La seduta comincia alle 16.20.
Audizione del professore ordinario dell'Università di Firenze, Enzo Cheli.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professore ordinario di diritto costituzionale dell'Università di Firenze, Enzo Cheli, che saluto e ringrazio per la sua presenza. Egli è invitato ad esporre la sua idea di riforma costituzionale, collegandosi così al dibattito in corso sul tema.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. La ringrazio, signor presidente, per questo invito che ho molto gradito e che mi onora moltissimo.
Penso che il mio compito in questa sede sia quello di dare, nei limiti del possibile, un piccolo contributo all'approfondimento dei problemi che si manifestano in relazione a uno dei due modelli di forma di governo verso cui i lavori del comitato si sono indirizzati, cioè in relazione alla forma cosiddetta neoparlamentare o di governo del premier, anche tenendo conto della lettura del resoconto dell'audizione del professor Sartori, che ha arato a fondo la tematica del semipresidenzialismo.
Per affrontare il tema della forma di governo neoparlamentare mi sembra indispensabile una premessa. Quando ci si occupa del nodo della forma di governo e della sua riforma, bisogna aver ben chiari due punti: i fini che si vogliono realizzare ed il contesto politico, ma anche storico-culturale, entro cui ci si muove. È un'osservazione ovvia ma penso che occorra sempre partire da questi due punti.
Per quanto riguarda i fini, mi sembra che oggi esista largo accordo tra le forze politiche. L'obiettivo è di costruire governi più stabili ed efficienti e di aumentare il peso del corpo elettorale, riducendo la mediazione dei partiti politici: questo mi pare il punto su cui poggiano le basi della riforma che state costruendo.
Per quanto concerne il contesto politico, mi sembra che anche su questo punto vi sia un sostanziale accordo che conduce ad individuare il vizio di fondo del sistema italiano nella sua eccessiva frammentazione e nella sua disomogeneità. È vero che la riforma elettorale del 1993 ha cominciato ad orientare il sistema verso il bipolarismo, ma all'interno dei due poli le aggregazioni restano disomogenee e conflittuali. Si tratta perciò di un bipolarismo incompiuto e disomogeneo.
Mi sembra dunque che la premessa da cui bisogna partire sia che la difficoltà della riforma in Italia nasce proprio dalla forte divaricazione esistente tra i fini che si vogliono realizzare e la natura del contesto in cui si deve operare. Ciò dovrebbe subito indurre, a mio avviso, ad orientare le scelta non solo sui congegni di vertice della forma di governo, ma anche sugli strumenti in grado di modificare il tessuto politico, favorendo la riduzione della frammentazione ed il passaggio da una situazione di multipartitismo estremo ad un'altra di multipartitismo moderato.
Questa era la premessa che andava ricordata, posta la quale possiamo tornare al modello neoparlamentare. Gli elementi che secondo la dottrina distinguono tale modello nelle sue varie espressioni (perché esistono varie forme di neoparlamentarismo) sono molteplici. Essi vengono individuati, in
particolare: nella presenza del voto di fiducia; nella tendenza verso governi di legislatura fondati sulla coincidenza tra leadership e premiership; nella presenza di meccanismi di stabilizzazione e di rafforzamento dell'efficacia dell'azione dell'esecutivo, con una gravitazione dell'indirizzo politico nell'area del premier (cioè con lo spostamento dell'area dell'indirizzo politico dalla collegialità del governo alla persona del primo ministro); infine, nella netta distinzione dei ruoli tra Capo dello Stato e Primo ministro, al quale ultimo spettano i poteri di indirizzo mentre al primo spettano ruoli di garanzia legati alla rappresentanza dell'unità nazionale.
Mi sembra che i modelli praticabili che oggi sono all'esame di questo comitato siano sostanzialmente quattro, nel senso che dalla sommaria lettura dei numerosissimi progetti presentati in fondo emergono quattro idee praticabili. La prima è quella del governo del premier secondo il modello inglese (che poi è per molti aspetti prossimo a quello spagnolo); la seconda è il cancellierato secondo il modello tedesco; la terza è il governo del premier eletto direttamente dal corpo elettorale (cosiddetto modello israeliano); la quarta è il semipresidenzialismo di tipo francese.
Di questi quattro modelli, i primi due (il modello Westminster ed il cancellierato) si collocano nel solco della tradizione parlamentare; gli altri due (il semipresidenzialismo e l'elezione diretta del primo ministro) seguono invece la tradizione presidenziale. Non sarei pertanto orientato a condividere la posizione di chi qualifica il modello di premierato eletto dal popolo come una variante del modello neoparlamentare. È vero che in questo modello di premier eletto direttamente dal popolo rimane in vita la fiducia, ma l'istituto è del tutto oscurato, praticamente azzerato dal fatto che il premier riceve direttamente l'investitura dal popolo. Pertanto questo modello, a mio avviso, è molto più prossimo al modello presidenziale, ed è sicuramente il più lontano dal modello parlamentare, più lontano di quanto non lo sia il semipresidenzialismo francese: nell'ordine di scostamento dal modello parlamentare classico, metterei prima il modello Westminster, poi il cancellierato, poi il semipresidenzialismo francese ed infine l'elezione diretta del premier, perché secondo me lì siamo ai confini del presidenzialismo.
Mi sembra dunque che il discorso sul neoparlamentarismo (se vogliamo fermare l'attenzione su questa forma di governo con le sue variabili), per quel che riguarda i modelli che il comitato sta esaminando, si concentri sostanzialmente su due ipotesi, l'ipotesi del governo del premier secondo il modello Westminster e l'ipotesi del cancellierato, nonché sulle varianti di questi due modelli; ma i modelli di base neoparlamentari che sono sul tappeto della Commissione bicamerale mi sembreano sostanzialmente questi due.
Di essi, quello che dispone del maggior tasso di flessibilità è, a mio avviso, certamente il modello Westminster (è abbastanza pacifico), nel quale i poteri formali del premier corrispondono di volta in volta, senza forzature, ai poteri sostanziali derivanti dall'assetto politico del sistema. Questo modello non si limita alla disciplina costituzionale, ma lascia larghi spazi alla legge elettorale, ai regolamenti parlamentari, alle norme convenzionali, alla prassi. Perciò esso presenta il massimo grado di elasticità anche per l'organizzazione delle fonti intorno al modello stesso. Non solo: credo anche che questo modello sia il più prossimo alla tradizione culturale e alla storia costituzionale di lungo periodo del nostro paese.
Pertanto (qui sarò rapidissimo) ove si dovesse orientare la scelta della forma di governo - questa è la premessa - su un modello neoparlamentare, qello a mio avviso più consigliabile sarebbe proprio il modello Westminster. Conosciamo naturalmente l'obiezione che viene fatta ogni volta che si propone questo modello: chi lo propone, viene considerato uno che vive
sulla luna. L'obiezione che normalmente si fa al richiamo per l'Italia del modello Westminster è che il modello inglese non sarebbe esportabile in Italia, per la semplice ragione che risulta fondato su un presupposto, il bipartitismo, che da noi non esiste. Questo è sicuramente vero, ma a mio avviso non è sufficiente per farci escludere che attraverso la riforma che stiamo avviando si possa tentare quanto meno di avvicinare il nostro sistema politico alle condizioni di base, alle condizioni di fatto che consentono al modello Westminster di funzionare nel suo paese.
Per avvicinare queste condizioni del nostro sistema al modello inglese, risulta in ogni caso necessaria un'azione riformatrice orientata su due linee, una che muova dal basso ed un'altra che muova dall'al to. Ma devono essere due linee contestuali: dal basso, attraverso la legge elettorale; dall'alto, attraverso congegni di stabilizzazione dell'esecutivo e di rafforzamento dell'efficacia dell'azione del governo. In ogni caso se vogliamo fare un tentativo di avvicinamento del nostro modello a quello inglese, l'azione deve essere congiunta, su due linee, dall'alto e dal basso.
Ritengo pertanto che non sia impossibile colmare, sia pure gradualmente (è evidente che se imbocchiamo questa linea bisogna accettare un criterio di gradualità necessaria), il distacco che oggi separa il contesto italiano da quello inglese, il nostro multipartitismo estremo dal bipartitismo anglosassone, ove si voglia agire sul doppio pedale della legge elettorale da un lato e dei meccanismi di stabilizzazione e di rafforzamento dell'efficacia del governo dall'altro. Lavorando congiuntamente su questi due pedali, c'è la possibilità di arrivare non ad una identificazione in tempi brevi, ma ad un avvicinamento consistente, che può anche rendere ragionevole per l'Italia l'ipotesi Westminster.
In altri termini penso che, mancando la possibilità di far coincidere oggi in Italia leadership e premiership per l'assenza del presupposto di base del bipartitismo di un bipartitismo consolidato ed omogeneo si possa pur sempre sin d'ora avviare dal basso, attraverso la legge elettorale, un processo di graduale riduzione della frammentazione e di accorpamento delle forze politiche su poli omogenei (del resto, esso in parte è già iniziato); ed avviare dall'alto un processo in grado di consentire la premiership al leader del partito che ha preso più voti, anche se questo partito esprime non la maggioranza assoluta, ma solo una maggioranza relativa del paese.
Se questo è vero, tutto ciò conduce naturalmente a sottolineare il peso, a mio avviso, decisivo e pregiudiziale della legge elettorale. I congegni di stabilizzazione e i congegni di rafforzamento dell'efficacia dell'azione dell'esecutivo seguono, non precedono, la legge elettorale. Perciò è abbastanza rischioso invertire questo ordine di problemi nel momento in cui si affronta la riforma della forma di governo, almeno se si vuole perseguire il modello neoparlamentare (tutto il discorso ha un senso partendo da questa premessa).
Credo che questa linea di azione dall'alto e dal basso, per ridurre da un lato la frammentazione attraverso la legge elettorale e dall'altro il tasso di inefficienza e di debolezza del Governo attraverso meccanismi di stabilizzazione e di rafforzamento dell'efficacia dell'azione dell'esecutivo, sia in questo momento la più realista, perché con una certa coerenza consente di completare un processo che è già stato avviato, il processo relativo alla riforma maggioritaria del 1993, senza indurre brusche sterzate in un percorso che oggi è appena avviato.
Per costruire un modello di governo del premier che possa essere in qualche senso assimilabile, non certo identificabile (si parla di assimilazione, di avvicinamento, non di identificazione) al modello Westminster come modello parlamentare dotato di maggiore flessibilità, credo che si debba operare almeno su sei punti, che mi limito ad accennare molto rapidamente.
Primo punto. Occorre, come si diceva, agire in primo luogo sulla legge elettorale.
Se, operando su questo piano, vogliamo raggiungere il fine della riduzione della frammentazione e dell'aumento dell'omogeneità del sistema, la via da percorrere a mio avviso è certamente quella di una riforma che ridimensioni (anche se può essere doloroso) l'attuale quota di proporzionale ed introduca il doppio turno. Questi mi sembrano i due meccanismi ai quali non è possibile sottrarsi, se vogliamo percorrere questa strada. Nel secondo turno si potrebbe anche dare accesso a più di due candidati (è l'ipotesi Sartori delle quattro parti, della quadriglia, che io condivido), oppure si potrebbe dare accesso a tutte le forze che superino una certa soglia, che a mio avviso dovrebbe essere piuttosto elevata. Non mi azzardo a dare percentuali, ma penso all'8-10 per cento (naturalmente se si intende raggiungere quel fine, perché se gli obiettivi sono diversi il ragionamento cambia).
Per completare il discorso sulla legge elettorale, sarei contrario a quanto accennato da Sartori, relativamente al doppio turno, proporzionale e maggioritario, per una difficoltà tecnica; francamente non sono riuscito a comprendere come Sartori riesca a conciliare uno scrutinio proporzionale su collegio plurinominale con uno scrutinio maggioritario su collegio uninominale: mi manca il passaggio tecnico che probabilmente Sartori ha chiaro.
STEFANO PASSIGLI. Non si capisce bene dal resoconto. L'elettore ragiona proporzionalmente, ma il collegio è maggioritario.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze Se si tratta di collegio maggioritario, allora non avevo compreso la proposta. Sinceramente avevo capito che il primo turno si svolgeva su un collegio, il secondo su un altro: di qui la difficoltà nella comprensione del passaggio tecnico.
Il secondo punto di intervento - sicuramente il più difficile - riguarda la scelta del premier. Rispetto alla possibilità di avvicinarsi al modello neoparlamentare alla Westminster questo è il passaggio più delicato.
Come si fa ad individuare il premier se nessuna forza è in grado di raggiungere la maggioranza? Le strade possibili sono sostanzialmente due, una più elastica, l'altra più rigida. La strada più elastica è quella scaturente dal progetto Soda (il progetto Mussi mi sembra identico) sia pur con l'introduzione di una correzione. Essa potrebbe essere la seguente: si parte da un'indicazione ufficiale, non di fatto, del premier da parte di forze singole o accorpate che concorrono in un certo numero di collegi - una quota molto elevata di collegi (due terzi o quattro quinti) - e i candidati all'assemblea dichiarano qual è il candidato premier di riferimento. Quindi una forma di collegamento attenuato che sposta la linea di scelta sulle indicazioni preliminari delle forze politiche, ciò che evita l'eccessiva frantumazione delle indicazioni. L'elettore, in realtà, non esercita un doppio voto, perché vota soltanto per il candidato al collegio, il quale ha fatto una dichiarazione di riferimento ad una candidatura ufficialmente presentata. Successivamente dovrebbe essere nominato premier il candidato che ha conseguito il massimo numero di eletti collegati o dichiarati.
In via alternativa a questa soluzione - è l'ipotesi più rigida, presente in alcuni progetti presentati - si potrebbe procedere all'elezione parlamentare del premier tra i candidati designati, con una elezione a maggioranza semplice (eviterei meccanismi plurimi o alternativi perché li ritengo un po' artificiosi).
