GIUSEPPE TATARELLA
La seduta comincia alle 9.50.
Audizione del professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University, Giovanni Sartori.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University, Giovanni Sartori.
A nome della Commissione, su delega del presidente D'Alema, e a nome del nostro comitato, ringrazio il professor Sartori per aver accettato l'invito a venire in questa sede per parlare della sua tesi, nota a tutti noi.
L'audizione avrà luogo nei modi seguenti. Io porrò una domanda introduttiva, relativa alla visione costituzionale corretta per il sistema Italia che il professor Sartori ha avanzato in tutti i suoi scritti ed in alcune recenti pubblicazioni. A mio parere l'audizione del professor Sartori è utilissima per i lavori della nostra Commissione, perché la Commissione stessa, tramite il suo presidente D'Alema, ha dichiarato che la legge elettorale non è un tabù, noi siamo andati oltre l'affermazione di principio di D'Alema, parlando liberamente della legge elettorale nel nostro comitato, e l'impostazione del professor Sartori riguarda sia l'aspetto di riforma costituzionale generale sia il collegamento con la legge elettorale. Pertanto oggi è opportuno parlare liberamente - ponendo quesiti al professor Sartori- sia del primo sia del secondo aspetto. Avremo praticamente un'esposizione completa su tutta la vicenda che è al nostro esame. Dopo di me, porrà domande il relatore, che parlerà di tutti gli argomenti collegati al nostro lavoro preparatorio (per il quale si è registrato apprezzamento generale da parte dei componenti la Commissione); successivamente tutti i membri del comitato potranno formulare quesiti su entrambi gli argomenti.
Una sola richiesta rivolgo a tutti, relativa al collegamento fra riforme istituzionali e legge elettorale, perché entrando nel vivo del problema è opportuno che fin da oggi questo collegamento nella discussione e nell'esame venga portato a conoscenza di tutti, della stampa che ci ascolta, attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso, per cui la sua audizione, professor Sartori, è seguita da tutti i giornalisti parlamentari.
Cedo immediatamente la parola al professor Sartori, ringraziandolo nuovamente.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Avevo sentito dire un attimo fa che mi sarebbe stata posta una domanda.
PRESIDENTE. La domanda è in re.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Va bene; sono piccole schermaglie parlamentari iniziali!
Vi ringrazio e sono molto onorato di essere qui. Risponderò volentieri alle domande, non voglio perdere tempo in soliloqui. Non ho molta fantasia, quindi non cambio facilmente e di frequente la mia tesi, che credo pertanto sia abbastanza nota. Poi talvolta le tesi sono approvate perché non troppo note, quindi
CESARE SALVI, Relatore. Il primo quesito che intendo porre riguarda le modalità di elezione del presidente della repubblica nell'ipotesi di un sistema di tipo semipresidenziale, sotto il profilo del numero dei turni, delle modalità eventuali di selezione delle candidature, che tutti i paesi più o meno conoscono. Chiedo se abbia senso in questo contesto un discorso che faccia riferimento a collegi di grandi elettori, come previsto in altri sistemi. In definitiva, vorrei avere da lei un quadro delle ipotesi possibili e di quelle preferibili nell'ipotesi in cui si dovesse accedere a quel modello.
Il secondo quesito riguarda il problema che viene subito richiamato alla mente quando si parla di semipresidenzialismo, cioè quello della coabitazione. Come si sa, per alcuni essa è un potenziale vantaggio del sistema perché in determinati momenti può creare flessibilità, mentre per altri è un inconveniente. Secondo lei è possibile regolamentare questo istituto, magari in modo più preciso di quanto faccia la Costituzione francese (e quindi operando sui meccanismi di fiducia e sfiducia parlamentare, di nomina e revoca del primo ministro, di scioglimento o meno dell'Assemblea), in modo da venire incontro ai dubbi relativi alla coabitazione applicata ad una situazione costituzionale meno consolidata di quella francese, coabitazione che evidentemente va ipotizzata tra i possibili scenari?
Il terzo quesito riguarda la legge elettorale. Lei ha fatto un discorso molto
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Vado quasi a nozze: do volentieri tutte queste opinioni.
