RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 13

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MASSIMO D'ALEMA



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La seduta comincia alle 9.45.


(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Audizione di rappresentanti della Confcommercio, della Confesercenti, della Confartigianato, della CNA e della CASA.


PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti della Confcommercio, della Confesercenti, della Confartigianato, della CNA e della CASA.
Voglio innanzitutto chiedere scusa ai nostri ospiti sia per il ritardo con il quale cominciamo sia perché effettivamente la partecipazione dei commissari è assai limitata; spero che nel corso della mattinata possano raggiungerci altri colleghi. Credo che questo in parte dipenda dal fatto che i Comitati stanno entrando nel vivo della discussione e di decisioni importanti. Ma comunque, indipendentemente dalla presenza dei commissari, ritengo importante acquisire agli atti del nostro lavoro il contributo, il punto di vista, i suggerimenti dei rappresentanti delle principali forze sociali del nostro paese. Noi abbiamo già avviato questa fase delle audizioni incontrando i rappresentanti sindacali, i rappresentanti della Confindustria, della Confapi, e proseguiamo oggi con i rappresentanti delle forze del lavoro autonomo, di quelli che una volta venivano chiamati i ceti medi produttivi, che rappresentano una realtà molto importante e vasta del nostro paese.
Prima di dare la parola, nell'ordine, ai rappresentanti della Confcommercio, della Confesercenti, della Confartigianato, della CNA e della Confederazione autonoma dei sindacati artigiani, perché voi possiate esporre il vostro punto di vista, io mi limito, come ho fatto anche con altri ospiti, a riassumere i termini generali dell'impegno e del lavoro della nostra Commissione bicamerale, che sta entrando in una fase - come ripeto - più stringente, di confronto e di predisposizione delle decisioni.
All'esame di questa Commissione c'è il complesso delle istituzioni così come sono ordinate nella seconda parte della Costituzione. L'esigenza da cui abbiamo preso le mosse è quella di un ammodernamento delle nostre istituzioni per corrispondere ai bisogni della sfida europea e della mondializzazione e anche ai bisogni di una società più moderna e più esigente e di un sistema politico nuovo, trasformato dai grandi mutamenti che hanno investito l'Italia, l'Europa, il mondo in questo fine secolo.
La direzione del nostro lavoro investe la forma dello Stato. L'idea prevalente è quella di un decentramento in senso federalista, comunque di un forte decentramento dello Stato, con un trasferimento di poteri verso le regioni, ma anche verso le province e i comuni. E qui è senza dubbio interessante comprendere da parte vostra come quella fondamentale esigenza di un migliore funzionamento della pubblica amministrazione (perché poi questo è il modo in cui i cittadini, le categorie economiche vivono questo problema) possa trovare una risposta nel processo di decentramento e di federalismo. Quale federalismo; poteri legislativi alle regioni; poteri amministrativi ai comuni: c'è una discussione molto aperta, nella quale è importante comprendere il


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punto di vista della società e degli interessi organizzati.
La seconda grande questione riguarda la forma di governo. Qui si tratta di dare risposta ad un bisogno di stabilità, di stabilità istituzionale e di governo, ed anche al bisogno di un governo che sia fondato più direttamente sulla volontà dei cittadini. A questo problema si possono dare risposte diverse. Taluni cercano una soluzione in una direzione presidenzialista o semipresidenzialista; altri rivolgono la loro attenzione piuttosto a quella forma di governo del premier, del primo ministro, che appare prevalente nelle grandi democrazie europee. Voi potete certamente entrare anche nel dettaglio tecnico, se lo ritenete, anche se in generale in questa materia ciascuno ha la sua opinione: è difficile che vi sia un'opinione di un'associazione o di un'organizzazione. In generale mi sembra però che la preoccupazione sia quella di una riforma che consolidi la tendenza, che oramai si è avviata, al bipolarismo, ad una democrazia aperta al ricambio delle classi dirigenti e nello stesso tempo in grado di garantire stabilità di governo e istituzionale.
Vi sono poi grandissimi problemi, che restano un po' più sullo sfondo rispetto all'attenzione dell'opinione pubblica, ma non per questo meno importanti e riguardano la riforma del Parlamento. Debbo dire che, con una scelta coraggiosa, tutte le proposte vanno nel senso di una riduzione anche significativa del numero dei parlamentari e in generale verso il superamento del bicameralismo perfetto attraverso una scelta monocamerale oppure una forte differenziazione dei ruoli tra le due Camere, assegnando ad una sola delle due il compito politico e legislativo di concedere la fiducia ai governi e di approvare le leggi.
Vi è infine la grande materia delle garanzie, del funzionamento della giustizia, anzi dei vari settori della giurisdizione, del rapporto tra cittadino e giustizia, tra difesa ed accusa nel processo penale, dell'ordinamento delle magistrature. Si tratta di temi di grande interesse intorno ai quali non solo con piena legittimità la Commissione è chiamata a pronunciarsi, per quanto attiene la materia costituzionale, ma lo farà anche con grande equilibrio, come appare chiaro anche dal modo in cui la discussione si è avviata.
Nel quadro di questa ricerca riformatrice, un particolare interesse rivestono, forse dal punto di vista delle vostre categorie, sia i temi costituzionali relativi al funzionamento della pubblica amministrazione (principio di responsabilità), sia quelli riguardanti il funzionamento di quegli organismi, in particolare del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, che dovrebbero garantire un rapporto tra Stato e grandi forze economiche. Nelle ultime audizioni con i rappresentanti dei movimenti sindacali e delle associazioni datoriali si è discusso della possibilità della costituzionalizzazione del principio della concertazione, ipotesi questa - per la verità - non molto sostenuta e tuttavia avanzata anche in tale sede. Si è discusso del funzionamento del CNEL, della sua utilità o meno, delle forme con cui poter rilanciare e rivitalizzare questo organismo, attribuendo ad esso una rinnovata funzione nel nostro ordinamento: anche in proposito sono curioso di conoscere la vostra opinione.
Questo è il quadro, sommariamente delineato, non solo dei problemi, ma anche della direzione di marcia della nostra ricerca e delle riforme di cui si discute e che realizzeremo, almeno per quanto dipende da noi. Le proposte saranno presentate al Parlamento nei tempi previsti dalla legge istitutiva della Commissione: su questo non vi è il minimo dubbio. Siamo ormai in una fase avanzata di riflessione ed elaborazione in cui è utile conoscere la vostra posizione ed i vostri suggerimenti.
Nel concludere, informo i nostri ospiti che ascolteremo, a nome delle varie associazioni, i presidenti ed i segretari generali, salva diversa indicazione da parte vostra.
Do quindi la parola al dottor Billé, presidente della Confcommercio.


SERGIO BILLÉ, Presidente della Confcommercio. Desidero innanzitutto ringraziare,


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a nome della Confcommercio, la Commissione per averci offerto la possibilità di questo incontro in cui possiamo far conoscere il parere della confederazione che rappresento.
Vorrei fare una dichiarazione preliminare che ritengo importante. Una riforma della nostra Costituzione non è solo auspicabile, ma indispensabile; è necessaria più di ogni altra cosa e gli sforzi dei componenti la Commissione, di tutto il Parlamento e delle forze politiche in esso rappresentate devono essere orientati in modo che si lavori davvero ad una soluzione del problema, soluzione peraltro che escluda a priori la possibilità di altre proroghe e rinvii per rimandare di nuovo a domani quel che può e deve essere fatto oggi.
Le categorie che qui rappresento, le centinaia di migliaia di imprenditori che operano nel settore del commercio, del turismo e dei servizi, tutti i lavoratori autonomi, sono più che convinti della necessità di dare a questo obiettivo, la riforma della Costituzione, un'assoluta priorità, perché solo attraverso tale riforma ed un mutamento sostanziale delle regole del gioco la nostra democrazia potrà riacquistare energia e fare un balzo avanti verso l'Europa.
Le manovre finanziarie forse affronteranno i problemi contingenti e forse - sottolineo forse - ci porteranno alla soglia dell'Europa del trattato di Maastricht, ma non risolveranno, non possono risolvere, i problemi di fondo della nostra democrazia che continua ad essere da tempo a tre cilindri, di questa pubblica amministrazione improduttiva e costosa, che trascina verso il fondo la spesa pubblica e che impone, per cercare di sopravvivere, regimi fiscali che nessun paese in Europa certo ci invidia.
Dunque, riforma costituzionale subito e a qualsiasi costo: questa è la richiesta di noi operatori. Quale tipo di riforma? Nel documento che la Confcommercio presenta alla Commissione sono contenute proposte ed analisi, che spero potranno essere tenute dai commissari nel giusto conto. Mi limito a sottolineare che serve una riforma che consenta finalmente di portare questo paese nell'alveo di una vera e moderna democrazia, nell'alveo di un vero sviluppo. Una riforma capace di dare a questo paese un tasso di governabilità finalmente accettabile. Una riforma che permetta alle strutture parlamentari di funzionare e garantire al paese un tasso sufficiente di efficienza legislativa. Una riforma che porti all'individuazione di strumenti di intervento e di controllo per eliminare o comunque cominciare a ridurre in modo sostanziale le sacche di improduttività che a danno del cittadino e dell'economia del paese tuttora si annidano nella pubblica amministrazione e nelle imprese di matrice pubblica. Quando parlo della necessità di creare strumenti di controllo, mi riferisco a strutture che siano in grado di esercitare controlli veri, dotati per questo di poteri autentici, che possano essere utilizzati con tempestività, badando alla sostanza di quello che la Costituzione prevede in difesa dei diritti del cittadino.
In questo contesto non può essere eluso il tema ed il problema di norme costituzionali che meglio di quelle attualmente in vigore diano senso e sostanza ai diritti di chi opera nell'economia reale e lotta per il suo sviluppo.
L'Italia sarà in grado di realizzare gli obiettivi che l'Unione europea ha cercato di darsi con il trattato di Maastricht solo se nel suo nuovo assetto potrà dare il giusto peso anche a quella parte del sistema produttivo formato da piccole e medie imprese, lavoro autonomo e da quelle filiere del terziario di mercato che oggi assai più di dieci anni fa sono diventati componenti essenziali, addirittura predominanti, nella formazione del prodotto interno lordo.
Sono state tali strutture economiche che, insieme con le altre della grande impresa privata, hanno consentito al nostro paese di sopravvivere in questi anni alle dissennatezze della politica e a fare dello sviluppo un processo moderno, speriamo irreversibile.
Ne discende un corollario che in questa sede non va sottovalutato. Se è vero che nessuno, noi meno degli altri, intende mettere in discussione il primato della