Il premier nominato oppure eletto forma il governo e chiede la fiducia; se quest'ultima non viene accordata sarà lo stesso premier ad insistere con ulteriori tentativi, passando eventualmente da un governo monopartito di minoranza ad un governo di coalizione maggioritario. Ad ogni modo il gioco dovrebbe restare
sempre nelle mani del premier designato, il quale ha ottenuto l'investitura parlamentare per collegamento o per elezione.
Naturalmente dopo più tentativi non riusciti, l'unica soluzione rimarrebbe lo scioglimento.
Vi è anche l'ipotesi secondaria, delineata nei vostri documenti, della morte, dell'impedimento, delle dimissioni e della perdita di capacità. In un meccanismo del genere ritengo in questi casi inevitabile il ricorso a nuove elezioni, non mi sembra esistano alternative. Si può solo prevedere una forma di passaggio, intermedia, gestita da un vicepremier, ove fosse prevista sin dall'inizio questa figura .
Il terzo punto di intervento riguarda i meccanismi di stabilizzazione. Tra questi possibili meccanismi due mi paiono essenziali, al fine di equilibrare il modello. Innanzitutto la sfiducia costruttiva che, però, non dovrebbe essere votata - come appare in un progetto - solo una volta per legislatura con una sorta di limitazione temporale. La sfiducia costruttiva è un meccanismo talmente stabilizzante da non prevedere limiti alla sua utilizzazione reiterata. La sfiducia costruttiva dovrebbe essere controbilanciata - questo è il passaggio decisivo per l'approssimazione al modello Westminster - dalla possibilità di scioglimento dell'assemblea ad opera e per decisione esclusiva del premier.
Penso che questo sistema potrebbe trovare il suo perno nell'affidamento in esclusiva al premier del potere di scioglimento dell'assemblea, che avrebbe una forte capacità deterrente, di stabilizzazione. In pratica si tratta di attribuire al premier il diritto di appello al popolo in tutte le ipotesi in cui si delineino rotture del rapporto fiduciario, e perciò anche la possibilità di usare lo scioglimento contro la maggioranza e...
GIUSEPPE CALDERISI. Anche se sfiduciato costruttivamente?
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze Sì, anche se sfiduciato costruttivamente, come prevede il meccanismo svedese. Si tratta di individuare un meccanismo equilibratore molto forte.
Il quarto punto di intervento concerne i poteri del premier, su cui l'accordo è più largo e più facilmente si potrà giungere alla soluzione.
Certamente il premier nomina e revoca i ministri. Premesso che nei progetti in esame non è presente andrebbe poi prevista la possibilità di consentire al primo ministro di organizzare la compagine governativa con un largo margine di libertà, il che costituisce una delle caratteristiche essenziali dei governi di tipo anglosassone. In altri termini il premier dovrebbe organizzare la struttura di governo al meglio, usando i comitati di ministri ed il consiglio di gabinetto, ricorrendo cioè ad una struttura molto flessibile da articolare secondo le esigenze. In pratica si tratta di ripensare ad una tendenza già emersa nella legge n. 400, che però è rimasta quiescente. Se dovessimo percorrere il modello Westminster, questo dovrebbe essere uno dei punti più significativi.
Sempre sul piano dei poteri bisognerebbe riconoscere al primo ministro la disponibilità sull'ordine del giorno dei lavori dell'assemblea; una serie di poteri relativamente ai lavori dell'assemblea, dal voto bloccato al ricorso limitato alla ghigliottina, certamente non nella dimensione del modello francese, bensì di quello inglese, oltre alla garanzia per il Governo di tempi certi nell'approvazione del bilancio e della legge finanziaria.
Il quinto punto di intervento, anch'esso a mio avviso decisivo, riguarda il riassetto dei rapporti tra primo ministro e capo dello Stato, nonché il riassetto in generale dei poteri del capo dello Stato che inevitabilmente in questo modello vanno rivisti.
Tale riassetto, a mio giudizio, dovrebbe avvenire distinguendo nettamente i poteri di garanzia del capo dello Stato da quelli di indirizzo del premier: nessuna cogestione nell'esercizio di questi poteri. Il modo per sciogliere il nodo è quello di
eliminare il relitto storico della controfirma. In pratica, i poteri del capo dello Stato dovrebbero essere ridotti in quantità, ma valorizzati in qualità, rispetto alla funzione esclusiva di garanzia che il capo dello Stato esercita, con poteri propri non soggetti a controfirma.
Questa netta distinzione delle competenze - che a mio avviso è una delle linee di fondo, che a volte rimane in ombra, del modello neoparlamentare - dovrebbe a mio giudizio sdrammatizzare il tema forse troppo enfatizzato dell'elezione del capo dello Stato: una volta ridimensionati i poteri in questo senso, l'elezione diventa una variabile meno impegnativa. Comunque, l'elezione potrebbe, anzi dovrebbe, essere ripensata alla luce del quadro che emergerà dalla riforma della forma dello Stato. L'elezione del capo dello Stato è necessariamente collegata alle linee di quella riforma. Perciò l'ipotesi più naturale, una volta determinata la riforma della forma dello Stato, dovrebbe essere quella di un congruo allargamento della base elettorale ai rappresentanti dei poteri locali e ai parlamentari europei.
Mi limito solo ad accennare al sesto ed ultimo punto. In questo modello dovrebbe anche entrare uno statuto dell'opposizione e qui si potrebbe naturalmente seguire il modello anglosassone con alcune aggiunte: per esempio, con l'eventualità e la possibilità di una impugnativa diretta da parte della minoranza delle leggi dinanzi alla Corte costituzionale secondo il modello francese.
Vorrei solo aggiungere un'ultima osservazione. Tutto quello che ho detto è stato enunciato nell'ipotesi che debba prevalere la linea neoparlamentare. Nel caso invece in cui si ritenesse - è tra le ipotesi aperte di cui state discutendo - di dover abbandonare la corsia del neoparlamentarismo per imboccare quella del modello presidenziale, la scelta a mio avviso preferibile sarebbe senz'altro quella del modello semipresidenziale francese, naturalmente, come si dice sempre, adeguatamente aggiustato sulle esigenze e sulle tradizioni del nostro Parlamento. Questo, nell'ipotesi in cui si dovesse imboccare il percorso presidenzialista, sarebbe certamente il modello preferibile perché tutto sommato è quello a noi più vicino e che storicamente ha funzionato bene nel paese in cui è stato adottato.
Ma restano a mio avviso, in riferimento al contesto in cui nasce la riforma, alcuni dubbi. Il modello semipresidenziale è a mio avviso certamente più rigido di quello neoparlamentare. So che Sartori la pensa diversamente e forse l'ha dichiarato anche nel corso della audizione, ma io credo che non vi sia confronto tra la flessibilità di un modello Westminster e quella del modello semipresidenziale.
Il secondo dubbio deriva dal fatto che il modello semipresidenziale ha funzionato bene in assetti politici abbastanza coesi, tende a funzionare male in assetti molto frammentati.
Il terzo ed ultimo dubbio - anche questo viene sempre enunciato, non ha nulla di nuovo - riguarda la coabitazione, che in Italia potrebbe creare rischi per la stabilità, proprio in relazione al livello di frammentazione e di disomogeneità, molto superiori a quelli che si registrano nell'esperienza francese.
In ogni caso, dovrebbe essere evitato il modello che porta verso l'elezione diretta del premier. Non mi fermo su un'analisi in negativo: ho visto che anche Sartori è stato molto netto sul punto. Questo modello introduce un presidenzialismo spurio ed è veramente troppo rigido per il nostro paese. Una investitura di questo tipo nel caso di malgoverno non darebbe la possibilità di ricorrere a meccanismi sanzionatori o di rimozione e potrebbe veramente aprire in un paese che ha le difficoltà del nostro lacerazioni molto profonde tra il premier e la base sociale.
In sintesi, mi pare che, se ragioniamo in termini non solo di congegni di vertice, ma anche di assetti di base del sistema
politico, non solo di obiettivi contingenti che si vogliono realizzare ma anche di tradizioni storiche che vanno rispettate - nella forma di governo le tradizioni contano - allo stato attuale delle cose il modello più adatto al nostro contesto attuale politico e storico - ove si voglia percorrere l'ipotesi neoparlamentare - sia quello Westminster: un modello Westminster adeguatamente aggiustato sia sul terreno della legge elettorale, sia sul terreno dei meccanismi di stabilizzazione e di rafforzamento dei poteri conferiti al premier.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Cheli per l'ampia analisi svolta, un'analisi stimolante la quale ha già provocato interruzioni che abbiamo bloccato per dar spazio alle domande, senz'altro più utili al dibattito.
Darei la parola all'onorevole Salvi, pregandolo nella sua qualità di relatore di introdurre il dibattito.
CESARE SALVI, Relatore. Per la verità il professor Cheli ha indicato con grande puntualità i diversi aspetti del governo del premier. Vorrei forse chiedergli di soffermare ulteriormente la sua attenzione sul meccanismo crisi-sfiducia-potere di scioglimento, che poi nell'ambito della forma di governo è il tema più delicato su cui si è confrontato il comitato. Vorremmo capire come il punto di vista del professor Cheli - secondo cui, se non ho compreso male, il premier anche se sfiduciato in via costruttiva può chiedere ed ottenere lo scioglimento - si coordini con l'affermazione per la quale questo modello appare più flessibile rispetto a quello francese.
È vero che in alcune costituzioni di tipo neoparlamentare questo potere è previsto e contemplato, ma, se si mette insieme il complesso dei meccanismi di cui si è parlato - una forma di designazione che sostanzialmente diviene una forma di elezione, sia pure con l'automatismo, con l'elezione parlamentare, con la significativa differenza di un'elezione del premier insieme alla sua maggioranza, per cui si evita il Governo diviso così come accade in Israele; i poteri del premier all'interno del Consiglio dei ministri; i poteri sull'agenda parlamentare, sul voto parlamentare e questo potere conclusivo - viene da domandarsi quanto rimanga di neoparlamentarismo in un sistema di questo genere e soprattutto quale sia il significato dell'affermazione per la quale un modello di questo tipo sarebbe più flessibile del sistema semipresidenziale, anche perché, come è a tutti noto, nel modello Westminster allo stato puro il premier non può procedere allo scioglimento contro la volontà della sua maggioranza perché questa può sostituirlo.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. Mi rendo conto che i poteri che vengono caricati sul primo ministro sono notevoli, ma si tratta di compensare un gap di sistema politico. Sul fatto che lo scioglimento contro la maggioranza o lo scioglimento a sfiducia votata introducano un forte elemento di rigidità non sarei tanto d'accordo. Credo che, di fatto, tale scioglimento non sarà mai utilizzato e che esso sia soltanto un deterrente. Si sa che il primo ministro ha nelle mani questa leva, quest'arma, ma il suo uso estremo, se non in condizioni di suprema emergenza, è un uso suicida; è dunque importante che tale arma vi sia ma non è normale che venga usata. L'elemento di flessibilità sta dunque nel fatto che, ai fini della stabilizzazione, il potere di scioglimento è più un deterrente che un arma da usare effettivamente in situazioni anomale, ad esempio contro la maggioranza o dopo il voto di sfiducia. Certo, disporre di tale potere dà, nel sistema, una forza notevolissima al primo ministro, ma è stabilizzante dal punto di vista degli attacchi che possono venire dalla rottura degli equilibri parlamentari.
A proposito dell'elemento di flessibilità del modello, mi rendo conto che sorgano dei dubbi quando si descrivono analiticamente tutti i poteri; ma resta il fatto che, se adottato in Italia, un modello di questo tipo sarebbe largamente condizionato - come del resto ho sottolineato fin
dall'inizio - in primo luogo dalla legge elettorale, in secondo luogo dai regolamenti parlamentari ed in terzo luogo dalle norme convenzionali. Sarebbe cioè un modello nel quale la quantità di giuridificazione a livello costituzionale dovrebbe risultare inferiore alla quantità delle discipline collegate che completano il modello stesso. Quindi, la flessibilità dovrebbe derivare anche dal fatto che larghe fette di composizione di questo modello sono sul terreno dei regolamenti parlamentari, delle norme convenzionali e delle leggi elettorali. Ad esempio, l'uso dei poteri di scioglimento si dovrebbe stabilizzare sul terreno delle norme convenzionali. In conclusione, vedrei l'elemento di flessibilità in questi aspetti, che sono quelli del sistema inglese.
GIUSEPPE CALDERISI. Ringrazio il professor Cheli, che credo abbia dato al nostro Comitato un contributo importante, dal quale emerge la complessità, la difficoltà, la quasi impossibilità, a mio giudizio, di realizzare nel nostro paese il modello Westmister. Questo per molte ragioni.
Voglio ricordare che i problemi del nostro paese sono quelli di una instabilità che ha portato non ricordo esattamente il numero ma, più o meno, a cinquanta Governi in cinquant'anni (circa un Governo l'anno); una instabilità dovuta alla competizione di potere all'interno della coalizione di Governo in relazione a chi dovesse essere il capo dell'esecutivo. Questa è stata la principale ragione, poi abbiamo anche la questione che, nella prima esperienza di un sistema di tipo maggioritario, ha portato dopo soli sette mesi al famoso "ribaltone", per cui abbiamo anche pesanti eredità trasformistiche. Considerando poi la nostra realtà multipartitica, la differenza con il sistema inglese è molto profonda: c'è non soltanto il bipartitismo ma anche una tradizione parlamentare tutta diversa. La nostra tradizione parlamentare è di tipo assembleare, magari il nostro Parlamento avesse le caratteristiche di quello inglese! Nel nostro sistema prevalgono logiche di tipo assembleare del tutto diverse: in Inghilterra non ci sono neanche i banchi della maggioranza, ma quelli del Governo e dell'opposizione; si realizza il meccanismo di fusione di poteri tra il premier e la propria maggioranza, per cui questi è il capo del gabinetto ma anche la guida dell'assemblea, il leader della maggioranza in Parlamento, appunto grazie ad una serie di condizioni politiche e culturali che in Italia sono, a mio avviso, lontanissime.