A proposito delle elezioni presidenziali, dove c'è un bipartitismo il problema non si pone: il presidente viene eletto con la maggioranza; se i candidati sono solo due, con la maggioranza assoluta dei voti. Nei contesti multipartitici, credo vada evitato l'errore che fu esiziale per il Cile e per Allende, oltre che per la Costituzione della Repubblica di Weimar, cioè quello di ammettere tre candidati. Ciò significa che il presidente - nel caso, Allende - viene eletto con il 34 per cento dei voti; non sarebbe mai successo se ci fosse stato il doppio turno, in questo caso con ballottaggio, cioè con ammissione al secondo turno di due soli candidati.
Siccome in Italia per ora (nel 3000 non so) non si parla di bipartitismo (e non di bipolarismo), credo che il sistema più utile ed efficace, oltre che quello più sicuro, sia l'elezione a due turni dalla quale il presidente sia eletto con una maggioranza assoluta. Ciò non solo per evitare gli scherzi successi a Weimar o in Cile ma anche perché se la carica è importante e se i partiti si orientano sulla «cattura» di questa spoglia non divisibile (perché tale è), allora chiedere il 50 per cento aggrega di più che non andare un po' allo sbaraglio sperando di vincere con una maggioranza relativa: in altre parole il sistema costringe ad una maggiore aggregazione; è una considerazione aggiuntiva che mi sembra opportuno fare.
Quanto alla selezione di candidature, in America si fa con le primarie. Ritengo che sia un pessimo sistema e a domanda posso anche spiegare il perché: per ora non mi dilungo. In Finlandia si faceva fino al 1994 ma ha funzionato bene, nel senso che il sistema ha scelto buoni presidenti, retrospettivamente parlando. Il meccanismo era di un vero collegio di grandi elettori, non come quello americano che è un passamano perché le distribuzioni dei voti sono precostituiti e quindi il collegio di grandi elettori non ha alcuna autonomia.
In Finlandia invece scelgono chi vogliono: semplicemente si crea un organo costituente, un collegio di grandi elettori (che può anche essere piccolo; non c'è bisogno di farne un Parlamento) il quale è liberissimo di eleggere il presidente che vuole. E' un sistema filtrato: logicamente funziona anche secondo linee di partito e può richiedere accordi, ma ci sono valutazioni di merito che in una elezione popolare non si fanno perché in quest'ultimo tipo di elezione si sceglie appunto chi è popolare. In un collegio di grandi elettori di tipo finlandese la scelta dei candidati avviene su calcoli relativi a chi farà meglio, oltre che per linee di partito. La Finlandia ha funzionato con questo tipo di sistema dal 1919 e quindi l'esperienza è abbastanza lunga: se esaminiamo i vari presidenti, possiamo dire che quel sistema non ha prodotto imbecilli o incapaci.
Altrimenti le candidature possono essere selezionate nel modo solito: i partiti fanno i loro calcolini e vedono chi ha più chance di vincere. Ma con un sistema di doppio turno con ballottaggio - e quindi con maggioranza assoluta - i partiti sono molto vincolati a cercare un vincitore assoluto.
L'altro aspetto individuato dall'onorevole Salvi riguarda i sistemi semipresidenziali ed il problema della cosiddetta cohabitation, cioè di una situazione in cui il presidente non ha la maggioranza in Parlamento, e che in America si chiama di «maggioranza divisa». Inizialmente questa cohabitation ha preoccupato anche in Francia: si disse che sarebbe stato meglio eleggere un presidente con la maggioranza assoluta nell'Assemblea nazionale (in Francia il bicameralismo è imperfetto). In
PRESIDENTE. Io do un'altra interpretazione: più si è vicini a Sartori e meglio si sente!
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Venite tutti qui, allora!
VALDO SPINI. La cattedra è troppo alta!
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Ma i vecchi professori sono abituati: i miei maestri stavano su cattedre altissime. Lamanna a Firenze aveva una cattedra bellissima, in alto: peccato, non c'è più!
Dunque, dicevo, se un sistema è bicefalo, o questa caratteristica deve servire oppure è una stupidaggine. La mia interpretazione è che serva e che anzi sia questa la grande trovata del meccanismo. In verità nel sistema francese, non solo per prassi ma anche perché così c'è scritto nella Costituzione Debré (poi si potrà aggiungere o precisare meglio, ma l'intenzione di Debré era chiarissima, così come era chiaro il modo in cui il meccanismo avrebbe operato), il problema della maggioranza divisa non si pone mai. Chi ha la maggioranza in Parlamento è la testa prevalente in questo sistema diarchico; il vero motore dell'esecutivo è chi ha la maggioranza. Quindi non ci si deve più tanto preoccupare se un presidente vince con una maggioranza; se non la ottiene poco male: si sposta il baricentro del sistema. La soluzione a me pare straordinariamente abile. Tutti i nostri sistemi si dibattono infatti nel seguente problema: come si fa a dare una maggioranza all'esecutivo? Il sistema semipresidenziale se la trova: se ce l'ha il presidente, tutto va de plano e il problema non esiste (e questo è stato chiaramente il caso con De Gaulle); ma se il presidente non ce l'ha, è lo stesso, perché egli è costretto (anche se non gli si sottrae la discrezionalità della scelta) a dare l'incarico del governo - che è un organo perfettamente autonomo nel sistema francese - ad un candidato che la maggioranza vuole ed è disposta a fiduciare e a sostenere. In quest'ultimo caso, quindi, il governo è in maggioranza mentre il presidente non lo è.
