Tributario.
Numerosi sono stati i disegni di legge presentati da folti gruppi di Deputati di tutte le forze politiche.
Alcuni, caparbiamente, ripresentati al rinnovarsi delle succedentisi legislature.
Nel 1991 una legge delega ottiene i decreti legislativi n. 545, per la parte ordinamentale e n. 546, per la parte procedurale, che hanno visto l'inchiostro della Gazzetta Ufficiale, il 30 dicembre 1992.
Anche la precedente Commissione Parlamentare per le Riforme Costituzionali ha ben riconosciuto, nei suoi lavori, la pari dignità, a livello Costituzionale della Giustizia Tributaria con la Giustizia Ordinaria (civile e penale) e con la Giustizia Amministrativa.
Da quanto scritto dal Parlamento risultano tre postulati:
- I giudici tributari sono oggi compiutamente organizzati, anche con il proprio Organo di Autogoverno, attivamente operante con criteri di selettività e di piena autonomia e stanno dando prova di professionalità, di efficienza e di produttività.
- Le funzioni dei giudici tributari hanno natura particolare e specifica, in relazione, appunto, alla peculiarità della materia tributaria che ne forma l'oggetto e che, certamente, non la rende aggregabile alla competenza di altri organi giurisdizionali tenuto specificatamente conto della loro diversa composizione ed estrazione oggettiva e soggettiva.
- Ci sono oltre tre milioni di processi pendenti (i giudici tributari, dopo il concorso bandito nel 1992, sono stati nominati il 1° aprile 1996) e il nuovo apparato istituzionale, oltretutto poco costoso, sta egregiamente funzionando; certamente, non dando lavoro alla Corte di Strasburgo ed alle sue censure.
Pertanto sarebbe impensabile ed improponibile qualsivoglia commistione aggregativa ad altre distinte categorie giurisdizionali.
Si creerebbe un vero e proprio sconvolgimento nell'attività dei giudici ordinari o amministrativi, già afflitti da enormi problemi di carichi di lavoro.
Il Parlamento di tanto è stato ben consapevole ed ha messo a punto per ulteriori adeguamenti (la Camera, il 15 ottobre 1996, a firma Benvenuto, Piccolo, Pistone, Agostini, De Benetti, Repetto, Carlo Pace, D'Alia, Conte, Fronzuti, Targhetti, Piscitello, Lumia, Di Fonzo; ed il Senato, il 24 ottobre 1996, a firma Angius, Pasquini, Bonavita, Albertini, Sartori, Caddeo, Montagna, Polidoro, Pettinato, Bertoni), un "ordine del giorno" ben preciso e circostanziato, che "impegna il Governo a presentare al Parlamento, in tempi rapidi un apposito disegno di legge che recepisca almeno le seguenti indicazioni"; seguono dodici ben elencate, irrinunciabili e specifiche disposizioni riguardanti sia la parte procedurale che la parte ordinamentale.
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In immediata attuazione il Sottosegretario On. Gianni Marongiu, personalmente coordinando un gruppo di studio che sta ultimando, con i Professori Glendi e Minieri ed il Direttore del Contenziosi Leo, i suoi lavori, presenterà al Parlamento, nei prossimi giorni il Provvedimento legislativo di attuazione degli Ordini del Giorno della Camera e del Senato.
L'On. Marco Boato nella relazione resa al Comitato sul sistema delle garanzie, alle pagine 5 e 6, prende in considerazione l'articolo 102 della Costituzione e prospetta la "possibilità ed utilità di istituire giudici speciali ad eccezione che in materia penale".
Rispondiamo, in attuazione, che:"l'esperienza del giudice speciale già sussiste con specifico riferimento al giudice tributario".
E' ben vero che la Commissione regionale di Lecce ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dei nuovi giudici tributari per contrasto con l'articolo 102 della Costituzione: e a questa ordinanza fa riferimento il Senatore Pellegrino nella audizione del 15 aprile 1997, alla pagina 209; ma questa questione, in pedissequa ripetizione è stata già, in passato, respinta dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 215, del 1976, sentenza n. 196, del 1982, sentenza n. 217, del 1982), in quanto l'articolo 102, II° comma della Costituzione può ritenersi violato "solo con la creazione ex novo di un organo giurisdizionale".
| Associazione Nazionale Giudici Tributari |
| Componente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria |
| Componente della Commissione Marongiu per l'esecuzione |
| dell'Ordine del Giorno del Parlamento |