Dunque, se vogliamo risolvere questi problemi di instabilità forte, vedo grande difficoltà nel perseguire l'ipotesi del premier. Soprattutto se si consente di cambiare il premier nel corso della legislatura, si creano inevitabilmente possibilità di instabilità. Se prevediamo in modo rigido un meccanismo di Governo di legislatura, in base alla teoria del mandato, per cui gli elettori scelgono un premier oltre che una maggioranza e premier e Parlamento sono poi legati al meccanismo del simul stabunt aut simul cadent, possiamo ipotizzare forse una soluzione, ma questa deve essere rigidissima.
Mi pongo dunque una prima domanda specifica. Il professor Cheli ha parlato di un potere di scioglimento in mano al premier, addirittura - se ho capito bene dall'interruzione che è stata fatta - un potere di scioglimento anche nel caso in cui questi sia sfiduciato costruttivamente dal Parlamento; mi chiedo se un tale potere possa essere attribuito al premier escludendo l'ipotesi della sua elezione diretta, di una sua forte legittimazione popolare. Credo, infatti, che soltanto in questo caso si possa conferire un potere di scioglimento e dunque, se vogliamo realizzare il modello del Governo di legislatura, dobbiamo inevitabilmente pensare ad una fortissima legittimazione diretta. In caso contrario, mi sembra difficile che si possa arrivare alla realizzazione di un tale modello, evitando l'instabilità, la competizione all'interno delle coalizioni, che poi significava occupazione della pubblica amministrazione (sappiamo bene quale sia stata la situazione del nostro paese). Ripeto, pertanto, di ritenere che vi siano grosse difficoltà a realizzare il modello del
Governo di legislatura, a meno che non si preveda, come dicevo, l'elezione diretta del premier ed una formula rigida per cui Parlamento e premier permangono insieme o cadono insieme. Se consentiamo meccanismi di sostituzione, diamo la possibilità che si verifichino "ribaltoni" o competizioni all'interno della coalizione.
Passo alla seconda domanda. Il doppio turno è stato da noi esaminato, insieme al professor Sartori, nell'ambito del sistema semipresidenziale francese, cioè del sistema di elezione diretta del Presidente della Repubblica come massimo titolare dell'indirizzo politico. In questo contesto, cioè in un contesto che bipolarizza fortemente, il doppio turno per l'elezione del Parlamento ha, evidentemente, una sua funzione e l'abbinamento - ne abbiamo parlato a lungo - è sicuramente molto importante. Ma, al di fuori di un meccanismo di elezione diretta del vertice dell'esecutivo, che è l'elemento bipolarizzante, ho molti dubbi che il doppio turno in quanto tale possa produrre effetti di bipolarizzazione; il risultato dipende anche dai diversi meccanismi e dovremmo eliminare del tutto la quota proporzionale, ma anche in questo caso non credo che il doppio turno potrebbe portarci in tempi ragionevoli ad un bipolarismo maturo. Diversa sarebbe la situazione - ripeto - se vi fosse anche l'elezione diretta del massimo vertice dell'esecutivo.
La terza domanda che desidero formulare riguarda il sistema semipresidenziale di tipo francese. Lei, professor Cheli, si è soffermato a lungo sul tema della controfirma nel sistema del premier, la mia domanda, viceversa, riguarda la questione nell'ambito del sistema francese, poiché abbiamo bisogno di un apporto in termini di diritto costituzionale, mentre con il professor Sartori abbiamo soltanto toccato la questione, senza approfondirla a sufficienza. Dunque, se vogliamo introdurre il sistema francese, certamente per taluni aspetti, come i poteri eccezionali o i referendum, dobbiamo temperarlo, addolcirlo.
Se vi è una disponibilità fra i sostenitori di questo sistema ad adattarlo, a temperarlo, vi è però anche la forte preoccupazione che vi possano essere per alcuni aspetti non dei temperamenti ma in realtà degli snaturamenti anche pericolosi. Uno di questi problemi riguarda il potere di scioglimento, in questo caso in capo al Presidente della Repubblica, e l'eventuale controfirma del premier. La preoccupazione riguarda non tanto la controfirma da parte del premier di coabitazione, che credo tra l'altro inutile perché in questo caso il Presidente della Repubblica è bloccato da una maggioranza espressa dal voto degli elettori e non può andare oltre un certo confine; la maggioranza parlamentare è quella, sfiducerebbe altri governi e potrebbe essere messo in stato di accusa. Il problema non riguarda il premier di coabitazione; se avesse la controfirma il premier non di coabitazione, mi chiedo quale conflitto e quale situazione si verrebbero a creare, laddove è stato eletto il Presidente della Repubblica; è lui che risponde agli elettori, questo premier indicato e scelto da lui potrebbe, con la controfirma, perseguire indirizzi politici diversi, andarsi a cercare maggioranze diverse, caso per caso.
Dovremmo un attimo approfondire lo scenario che si verrebbe a creare qualora questo premier, non di coabitazione, ripeto, avesse la controfirma. Sono molto preoccupato perché non ritengo questo un aspetto di dettaglio, bensì molto molto importante, qualora dovessimo adottare quel sistema; non è, ripeto, un temperamento ma un pericoloso snaturamento che ci farebbe arrivare ad un sistema diverso da quello francese e non so neanche cosa ne verrebbe fuori, perché manca un riferimento in questo senso, mentre il sistema francese ci offre un modello consolidato, le cui linee guida fondamentali non abbandonerei se dovessimo scegliere quel sistema.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. Lei ha posto moltissime questioni e non è facile rispondere a tutte. Certo, mi rendo conto che le cose che lei ha detto all'inizio sono tutte
profondamente vere. La proposta che ho delineato è una scommessa molto difficile, giocata sul filo dei modelli, cioè sul fatto che dovrebbe servire ad innescare un processo graduale e che qualcosa sulla linea di questo processo è già cominciato, perché evidentemente la situazione italiana dal 1994, dal punto di vista dell'aggregazione delle forze, è molto diversa da quella precedente e perciò una spinta verso la bipolarizzazione già esiste. Quelle che vanno superate sono le disomogeneità interne ai poli. Direi perciò che tutte le sue perplessità mi sembrano seriamente fondate, ma non mi tolgono la speranza che, volendo, la scommessa si può giocare.
Passando alle domande specifiche, inizio dal potere di scioglimento dopo la sfiducia costruttiva. Siamo forse ai confini dell'enormità, però vorrei dire che non inserirei in Costituzione una previsione specifica di questo tipo. Si dice che c'è un potere di scioglimento, il quale non ha limiti costituzionali. Sarà poi il sistema delle convenzioni a creare questi limiti e può darsi - è quello cui accennavo rispondendo prima - che di fatto lo sviluppo convenzionale del sistema porti ad introdurre, proprio in relazione agli equilibri sostanziali delle forze tra Assemblea e premier, un limite dell'uso dello scioglimento "di combattimento", cioè di uno scioglimento in contrasto con la maggioranza.
Non immaginerei una norma per la quale il Presidente del Consiglio può sciogliere anche dopo la sfiducia costruttiva; ha solo il potere di scioglimento e lo esercita in piena autonomia. Saranno poi le vicende del modello parlamentare a definire ulteriormente il quadro. In teoria, se ha un potere di scioglimento non limitato, potrebbe - io l'accennavo come ipotesi estrema - usarlo, in condizioni particolarissime, anche in quel caso.
Doppio turno fuori del modello semipresidenziale: credo che ai fini dell'aggregazione delle forze (se lo scopo è quello di favorire l'aggregazione e ridurre la frammentazione) il doppio turno funzioni in qualunque modello. Non vedo questa stretta ed esclusiva connessione fra doppio turno e semipresidenzialismo. Penso che il doppio turno, ai fini dell'accorpamento delle forze, possa funzionare anche in un modello neoparlamentare, proprio per le finalità di semplificazione per gradi del sistema.
Modello semipresidenziale francese e controfirma: credo che se si dovesse percorrere il modello del semipresidenzialismo francese sarebbe opportuno - anche qui mi riferisco ad una osservazione che mi sembra abbia già fatto Sartori - rispettarlo nella sua integrità, almeno sui punti chiave. E il potere di scioglimento è, secondo me, un punto chiave. Se il modello francese prevede un capo dello Stato che può sciogliere senza doversi servire della controfirma, la trasposizione di questo modello su questo punto la farei così com'è, evitando contaminazioni.
STEFANO PASSIGLI. Anch'io ringrazio il professor Cheli per l'esposizione fatta, molto lucida ed analitica ma anche molto problematica, che consente cioè al comitato di identificare bene alcuni problemi su cui, ricapitolandoli, vorrei una ulteriore opinione del professor Cheli.
I quattro modelli percorribili - così li ha definiti - da lui enunciati vanno in un ordine un po' diverso da quello in cui vengono normalmente messi lungo la scala dal modello parlamentare a quello presidenziale. Si inizia con il governo del premier, cancellierato, poi l'affermazione ripetuta più volte, che io condivido pienamente e sulla quale quindi non mi fermo, che un governo in cui il premier venga eletto direttamente è in realtà assai più vicino al modello del presidenzialismo puro di quanto non sia il semipresidenzialismo; quindi, premier eletto direttamente, ultimo nella scala disegnata da Cheli.
Quando poi si vanno a vedere questi quattro modelli, mi sembra che sostanzialmente Cheli abbia unificato l'ipotesi
del governo del premier all'inglese, cioè il modello Westminster, con il cancellierato: vi è poca differenza negli esiti e nel funzionamento reali, anche perché mi sembra che abbia previsto - rispondendo al collega Calderisi lo ha detto molto chiaramente - che anche in caso di uso del meccanismo della sfiducia costruttiva rimarrebbe in mano al premier designato la possibilità dell'appello al popolo, dello scioglimento; e quindi questo ridimensiona notevolmente l'istituto stesso della sfiducia costruttiva.
In realtà, le preferenze per il modello Westminster, così come l'ha disegnato il professor Cheli, comportano nel suo discorso - e su questo vorrei una verifica - alcuni passaggi che non sono di poco conto. Il professor Cheli ha insistito moltissimo sulla necessità che questo modello sia supportato da una legge elettorale adeguata. Se guardiamo al modello inglese, in esso un sistema non necessariamente bipartitico (anzi, dal punto di vista dell'espressione di volontà dell'elettorato, non bipartitico) è ricondotto, da una legge elettorale fortemente riduttiva a due, ad un modello sostanzialmente bipartitico. Nel caso inglese il sistema funziona ad un turno; nel caso italiano il professor Cheli sottolinea la necessità di un doppio turno, però indica che l'accesso al secondo turno deve essere tale da ricondurre l'esito ad una quadriglia bipolare; quindi con un forte intervento chirurgico della legge elettorale. Questo è il primo punto che vorrei sottolineare e rispetto al quale vorrei capire se il professor Cheli sia d'accordo.
Egli aggiunge poi un altro elemento determinante, quelli che lui chiama i meccanismi di stabilizzazione, ma mi sembra di capire che questi sono un potere molto forte del Governo in Parlamento, un potere quasi analogo a quello che la costituzione della 5^ Repubblica francese affida al Governo, un po' meno ghigliottina viene detto, ma sostanzialmente: fissazione dell'ordine del giorno, voto bloccato, tempi certi; insomma un pacchetto di interventi senza i quali (per carità, siamo ancora nel modello parlamentare) mi sembra di capire - ecco un'altra domanda - che il modello non funzionerebbe. Non è un'affermazione di poco conto dire che il modello di governo parlamentare in realtà si porta poi dietro una serie di meccanismi stabilizzanti, che ci fanno domandare se siamo ancora nell'ambito del modello parlamentare. Se si attribuisce al premier il potere di scioglimento, si è costretti a dire che o lo usa o è un deterrente che poi non viene utilizzato. La domanda allora è la seguente: se tale potere agisce da deterrente e non viene usato, ciò accade perché una coalizione di governo, sostanzialmente venuta meno, rimane in vita per il timore che esso venga utilizzato. Vorrei sottolineare che il punto da cui partivamo era l'efficienza, tant'è che nelle prime parole del suo intervento, il professor Cheli ha evidenziato l'esistenza di due punti fermi: il maggior peso dell'elettorato nella definizione dei futuri governi e governi stabili ed efficienti. Se un governo si regge perché l'esistenza di quel deterrente fa sì che non si arrivi allo scioglimento, anche in presenza di una maggioranza che è venuta meno, avendo eliminato tutte le possibilità che essa ha di trovare meccanismi di aggiustamento al suo interno (fiducia costruttiva, ruolo arbitrale della presidenza della Repubblica, meccanismi tradizionali del governo parlamentare con cui superare le crisi della maggioranza); se si dà al premier designato il potere di essere lui il padrone della sua maggioranza, non si scivola necessariamente o quasi inevitabilmente - mi domando - nel governo inefficace, con una maggioranza che è tale numericamente, ma che non riesce in Parlamento a far funzionare un governo?
Se sommiamo l'effetto deterrente del potere di scioglimento del premier, che può portare alla paralisi dell'attività di governo, alla cristallizzazione di una maggioranza inefficace e ad una legge elettorale che ridimensiona forzatamente in tempi molto brevi il sistema elettorale, non stiamo in realtà pensando ad un intervento sul nostro sistema assai più
forte di quello con il semipresidenzialismo francese potrebbe essere attuato nel nostro paese?