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politica, linfa vitale di una moderna ed autentica democrazia, è altrettanto vero che acquistano parallelamente sempre maggiore peso specifico e valenza economica e sociale quelle forze imprenditoriali che non solo producono occupazione e ricchezza, ma sono esse stesse i cardini dello sviluppo di un moderno mercato. Vogliamo una classe politica che sia capace di alimentare la crescita di queste componenti imprenditoriali, che lavori per lo sviluppo di una democrazia sana e che sia garanzia dei diritti dell'individuo.
Il problema oggi, in tema di nuovo assetto del nostro Stato e di riforma della Costituzione, è proprio quello di sapere coniugare nel modo più appropriato, e con giusto senso di prospettiva, i poteri concessi alla rappresentanza politica con quelli di cui l'economia reale ha bisogno per lottare sui mercati, produrre ricchezza, anzi difendere ed accrescere, attraverso l'occupazione, il potere dell'individuo e la sua autonomia.
L'Italia sta vivendo una situazione per certi versi simile a quella del dopoguerra che portò alla Costituzione del 1948. Come allora fu necessaria una nuova Costituzione per portare definitivamente il paese dentro la democrazia e lo sviluppo, oggi è necessaria una riforma costituzionale che riporti il paese ad una democrazia governabile che si richiami alla Costituzione materiale e formale dell'Unione europea, ad un Governo centrale più forte e più snello, ad una burocrazia centrale meno onnipresente e più efficiente, a livelli di governo settorial-funzionale più privatisti e pluralisti (università, fondazioni bancarie, camere di commercio, autorità indipendenti), a livelli di governo regional-federale che prevedano nuove autonomie caratterizzate dall'autogoverno da parte dei corpi intermedi e da aggregazioni territoriali dotate di poteri più ampi.
Occorre, in definitiva, una forte applicazione del principio di sussidiarietà e di interdipendenza solidale articolata nei livelli di Governo e di responsabilità.
Il tema della Costituzione economica non può essere eluso perché imposto dall'Europa e dai parametri monetario-finanziari di Maastricht, anche se questi andranno rivisti e comunque interpretati.
È inoltre indispensabile che tali parametri vengano collegati in parallelo al riconoscimento di un insieme di entità economiche e sociali di cui è fatta l'economia reale e la società italiana; che tali realtà vengano coinvolte nella crescita e non emarginate; che vengano coinvolte nella competitività ed individuate come il bacino privilegiato per l'occupazione presente e futura, in un contesto di finanza pubblica sana e non inflazionistica.
L'Italia sarà in grado di affrontare meglio il cambiamento di Maastricht se verrà riconosciuto dalla bicamerale il suo sistema produttivo accentrato sulle piccole e medie imprese, sul lavoro indipendente, sui distretti industriali e turistici, sul binomio urbanesimo-qualità del consumo, sul risparmio, eccetera.
Imprese private, lavoro autonomo e parte del sistema finanziario ed infrastrutturale rappresentano la forza dell'economia e hanno consentito al paese di sopravvivere in quest'ultimo ventennio alle dissennatezze della politica. Del resto, è l'economia che ha attuato il cambiamento, laddove la politica l'ha solo promesso. È l'economia che gode di credibilità europea ed internazionale. Le istituzioni economico-finanziarie pubbliche hanno fallito, con la sola eccezione della Banca d'Italia, la cui credibilità e competenza si sono confermate ed accresciute.
Se dovessimo valutare quali ceti hanno determinato il progresso, dovremmo concludere dicendo che sono stati principalmente i ceti economici in senso lato (imprese e lavoratori) e i ceti sociali (associazioni di categoria, sindacati, movimenti di opinione) piuttosto che quelli politici. Ne discende un messaggio. La politica e le istituzioni devono essere dimensionati all'economia e alla coesione sociale: l'Italia forte in economia reale e socialmente coesa per diventare rilevante in politica.
Difficile è l'opera dei costituenti di questo fine secolo perché si trovano a dover affrontare una serie di grandi temi: cercherò di elencarli. Anzitutto la fine

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dello Stato-nazione, basato sulla concentrazione del potere politico in centri territoriali superiorem non recognoscentes. L'affermazione è chiara se si pensa che la Comunità europea è una forma di organizzazione politica della società, ma non è uno Stato e, probabilmente, non sarà mai qualcosa di simile ad esso. I regolamenti comunitari sono rivolti direttamente ai cittadini, mentre agli Stati è solo demandato il compito di vigilare sulla loro osservanza.
Altro tema è quello della crisi del blocco Stato-nazione-mercato. La nuova parola d'ordine è la liberalizzazione dei mercati, ossia la loro internazionalizzazione. Quest'ultima ha aperto una contraddizione profonda, nel senso che le politiche economiche dei singoli Stati hanno un limitatissimo raggio di azione, controllano solo un frammento del mercato e non sono in grado di influire sul sistema economico complessivo. È diventato un pericolo incombente - è storia di questi mesi - che la ricchezza può non avere nazione e che le nazioni possono restare all'improvviso prive di ricchezza.
Una terza considerazione riguarda il fatto che un certo rinascente nazionalismo e molte componenti dello stesso regionalismo autonomista nascondono spesso operazioni di mercato, sicché l'indipendenza che viene rivendicata è in funzione di una nuova dipendenza economica. Ci si vuole sottrarre ad un'area di influenza per entrare in un'area di influenza diversa.
Ne consegue che riformare le istituzioni, che sono le regole del gioco di una società, significa cambiare forma agli incentivi che sono alla base dello scambio, sia esso politico, sociale o economico.
Non si può certo negare, ad esempio per il Mezzogiorno, che le differenze dei risultati economici nel tempo siano dipese dagli assetti istituzionali. Sicché la scelta di una forma di Stato a forte connotazione regionale, come ha influenzato per altri versi il passato, influenzerà il presente ed il futuro. I vincoli istituzionali, come è noto, comprendono sia i divieti all'azione che le attività consentite nei differenti contesti.
Bisogna allora essere consapevoli che, agendo sull'autonomia senza che sia stato previsto e definito un sistema che accerti le infrazioni e commini le pene, si può modificare l'assetto dello sviluppo territoriale, aumentare o diminuire i differenziali di PIL, cambiare la struttura dell'impresa e quindi dell'occupazione.
In sintesi, la competizione di interi contesti territoriali potrebbe crescere a dismisura, con conseguenze che vanno oltre la teoria della competizione fin qui sperimentata dai fautori dell'Europa delle regioni. Si tratterebbe di una competizione foriera anche di divisioni, che hanno come soggetti intere comunità le quali, al posto dei motivi etnici o religiosi, porrebbero la questione del tenore di vita da salvaguardare per sé e per le nuove generazioni.
È noto che il pluralismo dei corpi sociali è un sistema di rappresentanza che, scomponendo i conflitti e trasformandoli in differenze di interessi specifici e quindi negoziabili, favorisce la legittimità e la stabilità politica.
Né va dimenticato che nella transizione italiana l'area sociale del lavoro indipendente e delle piccole e medie imprese è quella che ha maggiormente sostenuto la reazione al sistema tangentizio già a partire dalla recessione del 1993, alla quale il governo Amato fece fronte appoggiandosi proprio all'accordo del luglio di quell'anno.
La verità è che, all'origine dell'attuale crisi, vi è il logoramento delle convinzioni politiche e dei valori vecchi: è proprio questo declino della legittimità politica che non permette di accrescere l'efficienza dello Stato. Chi ricorda le ragioni per le quali nella Germania di Weimar gli imprenditori e il sindacato non riuscivano a negoziare quegli accordi che avrebbero evitato l'intervento dello Stato nelle relazioni industriali, non può non convenire, anche nel caso italiano, sulla necessità di trovare una strada nella Costituzione che contempli, accanto alle funzioni dei partiti e dei governi, anche quelle dei gruppi di interesse.
Ciò può avvenire portando allo scoperto il tema della composizione della

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seconda Camera; affiancandovi un sistema di autonomie funzionali elettive costruito tra camere di commercio e CNEL, con o senza possibilità di designazione nella Camera alta; accompagnando il neoregionalismo con organismi di rappresentanza sociale cui spetti, su alcuni temi attinenti al sistema produttivo, il parere obbligatorio; mettendo in parallelo, ad una pubblica amministrazione riformata ed alleggerita, funzioni integrative fornite dal sistema delle rappresentanze datoriali e del lavoro; introducendo tramite la concertazione la validità dei contratti erga omnes e delegando, almeno in parte, ai sistemi di rappresentanza le funzioni del collocamento e dell'incrocio tra domanda e offerta di lavoro.
È questa una serie di questioni più che di opzioni perché ciò che importa (credo sia questo il connotato fondamentale del nostro intervento) è che il tema della democrazia economica, questa volta, non venga rimosso o accantonato come accadde nel 1948, pena il rischio - che certo non verrà corso - che il nuovo Stato appaia come l'appannaggio di alcuni interessi particolari e non come l'agente dell'interesse dell'intera società produt-tiva.
Dopo questa introduzione, signor presidente e onorevoli parlamentari, abbiamo formulato una serie di proposte che riguardano le parti sociali, la concertazione del CNEL, la Costituzione economica, il ruolo del mercato e dell'impresa, la ridefinizione delle attribuzioni dello Stato, il federalismo fiscale ed il sistema tributario, il funzionamento e l'organizzazione delle pubbliche amministrazioni, il sistema delle garanzie.
Lascio agli atti queste proposte e resto a disposizione per ulteriori chiarimenti.


PRESIDENTE. Ritengo opportuno dare la parola prima a tutti i rappresentanti e successivamente ai colleghi, altrimenti rischiamo di svolgere una serie di discussioni ripetitive.