Nei due casi francesi, prima con Chirac e poi con Balladour, questa coabitazione in sostanza ha funzionato, e non perché Mitterrand fosse un personaggio facile (insisto su questo punto): ha funzionato perché Mitterrand si è reso conto che non aveva i poteri (i poteri «usurpati» della costituzione materiale vengono meno nel momento in cui il presidente non ha più la maggioranza in Parlamento), e non avendoli non ha ingaggiato battaglia. Cito un esempio di poteri «usurpati»: il potere di indire un referendum, nella costituzione Debré, deve essere concordato con il primo ministro. Questo è un potere «usurpato». Se ci fosse stata una battaglia, se Mitterrand avesse provato a dire: «Voglio un referendum», Chirac o Balladour lo avrebbero bloccato, non avendo egli il potere di indirlo da solo. Quindi, sapendo che la difesa dei poteri «usurpati» sarebbe fallita perché la costituzione non la consente (dichiarando appunto tali poteri «usurpati»), la coabitazione ha funzionato.
Si può anche studiare qualche accorgimento in più: non ci ho ancora pensato; mi pare che la partita sia in una fase troppo preliminare per arrivare qui con i programmini dei dettagli. Secondo me, il testo della costituzione Debré ai fini del conseguimento di questo effetto è sufficiente, perché in essa i poteri del capo del governo sono molto più precisati che non i poteri del presidente. I poteri del presidente sono largamente poteri di empechement: il presidente può impedire; altrimenti, se non ha la maggioranza assoluta, non può fare quasi niente. Certo, ha
CESARE SALVI, Relatore. E poi sono trattabili per definizione!
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Purtroppo sì... non che voglia togliere potere negoziale ai politici e al Parlamento.
Quindi, o l'uno o l'altro. L'importante è, a mio avviso, che il primo turno sia pulito, nel senso che consenta ai partiti di presentarsi da soli nella loro identità e che l'elezione sia proporzionale. Gli elettori, in questa circostanza, esprimono le loro prime preferenze (dieci partiti, per esempio, arrivano tutti e si vede quali sono) e i partiti non devono concordare un bel nulla, si muovono nella loro autonomia, con il loro programma e nella loro indipendenza.
Al secondo turno, dove i collegi sarebbero uninominali, opera invece il sistema maggioritario. Vi spiego la mia idea, ma vi sono possibili soluzioni diverse, purché si convenga sull'obiettivo, sul risultato che ci preme di conseguire. Premesso che mi oppongo al recupero proporzionale se interferisce nel sistema elettorale, lo considero invece molto ragionevole nell'ipotesi in cui il recupero proporzionale vada ai partiti che passano al secondo turno ma che, essendo minori, desistono: un partito che passa al secondo turno con il 10 per cento non ha nessuna possibilità di vincere, però può far perdere il suo alleato; se resta non ha diritto al recupero proporzionale, se si ritira ha diritto al recupero, che potrà essere del 10 o del 15 per cento, per esempio. Questo è un meccanismo di incentivazione che «ripulisce» senza «uccidere» la stretta che deve avvenire al secondo turno. Si tratterà di fare in modo che questo recupero del 10 o del 15 per cento non sia tale da ricreare piccoli partiti che condizionano le maggioranze di governo; deve essere tale, quindi, da rispettare la loro legittima esigenza di non sparire, di essere rappresentati. Può andar bene il 10 per cento di cui ho sentito parlare, forse si può arrivare al 15 per cento (i calcoli li lascio fare a voi), ma credo, in quest'ordine di grandezza, che questo sistema senza «uccidere» troppo mantenga in vita delle voci e, soprattutto, diminuisca molto il potere di ricatto dei partiti minori al secondo turno. E' vero, infatti, che essi possono far perdere i partiti maggiori, però restano senza rappresentanza; se invece si ritirano beneficiano del recupero proporzionale, che può essere concepito in vario modo (lista nazionale con ordine precostituito o
PAOLO ARMAROLI. Perché assurde?