Infine, quando si sostiene che tutto sommato il sistema semipresidenziale funziona bene in sistemi coesi, ma non in quelli frammentati, a me non sembra che le cose stiano così. Infatti, proprio l'esempio francese dimostra che se tale sistema ha avuto un merito (ed è questo il motivo per cui alcuni di noi lo preferiscono), è stato quello di riuscire a rendere più coeso un sistema frammentato. L'elezione diretta del Presidente della Repubblica, anche con poteri limitati della presidenza, ha un effetto aggregante a livello di sistema dei partiti sicuramente meno traumatico di una legge elettorale che riconduca un sistema di multipartitismo al funzionamento di un sistema bipartitico come quello che il professor Cheli è costretto ad ipotizzare per far funzionare il modello Westminster nel caso italiano.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. Mi sembra che l'onorevole Passigli formuli sostanzialmente l'osservazione di fondo che con questi meccanismi di stabilizzazione, di intervento chirurgico sulla materia elettorale, siamo più vicini al semipresidenzialismo che al neoparlamentarismo. Si chiede allora qual sia il motivo per cui non si compie il passo conseguente. Credo che la differenza di fondo permanga proprio nella costruzione del congegno di vertice (capo dello Stato, Presidente del Consiglio), anche se sul versante parlamentare credo che l'onorevole Passigli abbia ragione. I poteri che indicavo circa la presenza del premier in Parlamento sono in realtà molto simili a quelli della quinta repubblica francese.
Per quanto riguarda la legge elettorale, questo è il discorso più difficile, dove si gioca la partita, che può riuscire in quanto vi sia il coraggio di approvare una legge che determinerà, in partenza, un forte livello di sofferenza. Ho accentuato e ripetuto l'aspetto della gradualità, anche se poi non saprei specificare meglio cosa essa significhi. In altri termini, vuol dire che si parte da certi livelli di riduzione della quota proporzionale e poi strada facendo si aumenta la quota maggioritaria. I meccanismi possono essere vari, ma è certo che tutta la partita si gioca se si ha il coraggio di intervenire con una legge elettorale molto incisiva.
Per quanto concerne l'osservazione che l'eccesso di stabilizzazione può determinare inefficacia, ritengo tale osservazione molto acuta ed anche molto vera. L'eccesso di stabilizzazione, infatti, può determinare la sopravvivenza di governi inefficaci, ma nel modello che ho provato a delineare il primo ministro dispone anche di strumenti organizzativi che incidono sull'efficacia e sul rafforzamento della sua presenza in Parlamento.
Ho l'impressione che nell'equilibrio complessivo del sistema, se vi fossero solo meccanismi di stabilizzazione, la critica dell'onorevole Passigli sarebbe fondata ed insuperabile. Giocando invece in un sistema in cui sono presenti più elementi di stabilizzazione, ma anche di rafforzamento dell'efficienza, il rischio di far sopravvivere "governi mummia", che non sarebbero in grado di governare, mi sembra attenuato. Il primo ministro, finché rimane stabilizzato nelle sue funzioni, ha anche gli strumenti, se vuole intervenire, per poter operare.
VALDO SPINI. Il professor Cheli ha esposto in maniera molto nitida e profonda i problemi presenti in un modello neoparlamentare applicato ad una situazione frammentata come quella italiana. A questo punto però converrebbe fare un passo indietro e chiarire se esista o meno una differenza filosofica tra l'ipotesi del premier e quella dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica in un sistema semipresidenziale alla francese. Non dobbiamo nasconderci che una filosofia sottolinea soprattutto il ruolo del capo della maggioranza, ossia del premier, che ha un
ruolo diverso, secondo una gamma di soluzioni su cui mi intratterrò fra breve. L'altra filosofia vede certamente un Presidente della Repubblica eletto a maggioranza, ma l'elemento di confronto parlamentare è il primo ministro, che nel caso della coabitazione è sublimato; tuttavia, pure nel caso della coincidenza di coalizioni tra Presidente della Repubblica e primo ministro, quest'ultimo tende ad assumere anche il ruolo di unità nazionale e di garanzia politica superiore a quello della maggioranza, perché in Parlamento lo scontro di prima linea tra maggioranza ed opposizione è affidato al primo ministro. Poiché non abbiamo mai voluto parlare in astratto di una Costituzione ottima, anche nell'audizione in cui abbiamo ascoltato il professor Sartori, ma abbiamo preferito riferirci ad una situazione storica concreta come quella italiana, mi chiedo se effettivamente nella nostra realtà vi sia in qualche modo bisogno più che di sottolineare esclusivamente il ruolo del capo della maggioranza, di evidenziare quello del Presidente della Repubblica come momento, certamente di eletta maggioranza, ma anche di rappresentante dell'unità nazionale, di una certa coesione, di un certo tribunale di secondo appello rispetto al primo ministro.
Vengo ora all'esame delle soluzioni prefigurate dal professor Cheli, se scegliamo l'ipotesi del primo ministro e del capo della maggioranza. Essendo favorevole ai sistemi semplici, dico quanto penso con molta franchezza. Ho pronunciato anche qualche battuta latina che mi si è ritorta contro e quindi eviterò di ripeterle oggi. Ritengo che se in Italia si arriverà al modello Westminster bisognerà effettuare un'operazione chirurgica, ossia abolire la quota proporzionale, perché questo è il modello Westminster. Dopo tale operazione non vi è bisogno di ingessare il sistema con l'affidamento del potere di scioglimento delle Camere al primo ministro, che non sono in grado...
SERGIO MATTARELLA. Vorrei che il collega Spini chiarisse il suo assioma. Ha detto che il modello Westminster non può funzionare senza la cancellazione della quota proporzionale: vorrei capire perché.
VALDO SPINI. Ci arrivo. Quello che dici è giusto, Mattarella. Anzi, ti ringrazio per questa interruzione. Intendevo dire che altrimenti si è costretti ad operare cose che mi sembrano forzature. Non sono all'altezza del professor Cheli per discettare con lui dal punto di vista costituzionale, ma qualche esempio storico lo posso fare. Berlusconi non avrebbe utilizzato il potere di scioglimento quando la lega è uscita dalla maggioranza? Craxi non avrebbe usato il potere di scioglimento nel 1987, quando si formò poi il monocolore Fanfani? Mi sembrano momenti storici in cui il premier avrebbe utilizzato il potere di scioglimento. Perché dietro il potere di scioglimento c'è anche un piccolo fatto politico concreto...
CIRIACO DE MITA. L'esempio di Craxi lo devi fare per intero: se avesse avuto il potere di scioglimento, non sarebbe diventato Presidente!
VALDO SPINI. Questo lo avevo pensato.
STEFANO PASSIGLI. Mi sembra di capire che voteremmo continuamente.
VALDO SPINI. Devo contestare l'architettura di quest'aula. Mi dispiace, infatti, onorevole De Mita, polemizzare con qualcuno alle mie spalle: se mi giro, la mia voce non si sente; se parlo al microfono, do purtroppo le spalle al mio interlocutore.
Non c'è dubbio, peraltro, che l'onorevole De Mita a questo punto ha consegnato al resoconto stenografico dei nostri lavori, e quindi ad una prova storica acclarata, quello che tutti più o meno pensavano, e cioè che aveva dato la Presidenza del Consiglio a Craxi puntando su una staffetta che poi non si è verificata. Ma questo vale per la storia, non per il futuro. Dietro il discorso dello scioglimento c'è anche un piccolo fatto concreto: il Governo che gestisce le elezioni. Ecco
allora che, molto probabilmente, in alcune situazioni il premier ha interesse ad affrontare direttamente lo scontro elettorale e vedere che cosa ne può ricavare.
Per non far perdere il filo, vorrei riallacciarmi a quanto dicevo all'inizio con riferimento all'obiezione di Mattarella. Se caliamo il modello Westminster in una situazione di estrema frammentazione partitica, si è costretti poi a dotare il premier di poteri che vanno al di là di quelli che probabilmente noi stessi desidereremmo; poteri che invece non dobbiamo dargli se arriviamo alla semplice abolizione della quota proporzionale. In questa situazione, evidentemente, è molto naturale che premier e capo del partito maggiore si identifichino; al punto che se poi il partito maggiore cambia leader, cambia anche premier. Diversi sono gli esempi che si possono fare: da Edward Heath alla signora Thatcher, e ancora ricordo Anthony Eden, Harold Mc Millan, Alexander Douglas Home. Non voglio perdere tempo a fare altri esempi, ma ne potrei citare altri.
Io ritengo che questa esposizione ci dimostri che, se si vuole seguire un sistema, a questo punto bisogna essere coerenti fino in fondo: occorre abolire la quota proporzionale e arrivare a un bipartitismo, non obbligatorio ma dei due partiti che di fatto poi conterebbero più degli altri (ferme restando naturalmente le realtà regionali).
Al riguardo vorrei fare una domanda concreta. L'indicazione del premier, che è una delle proposte per rafforzare il premierato, porterebbe o meno, secondo il professor Cheli, all'abolizione o alla modifica dell'articolo 67 della Costituzione secondo cui ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato? Se adottassimo cioè l'ipotesi dell'indicazione preventiva, dovremmo poi per coerenza anche abolire o modificare questo articolo della Costituzione?
Faccio altre due domande e concludo perché, senza volerlo, mi sono dilungato più del previsto dal momento che vi sono state varie interruzioni.
Nell'esposizione del professor Cheli (e non poteva non essere così) è mancato un riferimento al problema del bicameralismo. Forse non sarebbe male se completasse il suo quadro anche dicendo che cosa pensa del bicameralismo in un contesto del genere.
E veniamo, infine, al ruolo del Presidente della Repubblica in un sistema di premierato così pronunciato. Il Presidente della Repubblica non nomina più il premier, non scioglie, se non in certi casi, il Parlamento. Verrebbe voglia di chiedere (ma non è al professor Cheli che ciò va chiesto) quante spese potremmo risparmiare riducendo sostanzialmente il Quirinale a pochi uffici. La domanda che vorrei rivolgere è a quale Presidente della Repubblica in Europa (visto che non si può fare l'esempio inglese, dal momento che in Inghilterra c'è la monarchia) assomiglierebbe quello italiano. Forse a quello tedesco o ad altri: mi sembra una domanda interessante.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. Sono pienamente d'accordo con l'onorevole Spini sul fatto che le filosofie che stanno alla base dei due modelli sono diverse e tutto sommato non ibridabili, non componibili. Per quello che riguarda l'osservazione ultima, che però era stata fatta anche all'inizio, devo dire che nel modello Westminster il capo dello Stato non sparisce e non diventa nemmeno un personaggio decorativo: cambia la qualità dei suoi poteri, ma - ripeto - non sparisce. Quando si dice che il presidente perde poteri di indirizzo e perde quello di scioglimento, ma aumenta la qualità dei poteri di garanzia, non si azzera questa figura né la si rende meramente decorativa. Certamente rimane un presidente che ha una posizione significativa nel sistema; e sul terreno delle garanzie alcuni poteri possono essere anche rafforzati. Al riguardo vorrei accennare all'ipotesi dell'impugnativa diretta dinanzi alla Corte costituzionale per
valorizzare il raccordo garantistico Presidente-Corte.
Per quel che riguarda la legge elettorale secondo il modello Westminster, certo l'affermazione dell'onorevole Spini è dura ma forse è vera: se si vuole perseguire quel modello, il problema è proprio la quota proporzionale. Credo cioè che abbia ragione l'onorevole Spini quando dice che per perseguire il modello Westminster c'è una soluzione molto secca, netta e chiara, cioè eliminare la quota proporzionale. Se vogliamo perseguire integralmente quel modello, evidentemente si tratta di un passaggio obbligato.
Tutta l'indicazione del modello che io ho dato è giocata sul gradualismo e sul doppio percorso, cioè in tanto si aumentano i poteri del premier in quanto si riduce il grado di frammentazione alla base. Sono percorsi che dovrebbero confluire ma su binari diversi. Io penso che questo potrebbe giustificare una riforma elettorale che non fosse immediatamente puntata sulla drasticità del modello inglese, ma che appunto graduasse nel tempo questo passaggio.
Per quel che riguarda l'articolo 67 della Costituzione, da tempo i costituzionalisti, affermano che si tratta di una norma superata. Comunque, una volta costruito un modello del genere, con il meccanismo della designazione e del collegamento, l'articolo 67 dovrebbe essere sicuramente modificato, perché su un punto almeno il parlamentare avrebbe un vincolo di mandato.
PAOLO ARMAROLI. Presidente, devo delle scuse all'amico e collega Cheli e, visto che sono qui presenti oltre che colleghi senatori anche deputati, forse è il caso che io motivi le mie scuse. Mi sono dovuto assentare perché in aula è accaduta una cosa ben strana. La Conferenza dei capigruppo aveva deciso che oggi pomeriggio fosse avviata la discussione del disegno di legge "Bassanini 2", quello recante la semplificazione amministrativa, che poi ha rischiato di diventare, come provvedimento omnibus, la complicazione amministrativa. Stamattina era intervenuto un accordo del tutto pacifico fra il ministro Bogi, il ministro Bassanini, la maggioranza e l'opposizione (tutte le opposizioni) perché si svolgessero le relazioni, quella di maggioranza e le due di minoranza, anche perché noi abbiamo predisposto una pregiudiziale di costituzionalità che avremmo presentato per correttezza soltanto dopo lo svolgimento delle relazioni. A questo punto è accaduto che il Presidente di turno, onorevole Petrini, per incarico del Presidente Violante, ha sostenuto che, siccome la Conferenza dei presidenti di gruppo aveva deciso di andare avanti ad oltranza, si sarebbe appunto andati avanti ad oltranza. Dico questo anche per cultura personale del professor Cheli. Vi è stata una votazione unanime: tutti quanti, dall'estrema sinistra a destra, hanno votato nello stesso modo, a favore della sospensione. Poiché ero firmatario della questione pregiudiziale di costituzionalità mi sono dovuto precipitare in aula. Mi scuso Mi scuso, quindi, per non aver potuto ascoltare tutta la relazione del professor Cheli.