MARCO VENTURI, Segretario generale della Confesercenti. Signor presidente, onorevoli componenti della Commissione bicamerale, innanzitutto vi ringrazio, a nome della Confesercenti, per averci invitato, con un atteggiamento di coerenza, perché spesso le parti sociali non vengono messe sullo stesso piano; in passato abbiamo avuto modo di lamentare questo fatto. Mi limito ad esprimere alcune considerazioni, visto che abbiamo consegnato il nostro documento alla Commissione.
La Costituzione in vigore è una Costituzione solida, che ha garantito diritti e democrazia nel nostro paese. Oggi i profondi cambiamenti che ci sono stati nel paese impongono un aggiornamento della Costituzione e delle istituzioni, che vanno profondamente rinnovate. Vi è bisogno quindi di uno Stato moderno, uno Stato al servizio dei cittadini, che sappia mettere mano alle riforme e quindi rispondere a questi bisogni; si tratta di bisogni che sono cambiati, bisogni sia collettivi sia individuali.
Cito solo due esempi per sottolineare questi cambiamenti: i diritti dei consumatori, che non sono previsti nella nostra Carta costituzionale, e il diritto alla sicurezza dei cittadini. È un bisogno nuovo che sta emergendo: puntare sulla prevenzione, sulla risposta alle vittime dei fenomeni criminali, quindi non solo ad una repressione che in qualche modo è fallita, perché quando l'85 per cento dei reati nel nostro paese rimane impunito in quanto gli autori sono ignoti, rimane il problema di chi subisce questi reati. Va dunque affermato il diritto alla sicurezza.
L'auspicio che esprimiamo è quello di un ulteriore impegno del Parlamento, dopo l'aspettato ed auspicato successo di questa Commissione bicamerale; rivolgiamo quindi l'augurio che il Parlamento possa completare la riforma della Costituzione, passando successivamente alla revisione della parte prima della Costituzione, in particolare del titolo III.
Manca nella Costituzione ogni riferimento al mercato ed all'impresa e noi riteniamo che sia fondamentale recuperare questo riferimento. La piccola e media impresa ha bisogno di uno Stato regolatore, che non gestisca, che tuteli il mercato ma anche il ruolo sociale della piccola e media impresa, la quale ha


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assicurato alcune risposte fondamentali nel nostro paese, quella del lavoro ed anche del desiderio del lavoro dipendente, che si è sempre più allargato nei bisogni dei nostri cittadini. Inoltre, la piccola e media impresa ha risposto in particolare ad una situazione di difficoltà del paese proprio in questa fase di transizione politica, quando negli anni novanta abbiamo conosciuto una profonda instabilità politica, con governi che duravano circa un anno e quindi erano incapaci di fare quelle riforme di cui c'era bisogno. La copertura di quei vuoti politici è stata in qualche modo assicurata dalle piccole e medie imprese, dalle rappresentanze dei lavoratori dipendenti, che attraverso la concertazione continua che vi è stata con tutti i governi tecnici in particolare hanno garantito la tenuta economica del paese in una situazione di profonda difficoltà.
Vi è bisogno quindi di uno Stato leggero, più vicino ai cittadini, unitario e federalista, non solo in campo amministrativo, ma anche in campo fiscale. Occorre un'autonomia impositiva, che sia però contestuale al trasferimento dei poteri e delle funzioni verso il territorio, perché in mancanza di una contestualità il rischio è che la fiscalità locale sia aggiuntiva, non modificando i costi del centro.
Bisogna salvaguardare il principio di sussidiarietà, per evitare ulteriori forti squilibri nel nostro paese che sono già abbastanza vistosi sul piano dell'economia, dell'occupazione, ed in questa opera di decentramento e di trasferimento di poteri e funzioni va valorizzato il ruolo dei comuni e delle province. L'autogoverno locale consente una maggiore partecipazione delle varie istanze sociali, una maggiore moralità pubblica, trasparenza, decisioni più responsabili. Per esempio, per quanto riguarda i nostri settori, occorre un trasferimento più spinto di poteri e funzioni nell'ambito del commercio e del turismo. Di questo autogoverno fanno parte le camere di commercio e le APT, che non sono un'espressione decentrata, ormai, dell'Unioncamere o dell'ENIT, ma sono espressione diretta del territorio, soprattutto con le nuove regole di governo delle camere di commercio, attraverso la presenza delle associazioni di categoria, che sono quindi attori dello sviluppo economico locale.
È necessario costruire uno Stato unitario, decentrato, ma che sia efficiente e stabile; in mancanza di stabilità di governo e di stabilità politica non si fanno riforme. Da decenni parliamo di riforma fiscale e non siamo riusciti ad ottenere un risultato in questa direzione. Parliamo di riforma della pubblica amministrazione ed i primi atti sono stati emanati recentemente con la riforma Bassanini. Per raggiungere questo risultato, occorre una riforma elettorale che vada nella direzione del bipolarismo, all'interno del quale i partiti svolgano, sì, un ruolo importante, ma con regole che ne limitino il proliferare. Vi è bisogno di un esecutivo forte - quindi con un'investitura diretta del premier - e del rafforzamento delle funzioni di controllo del Parlamento e della stessa opposizione. Vi è bisogno di trasferire al Governo tutta la legislazione minuta, che non può ingolfare il Parlamento, il quale deve legiferare sulla parte più importante.
Lo stesso CNEL, a nostro parere, può avere una funzione di supporto, così come previsto, del Parlamento, ma ormai può svolgere e svolge anche nuove funzioni, come quella dell'allargamento della rappresentanza sociale con le consulte e soprattutto quella di supporto alle iniziative di sviluppo locale, come per esempio la gestione dei patti territoriali. Questa è una funzione che andrebbe valorizzata ulteriormente.
Vi è bisogno quindi di uno Stato moderno che passi attraverso una pubblica amministrazione moderna, efficiente, snella, con pochi adempimenti e fortemente decentrata. D'altronde i sistemi tecnologici consentono di venire incontro alle esigenze dei cittadini. Diversamente, la pubblica amministrazione può diventare un forte ostacolo all'efficienza del sistema paese, in particolare alla capacità competitiva delle imprese, soprattutto delle piccole e medie imprese. C'è la riforma Bassanini, quindi probabilmente bisognerà andare oltre quella riforma.

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Occorre agire per modificare anche tempi e modi di azione del Consiglio di Stato, in cui rischiamo di bloccare ogni decisione da parte del Parlamento. L'ultimo esempio che cito è quello dei regolamenti per la legge antiusura, che successivamente alla loro approvazione sono passati dal Consiglio di Stato alla Corte dei conti dopo moltissimo tempo, mentre nel paese si era creata un'aspettativa fortemente positiva.


IVANO SPALANZANI, Presidente della Confartigianato. Ringrazio di cuore lei, signor presidente, e tutti i commissari per l'invito che ci è stato rivolto.
Premesso che sono stato incaricato, con un accordo preventivo, di parlare a nome di tutte le confederazioni dell'artigianato, in questa occasione, a nome della Confartigianato, della CNA e della CASA, espongo una breve sintesi sulle riforme rinviando alla memoria consegnata alla Commissione.
Quello che ci sembra il presupposto dei presupposti in questa sede è l'individuazione del bilanciamento tra principio di autorità e principio democratico. Quando si deve favorire la stabilità del sistema attraverso una maggiore incidenza della discrezionalità dell'esecutivo, nulla si può fare alienando le garanzie essenziali dello Stato democratico.
Non dobbiamo dimenticare che la legge rappresenta lo strumento di potere sovrano, lo strumento di governo per eccellenza, in quanto espressione della sovranità popolare. In particolare, il corpo elettorale è il primo depositario della funzione di indirizzo politico sia attraverso gli istituti di democrazia rappresentativa sia attraverso quelli di democrazia diretta.
La nostra Costituzione stabilisce che ogni decisione autoritativa debba essere presa secondo determinati procedimenti: la nostra è una democrazia procedimentale fatta di regole affinché la sovranità popolare non rimanga tale solo sulla carta.
La democrazia non ammette nessuna forma di potere incondizionato, e perciò il principio di riferimento è quello della separazione dei poteri e, vista per le ragioni suesposte la prevalenza del potere legislativo perché rappresentativo del popolo sovrano, si conferma la preminenza della legge sugli altri atti normativi, sancendo sia il principio di legalità sia quello di gerarchia delle fonti.
In questo modo, sussistono garanzie democratiche contro ogni possibile forma di eccessiva discrezionalità sia nei confronti del Governo sia da parte del potere giudiziario.
Sono queste le regole del gioco democratico che si svolgono, pure in coerenza con il principio maggioritario nel rispetto delle minoranze, nel principio di responsabilità politica, reso possibile dalla pubblicità dei procedimenti normativi che, a loro volta, devono essere trasparenti per consentire un controllo democratico.
Altre forme di separazione, nel rispetto del pluralismo istituzionale, le abbiamo con la divisione verticale di competenze tra lo Stato e le differenti forme di autonomia politica territoriale ed amministrativa locale; pluralismo che si manifesta anche con la partecipazione dei diversi gruppi socio-economici.
Questi sono per noi gli irrinunciabili caratteri del nostro modello democratico, alla luce anche di ciò che rappresentiamo nell'ambito di quello che possiamo definire sistema di democrazia economica.
Per quanto riguarda il discorso sulle riforme, non possiamo non condividere le critiche all'attuale modello parlamentare penalizzanti per il nostro sistema politico, economico e istituzionale.
Non è però accettabile pensare, qualunque opzione risulti prevalere - presidenzialismo, semipresidenzialismo o cancellierato - alla sottrazione di competenze su determinate materie a favore del governo o di un presidente, perché ciò marcherebbe un grave deficit di democrazia. Allo stesso modo, non è pensabile una discrezionalità dell'esecutivo senza limiti legislativi che rappresentano un essenziale fattore di democrazia.
Allo stesso modo è impensabile mantenere l'attuale sistema di legislazione minima attraverso leggi-provvedimenti, leggine che formano quella selva inestricabile