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Scusi, volevo dire che faccio ipotesi azzardate. Quindi, non vi è neanche litigio, ma solo la necessità di vedere, nei due poli, quali sono i collegi dove conviene la desistenza, cioè quelli dove vi sono maggioranze, dove vi sono elettorati più trasmissibili, più passabili, eccetera. Però, anche qui, il tempo tra il primo e il secondo turno è breve e le proporzioni sono prestabilite, per cui si tratta di fare una valutazione di convenienza, fermo restando che ognuno entra con la proporzione autentica che ha ottenuto al primo turno. Ecco l'argomento che mi fa suggerire questo tipo di doppio turno.
GIORGIO REBUFFA. Vorrei porre quattro questioni ed una semplicissima sottolineatura. Quest'ultima attiene al fatto che il professor Sartori ha rilevato una cosa che, di solito, nel dibattito politico, non in quello scientifico, viene considerata uno spauracchio: il fatto che la coabitazione è una valvola di sicurezza, una chiave del sistema francese che lo rende più flessibile.
Passo alla prima questione che volevo porre al nostro interlocutore: considerato che poi dovremmo fare delle modificazioni rispetto al modello che abbiamo pronto, vorrei sapere quali siano, a suo giudizio, i limiti al modello semipresidenziale francese - sul quale bisognerebbe forse fare una sottolineatura - senza stravolgerne la funzionalità (non lo dico per amore dalla purezza dei modelli), considerato che è di questo che stiamo discutendo.
La seconda questione, connessa con questa e sui cui forse sarebbe utile una chiarificazione, è quella della ghigliottina. Io ritengo che questo sia un altro dei meccanismi di duttilità del sistema, perché consente quello che a volte può essere necessario, ossia il governo di minoranza; vorrei comunque avere qualche precisazione al riguardo.
Terza questione. Lei ha ricordato che il meccanismo della coabitazione consente anche di eliminare i pericoli dell'outsider o del cattivo presidente. Prescindendo dalle considerazioni meramente metodologiche che si potrebbero fare sulla questione, vorrei dire che i cosiddetti pericoli dell'outsider sono rimediabili, oltre che con questo meccanismo, anche con quello esistente in Francia, ossia attraverso condizioni di selezione della candidatura. Vorrei sapere quale sia la sua proposta (oltre al meccanismo francese, che mi sembra già molto serio e degno di essere preso in attenta considerazione).
Quarta e ultima questione. Nella discussione giornalistica di questi giorni sono emersi accenni sul «doppio motore». Non avrei voluto sollevare la questione se non fosse stata oggetto di dibattito giornalistico ed anche politico, per cui
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Vado a gambero, partendo dalla teoria del «doppio motore». Mi piace, ma la ritiro, perché mi pare ci sia già abbastanza carne sul fuoco; se poi tutto fallisse, allora proverei a dire che non sareste nelle peste da qualche anno se l'aveste adottata. Quell'ipotesi infatti contenta tutti, e innanzitutto i parlamentaristi, perché all'inizio il sistema del «doppio motore» è un sistema di presidenzialismo alternante e il secondo motore si attiva soltanto se il Parlamento non funziona; lo castiga, ma al tempo stesso lo stimola a funzionare. Resto affezionato all'idea ma, poiché non è stata presa in considerazione, non è certo questo il momento di discuterne, dato che vi è solo qualche mese a disposizione e tanti problemucci ardui da risolvere (questi sono semplici, ma quelli federali secondo me sono di difficile soluzione). Ma in caso di fallimento, se proprio non ce la faceste, vi direi di provare questo sistema che potrebbe contentare tutti, essendo per metà parlamentare e per metà presidenzialista.
Vorrei tuttavia eliminare l'equivoco: si può dire che anche il sistema semipresidenziale è a «doppio motore»; la differenza è se i due motori siano accesi tutti e due insieme o si alternino. Nella mia proposta i due motori erano proprio in alternanza: veniva meno quello parlamentare, si attivava quello presidenziale. Nel semipresidenzialismo di modello francese non è così, per questo abbiamo la coabitazione: ci sono sempre due motori in moto, con la differenza che uno gira di più e l'altro di meno, in funzione di chi ha la maggioranza; i due motori sono simultanei, ma oscillanti nel peso decisionale.