Con un gioco di parole potrei dire che la forma di governo neoparlamentare ha un neo che è parlamentare, e come anche la donna più bella del mondo non può dare più di quello che ha, mi pare che in questi cento anni e passa di vita unitaria tutto ciò che poteva dare il sistema parlamentare lo ha dato. Non a caso, infatti, siamo ansiosi di novità.
Un altro passaggio mi ha colpito, perché mi riporta indietro di molti anni, cioè alla prima Commissione bicamerale presieduta da Aldo Bozzi, il quale ammoniva a tener presente la specificità del caso italiano. Si è visto, però, come finì quella Commissione: se si sottolinea troppo la specificità del caso italiano non si fa un passo avanti.
In effetti, dal punto di vista istituzionale noi siamo stati sempre tributari della Francia sia nel 1848 sia un secolo più tardi. D'altra parte, se si fosse applicato nel 1958 lo stesso criterio e lo stesso metro per la Francia, cioè la specificità del caso francese riferendoci alla 3^
Repubblica, le cose sarebbero andate diversamente. Infatti, possiamo dire che in Francia c'è stato sempre un sistema vagamente assemblearistico, salvo nel 1948, con la 2^ Repubblica francese modulata un po' all'americana (allora non si parlava di forme di governo), cioè una forma di governo presidenziale o similpresidenziale.
Passo adesso ai quattro modelli ai quali faceva riferimento anche il collega Spini. Per quanto riguarda il modello Westminster, il professor Cheli dice che occorrerebbero due correttivi: una cura da cavallo - per così dire -, cioè una legge elettorale rigidamente maggioritaria (il professor Cheli è per il doppio turno); regole tali per cui il governo in Parlamento possa essere stabile ed efficiente al tempo stesso. Ma ne siamo sicuri, considerato che la differenza tra i sistemi presidenziali e i sistemi parlamentari sta nel fatto che i primi hanno un'efficacia sul sistema di partito inversamente proporzionale a quella dei sistemi parlamentari sul sistema di partito? Mi spiego (ormai penso che si possa parlare di legge): i sistemi presidenziali tendono a modificare il sistema di partito, mentre nei sistemi parlamentari è il sistema parlamentare che si adagia al sistema di partito, altrimenti dovremmo dire che avremmo forme di governo parlamentari uguali in Inghilterra, in Francia, in Germania, mentre così non è, perché è il sistema di partito che aggredisce la forma di governo.
Allora, se è così, siamo sicuri che il solo sistema elettorale, sia pure con una cura da cavallo - chiamiamola come vogliamo - ci porterebbe a Westminster? Si potrebbe anche ipotizzare che ci porterebbe ad una serie di partiti non molto ridotta rispetto a quella attuale, se si agisse soltanto sulla legge elettorale e non anche sulla forma di governo.
Per quanto riguarda il cancellierato, si può dire, mutatis mutandis, la stessa cosa: non possiamo fare le cosiddette nozze con i fichi secchi perché ci manca il materiale; infatti, non abbiamo un sistema bipartitico o tendenzialmente bipartitico o quasi bipartitico come l'Inghilterra e la Germania, per cui questi due sistemi non farebbero al caso nostro.
A proposito, invece, del terzo modello del professor Cheli, cioè quello israeliano, credo che su di esso le maggiori preoccupazioni le dovrebbero esprimere certi colleghi della sinistra - non tutti - che temono il rischio, vero o presunto, di una cosiddetta deriva plebiscitaria, se cioè soltanto il presidente del consiglio, il capo del governo è titolare assoluto dell'indirizzo politico. Questo è tanto vero che l'onorevole D'Alema, quando si è parlato del modello israeliano e dintorni si è un po' arrampicato sugli specchi per rimpolpare le funzioni del Capo dello Stato, perché verrebbero meno le funzioni tradizionali, tant'è che ha parlato di capo della magistratura, per esempio, nonostante già oggi il Presidente della Repubblica presieda il Consiglio superiore della magistratura. Questo per dire, senza farne una colpa al presidente D'Alema, che è difficile rimpolpare le funzioni del Capo dello Stato. Quindi, il pericolo di deriva plebiscitaria vi è, semmai, nel sistema neoparlamentare e non nel sistema semipresidenziale, che presenta molti vantaggi: quello di un esecutivo bicefalo; il fatto che incide sul sistema di partito, quindi concorre, assieme al sistema elettorale, a quel bipolarismo ordinato che ci manca; può poi funzionare sia come sistema semipresidenziale sia come sistema semiparlamentare, per cui potrebbe anche accontentare coloro che sono ancora fautori del parlamentarismo con o senza neo.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Univeristà di Firenze. Vorrei solo dire che l'esigenza di semplificazione del sistema e di riduzione della frammentazione supera la scelta del modello; è un'esigenza pregiudiziale. Qualunque sia il modello che si adotti bisogna percorrere questa strada. Si tratta di vedere quali sono gli strumenti più appropriati per percorrerla.
Non credo che le trasformazioni del sistema dei partiti possano derivare, in presa diretta, dall'adozione dei modelli di forma di governo. Le trasformazioni del sistema dei partiti derivano dalle leggi
elettorali, indipendentemente dal fatto che le forme di governo convergano nel risultato. Posso sbagliare ma, a mio avviso, la possibilità di modificare un sistema, di trasformare una base sociale frammentata e disomogenea in una base sociale più aggregata e di avviare percorsi verso maggiori omogeneità, si gioca tutta sul terreno della legge elettorale e non della forma di governo.
Per quanto riguarda l'elezione diretta del premier, ho detto che mi sentivo molto lontano da questa ipotesi, molto più lontano di quanto non mi possa sentire dal semipresidenzialismo. Non ho parlato di deriva plebiscitaria, non ho accennato a questo né lo penso. Mi sembra un modello assolutamente inadatto alla nostra situazione: in primo luogo perché è un modello che ancora non ha avuto un collaudo che possa darci qualche indicazione di affidabilità sul suo funzionamento, per cui vorrei, quanto meno, una verifica più prolungata del suo funzionamento; in secondo luogo, l'elemento di rischio di questo modello lo vedo non nella deriva plebiscitaria ma nell'eccesso di rigidità. Tra i quattro modelli praticabili di cui si diceva, mi sembra che questo abbia il grado di rigidità più elevato. È questa la ragione per cui lo ritengo il meno praticabile, cioè per un aspetto di rigidità, non per un aspetto di deriva plebiscitaria.
GIORGIO REBUFFA. Spero di riuscire ad essere preciso nelle domande che intendo rivolgere al professor Cheli.
Intanto esprimo un'opinione: mi pare che il modello da lui presentato sia - anche se forse non tutti lo abbiamo rilevato - una delle più eleganti costruzioni del cosiddetto modello del premier; tuttavia, proprio per la sua eleganza, l'ho trovato una specie di "ultima spiaggia", per usare un'espressione banale, nel senso che al di là di esso non si può andare.
La premessa del funzionamento del modello - e cioè del raggiungimento degli obiettivi che sono stati indicati - è una legge elettorale. La domanda è banalissima: chi oggi ha la forza di approvare una legge elettorale - che, come lei stesso ha detto, è dolorosa - per trasformare la fisionomia del sistema politico? Non dimentichiamo che lo stesso De Gaulle, come sappiamo, sul sistema elettorale negoziò.
C'è poi un altro elemento, sempre connesso al sistema elettorale. Non sono così convinto (ma siamo nel crepuscolo della probabilità) che il sistema elettorale in sé sia un elemento di semplificazione del sistema politico. La prima ragione di questa convinzione è che - a parte l'esempio luminoso della 4^ Repubblica francese, che solo in alcune fasi ha avuto un sistema elettorale a doppio turno, e, ancora meglio, della 3^ Repubblica - c'è l'esempio del primo regno d'Italia, visto che non è escluso che si arrivi al secondo (lo dico per affetto nei confronti di Fisichella). Quel regno aveva un sistema elettorale maggioritario a doppio turno che portò dritto dritto al trasformismo; lo Stato liberale resse in Italia perché c'era un sistema censitario, mediante il quale il trasformismo dell'Assemblea poteva essere governato dal Presidente del Consiglio con i prefetti. In caso contrario, avremmo conosciuto lo stesso fenomeno.
L'altra ragione della mia convinzione è che è vero tutto quanto dice il professor Cheli sugli obiettivi, ma è anche vero che noi abbiamo un altro problema, oltre a quello della frammentazione del sistema politico: mi riferisco alla disciplina di coalizione. Se non leggo male la nostra storia parlamentare, mi sembra che il problema sia derivato dal fatto che la caduta dei governi è stato un fenomeno interno alle coalizioni. I cittadini italiani hanno votato sempre sapendo quale sarebbe stata la coalizione che avrebbe governato; nonostante ciò, c'è stata un'assoluta instabilità.
La seconda domanda riguarda i poteri del premier, che nel disegno di Cheli sono forti. Lascio da parte l'adeguamento della legge n. 400 sulla Presidenza del Consiglio perché è evidente che una flessibilità di questo genere - che a me piace molto - avrebbe bisogno di una forza politica che forse, e solo parzialmente, esistette solo
nel momento in cui quella legge fu approvata. Ma il punto centrale è il potere di scioglimento: o questo potere è puramente formale, per cui non sarà mai utilizzato (ed è probabile che sia così: parlando in modo un po' atecnico, potrei dire che se lo utilizzasse il premier sfiduciato potrebbe finire in qualche cimitero degli elefanti, per cui non lo userebbe e il potere di scioglimento rimarrebbe puramente ornamentale), oppure viene utilizzato. In tal caso, ricordo che il nesso da cui deriva l'esercizio del potere di scioglimento nel sistema parlamentare inglese è la responsabilità del primo ministro di fronte agli elettori.
Non sono d'accordo con la lettura storica che Cheli ha fatto del Governo di gabinetto, ma non è un problema. So soltanto che gli scrittori inglesi hanno sempre considerato l'elezione del Parlamento anche come un'investitura plebiscitaria per il primo ministro, proprio per la chiarezza derivante dall'identificazione tra quest'ultimo ed il leader. Come si può allora prevedere nel sistema un potere così forte come quello di scioglimento senza controbilanciarlo con la responsabilità politica di fronte agli elettori che si attua nelle elezioni? Il sistema inglese la prevede perché contempla il meccanismo di fatto, per la sua storia.
Nel mio foro interno avevo sempre nutrito qualche perplessità sul modello francese. Devo dire che le argomentazioni di Sartori (le ricordo perché ovviamente nel resoconto stenografico esse non possono essere state esplicitate bene) mi hanno convinto su un punto, cioè che il sistema francese è davvero flessibile, perché ha una doppia rete di sicurezza. Se tutto va bene, il Presidente eletto è responsabile davanti agli elettori; se questi ultimi cambiano opinione, c'è l'altra rete, rappresentata sostanzialmente dall'investitura elettorale del primo ministro.
Se così è, mi pare che le perplessità e gli appunti molto seri sollevati dal professor Cheli, in una relazione che ho trovato eccellente soprattutto per l'onesta problematicità che esprimeva, ci inducano a considerare con più attenzione le modifiche da effettuarsi nonché la maggiore flessibilità di un altro modello (che possiamo chiamare come vogliamo perché non dobbiamo turbarci: siamo tutti anime belle).
Da ultimo, volevo chiedere al professor Cheli se non ci sia il rischio - soprattutto non avendo presente chiaramente la forma di Stato che adotteremo - che, magari con il passare del tempo, si innesti una modifica tale da portarci ad un meccanismo costituito da un premier indicato, meccanismo che poi slitti verso la scelta del Presidente della Repubblica da parte di un collegio che si allarga, dando luogo sostanzialmente ad un'elezione diretta. In altre parole, avrei orrore di un sistema che preveda un premier indicato forte ed un Presidente della Repubblica non fortissimo, ma eletto.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. L'onorevole Rebuffa ha parlato di un modello da ultima spiaggia: posso dire che, nel quadro dei modelli neoparlamentari, certamente è un modello-limite, oltre il quale c'è il "salto di corsia", per così dire.
Per quanto riguarda la legge elettorale ed il dubbio relativo a chi abbia la forza di modificarla, questo è un problema...
GIORGIO REBUFFA. È un problema nostro!
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. Diciamo che in generale tutte le riforme sono dolorose e non solo quelle elettorali. Una riforma costituzionale di dimensioni come quelle che si stanno delineando certamente determinerà una redistribuzione di poteri tale e su tali livelli che i dolori saranno moltissimi: come c'è il coraggio - se c'è - di varare una riforma di questa importanza, penso ci dovrebbe essere anche quello di toccare la legge elettorale, se ci si convince che quello è il tassello senza il quale qualunque riforma costituzionale, almeno per quanto riguarda la forma di Governo, non è vitale.
Quanto alla disciplina delle coalizioni, è verissimo che questo è un problema: ma non si tratta forse di un riflesso della frammentazione? Non è un problema aggiunto; il problema delle coalizioni è l'effetto della frammentazione.
Ultima questione: cosa accade se si costruisce una figura di premierato così potente ed invece tutto rimane indistinto - se ho capito bene - a livello di elezione del Capo dello Stato perché non si riforma la forma di Stato. Questo mi pare evidente. Un modello come quello proposto ha un senso se si tiene con gli altri pezzi del disegno. Qualcuno prima accennava al bicameralismo, di cui non ho parlato anche perché non ho svolto una riflessione particolare in attesa di vedere gli orientamenti che su questo tema maturerà la Commissione. Ma l'obiezione mossa dall'onorevole Rebuffa mi pare giustissima: o il disegno viene costruito tutto d'un pezzo, cioè la forma di governo così delineata si salda alla riforma della forma di Stato, oppure non avrebbe senso. Si introdurrebbero infatti elementi di forte squilibrio ove si concentrasse tutto il potere nel ruolo del premier e si lasciassero poi immodificate le zone circostanti.
ARMANDO COSSUTTA. Rivolgerò solo tre domande al professor Cheli, che ringrazio per la sua chiarissima esposizione.