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di norme che richiede un'imponente opera di delegificazione e razionalizzazione.
Le leggi dovrebbero disegnare una disciplina generale ma rigorosa per ogni singolo settore, lasciando maggiore spazio alla discrezionalità in sede amministrativa, nel rispetto del principio di legalità e di legittimità.
L'eccesso di discrezionalità, infatti, penalizza la prevedibilità e la visibilità del percorso decisionale, in quanto crea zone d'ombra lasciando fuori, in tutto o in parte, quote di società dal processo democratico, favorendo quei poteri forti che hanno strumenti per incidere sull'opinione pubblica. Lo stesso dicasi per la discrezionalità giurisdizionale, perché anche una giustizia certa è un fattore essenziale tanto per l'economia quanto per la democrazia.
All'uopo sarebbe pure opportuno costituzionalizzare i principi di semplicità e di trasparenza delle procedure, nonché di apertura della pubblica amministrazione ai cittadini ed alle imprese.
Sarebbe poi positivo pensare ad un percorso di formazione delle norme, sia legislative sia regolamentari, nel quale venisse riconosciuto un ruolo consuntivo anche se non vincolante alle rappresentanze sociali ed imprenditoriali attraverso la mediazione del CNEL a livello centrale ed a quella delle camere di commercio regionali integrate per il livello regionale.
Qualora prevalga la differenziazione del ruolo delle camere, il Senato potrebbe inserirsi nel procedimento legislativo in funzione di controllo e di stimolo sulla qualità e sulla velocità del percorso formativo della legge.
In effetti, il prodotto legislativo deve poter essere indagato molto più approfonditamente per dare corpo e significato al principio di responsabilità politica. Si devono accertare in modo penetrante le responsabilità sulle lentezze e sulle inefficienze del procedimento, in modo da poter individuare e denunciare abusi ed inerzie: manca un sistema di regole per consentire alle minoranze di poter avviare e portare a termine il dibattito su iniziative diversamente destinate a galleggiare in eterno.
Tale attività potrebbe essere svolta dal Senato di concerto con il CNEL ovvero con le forze sociali per verificare, durante il procedimento legislativo, l'impatto socio-economico della legislazione. A ciò si potrebbero aggiungere ulteriori competenze, come il controllo preventivo sulla legittimità costituzionale delle leggi, oppure quella sulla prevedibilità del rischio di un eventuale eccesso di potere legislativo, unitamente ad un controllo finanziario e di spesa di concerto con la Corte dei conti.
Si dovrebbe altresì prevedere che qualora all'attività di impulso e stimolo della camera di controllo non sortisse alcun esito, allora la richiesta da parte di una quota ristretta di senatori potrebbe consentire di partecipare in modo completo al procedimento di formazione di quella specifica normativa.
Questa eventuale nuova funzione del Senato, anche in virtù di una dialettica con le forze sociali, consentirebbe un vero controllo democratico ed una più efficace partecipazione anche della società economica, rendendo giustizia ad un concetto credibile di democrazia economica.
Questi ragionamenti svolti relativamente alla legge valgono allo stesso modo per il procedimento amministrativo, che attualmente non consente alcuna forma di dialettica tra le forze sociali e le autorità di governo. Evidentemente, questo discorso non concerne i cosiddetti aspetti formali riconosciuti attraverso la pratica delle audizioni e dell'accesso ai procedimenti amministrativi, che garantiscono, attualmente, la sola cognizione, ma riguarda il merito delle scelte, particolarmente per quanto attiene all'impatto socio-economico dei provvedimenti, concernendo quindi le opzioni politiche che debbono venir assunte in modo visibile, pubblico e plausibile.
Tornando a parlare della seconda Camera, prende corpo, pure in vista del federalismo, il problema della composizione, vista l'inaccettabilità della designazione dei suoi componenti da parte delle sole giunte regionali, che penalizzerebbe, regione per regione, il ruolo delle minoranze, le quali non avrebbero nessuna

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possibilità di partecipare al processo di traslazione della sovranità del popolo agli organi rappresentativi dello Stato. Una soluzione potrebbe sovvenire dalla combinazione tra diversi modelli.
Non potendo adottare la soluzione statunitense, che manda al Senato due componenti per ogni Stato, a causa delle forti differenze di densità demografica delle nostre regioni, sarebbe preferibile adottare un criterio proporzionale che tenga conto della popolosità e che, combinato con il numero fisso all'americana, darebbe una forbice che consentirebbe la definizione di parametri numerici fissi: da x a y.
Posto ciò, ogni polo potrebbe presentare tanti candidati da contrapporre a quelli dell'altro polo, che formerebbero liste da votare a livello regionale dallo stesso elettorato della camera, che potrebbe premiare la rispettabilità, la notorietà, il prestigio elettorale che ogni singolo candidato ha saputo guadagnare nel livello regionale per la sensibilità verso i vari problemi.
Con questo procedimento si dimezzerebbe il numero dei componenti senza mortificare i livelli di rappresentanza, consentendo altresì, a tutte le singole popolazioni regionali, di partecipare al primo processo democratico per eccellenza: quello elettorale.
Volendo entrare nel merito della questione della riforma federalista, ove dobbiamo registrare una convergenza generale di opinioni verso il rafforzamento delle autonomie, va subito evidenziato come lo Stato federale appartenga comunque alla categoria dello Stato unitario. Infatti, il postulato della equiordinazione in seno allo Stato federale trova applicazione solo nei rapporti tra gli Stati membri ma non in quelli tra Stato federale e suoi componenti, essendo certa la posizione preferenziale del primo.
In altri termini, non sussiste una differenza sostanziale tra regionalismo e federalismo, trattandosi, piuttosto, di due diverse espressioni della medesima ispirazione. Non a caso la preferenza per l'apparato centrale dello Stato federale e l'abbandono del modulo della equiordinazione tra Stato federale e Stati membri sono confermati dalla più recente evoluzione del federalismo e dall'affermarsi del principio cooperativistico, del cosiddetto federalismo cooperativo. Di conseguenza, quando si parla di riforma in senso federalista sarebbe fuorviante pensare ad una dissoluzione dello Stato nazionale; si deve invece ragionare in termini di ridefinizione delle autonomie. In tale prospettiva si dovrà privilegiare lo schema della regione vista come ente di governo piuttosto che come ente di amministrazione, con funzioni di indirizzo e di coordinamento, attribuendo tutte le altre funzioni amministrative agli enti locali minori nell'ambito della programmazione regionale, esaltando la municipalità e ridisegnando l'ente intermedio attraverso i nuovi strumenti delle aree metropolitane e dei consorzi di comuni.
Nel disegnare le tassative competenze centrali non ci si può, tuttavia, limitare a quelle più evidenti: spada (difesa), moneta (sistema monetario) e toga (sistema giudiziario) perché esistono settori che per un vario ordine di ragioni necessitano di una visione non frammentata (rapporti internazionali, cultura, ricerca - nel rispetto dell'autonomia universitaria - consumo, comunicazioni e trasporti, eccetera).
In particolare l'economia sembra richiedere, almeno nelle sue linee di fondo, una regia unitaria realizzabile anche attraverso il criterio di sussidiarietà, a cominciare dalla gestione delle quote di solidarietà da concepire di concerto con le forze sociali in funzione di sviluppo delle aree territoriali deboli.
Anche per l'artigianato una frammentazione normativa sarebbe gravemente negativa; non ha alcun senso pensare che le materie dell'articolo 117 debbano essere il punto di partenza per una maggiore acquisizione non sostenuta da esigenze di razionalità. Quale vantaggio ne trarrebbe il nostro settore se al posto di una legge-quadro spuntassero tanti statuti dell'imprenditore artigiano quante sono le regioni? Come minimo, occorrerebbe una regolamentazione nazionale di principio che consideri in una legge dello Stato le

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condizioni irrinunciabili dell'innovazione e della rimodulazione della figura dell'artigiano, per evitare che essa sia resa evanescente da una polverizzazione concettuale.
Si tratta di riservare allo Stato l'impostazione di governo e di disciplina sostanziale del settore artigiano; mentre tutto ciò che non è politica dell'artigianato, ma condizione giuridica normativa dell'artigianato in quanto bene (insediamento e realtà economica e sociale) vada ad appannaggio delle regioni.
Occorre infine valutare ulteriormente lo stretto rapporto sussistente tra informazione e meccanismo di formazione della critica politica, che sono vere e proprie precondizioni al voto democratico, quindi, al momento del trasferimento della sovranità del popolo ai propri rappresentanti.
Questo discorso assume un significato ulteriore in vista della possibile istituzione di una rete televisiva federale pubblica. In questo senso, non chiediamo tutele di alcun genere, ma una rappresentazione effettiva della realtà, cosa questa che attualmente non avviene presso il servizio pubblico nazionale che trascura gravemente il ruolo svolto nell'economia dall'artigianato e dalla piccola e media impresa.


PRESIDENTE. Nel ringraziare i rappresentanti del mondo dell'artigianato che sono presenti con un'unica relazione - anche se nel corso della discussione tutti potranno intervenire - do la parola all'onorevole Soda.


ANTONIO SODA. Ringrazio i rappresentanti della Confcommercio, della Confesercenti, della Confartigianato e dei sindacati degli artigiani per aver sottolineato una serie di problemi su cui anche noi ci stiamo logorando in termini di approfondimento e di riflessione.
Porrò alcune domande riguardanti quattro o cinque tematiche. Dai documenti consegnati e dalle approfondite relazioni esposte, i rappresentanti di questo mondo produttivo così importante per la vita del nostro paese, è emersa la rilevanza dell'autonomia impositiva ai fini del federalismo fiscale.
Uno dei temi in discussione nell'ambito della Commissione bicamerale è rappresentato dalla concezione del federalismo fiscale, in ordine al quale molti fanno riferimento alla realtà storica dei paesi fortemente federalisti, i quali segnalano la necessità di conservare allo Stato centrale la grande strumentazione dei tributi: in altri termini, i grandi tributi restano allo Stato unitario anche nei paesi a forte federalismo.
Il tema che abbiamo di fronte consiste nel definire, a livello costituzionale, il contenuto dell'autonomia impositiva in relazione a questo processo storico, ormai definito, della conservazione dei grandi tributi allo Stato unitario.
La domanda specifica è la seguente: l'IREP - che ha rappresentato un'anticipazione nell'ambito della riforma fiscale da noi tentata con la passata legge finanziaria - è sufficiente per realizzare l'autonomia impositiva o, comunque, contiene in sé il primo nucleo di realizzazione dell'autonomia impositiva medesima? Secondo voi come si concilia l'autonomia impositiva con la necessità di conservare i grandi tributi, e la loro gestione, in mano allo Stato unitario?
E allora, se il federalismo fiscale, per quanto riguarda l'aspetto dell'autonomia impositiva, incontra un limite nell'impossibilità funzionale di trasferimento di poteri impositivi agli enti politici territoriali, il versante del federalismo fiscale non va piuttosto ricercato nel momento della ripartizione delle risorse e del suo governo, nel quadro della distinzione di funzioni legislative tra Stato unitario e regioni nonché del trasferimento massimo, secondo il principio di sussidiarietà, delle funzioni amministrative agli enti territoriali minori, per intenderci alle municipalità? Non è questo il tema sul quale occorre organizzare un vero, autentico federalismo fiscale? Chi decide la ripartizione delle risorse, chi gestisce il processo di continuo assestamento, a mano a mano che il federalismo avanza, in termini di consegna di funzioni agli enti