Poiché in concreto l'ipotesi sul tappeto da considerare maggiormente è quella semipresidenziale, allora evito di parlare di due motori, perché non vorrei che questo discorso si confondesse con l'altro; basta parlare di sistema bicefalo, con teste e ruoli che si possono alternare.
Parlo di sistema semipresidenziale, ma è vero anche il rovescio, nel senso che sarebbe un sistema semiparlamentare, perché la nozione è rovesciabile. L'espressione «semipresidenziale» indica soltanto che il sistema si spiega dall'alto verso il basso: si parte dall'elezione diretta del presidente e poi si vede. Si può tuttavia definire semiparlamentare: quando la maggioranza non è del presidente ma del capo del governo, abbiamo la prevalenza dell'aspetto parlamentare e quindi il sistema (con qualche eccezione che accoglierò quando mi verrà fatta) può essere legittimamente chiamato semiparlamentare. Mi pareva importante precisare questo punto.
Liberato il tavolo dalla «sartorilogia», ritorno ad affrontare nell'ordine i quesiti posti dall'onorevole Rebuffa.
Per quanto riguarda i limiti da porre al sistema semipresidenziale francese, certamente vi sono nella costituzione formale e soprattutto in quella materiale dell'esperienza francese poteri eccessivi, non giustificati; mi riferisco, ad esempio, al dominio riservato al presidente nei settori della politica estera e della difesa, che non ha ragione d'essere nel contesto italiano. Che il presidente nei casi di dominio riservato possa presiedere il consiglio dei ministri, è da valutare anche se tale aspetto può essere disciplinato, nel senso che il presidente potrebbe presiedere in modo innocuo (è una questione da esaminare).
Il potere più forte, nel contesto che ci interessa, cioè quello di imporre la volontà del governo sul parlamento (quindi in termini di rapporto tra esecutivo e
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Ringrazio per questa domanda e mi soffermo subito sulla questione essenziale, ossia se esista un'area intermedia tra la proposta propriamente detta semipresidenziale e quella propriamente detta di premierato, ossia di elezione diretta del premier; mi soffermerò poi sulle varianti.
Prendiamo come punto di riferimento i due casi concreti precisi: da un lato, vi è il sistema francese e dall'altro quello israeliano, che prevede l'elezione diretta del Presidente del Consiglio; vedremo poi se i due sistemi sono «contaminabili» e con quali correzioni (quello israeliano, per esempio, può essere migliorato).
Occorre scegliere un meccanismo per farlo funzionare: non si può dire che si ha un orologio ad acqua ed un orologio a molla; si devono invece avere le idee chiare per stabilire che un meccanismo funziona in un certo modo e deve avere una sua coerenza di funzionamento. Infatti, quando si parla di sistema politico o costituzionale, la parola «sistema» è seria, nel senso che le varie parti devono formare, appunto, un sistema, per cui devono essere tra loro congruenti e, per così dire, le varie rotelline devono formare un ingranaggio.
In particolare, siamo di fronte a due ingranaggi diversi: uno di essi è il sistema dell'elezione diretta del premier (vedremo poi se l'elezione sia necessaria o se tale aspetto si possa aggirare), adottato recentemente in Israele (il sistema francese è più collaudato), il quale crea a mio avviso problemi che non sono propri del sistema semipresidenziale ed è quindi molto più rischioso di quest'ultimo; in terzo luogo, è caratterizzato da una rigidità che mi spaventa molto. Siccome non potremo mai prevedere le bizzarrie degli elettori, mi terrorizza il fatto di cercare di ottenere in qualsiasi circostanza quella soluzione rigida che occorre per far funzionare un certo sistema.
Procederò però nell'ordine. La prima osservazione è che, a mio parere, il premierato è una forma cattiva, in primo luogo perché crea il problema della maggioranza che non è di facile soluzione. Il sistema francese questo problema non ce l'ha perché si governa con la maggioranza che c'è, mentre se il premier è eletto direttamente è lui che deve avere la maggioranza.
In Israele è andata malissimo: il povero Netaniahu se la deve vedere con partitini di fanatici religiosi che hanno tre membri
ARMANDO COSSUTTA. Mi pare giusta la premessa di cercare di dare ai problemi delle soluzioni possibili e quindi di attenersi al massimo di realismo nella nostra valutazione. Nel realismo credo si debba tener conto (tra breve formulerò qualche domanda) del fatto che in Italia non vi è bipartitismo, né si intravede all'orizzonte la formazione di un sistema fondato sul bipartitismo, come vi è in altre parti del mondo.