Innanzitutto, chiedo come evitare, come ridurre la frammentazione, la proliferazione delle forze politiche in Parlamento, e se egli non ritenga, riflettendo attentamente sull'esperienza, che la causa principale della proliferazione attuale sia il sistema uninominale maggioritario. È questo sistema che già oggi e sempre di più porterà alla proliferazione delle forze presenti nel Parlamento. Infatti, trattandosi di un collegio uninominale maggioritario si vince per un voto soltanto di differenza, per cui anche il partito o la persona che porta con sé poche decine o poche centinaia di voti diventa indispensabile ad uno dei poli contendenti e quindi, con i propri voti, determina la vittoria di questo o di quello schieramento, ma dopo, finite elezioni, la sua presenza in Parlamento torna a manifestarsi autonomamente.
Con il sistema uninominale maggioritario (parlo in astratto, se si vuole, in modo teorico, di scuola) potremmo avere decine e decine di posizioni politiche. Infatti, chi è eletto direttamente in un collegio uninominale si sente rappresentante autonomo di quel collegio, di quelle popolazioni, di quegli interessi. Siamo arrivati al paradosso che per la legge che conteneva errori macroscopici sul finanziamento dei partiti sono sorti, se non erro, 44 pretendenti, che sono non solo pretendenti ma anche aventi diritto ad una quota di finanziamento dei partiti. Non è meglio, allora, per evitare la proliferazione, seguire la via di una forte quota proporzionale con uno sbarramento del 5 per cento? Questo consente una compattezza di presenze ed un limite di presenze: sono forze politiche espressione di partiti ed attualmente, se andiamo a guardare realisticamente, sono 6, 7 o 8 i partiti possibili.
Secondo quesito. È necessario garantire il massimo di stabilità, ed io sono pienamente d'accordo, ma il professor Cheli non è convinto (io ho questa opinione) che, in luogo della pretesa di poter garantire la stabilità attraverso la supremazia di un polo rispetto ad un altro (naturalmente con il diritto di alternanza, intendiamoci, che è una delle norme elementari della vita democratica), con dei poli che finiscono per essere tra di loro non compatti, artificiosi, dei poli che, quale che possa essere il rimedio sia sul piano elettorale sia su quello istituzionale, finirebbero inevitabilmente, anche in avvenire, per essere meno omogenei di quanto non lo siano stati in questi ultimi anni (e viceversa si sono viste e si vedono le forti discrepanze), sia preferibile una strada diversa, quella seguita per le elezioni delle regioni, che garantisca allo schieramento vincente un premio di maggioranza con il quale si abbia la garanzia della stabilità di Governo? Le regioni italiane finalmente non hanno sintomi di crisi, mentre nel passato ne avevano una successiva all'altra. Io non sono certo
all'altezza della conoscenza e della competenza dell'illustre, carissimo professor Cheli, ma per quello che si può capire e conoscere, persino in Francia si sta studiando seriamente la possibilità di avvicinarsi ad un sistema analogo a quello che abbiamo adottato per le elezioni regionali.
Terza ed ultima questione. Si ritiene possibile la stabilità senza una reale rappresentatività? O si pensa che la stabilità possa essere garantita nelle istituzioni se non è garantita anche nel paese, nella società? Una reale rappresentatività, non frammentaria, corrisponde ad un'analisi, anche la più elementare, della reale storia delle forze sociali, culturali, politiche del nostro paese. Non solo le forze che da oltre mezzo secolo competono e la cui presenza è ineliminabile: il grande mondo cattolico, la forza laico-democratica, la destra, la sinistra; queste sono componenti che da mezzo secolo caratterizzano la vita politica italiana. Ad esse oggi si aggiungono altre componenti, altrettanto moderne ed attuali: le forme più o meno spiccate di federalismo (dovremmo abituarci a convivere - o a contrastarle, per chi intenda contrastarle - con le tendenze non solo federaliste, ma peggio, come sono oggi espresse dalla lega nord, perché sono una componente della società nazionale), o quelle, modernissime in Italia e in Europa, dell'ambientalismo. Si può pensare di ridurre ad unum queste componenti, queste tendenze? O viceversa, non è forse vero, come io penso, che in fondo con questi progetti, con alcuni progetti si vuole espungere dalle istituzioni il conflitto che è dentro la società? Il conflitto è la spinta della storia; senza conflitto la storia non avanza, non c'è sviluppo: è la storia dei secoli che ce lo dice, è la storia moderna. Non si può pensare di fare a meno del conflitto. Stasi vuol dire stagnazione. La cosiddetta normalità è paralisi, è stagnazione (intendo riferirmi al conflitto ideale, al conflitto politico, al conflitto sociale). E non si pensa che, nel momento in cui lo si espunge dalle istituzioni, esso diventerebbe più acuto nella società, senza avere quella possibilità di sbocchi che consente il regolare andamento di una battaglia democratica, con tutti i rischi per la stessa stabilità del paese?
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. Mi sembra che l'onorevole Cossutta abbia posto questioni di grandissimo spessore, alle quali non è semplice dare risposta. Devo dire che per alcuni aspetti mi trovo in imbarazzo nel rispondere, perché consento largamente sul tipo di analisi che egli ha svolto sui tre punti mentre dissento largamente sul tipo di soluzione; ma, ripeto, per quanto riguarda le analisi ritengo di consentire su molti passaggi.
Sul fatto che il sistema uninominale abbia incentivato la frammentazione, è vero, ma questo perché il meccanismo che è stato introdotto è rimasto a metà strada, è rimasto incompleto. Mi pare che la via d'uscita alla frammentazione che si è aggravata possa essere non quella di retrocedere sulla proporzionale con una quota di sbarramento, ma quella di andare avanti sul doppio turno. Non vedo altri passaggi che questo.
Per quel che riguarda la possibilità di utilizzare il modello delle elezioni regionali, è un problema di scelta; è un modello che può essere utilizzato, ma non so se funzionerebbe a livello nazionale, a livello di forma di governo nazionale. Ripeto, è un modello sensato che potrebbe essere utilizzato, si tratterà di valutarlo ed eventualmente di effettuare delle prove.
Si può garantire stabilità senza rappresentatività? È un interrogativo fondamentale che copre un arco di secoli. Sarei portato a rispondere affermativamente, in società omogenee. In queste si può ridurre la rappresentatività per aumentare la stabilità, è un'operazione che normalmente compiono le società omogenee. Nelle società disomogenee la riduzione della rappresentatività mette in crisi la stabilità, aumenta l'instabilità. La partita che si sta giocando oggi in Italia è sull'analisi da cui si parte: l'Italia è una società omogenea o disomogenea? Quando si è imboccata la strada del maggioritario, è stata eseguita
un'analisi di passaggio dalla disomogeneità alla omogeneità, altrimenti non si sarebbe intrapreso quel cammino. Diversamente bisognerebbe dire che tutto quanto è accaduto in questi quattro anni è sbagliato; se la premessa che ieri ci ha spinto ad adottare un maggioritario e che oggi ci porta a varare una riforma istituzionale giocata sulla stabilità e sullo sviluppo del principio maggioritario fosse sbagliata, nel senso che il nostro è un paese profondamente disomogeneo per cui più si riduce la rappresentatività, più si aumenta l'instabilità, bisognerebbe dire - ripeto - che quanto è accaduto nel nostro paese negli ultimi quattro anni è un madornale errore. E l'errore più grave sarebbe quello che si sta giocando in questa partita di riforma costituzionale.
Sul punto sarei però più ottimista, nel senso che non credo che il paese si sia sbagliato nell'imboccare la strada individuata nel 1993 e nel percorrere il cammino di oggi, ma questo tipo di riforma è giocata sul fatto che il paese ha raggiunto sufficienti livelli di omogeneità per sopportare una riforma maggioritaria.
LEOPOLDO ELIA. Prima di rivolgere alcune domande all'amico Cheli, debbo dire che malgrado la problematicità della sua relazione, ha espresso chiaramente una preferenza basata sulla maggiore rigidità del sistema alternativo, ossia quello francese. Sgombriamo il campo dalle osservazioni sul sistema elettorale: a Rebuffa chiedo come si fa a paragonare il primo regno d'Italia con l'uninominale ad un sistema in cui non vi era disciplina di voto in Parlamento, né vi erano partiti di massa e via dicendo. È un paragone che non possiamo permetterci, così come non si può condividere il discorso di Armaroli secondo il quale il sistema neoparlamentare si adagia nello schieramento di frammentazione esistente, senza semplificarlo. Questo non è esatto, perché il sistema parlamentare inglese tra le due guerre con l'uninominale ha semplificato potentemente lo schieramento inglese, eliminando il terzo partito.
Non è il sistema neoparlamentare ad adagiarsi, dipende dai meccanismi elettorali, come ha affermato il professor Cheli. Non vi è una fissità che deriva dal sistema neoparlamentare; ci può essere una situazione di difficoltà derivante dal funzionamento in un certo contesto, ma gli inglesi hanno superato il possibile eccesso di pluralismo.
A parte questo, vorrei dire a Cossutta che il sistema tedesco non è riducibile al 5 per cento di sbarramento (e il resto è proporzionale): sì, il calcolo finale è proporzionale, ma si giova profondamente, per unificare anche psicologicamente i risultati, di una metà di seggi assegnati con l'uninominale.
Perché è più rigido il sistema francese rispetto a quello attuale? Perché la preferenza è in parte giustificata dal paragone con il sistema alternativo? È più rigido perché il presidente può rimanere con una maggioranza per tutto il settennato (come ha insegnato il periodo di Giscard d'Estaing, se non di De Gaulle) e il perpetuarsi del potere è il massimo della rigidità; sarebbe come fissare la storia di un paese nel giorno in cui si è svolta l'elezione, se vi è continuità di potere presidenziale nel settennato. Tutto si gioca in relazione al giorno dell'investitura e si costruisce una democrazia tutta d'investitura e quasi niente di partecipazione.
Se invece vi è coabitazione, l'oscillazione rompe la rigidità, ma crea l'impossibilità di un ciclo di governo responsabile, come avviene nel sistema neoparlamentare a primo ministro. Il presidente non è responsabile per la mancata attuazione del suo programma, in quanto il popolo ha cambiato idea (e lui non è responsabile perché il suo programma non è stato realizzato), ma nemmeno il Balladur o lo Chirac di turno in due anni possono essere responsabili, in quanto
hanno avuto a disposizione un periodo troppo breve. Quindi, dalla maggiore rigidità che è la regola - quarant'anni contro quattro - si passa, con quella metamorfosi che sconcerterebbe un corpo elettorale o un'opinione pubblica come quella italiana, ad una situazione che crea impedimento al ciclo di responsabilità.
La domanda più grave riguarda il party governement, il rapporto tra maggioranza e leader: noi abbiamo sempre voluto un leader con maggioranza, che si accompagna e che guida la sua maggioranza, ma non la prevarica come non l'ha potuta prevaricare la Thatcher in Inghilterra.
Non è vero che il sistema francese stabilizza e rafforza i partiti; in taluni casi, come di fronte alla grande leadership di De Gaulle, può dar luogo a fenomeni di rassemblement, ma in realtà la leadership di Mitterrand ha destabilizzato il partito socialista francese, perché ha funzionato solo nel momento in cui era un vero e proprio partito del presidente invece che un party governement; ha funzionato finché da Mauroy a Fabius è stato il partito del presidente. Nel secondo settennato di Mitterrand non ha funzionato come tale ed ha agito come fattore di destabilizzazione.
Dico a Spini che per non dare al premier il potere di scioglimento alla svedese, che ha agito sempre come deterrente dal momento che dal 1974 |$$|Aaunon è stato mai esercitato, non gli si attribuisce quell'esubero di potere che tutti constatano nel presidente francese quando è capo della maggioranza.
Non ci si pone mai il problema se il presidenzialismo francese, o alla francese, sia compatibile con la tendenza federalista che tutti i partiti e le coalizioni hanno proclamato presentandosi agli elettori. Non è casuale che, mentre il federalismo è compatibile con il sistema presidenziale statunitense basato sulla separazione dei poteri, è estremamente dubbio, almeno stando all'esperienza francese - vedete la difficoltà in Francia di riconoscere il ruolo delle regioni e di fare una legge elettorale con le regioni - ...
CESARE SALVI, Relatore. È la tradizione storica.
LEOPOLDO ELIA. È la tradizione storica, è l'accentramento. Il problema che ci dobbiamo porre è quello di una compatibilità - su questo vorrei sentire l'amico Cheli - di un vero federalismo con un vero semipresidenzialismo alla francese.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. Questa mi sembra una bellissima domanda. Certo, se partiamo dall'idea che il semipresidenzialismo secondo il modello francese è un modello tipicamente nazionale la risposta è sicuramente no, il federalismo non è compatibile, proprio perché tra le premesse di quel modello vi è anche la costruzione di uno Stato accentrato. E tuttavia non sarei portato a dare un risposta di questo tipo, perché il modello ha radici nazionali, ma poi è stato esportato e direi che è anzi in una fase di relativa fortuna in fatto di esportazione nel mondo.
Se dunque venisse depurato dalle sue radici nazionali, che certamente portano ad una valutazione di incompatibilità con una struttura federale, non vedrei l'impossibilità di conciliare una forma di Stato federale con quel modello costruito nei suoi elementi essenziali come modello bicefalo, bifronte e via dicendo.
Pertanto la risposta che sarei portato a dare è la seguente: se astraiamo dalle qualità nazionali - così come si deve fare quando si parla di un modello che ormai ha una circolazione nel mondo - vi è la possibilità di conciliare quel modello con la struttura federale.
DOMENICO NANIA. Per collegarmi subito a questa domanda, vorrei anche capire se il modello Westminster sia compatibile con una tendenza federale.