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politici territoriali? È un tema questo sul quale vorrei conoscere l'opinione dei rappresentanti del mondo produttivo presenti alla seduta odierna.
Passo ad un'ulteriore tematica sulla quale vi invito a riflettere. I nostri ospiti si sono riferiti al principio di sussidiarietà che, è chiaro, si realizza attraverso la sussidiarietà funzionale e la sussidiarietà verticale. Secondo l'opinione degli esponenti del mondo produttivo, una sussidiarietà orizzontale che coinvolga nell'erogazione di servizi le formazioni sociali e produttive, è un tema da costituzionalizzare oppure no? Mi spiego meglio: quando si dovrà scrivere che ci si ispira al principio di sussidiarietà, si dovrà definire tale principio tenendo conto del concetto del trasferimento delle funzioni verso l'ente più vicino ai cittadini o, accanto all'ente, si dovrà inserire anche la presenza delle formazioni sociali?
Il terzo tema riguarda il CNEL che ha svolto un ruolo minimo, non propulsivo, contrariamente a quanto immaginarono i costituenti. Secondo alcuni analisti e studiosi, questo organo è fallito perché la sua natura era profondamente corporativa e chiusa.
La Commissione bicamerale potrebbe orientarsi verso la sua abolizione oppure verso una sua radicale e profonda trasformazione. Francamente, sono favorevole a una radicale trasformazione e non alla scomparsa di questo istituto, perché ritengo sia necessaria una sede in cui le formazioni sociali possano dialogare con le istituzioni.
Come immaginate che possa essere e quale ruolo, composizione e articolazione dovrebbe avere, a vostro avviso, lo stesso istituto?
Il quarto tema che intendo affrontare si traduce in una domanda piuttosto secca relativa al Consiglio di Stato, i cui limiti di funzionamento sono stati descritti in alcuni interventi, che definisco magistrali, dell'ex direttore de la Repubblica. A vostro avviso, il Consiglio di Stato deve avere una funzione consultiva o deve conservare anche quella giurisdizionale?
Poiché i processi amministrativi che sfociano nel giudizio finale del Consiglio di Stato coinvolgono spesso il mondo produttivo, voi siete (oltre che i cittadini ordinari per la tutela dei vecchi interessi legittimi) coloro che maggiormente hanno praticato la giustizia amministrativa. Ritenete opportuno che questa funzione di secondo grado della giustizia amministrativa resti affidata al Consiglio di Stato, o non pensate piuttosto che, nel quadro di una più compiuta unità della giurisdizione, queste funzioni dovrebbero essere sottratte al Consiglio di Stato e riorganizzate in un quadro più unitario? Mi fermo qui.


PRESIDENTE. Qui il problema è porre alcuni quesiti, ma questo è l'esame di maturità, l'esame di Stato!
Hanno chiesto di intervenire il senatore D'Onofrio e il senatore Servello; poi, per le risposte, ci affidiamo alla vostra autorganizzazione.


FRANCESCO D'ONOFRIO. Chiedo ai presidenti delle associazioni del settore del commercio e dell'artigianato di dare alcuni suggerimenti basati sulla loro esperienza concreta, soprattutto su due punti. Quanto al primo, noi stiamo discutendo se debba rimanere o meno - ed eventualmente quale - l'organizzazione provinciale dello Stato. A livello provinciale lo Stato è presente con il prefetto, il questore, il provveditore agli studi, l'intendente di finanza, la motorizzazione civile, gli uffici del lavoro, nonché strutture dei Ministeri delle finanze e del tesoro e della Banca d'Italia: si tratta di un insieme di funzioni pubbliche statali decentrate su base provinciale. Sarebbe quindi importante sapere se questi settori produttivi, i loro associati e le loro attività, traggano o meno vantaggi - e quali - dalla presenza periferica dello Stato, nonché se e quali di tali funzioni, a loro avviso, potrebbero essere trasferite agli enti locali. Lo dico anche per uscire dalla mitologia che qualche volta emerge su questo tema; quanto agli enti locali, vorrei quindi capire se queste funzioni che oggi lo Stato esercita su base provinciale dovrebbero essere trasferite agli 8 mila comuni, a qualche ente intermedio elettivo chiamato


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provincia o in altro modo oppure ad uffici provinciali della regione. Altrimenti, corriamo il rischio di non capirci. Vi chiedo questo sulla base della vostra esperienza.
La seconda questione riguarda un altro aspetto molto delicato dell'equilibrio tra l'esigenza di una normativa nazionale ed europea e la possibilità che vi siano normative differenziate per regioni. Parlo di normative soprattutto in riferimento alle leggi, sapendo però che il confine tra legge e regolamento non è così rigido come si può immaginare.
Ho sentito parlare, per esempio, dell'opportunità che l'impresa artigiana, come quella commerciale, sia oggetto di una disciplina nazionale uniforme, opinione che mi sembra assolutamente prevalente anche tra i più federalisti di noi componenti la Commissione bicamerale.
Mi chiedo allora se la legislazione penale debba rimanere identica su tutto il territorio nazionale. Inoltre, la legislazione ambientale, che riguarda i criteri di inquinamento relativamente alle attività, che può rappresentare un differenziale non banale tra le varie zone del territorio, è opportuno che resti a livello nazionale per consentire la libertà di decisione territoriale?
Dico questo perché si è affermata la mitologia dei famosi quattro settori (esteri, difesa, giustizia e moneta), ma poi in realtà, quando si vanno a scegliere gli ambiti di uniformità nazionale, ci si accorge che le esigenze possono essere non riconducibili a questi settori.
Una questione molto delicata riguarda il credito che, nell'esperienza dei trasferimenti di funzioni alle regioni, è stato un'attività che è andata progressivamente ancorandosi a decisioni delle regioni. Vi sono, al riguardo, due aspetti distinti: la decisione sull'istituzione di un'azienda di credito, l'apertura di uno sportello, la nascita di un'azienda sono decisioni di dimensione prevalentemente europea o nazionale. È opportuno che la disciplina dell'esercizio del credito, come funzione pubblica, resti a livello nazionale o le politiche del credito, che sono già notevolmente regionalizzate, possono favorire, per così dire, il commercio, l'artigianato, il lavoro dipendente in altro modo? Lo dico in riferimento alle battaglie condotte dalle categorie produttive qui presenti, almeno negli ultimi anni (in attesa delle riforme costituzionali), per potenziare gli istituti centrali: penso all'Artigiancassa e ad altre organizzazioni centrali di erogazione di credito che le categorie hanno considerato come strutture da potenziare. Tali strutture vanno mantenute o soppresse? Vanno trasferite alle regioni, ai comuni?
Tra l'altro, quando si parla dell'esaltazione dei comuni, vorrei capire se ciò riguardi anche tali questioni oppure altre. Mi sembra importante che i nostri interlocutori rispondano, sulla base della loro esperienza, a queste domande concrete.
Passando ad un'ultima considerazione, vorrei evitare anche in questo caso la mitologia; uso questa espressione perché mi rendo conto che l'opinione pubblica esterna non riesce a capire bene che cosa stiamo discutendo. Si sta comunque affermando la mitologia del giudice unico, ma devo rilevare che non esiste ordinamento giuridico, tra quelli noti, dei paesi civili, in cui vi sia il giudice unico. L'attività tributaria, amministrativa, penale, civile e contabile è normalmente esercitata da strutture differenziate, non necessariamente da organi giurisdizionali diversi ma certamente - lo ripeto - da strutture differenziate.
Secondo la vostra esperienza concreta, il giudice civile funziona meglio del TAR? La decisione del giudice civile sui crediti è più rapida di quanto sia quella del giudice penale? Lo chiedo per curiosità, per sapere se, secondo la vostra esperienza concreta, la giurisdizione amministrativa abbia ancora caratteristiche utili per il mondo della produzione.


FRANCESCO SERVELLO. Signor presidente, non mi dilungherò su questioni di carattere generale, anche se qualche sottolineatura del presidente Billé meriterebbe un accenno, ma lo farò nel porre la domanda. Quando egli afferma la fine dello Stato nazione e contestualmente riconosce, in un altro passaggio, che non esiste un'Europa nazione né uno Stato europeo, inteso come l'insieme dei vari


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Stati in una formula che possa considerarsi statuale, lascia un vuoto enorme, tant'è vero che, laddove tramontano gli Stati nazione (si veda la Russia sovietica prima, la Iugoslavia poi e l'Albania oggi), tutto va verso l'anarchia. Qual è allora il succedaneo, il surrogato dello Stato nazione (è una domanda che rivolgo a Billé ma anche a tutti gli altri nostri interlocutori)? È forse il neoregionalismo?
Il neoregionalismo, così come è delineato in questo primo progetto, che per la verità ho letto un po' più attentamente degli altri, viene in qualche misura criticato perché credo che la prova data finora dal regionalismo non sia stata positiva né tale da tranquillizzare per il futuro.
Chiedo allora quali siano i compiti che possono essere affidati alle regioni e che queste ultime, così come sono o come devono essere modificate, sarebbero in grado di esercitare per dare maggiore efficienza al funzionamento della cosa pubblica, dei servizi, per dare deleghe molto precise e poteri legislativi diretti alle regioni. Siete in condizione di dire che, così come sono, le regioni possono non dico essere destinatarie di gran parte dei poteri dello Stato, ma esercitare in maniera diretta almeno i poteri che hanno, più altri che riguardino l'agricoltura, il turismo e la stessa sanità? Questa è una domanda che noi ci poniamo anche nel Comitato forma di Stato (è presente il presidente Elia). I messaggi che inviamo alla pubblica opinione sono molto belli: bisogna rinnovare, bisogna rinnovare, bisogna che lo Stato (ciò è sostenuto in qualche misura da qualcuno) abbia poteri residuali. Ma dopo di che, chi esercita questi poteri? Presidente Billé, il neoregionalismo non può in qualche modo rappresentare non dico un rinascente nazionalismo, ma un regionalismo economico, con tutte le conseguenze che questo implica?
Faccio un solo esempio. So che molto presto in una determinata regione potrebbe esplodere un caso energetico importante. Se quella regione avesse tutti i poteri, questo caso energetico lo gestirebbe in proprio o dovrebbe comunque trovare una rispondenza in una cornice di carattere nazionale? Questo può riguardare sia le regioni povere sia quelle ricche. Lo Stato non può scomparire, come si dice nei propositi e nei messaggi che qualche volta leggo sui giornali e sento anche in qualche Commissione e in qualche Comitato. Voi che vivete la realtà regionale così com'è oggi, in quali limiti pensate che i trasferimenti di poteri legislativi e regolamentari possano essere esercitati in ambito regionale?


GIUSEPPE VEGAS. Ho molto apprezzato il richiamo alla necessità di realizzare una democrazia economica superiore a quella attuale. Tuttavia ci troviamo ristretti nel lavoro sulla parte seconda della Costituzione e non sulla prima, e quindi dovremmo trattare più di regole che di principi di carattere generale, tenendo anche conto del fatto che spesso è una questione più di leggi che di Costituzione (come si realizza la democrazia economica) e che la Costituzione, forse, è più adatta a intervenire per stabilire principi e regole nei casi di violazione. Allora, la domanda è la seguente: per realizzare questa democrazia economica, pensate più a strumenti di tutela del mercato, prevedendo meccanismi indipendenti, parlamentari, o altre cose del genere, o più a regole che definiscano un maggiore fair play tra l'economia privata e il settore pubblico, cercando di limitare l'invasività di quest'ultimo?