Partendo da questa concreta valutazione, vorrei porre al professor Sartori alcune domande. In primo luogo, chiedo perché bisognerebbe prevedere l'elezione diretta del Presidente quando può accadere, com'è avvenuto in Francia, che questi non abbia poi nel Parlamento la maggioranza. Al di là dei poteri che la Costituzione può assegnare al Presidente eletto direttamente dal popolo, quando questi non abbia la maggioranza in Parlamento, se volesse esercitare i poteri sanciti dalla Costituzione, anche i più forti immaginabili, si troverebbe continuamente in urto con il Parlamento nel quale non ha la maggioranza. E' davvero questa la soluzione più valida per garantire la stabilità e quella governabilità che mi pare sia il presupposto da cui parte la riflessione del professor Sartori?
In secondo luogo, perché non si ritiene e non ritiene il professor Sartori che vi sia una garanzia di governabilità con un
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Questa è la mia tesi.
ARMANDO COSSUTTA. ...ed al secondo turno bisogna per forza determinare degli schieramenti, perché per ora in Italia (non so cosa potrà accadere in avvenire) i partiti maggiori conseguono tra il 20 ed il 25 per cento dei voti e quindi è impensabile che possano da soli avere un premio di maggioranza (sarebbe una cosa inaccettabile)? Quindi, il secondo turno dovrebbe servire per assegnare un premio di maggioranza che consentirebbe, insieme alla rappresentatività, la governabilità, cioè la stabilità di un governo.
In terzo luogo, non ritiene, professor Sartori, che il doppio turno di cui lei parla, sia pure con il sistema alla francese o con la previsione di una soglia (vi è una differenza, ma nella sostanza il meccanismo non cambia), determini di certo la possibilità, ma non offra l'assoluta garanzia di governabilità, perché anche con il secondo turno vi possono essere quattro candidati di quattro formazioni diverse, che quindi insieme finiscono per non consentire - parlo teoricamente - la certezza della governabilità, in quanto i contendenti non sono soltanto due? Per coloro che non ritengono di dover accedere al secondo turno (perché, in questo caso, finirebbero solo per fare un danno agli altri e per non recare vantaggio a se stessi, in quanto non avrebbero alcuna possibilità di avere dei candidati eletti) si dice che soltanto per questi, e non anche per coloro che accedono al secondo turno, è prevista una quota proporzionale; certo, occorre definirne l'entità, ma da questo punto di vista mi pare che vi sia nel professor Sartori una visione leninista del Parlamento.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Qui prendo tutti gli elogi!
ARMANDO COSSUTTA. Dico questo perché lei, professor Sartori, così facendo prevede un diritto di tribuna alle varie forze politiche, concetto ormai da gran tempo superato, anche dai leninisti coerenti, ritenendosi ormai che le forze politiche debbano avere non un diritto di tribuna ma, per quello che contano, il diritto non di pronunciare discorsi brutti o belli dalla tribuna, ma di incidere con la loro azione politica sugli indirizzi del governo e quindi del paese.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. La ringrazio, onorevole Cossutta. Però io ho quattro domande sul mio elenco, quindi lei mi ha frodato nel numero! Risponderò comunque a tali quesiti.
Per quanto riguarda il bipartitismo, bisogna distinguere bene tra bipartitismo e bipolarismo. Bipartitismo vuol dire due soli partiti rilevanti, uno dei quali può governare da solo. Bipolarismo vuol dire
STEFANO PASSIGLI. Quello che proponeva l'abolizione del doppio turno alle comunali.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Quindi ha funzionato nel dare stabilità. La mia riserva, se trasferita altrove (non mi azzardo a toccare domini riservati), è che non è un sistema aggregativo; questo diventa il punto. Cioè sana e fa funzionare in termini di stabilità - non ancora di efficienza - la situazione che abbiamo; non è però un meccanismo elettorale aggregativo. Se la si trasferisse quindi alle elezioni nazionali, credo che con tutto il rispetto mi dovrei opporre. Quel pregio di cui lei ha parlato ce l'ha, ma non è un pregio sufficiente e non risolve il problema dell'aggregazione.