Professore, ai fini della tesi, che lei ha sostenuto, dell'accostamento e non dell'imitazione del modello inglese, mi sembra emerga dal suo ragionamento che tutto si tiene soprattutto sulla base di due presupposti di fondo: la sussistenza di un
sistema maggioritario, che lei suggerisce a doppio turno, e soprattutto il fatto che un sistema maggioritario così pensato tenda al bipolarismo sulla circostanza, che per la verità non è stata ancora ripresa con forza, che diventi premier il leader del partito che ha più voti.
Nella costruzione del modello dal lei ritenuto compatibile con il sistema italiano, la semplificazione dei partiti e la coincidenza tra premier e leader del partito che prende più voti sono quindi un passaggio importante.
Vorrei verificare questo fatto, rivolgendole una specifica domanda sul punto, alla luce della circostanza che quando si è addentrato sul modo di indicare, scegliere o collegare il premier, lei ha parlato del collegamento tra premier e candidato di collegio, per cui viene di fatto nominato premier chi ottiene più seggi nel paese, nonché dell'altra ipotesi per la quale il premier viene eletto in Parlamento sulla base del principio secondo cui - presumerei - chi ha preso più seggi nella competizione elettorale determina la scelta del premier eletto in Parlamento.
Riassumendo, lei ha considerato passaggi importanti la semplificazione dei partiti tramite la legge elettorale, l'identificazione tra premier e leader del partito che prende più voti, il riconoscimento tout court del potere di scioglimento in capo al premier, la titolarità in capo allo stesso di poteri di governo molto forti.
In questa simulazione tutto si tiene ma, se per esempio in Italia durante i lavori del Comitato forma di governo non si puntasse alla semplificazione dei partiti con la legge elettorale; se non diventasse premier il leader del partito con più voti; se al premier non venisse dato il potere di scioglimento così come da lei proposto; se questi non avesse poteri forti, secondo lei, se ci trovassimo in una situazione siffatta, saremmo in presenza di un modello Westminster o no?
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. Per quanto riguarda la compatibilità del modello Westminster con il federalismo, non risponderei diversamente da come ho risposto rispetto al modello semipresidenziale: questi modelli hanno una loro astrattezza ed una loro esportabilità se vengono riferiti alle linee portanti di un modello sganciato dal sistema politico sottostante e dalla costruzione dello Stato comunità. Non avevo accennato alla questione, ma era sottinteso che il modello veniva costruito nel momento stesso in cui si stava trasformando la forma di Stato in Italia; la risposta è quindi di compatibilità.
Passando alla seconda domanda, si chiedeva se mancando tutti gli elementi, di cui lei con tanta puntualità ha identificato i passaggi nel modellino che ho tentato di costruire, sarebbe ancora possibile avere il modello Westminster. Può darsi che si possa avere per altre strade, certamente non per quella. Il venir meno non solo di tutti, ma anche di ciascuno di quegli elementi - lo scioglimento, l'attribuzione della premiership al leader del partito di maggioranza relativa, l'aspetto dei poteri forti - altera il modello, togliendo la possibilità che sia compatibile con l'Italia. Se lavoriamo su quel modello in relazione ai fini enunciati all'inizio, sui quali mi sembra vi sia accordo nel paese e nelle forze politiche, non credo siano tante le variabili. Il punto di arrivo è il collegamento organico degli aspetti che lei ha richiamato. Se ne manca anche uno solo, il modello Westminster adattabile all'Italia viene meno.
NATALE D'AMICO. A differenza di alcuni colleghi, ringrazio il professor Cheli soprattutto per quanto di non problematico ci ha detto. Egli non si è nascosto dietro a un dito, ha indicato con chiarezza quale modello preferiva, ha disegnato - e le ha ribadite ora - le condizioni necessarie per ottenerlo.
Giustamente, con la saggezza che gli è propria, ha detto che queste condizioni necessarie forse non sono sufficienti, ma le ha delineate con grande chiarezza, in un modello che - devo dire - si presenta molto compatto ed anche molto forte. Date le condizioni di partenza, il professor
Cheli ha sostenuto che per arrivare a quel modello Westminster abbiamo bisogno di qualcosa di più soprattutto in termini di potere del Governo in Parlamento.
Eppure, mi pare che la questione che il professore poneva all'inizio - è stata ricordata dal collega Nania - non venga risolta. Il professor Cheli al principio aveva detto che uno dei fini sui quali vi è uniformità di vedute consiste nel sottrarre in parte alcune decisioni, soprattutto quelle sull'assetto di vertice dell'esecutivo, al gioco partitico e nell'avvicinarle agli elettori. Aveva inoltre affermato che, vista la situazione di partenza, occorre correggere questo modello dal basso e dall'alto: dal basso con il sistema elettorale, dall'alto con un meccanismo attraverso il quale la premiership venga assegnata al leader di maggioranza relativa, almeno. Ebbene, se ripercorriamo i sei punti della sua analisi, non vi è nulla che garantisca che questo avvenga, ossia che il leader del partito di maggioranza relativa diventi premier.
A me pare, quindi, che non ci sia abbastanza per ottenere il fine che si era indicato, cioè che siano gli elettori ad avere un potere di scelta piuttosto forte. Anche per il fatto che lei ha rifiutato espressamente il modello israeliano, gli elettori si troverebbero necessariamente di fronte ad un modello in cui potrebbero scegliere contemporaneamente due cose: il premier collegato ai candidati e i candidati; in più, in un modello multipartitico dovrebbero scegliere anche il partito, quindi cosa realmente stiano scegliendo sarebbe difficile dire. Ritengo, dunque, che il modello sia molto compatto e, probabilmente, anche molto efficace ma, ciò nonostante, non riesca a risolvere alcuni dei problemi da lei enunciati all'inizio.
Vorrei, poi, compiere un passo ulteriore. Lei ci ha ricordato che per quanto riguarda la forma di governo la tradizione conta ed a me pare che ciò sia giusto e non si possa fare a meno di evidenziarlo. Allora, per avere un modello di tipo neoparlamentare che funzioni, vista la necessità di porre condizioni forti tra le quali quella di poteri incisivi in capo ad un premier che non sarebbe eletto, vorrei tornare rapidamente sul modello semipresidenziale per provare ad inquadrarlo nella tradizione italiana.
Mi pare che in particolare nei primi anni ottanta si sviluppò un dibattito forte intorno al ruolo del Capo dello Stato all'interno dell'ordinamento italiano e che in quell'occasione emerse con chiarezza che, molto probabilmente, nelle intenzioni dei costituenti questo Capo dello Stato, i cui atti sono sempre controfirmati, non era solo arbitro neutro ma, in qualche modo, garante attivo dell'equilibrio politico; tanto è vero che si sviluppò il dibattito su quali fossero i poteri veri del Capo dello Stato (per cui la controfirma assumeva solo la funzione di tutela dell'inviolabilità del sovrano che già aveva negli ordinamenti monarchici) e ci si chiese in quali casi, invece, chi controfirmava fosse il responsabile vero degli atti e in quali ancora la responsabilità fosse duumvirale. Ma, se non sbaglio, quel dibattito si sviluppò allora perché con la presidenza Pertini emerse con chiarezza che il ruolo del Capo dello Stato tendeva a modificarsi. In quella situazione furono quindi avanzate proposte tendenti (preso atto che il Capo dello Stato era non più neutro arbitro ma garante attivo dell'equilibrio politico) ad eliminare alcune controfirme al fine di chiarire che alcuni poteri sono propri, appunto, del Capo dello Stato.
Ciò che è successo dopo gli anni ottanta, con la crisi del sistema dei partiti, mi pare abbia accentuato alcune delle motivazioni che avevano generato quel dibattito. Innanzitutto, nelle intenzioni dei costituenti il Capo dello Stato era ben lontano dall'essere debole; in secondo luogo, fin dagli anni ottanta il suo ruolo è andato crescendo, tanto è vero che si pose fin d'allora il problema di eliminare alcune controfirme e, eventualmente, di rendere elettiva la carica. Mi pare che gli sviluppi successivi, passando attraverso la
crisi del sistema partitico italiano, abbiano accresciuto questa tendenza; che nella prassi istituzionale italiana questa evoluzione in senso semipresidenziale, che fa del Capo dello Stato non un arbitro neutro ma il garante attivo di un equilibrio politico, sia presente. Probabilmente era anche nelle intenzioni dei costituenti che disegnarono un Capo dello Stato con poteri che andavano oltre quelli strettamente di garanzia e di equilibrio.
Quindi, considerato che la tradizione conta, considerato che per trapiantare il modello Westminster in Italia sarebbero necessarie alcune forzature rispetto al modo in cui esso si configura in Gran Bretagna; considerato che comunque qualche problema esso non lo risolverebbe rispetto alle finalità che vogliamo perseguire; considerato che esiste un'evoluzione del sistema istituzionale italiano, le domando, professor Cheli, come lei veda questa possibilità di portare ad esplicita manifestazione alcune tendenze che a me paiono implicite nell'ordinamento istituzionale italiano.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. La prima considerazione è che il modello si tiene nelle varie parti, ma sostanzialmente fallisce nell'obiettivo dell'avvicinamento degli elettori al potere. Quello che lei dice è in parte vero: il punto più debole del modello che vi ho esposto si manifesta forse proprio in relazione alla realizzazione di questo fine, che è tutto rimesso ai meccanismi di designazione e di collegamento. Certamente è un grosso passo avanti rispetto alla situazione parlamentare tradizionale, perché nel momento in cui sceglie il candidato all'assemblea l'elettore sa quale sarà l'effetto del suo voto in termini di risultato finale. Che alla fine si possa garantire la scelta come premier del leader del partito che ha ottenuto più voti, mi pare una conseguenza quasi necessaria: se giochiamo su un rapporto di maggioranza relativa nella individuazione della figura del premier; se l'indicazione di quest'ultimo da parte delle maggiori forze che scendono in campo non è di fatto, ma ha una sua ufficialità e se la dichiarazione di collegamento del candidato all'assemblea rispetto ad uno dei premier designati dalle forze politiche ha le caratteristiche di vincolo giuridico, il risultato dovrebbe essere assolutamente garantito.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quella dello sviluppo del presidenzialismo in Italia è una posizione che molti oggi manifestano: in base ad essa, introdurre un sistema semipresidenziale nel nostro paese significherebbe soltanto completare un processo che è iniziato nel 1978 e che ha visto il Capo dello Stato italiano allargare sempre di più le sue funzioni da un ruolo neutrale e di controllo discreto (il ruolo di Einaudi, ad esempio) verso un ruolo di garante attivo, che verrebbe a coincidere con l'indirizzo politico. Io penso che questa evoluzione della storia della presidenza (che esiste, è stata registrata e rappresenta, forse, uno dei punti più interessanti della storia istituzionale degli ultimi vent'anni in Italia) non sia di per sé sufficiente a giustificare il passaggio di modello, perché un Capo dello Stato come oggi è, sia pure nei limiti massimi di espansione dei suoi poteri, è sempre un Capo dello Stato che resta al di qua della funzione di indirizzo politico e della funzione di governo. La differenza tra un modello parlamentare a forte presenza presidenziale, quale è il nostro, ed un modello semipresidenziale, è proprio una differenza qualitativa: per quanto possano oggi espandersi i poteri del Capo dello Stato, esiste il limite di fatto che questi non è il Governo e rimane con una soggettività distinta rispetto alle funzioni di governo. Quella da lei delineata potrà essere una indicazione di quadro, che può favorire l'acquisizione di un certo consenso dell'opinione pubblica rispetto all'emersione di una personalità che viene identificata come Capo dello Stato e che è molto presente nell'opinione pubblica stessa; ma si tratta soltanto di un'indicazione generica di reazione ad un processo, non è certo la giustificazione di ordine costituzionale e di ordine giuridico ad un mutamento di
modello che è qualitativamente del tutto diverso da quello di cui disponiamo.
PRESIDENTE. Conclude l'onorevole Mattarella.
SERGIO MATTARELLA. La ringrazio, presidente, di avermi precettato in questa posizione, per cui non ho limiti di tempo, presumo (Commenti).
Non è esattamente così, per trattenerci su questo piano scherzoso non ha detto che ero l'ultimo iscritto a parlare.
PRESIDENTE. Allora mi correggo: "Conclude felicemente - aggiungo - l'onorevole Mattarella".
SERGIO MATTARELLA. La ringrazio, presidente. Sono lusingato.
Ho molto apprezzato l'esposizione che ci ha fatto il professor Cheli anche per la sua obiettività. Non si è configurato come un partito che ha una sua posizione, né come il tifoso di una soluzione ma ha fatto, come molti colleghi hanno rilevato, una prospettazione problematica su alcuni punti e di questo gli va dato atto.
Formulo qualche osservazione, che si tradurrà in richieste di chiarimento al professor Cheli, con la tentazione di puntualizzare alcuni aspetti emersi nel dibattito, come del resto altri hanno fatto, presidente, con la sua tolleranza, che spero si eserciti anche nei miei confronti. Ho sentito parlare di rigidità del modello Westminster, che sarebbe particolarmente rigido come il professor Cheli l'ha disegnato, con un potere di scioglimento del premier che prevarrebbe anche sulla mozione di sfiducia costruttiva. Mi domando perché dovrebbe essere considerato rigido questo sistema che rimette tutto in discussione restituendo tutto agli elettori, e sarebbe invece elastico un modello che prevede un settennato immobile, come se questo fosse meno rigido e non, come invece è, assai più rigido, tanto da aver dovuto inventare, il sistema francese, teorizzandola, quella patologia che è la coabitazione; è così rigido quel sistema che non c'è rimedio, per cui di fronte ad una condizione di politica estera divisa tra un capo dello Stato di uno schieramento ed il premier di un altro schieramento, ad una politica della difesa divisa fra un capo dello Stato di uno schieramento e il premier di un altro schieramento, si è dovuta inventare la coabitazione, cercando di nobilitare questa forma di patologia istituzionale, che certamente è così definibile.