ARMANDO COSSUTTA. Rivolgo una semplice domanda, anche se in parte è stata data risposta a tale richiesta in qualche intervento dei nostri interlocutori. A proposito del CNEL, ritenete effettivamente che, dal punto di vista non solo della rappresentanza ma anche dell'approfondimento concreto delle vostre istanze, sia la sede più adatta sul piano istituzionale? Comunque, non ritenete che possa prevedersi l'eliminazione del CNEL per dar vita a forme diverse di rappresentanza e di incisività delle vostre organizzazioni, dei vostri consociati? Essendo questo uno dei temi discussi in sede di Commissione bicamerale, vorrei conoscere


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un po' meglio l'opinione della Confcommercio in materia.


PRESIDENTE. Non essendovi altri colleghi che hanno chiesto di parlare, ci avviamo alla conclusione con le repliche. Tendenzialmente si dà la parola a coloro che hanno parlato per primi, ma può parlare chi lo desidera: non c'è problema, potete intervenire come ritenete. Ciò non comporta l'obbligo di rispondere a tutti i quesiti posti, ma soltanto a quelli su cui si ritiene di dover dire qualcosa (non siamo agli esami, ma in una libera discussione). Lo dico perché alcuni colleghi sono stati molto puntuali nel porre le loro domande.


SERGIO BILLÉ, Presidente della Confcommercio. Certo, non siamo agli esami, e credo che le schede possano essere molto utili, perché in gran parte danno risposta alle domande.


PRESIDENTE. Certamente.


SERGIO BILLÉ, Presidente della Confcommercio. Vorremmo svolgere una brevissima replica, magari articolata sulle specifiche competenze della Confcommercio. Sulla parte fiscale, vi sarà una brevissima considerazione del dottor Vento. Successivamente, il dottor Mochi interverrà per rispondere ad altra parte delle domande. Sull'aspetto politico dello Stato-nazione vorrei intervenire io.


PRESIDENTE. Va bene. Sulle questioni di carattere fiscale, sul federalismo fiscale, risponderà il dottor Vento.


ANTONIO VENTO, Rappresentante della Confcommercio. Grazie, presidente, lo farò in maniera estremamente sintetica. Mi pare sia stato sottolineato un paio di aspetti che interessano questa Commissione e sui quali risponderò manifestando in primis un'esigenza che riguarda l'ambito costituzionale.
Tutti sappiamo che il richiamo dell'articolo 53 della Costituzione alla capacità contributiva di ogni cittadino è integrato dal principio della progressività. Francamente, siamo del parere che questi due unici principi ai quali oggi la nostra Costituzione si richiama, intesi come elementi fondamentali caratterizzanti il sistema tributario, debbano quanto meno essere bilanciati o integrati con il riconoscimento di un ruolo altrettanto importante e significativo dei principi della proporzionalità e anche del cosiddetto beneficio. Ci sembra infatti altrettanto importante introdurre oggi criteri di distribuzione e di incidenza del prelievo fiscale. Tra l'altro, l'esperienza dei sistemi fiscali moderni ci dimostra come tutti evolvano verso una riduzione sempre maggiore delle aliquote marginali e, soprattutto, verso una maggiore attenzione per l'equilibrio tra il carico tributario sopportato dal contribuente e la qualità e quantità dei servizi offerti ed effettivamente ricevuti dal cittadino.
Da questa prima osservazione discende che soltanto le amministrazioni più vicine al contribuente per territorio e per competenza possono offrire i livelli di controllo, da un lato, e di informazione, dall'altro, necessari a garantire efficienza ed equità nella gestione della spesa pubblica, e quindi anche nella distribuzione del carico tributario. In particolare, desidero rispondere all'intervento dell'onorevole Soda, che ha fatto riferimento al problema così attuale del federalismo fiscale. Dirò, in modo estremamente breve, che la Confcommercio valuta in maniera ovviamente positiva e consapevole come sia ormai un indirizzo irreversibile quello, recentemente emerso in ambito politico, della necessità di decentrare il sistema fiscale. Condividiamo completamente questo indirizzo, ma dal momento che è stata chiamata in causa una modalità per anticipare la realizzazione del federalismo fiscale, mi corre l'obbligo di dire che non condividiamo il percorso tecnicamente prescelto per il decentramento. Ciò per due ragioni, sia quella che privilegia il livello amministrativo (sappiamo tutti che l'IREP fa riferimento a un ente territoriale, cioè la regione) sia quella che riguarda il livello di imponibile, perché prende a riferimento il valore aggiunto di impresa.


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Senza entrare in particolari tecnici (che non mi pare competano a questa sede), osservo che l'enfasi posta sulle regioni come organismo territoriale privilegiato di decentramento fiscale nega in parte l'esperienza e la competenza degli enti locali minori. Noi riteniamo che possano esistere, come esistono, anche altri strumenti: quindi, non solo l'IREP, non solo il valore aggiunto di impresa come possibili imponibili per attribuire autonomia impositiva agli enti locali. Oltretutto, questo tipo di imposta non ci pare in grado di garantire livelli di autonomia finanziaria coerenti con gli effettivi livelli di ricchezza.


CARLO MOCHI, Rappresentante della Confcommercio. Vorrei rispondere, il più possibile sinteticamente, ad alcune questioni che riguardano l'assetto del trasferimento delle competenze, al cui interno tutte le altre problematiche vengono ricondotte. Mi stupisce molto sentire porre la domanda se le regioni ce la facciano oppure no. Se non ce la fanno, il problema è molto grave: probabilmente, una diversa forma di Stato richiede anche un diverso ente al quale trasferire. Il nostro problema è comunque quello di avvicinare il luogo di governo al cittadino e all'impresa: questo è un primo obiettivo.
Vi è poi un secondo obiettivo, o la risposta ad una seconda domanda. Ci è stato chiesto quali siano le materie di competenze dello Stato da delegare: noi affermiamo il principio dell'unicità del mercato e dell'unicità delle regole per il sistema economico. In questo contesto è evidente che se mancano principi quadro di carattere nazionale che ispirino l'azione degli organi regionali e degli enti locali, il principio dell'unicità del mercato e delle opportunità di iniziativa economica viene a cadere.
Terzo principio. Ci è stato chiesto se il CNEL debba esistere. Noi non ci affezioniamo agli enti, però riteniamo che se c'è una funzione che viene svolta e che, di fatto, produce degli effetti, ci si debba dire - perché non compete a noi avanzare proposte - chi svolgerà quei ruoli se non ci sarà più il CNEL.
Sono queste le considerazioni che, molto sinteticamente, sento di dover fare, senza entrare nel particolare di cosa competa o non competa al comune o alla provincia. A mio avviso, quando abbiamo affermato il principio della sussidiarietà, abbiamo affermato che il problema deve essere risolto da chi è più vicino alla questione. E poi, il diritto è talmente ampio Se dovessi specificare sosterrei un esame di diritto pubblico, di diritto costituzionale e forse anche di diritto privato. Mi parrebbe eccessivo!


PRESIDENTE. Chiedo al presidente Billé se voglia replicare su questo tema che potremmo definire di carattere più culturale.


SERGIO BILLÉ, Presidente della Confcommercio. Se dovessi riscrivere la relazione che ho presentato, la riscriverei. Lo dico proprio per rassicurare, da un certo punto di vista, il senatore Servello ma, nello stesso tempo, per rilevare che la sua concezione di Stato-nazione di fatto è ormai abbondantemente superata, anche nella stessa ipotesi della Russia che egli ha citato.
La verità è che la prima premessa dalla quale bisogna partire è che il blocco Stato-nazione-mercato è ormai crollato. Dobbiamo allora ragionare, come dicevo prima, in termini di liberalizzazione dei mercati, di internazionalizzazione dei mercati, di politiche statali per i mercati che hanno un limitatissimo raggio di azione, quindi anche di regionalismi che spesso come osservavo nella mia terza considerazione - nascondono operazioni di mercato, così che l'indipendenza viene rivendicata con la funzione di creare una nuova area di influenza o per aggregarsi ad una nuova area di influenza economica. Tutto ciò va tenuto ben presente nella rimodulazione della Costituzione.
Spenderei qualche parola in più per la garanzia dell'unicità del mercato, alla quale ha fatto riferimento pochi istanti fa il dottor Mochi. L'impresa è un qualcosa che non può avere una sua collocazione territoriale: essa è uguale così a Bolzano come a Trapani e deve essere garantita la


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possibilità di stare sul mercato sia a Bolzano sia a Trapani. Ciò, naturalmente, comporta una trattazione che, anche dal punto di vista del principio della sussidiarietà, ha delle necessarie conseguenze.
L'ultimo aspetto è quello relativo al CNEL. È inutile nascondere che la fase involutiva del CNEL ha acceso un dibattito sulla necessità della sua permanenza in un ordinamento costituzionale rivisitato e riformato. Credo che abbia ragione il dottor Mochi nell'affermare che se non ci sarà il CNEL, qualche cosa dovrà essere comunque garantita. Che cosa in particolare? La funzione di monitoraggio della politica di concertazione nei vari campi; il ruolo di soggetto promotore di iniziative per lo sviluppo territoriale in coordinamento con le autonomie locali e funzionali; la funzione di studio e di analisi dell'impatto della legislazione economico-sociale - siamo ora nella grande stagione del ripensamento del nostro welfare state e la necessità di un qualche istituto nell'ambito del quale questo tema venga dibattuto rende oltremodo utile il mantenimento del CNEL -; il polo di aggregazione dei soggetti collettivi e il luogo d'espressione e composizione degli interessi, nonché di fornitore per il legislatore - questa potrebbe essere una funzione da impostare tutta quanta ex novo - di una base conoscitiva degli orientamenti delle forze sociali. Se parliamo di democrazia economica, tutto ciò è una conseguenza della concezione di democrazia economica e potrebbe derivarne un potenziamento di ruolo per un CNEL ripensato.