Come si creano gli schieramenti? Forse l'ho già detto. E' fisiologico che in un sistema poco polarizzato la distribuzione, almeno in Europa (nell'Islam sarà diverso) sia di tipo destra-sinistra; è quindi fisiologico che chi è più a sinistra vada da una parte e chi è più a destra vada dall'altra. Non vedo reversibilità di questo processo, oggi come oggi. Infatti, il grosso dei paesi europei è a struttura bipolare (con la proporzionale o senza proporzionale, va da sé). Il problema quindi non è di dire che non dobbiamo mettere in pericolo la struttura; non la mettiamo mai in pericolo, neanche se facciamo eccezionalmente accordi trasversali. Il problema è di vedere quali coalizioni, o in che modo creare due poli che al tempo stesso siano coalizioni efficienti di governo. Questo è il problema su cui stiamo discutendo.
L'ultima domanda è: come posso dare una garanzia assoluta? La risposta è che la garanzia assoluta di governabilità non c'è mai; dico semplicemente che con il doppio turno che ho proposto le probabilità di governabilità sono più alte che altrimenti. Che figura farò se fra un anno tornerò in questa sede? Garanzie assolute, quindi, non ne do; ma l'argomento è un po' controproducente dal suo punto di vista, onorevole Cossutta. Se si eliminasse il recupero proporzionale potrei quasi darle la garanzia assoluta. Se manteniamo la proporzionale la garanzia è minore, se la eliminiamo cresce di molto: siamo quasi al 90 per cento. Il grado di garanzia che questo meccanismo produca maggioranze di governo efficienti ed efficaci è in funzione di quanto è alta la quota proporzionale: tanto più il sistema è proporzionale, tanto meno c'è la garanzia.
ARMANDO COSSUTTA. Non vedo perché il doppio turno, anche senza proporzionale, debba dare garanzia di stabilità. Quando concorrono tre o quattro partiti e c'è un bipolarismo, e non un bipartitismo...
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. In Francia non c'è stato il recupero proporzionale. All'origine i due schieramenti erano formati, da una parte, da socialisti e comunisti (questi ultimi avevano circa il 15 per cento e quindi una percentuale rilevante) e dall'altra da gollisti più un pulviscolo di ex radicali e di quelli che rappresentavano il vecchio centro. Nella formula francese la governabilità c'è sempre stata, proprio perché l'andamento del sistema è stato bipolare.
Le maggioranze sono friabili, irrequiete, difficili da controllare se non c'è penalizzazione; ma se il loro disaccordo regala il Governo agli altri - e ad altri definiti - allora la faccenda è diversa. La disciplina di partito inglese non è quella rappresentata necessariamente dal whip
LEOPOLDO ELIA. Vorrei dire che oggi ci troviamo in una posizione diversa rispetto al febbraio 1996, perché allora c'era una specie di sinallagma tra il doppio turno e la scelta di forma di Governo semipresidenziale. Oggi i due temi possono essere trattati in modo abbastanza distinto, nel senso che c'è una convergenza piuttosto ampia, per esempio, sul fatto che si possa arrivare al doppio turno e quindi si possano conseguire già con il sistema elettorale risultati non indifferenti di stabilità e di efficacia.
Quindi possiamo trattare della forma di Governo in modo molto più libero rispetto ad allora, quando sembrava che le due cose fossero in qualche modo tanto legate da costituire oggetto di uno scambio, sia pure a livello di alta politica costituzionale.
Oggi dobbiamo guardare al sistema e alle varie forme di Governo che ci si presentano. Sono d'accordissimo con le critiche che l'amico professor Sartori ha rivolto al sistema israeliano sull'eccesso di rigidità. Questo significa - vedremo che la critica vale un po' anche per la Francia - che si cerca di fissare la storia al giorno delle elezioni, mentre invece essa cammina anche dopo. Ci sono situazioni - come per esempio abbiamo visto in Inghilterra - che in certi momenti inducono la maggioranza a riflettere se considerare veramente irreversibile quell'indicazione oppure se non sia più opportuno che anche un personaggio che aveva benemerenze nella lotta contro il fascismo (come Eden dopo Suez), oppure una personalità come la Thatcher, possa essere rimosso dalla carica di primo ministro.
Vedo invece un eccesso di benevolenza (è un vecchio dissenso che credo però debba essere approfondito) nella visione troppo rosea ed in qualche modo anche semplificata del sistema francese. Si capisce che durante un'esposizione sia necessario un certo grado di semplificazione ma bisogna vedere se essa riguardi punti essenziali.