Non mi pare quindi sia quello un sistema rigido e a questa sottolineatura vorrei aggiungere una ulteriore considerazione, sulla quale chiedo al professor Cheli un successivo approfondimento, se possibile. Ho apprezzato la scissione che ha fatto tra sistema elettorale a doppio turno e forma di governo e in generale fra sistemi di governo e sistemi elettorali, essendo non rigorosamente in alcuna maniera configurabili come necessitati gli uni con gli altri e viceversa.
Si è detto che il doppio turno funzionerebbe in maniera aggregante in quanto vi è l'elezione diretta del Capo dello Stato che polarizza. Mi domando in che senso, essendo il Capo dello Stato elemento ed istituzione estranea al Parlamento, su cui si esercita poi la legge elettorale. Vorrei dire, con una battuta: aggregante in che cosa? Che tutti si mettano insieme per contrastare Le Pen, come sta avvenendo in queste settimane ed in questi mesi? E Le Pen è estraneo, non fa parte della quadriglia che dovrebbe essere automaticamente provocata dal sistema a doppio turno in coincidenza con un sistema semipresidenziale. Ha ragione allora il professor Cheli quando dice che in realtà il sistema richiede pochi partiti, cosa che rimanda a considerazioni di carattere politico, non soltanto istituzionale. Perché allora è ragionevole - se ho ben capito, e su questo chiedo un chiarimento al professor Cheli - la proposta avanzata di sistema Westminster così fortemente razionalizzato e rafforzato nel ruolo del governo?
Lo scioglimento del Parlamento nel sistema parlamentare è abitualmente rimesso al Governo quando giudica conveniente
il momento elettorale, ma vi sono anche altre ipotesi e nell'ottica disegnata dal professor Cheli, se non ho mal compreso, ad altro si può finalizzare lo strumento dello scioglimento in mano al primo ministro. Se Major perdesse nelle suppletive, la maggioranza - cosa che è vicina a fare, se già non si è verificato - potrebbe ritenerlo necessario e di fatti si andrà ad elezioni rapidamente; se una parte della maggioranza si scolla da questa e provoca, come è stato detto anche questa sera, un ribaltone, questo è uno strumento con cui il primo ministro potrebbe contrastare una maggioranza diversa da quella originaria che l'ha espresso.
GIUSEPPE CALDERISI. Bisognava andare a votare quando è caduto il governo Berlusconi.
SERGIO MATTARELLA. Non c'era il sistema, facciamolo e non c'è alcun problema. Le regole servono per orientare, incentivare o disincentivare; quando ci sono, si applicano; in mancanza di esse, quando la via parlamentare non prevedeva quei meccanismi, era doveroso cercare una maggioranza, se c'era, in Parlamento, perché questo imponeva il modello costituzionale. Ma questo vale anche nel caso in cui la maggioranza rimane identica, senza modifiche, perché - se ho ben inteso - nell'ottica, che io condivido, del sistema disegnato dal professor Cheli, il corpo elettorale è chiamato ad eleggere una maggioranza ed un governo, anzi una maggioranza per quel governo e nel caso in cui si rompa questo parallelo, questo abbinamento, prevale il governo e quindi la richiesta di scioglimento, nel richiamo alla coerenza, si colloca, tra maggioranza e governo, sul governo: il primo ministro può chiedere di sciogliere o sciogliere direttamente il Parlamento.
Credo sia questa la logica - è questa la domanda che pongo al professor Cheli - ed essa mi pare rigorosa; qui c'è la funzione deterrente dello scioglimento, che il professor Cheli ha indicato; è certo un'ipotesi non frequente, probabilmente estremamente rara, ma che, essendo presente nel sistema come meccanismo, induce, come devono fare le istituzioni, a comportamenti di stabilità. Mi domando allora perché questo sistema sarebbe meno stabile (a me pare più stabile), meno aggregante (a me pare più aggregante) e meno elastico (a me pare più elastico) di quello semipresidenziale.
Un'ulteriore considerazione e domanda vorrei rivolgere al professor Cheli, il quale ha detto - e molti lo hanno ripreso - che il premier deve essere il leader del partito che ha la maggioranza relativa. Non so se questa sia una affermazione assoluta - questa è una domanda - perché vi possono essere ipotesi diverse. Certo in Gran Bretagna a Westminster vi sono due partiti che raccolgono insieme la stragrande maggioranza dell'elettorato; nel nostro paese al momento nessun partito supera (o comunque lo supera appena) il 20 per cento; è chiaro che le coalizioni vincenti sono composite e quindi può esservi l'espressione di un primo ministro che non sia un leader di partito, ma l'elemento o comunque uno degli elementi su cui si raccoglie la coalizione. In questo caso chiedo al professor Cheli se il sistema non funzionerebbe ugualmente: un primo ministro indicato dalla coalizione, anche se non segretario del maggior partito della stessa.
A questo si collega la domanda circa il senso della sfiducia costruttiva. Cheli ci ha detto che la facoltà di scioglimento dovrebbe prevalere anche sulla sfiducia costruttiva. Presumo si debba intendere che prevale la richiesta di scioglimento da parte del Presidente del Consiglio. Credo che questa sia un'ipotesi interessante: prevale la volontà di scioglimento come deterrente per garantire la corrispondenza fra l'abbinata primo ministro-governo-maggioranza, rispetto alla volontà di questa di mutare governo con rovesciamento del medesimo.
Vengo ad una penultima considerazione sulla indicazione data dal professor Cheli. Credo che il modello da lui indicato sia efficiente e vorrei capire meglio le ragioni della diffidenza che qualche collega ha manifestato al riguardo. Se in Inghilterra fosse dato l'incarico, se vincerà Blair, ad un altro, credo che salterebbero anche le pietre; credo cioè che questo non sia verosimile come non lo era che l'incarico fosse conferito a Churchill quando vinceva Attlee e viceversa e non lo è in Germania, dove nessuno immagina che, se vincerà Kohl contro La Fontaine o viceversa, il vincitore non diventerà cancelliere. Mi domando perché, data un'indicazione così formale, non meramente politica, come quella suggerita dal professor Cheli, sia
da ipotizzare una qualche fraudolenta modificazione nella scelta, nella elezione o nella nomina del primo ministro. Mi pare inimmaginabile; anche in Italia, presidente; io ho più fiducia nel mio paese. Ho una fiducia che sono convinto anch'ella condivida, presidente. Non credo che abbiamo il diritto di avere questa disistima della nostra condizione.
L'ultima domanda è la seguente: abbiamo molto parlato della legge elettorale. È vero che il presidente di questo comitato ha detto che questo tabù è caduto, però forse qualche volta riusciamo a fare anche pascolo abusivo ed andiamo troppo nei dettagli della legge elettorale. Comunque, visto che si è fatto, anch'io partecipo a questo pascolo.
Per quanto riguarda la legge elettorale, il professor Cheli ha suggerito o ipotizzato una legge elettorale dolorosa, che trasformi il sistema politico, come qualcuno ha detto nel dibattito. Ebbene, non sarebbe la prima volta. Quale legge elettorale ha modificato di più il sistema, di quella applicata nel 1994? E pensiamo alla trasformazione del sistema politico che vi è stata tra il febbraio e il marzo del 1994. Non sarebbe quindi la prima volta. E ovviamente si può mettere mano alla legge elettorale. Mi domando però perché farlo. Proprio per le cose che ho detto, perché sono i fenomeni politici che provocano poi l'aggregazione; e questi non possono essere imposti d'autorità, per decreto, di colpo. Le istituzioni, appunto, incentivano, orientano, incoraggiano o disincentivano. Una nuova legge elettorale o una modifica della legge elettorale dovrebbe incentivare ulteriormente e consolidare il bipolarismo esistente, non sconvolgerlo.
Vorrei allora fare una breve osservazione per quanto riguarda la parte proporzionale. Non affermo (sono ben lontano dal pensarlo), come fa l'onorevole Cossutta, che la frammentazione sia dovuta al maggioritario (al riguardo sono in dissenso e sarei contrario ad un ritorno al proporzionale), però è pur vero che anche nell'aula di questo palazzo i più piccoli tra i partiti sono entrati transitando per il maggioritario, non per la parte proporzionale. Non è quella la ragione della frammentazione. Sono convinto che la quota proporzionale debba essere recessiva rispetto all'esigenza di stabilità, che rispetto al bisogno che la coalizione vincente abbia la maggioranza assoluta si possa anche ridurre e comprimere la quota proporzionale, ma ritengo che la presenza di questa non attenga al fenomeno della frammentazione partitica. Questa ha altre ragioni, che sono quelle indicate poc'anzi dall'onorevole Cossutta della convenienza a mettere tutto insieme nei collegi, tant'è - ripeto - che i più piccoli tra i partiti sono entrati in Parlamento transitando per la parte maggioritaria.
CESARE SALVI, Relatore. Parte dei problemi è dovuta al turno unico.
SERGIO MATTARELLA. Lascio questa legittima conclusione al collega relatore Salvi. Non è un caso che in Gran Bretagna o in Francia, come è stato ricordato, ci si ponga formalmente il problema di una quota proporzionale; soprattutto perché lo scopo di quest'ultima è quello di evitare (come appunto ci si prefigge in Francia in questi mesi) di estromettere dal Parlamento formazioni politiche cospicue che non si collocano in nessuno dei due grandi schieramenti che si confrontano, perché è interesse della democrazia che queste formazioni non cerchino spazio nelle piazze ma lo abbiano in Parlamento.
Certo, è un'esigenza recessiva rispetto a quella della stabilità. Non le chiedo al riguardo una risposta, professor Cheli, perché si tratta di un discorso che in questa sede facciamo a latere della nostra competenza, anche se l'argomento è molto acuto. È una considerazione che va però tenuta presente, perché l'esigenza legittima di ridurre la frammentazione passa attraverso fenomeni politici che vengono indotti, agevolati, incentivati, stimolati da altre iniziative, da altri meccanismi, per esempio quello della stabilità, che crea aggregazione e incentiva un processo, che è già cominciato nel nostro paese e che sempre più netta valorizzazione.
ENZO CHELI, Professore ordinario dell'Università di Firenze. Per me è facile rispondere a questo intervento perché concordo quasi su tutto, anzi direi su tutto.
Quelle relative alla maggiore flessibilità del modello sono naturalmente valutazioni che condivido e che ho espresso.
Per quel che riguarda il potere di scioglimento, mi pare che l'onorevole Mattarella abbia compreso benissimo il senso della proposta. Quello che io propongo è uno scioglimento polifunzionale: viene proposto in funzione di stabilizzazione, ma può servire per qualunque fine; può servire per contrastare un ribaltone e può servire per riaggiustare la rappresentanza in relazione a elezioni locali che abbiano cambiato il quadro politico. Non c'è una finalità rigida o determinata dello scioglimento: lo scioglimento può servire alle più diverse finalità.
Per quanto riguarda il prevalere dello scioglimento sulla sfiducia costruttiva, ho già detto che è un'ipotesi liminare, prospettata più in funzione di deterrenza che di effettivo uso. Ma sulla linea del rimprovero che mi faceva prima l'onorevole D'Amico, con riferimento allo scarso rilievo del popolo nel modello prospettato e alla finalità di far contare di più appunto il popolo, devo dire che il meccanismo è tale che nell'ipotesi di conflitto si rimette in gioco, attraverso lo scioglimento, la scelta popolare.
Per quanto riguarda la possibilità della coincidenza premier-leader, è stato chiesto se si possa allargare al di là della cerchia dei segretari di partito. Certo, ma questo dipende dalla designazione. Può essere il partito che designa il proprio leader, ma può anche essere la coalizione o il rassemblement a designare il rappresentante della confluenza delle varie forze. Questo mi pareva implicito anche nel modello.
Quanto alla frammentazione, anche al riguardo concordo. Gli elementi che conducono alla frammentazione sono tanti, sono di ordine sostanziale. Ma dissento su un punto. Anche la clausola proporzionale concorre infatti a tale effetto: non è l'elemento determinante, ma certamente favorisce la frammentazione. Non direi perciò che tutto deriva da altri elementi e non dalla conservazione di una quota proporzionale: la quota proporzionale è un elemento che favorisce la pluralità. Anche se poi in concreto, per quel che riguarda la vicenda storica italiana degli ultimi anni, concordo sul fatto che l'aumento della frammentazione è stato l'effetto non tanto della quota proporzionale, quanto piuttosto dell'impiego di un modello uninominale che non era stato ancora completato in tutti i suoi elementi e che, per le cose che ci siamo detti finora, dovrebbe essere completato in primo luogo attraverso il passaggio a un doppio turno. Con questo credo di avere risposto a tutto.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Cheli per aver partecipato a questa audizione, che ha contribuito alla caduta del terzo tabù.
Ricordo che il primo era rappresentato dalla legge elettorale, questione posta dall'onorevole Cossutta, su cui si è svolta una discussione. Il secondo tabù era rappresentato dal doppio turno, ma dopo l'audizione del professor Sartori, l'onorevole Fini si è dichiarato disponibile ad esaminare in questa sede il problema. Il terzo tabù infine era rappresentato dal problema di considerare i due modelli uno rigido ed uno flessibile, ma dopo le
obiezioni e l'analisi svolta oggi dal professor Cheli, ogni modello è rigido e flessibile, venendo così meno anche l'ultimo tabù: tutti e due i sistemi sono rigidi e flessibili.
Spetta ora all'onorevole Salvi, in qualità di relatore, sintetizzare il contenuto di questi utili incontri dialettici con i professori Sartori e Cheli. Come ho detto in una precedente occasione, il relatore sarà coadiuvato da tutti coloro che vogliono contribuire a sostenere con argomenti già esaminati o aggiuntivi le tesi dell'una e dell'altra posizione di principio, nella speranza che essa diventi per il Comitato e la Commissione una posizione chiara di indirizzo.
La seduta termina alle 19.
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