MARCO VENTURI, Segretario generale della Confesercenti. Senza ripercorrere domanda per domanda, riassumo osservando che la funzione di decentramento, il federalismo deve comunque salvaguardare l'unità dello Stato e deve prevedere principi e vincoli di carattere nazionale. Ho già parlato di Stato regolatore. Non possiamo pensare ad uno spezzettamento anche delle regole generali e dei principi sulla base dei quali l'impresa agisce sul territorio; vi è quindi sicuramente bisogno di una presenza dello Stato che si esplichi, ad esempio, anche attraverso i prefetti. È stata fatta una domanda specifica sui prefetti, la Motorizzazione o altri uffici di servizi: sono cose diverse; dobbiamo stare attenti a quelle presenze che garantiscono l'unità dello Stato, unità che certo non si può esplicitare su questioni più spicciole. Ad esempio, per quanto riguarda il credito al commercio, la gestione centrale prevista da alcune leggi si è rivelata un fallimento; credo che quello della legge n. 517 del 1975 sia un esempio veramente calzante: presso la apposita commissione del Ministero dell'industria ci sono delibere che risalgono a sei anni fa e i commercianti che hanno ricevuto la comunicazione che era stato loro accordato il finanziamento dopo sei anni non hanno visto una lira. Credo che competenze di questa natura vadano trasferite alle regioni. Cito, per fare ancora un esempio, un caso estremo che probabilmente nessuno conosce: l'autorizzazione allo spettacolo viaggiante, alle giostre, viene emessa ogni anno dalla Presidenza del Consiglio (prima era emessa dal Ministero del turismo); è la Presidenza del Consiglio che deve apporre i timbri necessari a consentire allo spettacolo viaggiante di operare e credo che queste siano veramente competenze da trasferire alle regioni.
Comunque, a prescindere da questi esempi spiccioli, bisogna trasferire, come dicevamo, poteri ed autonomia impositiva. L'IREP non è la riforma, non è il trasferimento di imposizione fiscale agli enti locali: è un passaggio che semplifica accorpando numerose imposte - la quantificazione la vedremo sulla base dell'attuazione delle deleghe - però non è il federalismo fiscale. Federalismo che, lo ripeto, deve garantire il principio di sussidiarietà verticale, quindi deve trasferire dal centro: chi preleva le grandi imposte non può che essere lo Stato, perché se fossero le regioni a prelevare ed a trasferire verso il centro questo potrebbe trasformarsi in un meccanismo che mina la stessa base unitaria dello Stato. Un federalismo vero, dunque, ma che sia contestuale al trasferimento di funzioni e di poteri, in modo che non vi sia fiscalità aggiuntiva.


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L'altra questione che desidero sottolineare riguarda il CNEL. Come ho detto nel primo intervento, ritengo di dover sottolineare in particolare la funzione, svolta dal CNEL, di sostegno allo sviluppo locale e quindi anche di gestione dei patti territoriali. Questa mi sembra una funzione che potrebbe addirittura essere allargata; proprio perché parliamo di Stato federale e decentrato, il CNEL potrebbe svolgere questa funzione molto significativa per lo sviluppo locale, per le economie locali, per l'occupazione a livello territoriale.
Vi sono poi ovviamente tante domande rispetto al liberismo; noi pensiamo ad uno Stato regolatore. Consideriamo, ad esempio, il settore del commercio: se decentrassimo ogni funzione a livello territoriale, senza principi e senza alcuni vincoli di carattere generale, probabilmente avremmo il dilagare delle grandi strutture commerciali e quindi un notevole danno non solo alla piccola impresa commerciale, ma agli stessi centri urbani che vivono della presenza stessa delle piccole e medie imprese. Noi pensiamo, quindi, ad uno Stato che regoli, nonostante una spinta necessaria al decentramento.


GIAN CARLO SANGALLI, Segretario generale della CNA. Signor presidente, desidero riallacciarmi un istante alla sua introduzione ed al tema da lei posto all'inizio del nostro incontro, attinente al fatto che siamo di fronte ad una grande trasformazione dei mercati, alla formazione del sistema europeo (di mercato ed istituzionale) ed alla mondializzazione dei mercati stessi.
Se mi è consentito, vorrei con un po' di civetteria dire che più che lavoro autonomo siamo piccola impresa. Quattro milioni di posti di lavoro nell'artigianato sono parte fondamentale della costruzione del prodotto interno lordo del nostro paese. Noi che siamo piccola impresa, dunque, sentiamo in modo particolare il tema del piccolo in relazione al grande; la piccola impresa in relazione alla grande dimensione del mercato e delle istituzioni sovranazionali.
Crediamo che la riflessione che ci chiedete - di questo vi ringraziamo - rispetto alla modificazione della seconda parte della Costituzione, debba, a nostro modo di vedere, tenere conto di questo tipo di problema.
La dimensione territoriale per quanto riguarda le imprese è oggi sempre più difficilmente definibile. Le imprese operano in sistemi che sono talvolta locali in termini molto ristretti e talvolta locali in senso regionale e la competizione quasi sempre ormai si gioca su sistemi che sono fatti dalle imprese, dall'insieme delle istituzioni, dalla pubblica amministrazione, dalle infrastrutture e via di questo passo. Le nostre imprese hanno bisogno di una forma di organizzazione dello Stato coerente con questa dimensione e questa dinamica e d'altra parte non possono sentirsi nello Stato in una condizione di eccessiva disuguaglianza dal punto di vista normativo e del contenuto generale, rispetto ad imprese di altre regioni o di altri contesti a loro vicini.
Sarebbe facile richiamare a questo proposito la particolare problematicità che si pone già ora sul piano competitivo, ad esempio, per il fatto che esistono contratti differenti tra le diverse regioni; già questo provoca in sistemi contigui problematiche particolari.
Siamo allora, come diceva prima il presidente Spalanzani, per una forma dello Stato federalista come declinazione del tema dello Stato unitario ed in nessun altro modo. Il federalismo per noi è una chiara declinazione del tema dello Stato unitario e non pensiamo sia neppure lontanamente concepibile se non in relazione alla sovraistituzione europea e quindi al formarsi della nazione europea; in questa fase non è neppure lontanamente concepibile una equiparazione ed una eguaglianza di sovranità tra regio|$$|Aauni e Stato centrale. D'altra parte pensiamo che il federalismo non possa che essere inteso come cooperativo, cioè basato sul principio di sussidiarietà, sulla solidarietà tra zone forti e deboli.
Questa dislocazione e riorganizzazione dello Stato è uno dei modi che consente appunto a chi è dimensionalmente piccolo


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di poter relazionare con livelli in cui sia possibile assumere decisioni di tipo istituzionale e legislativo. Sentiamo la lontananza dello Stato ed avvertiamo il bisogno di livelli in cui la legislazione sia opportunamente calibrata per i sistemi economici, e di livelli generali nei quali vi siamo sedi in cui la piccola impresa possa trovare modalità di confronto e di relazione.
Vengo così al secondo punto che volevo sottolineare nel contributo che il mondo dell'artigianato vuole recare a questa discussione: il tema della concertazione e, al lato, la questione relativa al CNEL. Noi siamo forze che hanno sostenuto decisamente l'importanza della concertazione, come era intesa nella legge del luglio 1993, cioè come relazione tra componenti sociali ed economiche ed il Governo, prima che si desse il via al processo legislativo sulle questioni di politica economica. Abbiamo ritenuto e riteniamo ancora la concertazione una modalità fondamentale per governare processi complessi come quelli che sono di fronte ai paesi ad alto livello industriale. Sappiamo però che la declinazione della concertazione, come solo punto di confronto tra forze economiche e sociali ed il Governo, rischia di creare due pesi e due misure, rischia di avere forze che pesano in modo differente, se la relazione si costringe nel rapporto con il Governo.
In questo senso, se l'idea è quella di un Parlamento che svolge funzioni prevalentemente di legislazione generale e di un esecutivo che opera come tale e quindi essenzialmente con le legislazioni particolari, i regolamenti, le norme di attuazione e via di questo passo; se il rapporto è questo, la relazione solo con il Governo, con la sede della concertazione che allora si pattuì, diventa poco significativa o comunque per noi - se mi consentite il termine che ovviamente è molto virgolettato - quasi pericolosa, nel senso che nel rapporto con il solo Governo le forze in campo hanno pesi molto differenti, per il valore che hanno nella comunicazione e per la diversa capacità di orientamento della politica e della pubblica opinione.
Si viene così al CNEL che, così come è adesso, è poco rispondente alle necessità delle imprese, soprattutto a quelle del mondo delle piccole imprese, rispetto alla relazione con il Parlamento nella funzione legislativa prioritaria che dicevamo prima o anche, più in generale, rispetto al rapporto con il sistema dell'amministrazione dello Stato nelle sue differenziazioni e con la stessa opinione pubblica. Un CNEL profondamente diverso, nel quale però sia presente il Parlamento ed il Governo, diventa una sede in cui è concepibile una funzione di partecipazione alla costruzione del processo legislativo fin dalla fase iniziale di tale processo e dà alla concertazione una declinazione ulteriore rispetto a quella che conosciamo dal luglio 1993 in poi. In questo senso, allora, il CNEL assume quelle funzioni che sono state ben sottolineate dal presidente Billé e che noi condividiamo, ma ne assume una funzionalmente ancora più importante: diventa la sede nella quale le categorie economiche possono interloquire direttamente con chi è depositario del potere legislativo, una sede assolutamente importante di confronto alla pari tra i diversi soggetti che giocano un ruolo economico nel nostro paese. È importante avere una sede nella quale sia possibile giocare un ruolo alla pari. Il fatto che per alcune categorie vi sia solo la possibilità di rispondere negativamente, di opporre un rifiuto rispetto alla proposta che viene avanzata dall'esecutivo o dal Parlamento, il fatto cioè che per certe categorie sia possibile solo l'ostruzionismo piuttosto che la partecipazione al processo istruttorio e di preparazione dell'iter legislativo, pone le diverse componenti sociali ed economiche su piani profondamente differenti, il che non corrisponde più ormai né alla situazione economica reale né alle dislocazioni delle forze in campo nella società del nostro paese. Le cose si sono profondamente modificate: tenere conto di blocchi storici come la grande industria e i sindacati e non del blocco crescente delle piccole imprese e del lavoro autonomo, della frammentazione delle nuove professioni e delle nuove attività, potrebbe

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produrre qualche rischio di scollamento tra istituzioni e società civile.


GIACOMO BASSO, Segretario generale della CASA. Sarò molto rapido. Il professor Vignudelli, a nome di tutte le confederazioni, si occuperà poi degli aspetti strettamente costituzionali.
Lei, presidente, non ha certo bisogno di suggerimenti. Anzi, ha dato una dimostrazione di stile quando, nel momento in cui è stato eletto alla presidenza della Commissione bicamerale, si è autosospeso, per così dire, dalla presenza negli organi di diffusione. Mi permetto però di osservare che, vista la situazione del paese, sarebbe bene forse prevedere (il mio è un modesto suggerimento: lei ne sa certamente più di me al riguardo) una presenza mensile o bimensile del presidente della Commissione bicamerale nei mass media per dare conto dello stato dell'arte, dello stato delle cose. Su questa iniziativa si punta infatti a mio avviso moltissimo anche nelle aspettative e nelle attese del paese. Anche in questo senso noi le formuliamo auguri sinceri. Siamo infatti convinti che, vista la situazione economica ed alcuni problemi che si stanno delineando, se anche questa esperienza dovesse in qualche misura fallire, la situazione potrebbe diventare ancora più preoccupante.
So che la Commissione bicamerale si deve occupare della riforma della parte seconda della Costituzione. Oggetto della riforma non sono quindi i principi fondamentali ma l'ordinamento della Repubblica. Vi sono però due articoli della Costituzione, l'articolo 4 e l'articolo 45 (che in qualche maniera ci riguardano come forze sociali, come esponenti e rappresentanti dei ceti medi e del lavoro autonomo), che invece sarebbe bene riuscire ad inserire in qualche modo nel lavoro della Commissione (qui vi sono illustri costituzionalisti: credo possano trovare la strada per arrivare a questo obiettivo). Credo infatti che, al di là dell'azione del Governo, che a latere sta ovviamente svolgendo le sue funzioni nell'ambito di quello che gli è demandato, sia importante che anche da questa sede arrivi una risposta su alcuni temi.
Mi riferisco in particolare alla questione del lavoro, coniugata psicologicamente e culturalmente con la questione del federalismo, e alla situazione del sud. Il sud (e lei, che come me è un uomo del Meridione, lo sa bene) vive una sindrome di abbandono in questo momento. Noi che quotidianamente giriamo per il sud per motivi di professione, lo possiamo testimoniare. Da un lato, il livello di disoccupazione e i problemi delle categorie produttive sono infatti enormi (lei sa bene che il livello di disoccupazione dei giovani al di sotto dei trent'anni, in alcune zone del sud, sfiora il 50 per cento); dall'altro, il Meridione sente quotidianamente parlare sugli organi di stampa di un federalismo sempre più accentuato. La combinazione psicologica e anche pratica di questi due elementi determina una vera e propria sindrome di abbandono. Ecco perché parlavo dell'opportunità di una presenza periodica del presidente della Commissione bicamerale sugli organi di stampa, per dare conto del lavoro svolto.
Per quanto attiene al federalismo, io ritengo (e l'hanno detto anche alcuni colleghi che mi hanno preceduto) che già vi fossero gli strumenti per arrivare ad un regionalismo e ad un decentramento dello Stato più accentuato. Se però a tutto questo deve essere messo un suggello, è importante che la Commissione lo faccia. Tuttavia, non si deve dare priorità ad alcuni aspetti di natura regolamentare, sicuramente importanti, che rispondono alle istanze di ambiti certo rappresentativi, non si rifanno a criteri di solidarietà ma più probabilmente puntano alla conservazione della ricchezza. Non si può - ripeto - dare la priorità a queste esigenze mortificando in tal modo, anche da un punto di vista psicologico, chi ha invece in questo momento problemi effettivi e concreti. In primo luogo occorre quindi riflettere sull'articolo 4, quello che riconosce e tutela il diritto al lavoro dei cittadini.
Vi è poi l'articolo 45, che concerne l'artigianato. Non so chi fu a insistere, all'epoca della Costituente, per inserire nell'articolo 45 quel codicillo in modo che il nostro settore fosse tutelato per Costituzione.


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Sta di fatto che da allora, fino a tutti gli anni ottanta, non c'è stato, al di fuori della legge che istituiva l'Artigiancassa, un solo provvedimento che fosse veramente in sintonia con questa impostazione. Anzi, in un convegno svoltosi ieri per il cinquantenario della Confartigianato, abbiamo dimostrato che per la gran parte delle leggi sussiste addirittura un fumus di incostituzionalità, perché non hanno tenuto minimamente in considerazione questo aspetto. Le faccio presente, presidente, che tuttora presso il Ministero dell'industria, commercio e artigianato non vi è nemmeno una direzione specifica per l'artigianato.
È stato chiesto cosa possa divenire in futuro il CNEL, che ruolo possa svolgere in futuro questo organismo costituzionale. Ebbene, dal momento che i principi fondamentali della Costituzione non verranno toccati e quindi non verrà obliterata quella parte dell'articolo 45 concernente la tutela dell'artigianato, penso che il CNEL potrebbe avere una competenza specifica su questo aspetto come organismo consultivo della Presidenza del Consiglio.
Concludo formulandole, presidente, sinceri auguri.


ALJS VIGNUDELLI, Professore ordinario di diritto costituzionale. Le mie saranno solo delle puntualizzazioni, perché gli argomenti sono stati svolti. Poiché è stato chiesto che senso avesse parlare di democrazia economica a proposito della parte seconda della Costituzione, vorrei osservare che quando si parla del ruolo delle forze economico-sociali, un nuovo ruolo nell'ambito della formazione dei procedimenti normativi (siano essi legislativi, regolamentari o amministrativi, nella logica anche della verifica e della costruzione di una qualità di un nuovo prodotto legislativo, della trasparenza e della visibilità di un nuovo procedimento amministrativo), obiettivamente è sicuramente un fattore di democrazia economica. Esso consente infatti una dialettica più ampia e in un certo qual modo livella quella che prima era una differenziazione di élite economiche che rispetto ad altre potevano in qualche modo rivestire un ruolo di diverso protagonismo. Questo è un fattore di democrazia economica.
Per quanto riguarda un'altra questione, cosa cioè mantenere a livello regionale del livello statale, anche in proposito si è già detto. Al riguardo mi limito a sottolineare che a livello di programmazione e di intervento avrebbe poco senso battersi per rafforzare la stabilità attraverso una più incisiva parte dell'esecutivo e, quindi, del Governo, il quale deve agire con una certa forza, mentre alle spalle esiste una frammentazione, e a volte una competitività, anche istituzionale. Ciò, in determinate materie, dove la rapidità delle decisioni è un fattore economico, così come la visibilità del modo in cui essi si assumono è un elemento di democrazia, stabilizza un rapporto dove il principio di autorità e di democrazia deve essere bilanciato, senza andare a discapito dell'azione di governo. Quando il senatore D'Onofrio si domanda cosa deve essere mantenuto nella legislazione penale in materia ambientale e di consumo, anche in questo caso mi chiedo come sia possibile pur solamente pensare ad una legislazione penale frammentata nel territorio. Tuttavia, a ben vedere, anche in materie come il consumo, dove alla fine si finisce per identificare in termini di tutela un interesse pubblico generale (lo stesso discorso vale sotto molti profili per la questione ambientale), mi chiedo come si possa non prevedere fattispecie di reato da perseguire nelle materie tradizionali, senza arrivare ad una litigiosità diffusa, magari anche a livello associativo, che sicuramente non aiuterebbe il mondo dell'economia, che ha invece necessità di punti di riferimento certi.
Per quanto riguarda il mantenimento della presenza dello Stato in periferia, il discorso sul provveditorato agli studi, sui prefetti e così via, non è auspicabile un modello di Stato di tipo napoleonico-prefettizio, così come l'abbiamo importato e definito nel corso del ventennio. Anche quando si parla di cultura, pur nel grande rispetto dell'autonomia culturale locale, deve essere chiaro che esiste una cultura


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italiana. Di conseguenza a livello scolastico, l'assenza dello Stato in funzione di coordinamento, di indirizzo ed altro, mi sembrerebbe penalizzante, così come abbiamo visto che la presenza dei prefetti, in occasione del disastro di Piacenza, ha dato buona prova. In tale circostanza sono stati utilizzati programmi, analisi e piani di intervento, perché erano disponibili, e ciò è stato possibile anche sulla base di un'esperienza secolare, che non si inventa dalla sera alla mattina. Di conseguenza, anche qualora si volesse superare un certo sistema, deve essere ipotizzato che ciò avvenga in un periodo non breve di tempo.
Per quanto riguarda il giudice unico, voglio sottolineare che se esso risponde ad esigenze di razionalizzazione, come dimostrano esperienze nazionali (per i primi gradi) ed estere, la sua presenza non depone male. Nella civiltà giuridica di common law è presente il giudice unico in una combinazione, in una struttura del processo diversa dalla nostra, con una diversa tradizione generale non solo del ruolo del giudice, ma del senso, della concezione e del ruolo della legge. Per esempio, negli Stati Uniti d'America, il principio di legalità e di gerarchia vige per il presidente, che è tenuto a rispettare fedelmente la legge, e per i giudici, che hanno come primo riferimento legge e potere regolamentare. Tuttavia, in assenza di una previsione, il diritto comune risolve il caso concreto. In Italia, la posizione di interpretazione legislativa da parte della magistratura ha fatto molti passi avanti, forse non sempre nella direzione giusta, ma in ogni caso questo non equivale ad un'esperienza di diritto comune.
Per quanto concerne l'abolizione del Consiglio di Stato, non ho capito bene con quale organo dovrebbe essere sostituito, premesso che deve essere salvato il principio del doppio grado di giurisdizione per la possibilità di errore del giudice, principio peraltro già sancito costituzionalmente; non a caso, proprio per opporsi all'eventuale errore, si pretende la motivazione delle sentenze ed il ricorso al giudice di grado superiore. Che poi sia il Consiglio di Stato, in funzione consultiva e non giurisdizionale o un nuovo organo, poco rileva, anche se non ho ben chiaro peraltro quale potrebbe essere. Abbiamo già visto cosa succede quando si creano nuovi organi: per un lungo periodo, come è avvenuto per la Corte costituzionale, si è scatenata la guerra delle due corti. Bisogna infatti tenere presente che in precedenza l'esclusiva della interpretazione della legge era affidata alla Corte di cassazione la quale, trovandosi di fronte ad un nuovo soggetto, per un periodo non breve non ha mancato di far notare una serie di contraddizioni.


PRESIDENTE. Vi ringrazio del contributo, per la verità assai ricco e puntuale, dato al nostro lavoro. Vi ringrazio altresì degli auguri che ci avete rivolto e dei consigli che avete formulato, dei quali terremo conto. L'attenzione dei mezzi di comunicazione sul nostro lavoro è molto viva. Sono convinto che alla fine, quando li avremo conseguiti, comunicheremo i risultati: prima di quel momento, è meglio attendere.


La seduta termina alle 11.30.