Quali sono le antinomie, le contraddizioni, i paradossi del sistema francese che spiegano il motivo per cui sia rimasto un'eccezione? Oggi si dice che il semipresidenzialismo investe anche il Portogallo e la Finlandia; tuttavia, nonostante vi sia l'elezione del Presidente della Repubblica, tra la Francia ed il Portogallo c'è un abisso ed anche con la Finlandia le distanze sono abbastanza forti. Secondo me il sistema francese è minato da contraddizioni strutturali insanabili: il massimo di responsabilità è attribuito al primo ministro (che come ha giustamente detto il professor Sartori si cambia come durante i campionati di calcio) ed il bicefalismo è talmente ineguale che chi ha meno potere ha più responsabilità. L'unico responsabile di fronte all'Assemblea nazionale è il primo ministro, mentre il Presidente della Repubblica (che quando ha la maggioranza assomma in sé poteri enormi, superiori a quelli del Presidente americano, in proporzione, per cui si parla di iperpresidenzialismo) può cambiare politica come vuole. Mitterrand nel 1983 operò ben altro che un ribaltone: rovesciò completamente la politica economica cambiando Mauroy, ma egli, che era il vero dominus della fase precedente e di quella successiva a quella data, è passato come la salamandra in mezzo al fuoco.
Questo squilibrio è insanabile e si riflette anche nel rapporto con il corpo elettorale. Il bello delle democrazie dovrebbe essere che c'è un Governo responsabile
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. È un modo di dire.
LEOPOLDO ELIA. È un modo di dire molto improprio. Mi dispiace quindi che Galli Della Loggia accusi i professori universitari italiani di non scendere in campo. Non scendono in campo perché ci si basa su generalizzazioni che non hanno molto fondamento. Il presidente, in Italia, ammonisce; in Francia, decide: questa è la piccola differenza.
Il secondo punto è che tutto ciò comporta uno squilibrio. Il potere è stato infatti concentrato nel presidente per la maggior parte di questi anni: finora vi è stata coabitazione per quattro anni a fronte di quarant'anni con il presidente capo della maggioranza. In quel sistema il presidente, quando comanda per davvero, non trova nella divisione delle attribuzioni e delle competenze un ostacolo serio. La costituzione materiale, che è quella che è appunto prevalsa per il periodo più lungo, lo porta ad occuparsi della ferrovia regionale tra Parigi e Versailles, a prendere decisioni nel campo urbanistico e così via. Non entro nel merito delle scelte: «l'aver avuto in poesia buon gusto la proscrizione iniqua gli perdona» (diceva l'Ariosto di Augusto). Il buon gusto di Mitterrand è fuori discussione, il problema è quello dell'esercizio delle competenze. Non c'è un limite; questo viene scavalcato continuamente da decisioni che non sono di avocazione sporadica ma di estensione amplissima. Questo spiega perché ci si debba domandare, come il personaggio di Molière: «Ma perché devo salire in questa galera?». In che senso dico questo? Nel senso che noi andremo a scegliere, in tal modo, la concentrazione di potere più forte rispetto a tutte le altre ipotesi che ci presentano i modelli democratici, più forte (quando il presidente comanda: e comanda quasi sempre) che negli Stati Uniti. Perché dovremmo farlo? Per espiare le nostre dissipazioni del passato? Ma per questo dovrebbe bastare un regime commissariale di qualche anno. Dobbiamo espiare per sempre? Mi pare un po' eccessivo.
Allora - e concludo - per quanto riguarda questi due punti, valutiamoli alla stregua della democraticità di cui all'articolo 1 della Costituzione. Io non dico che il sistema francese non è democratico, dico che dobbiamo tener conto di un di più o di un di meno di democrazia. Io temo che la democrazia della delega, con il ritorno per sette o cinque anni di ciascun elettore agli affari privati, sia un sistema che spiega le diffidenze verso il sistema francese. Se quest'ultimo fosse
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Ringrazio il senatore, ma anche l'amico Elia. Siamo stati amici per quarant'anni e lo apprezzo da quarant'anni, quindi, se per una volta, con mio dispiacere, non siamo d'accordo, ciò rientra nella dialettica della vita: prendiamola così.
Non siamo d'accordo ma - devo precisarlo - concordo pienamente con la sua premessa. Egli ha ricordato che ora, rispetto al febbraio dell'anno scorso, siamo stati capaci di disallacciare la riforma elettorale e il progetto del doppio turno da una soluzione semipresidenziale. Sono d'accordo con lui: le gambe sono nel sistema elettorale; se non si mettono a posto le gambe, possiamo creare mirabili castelli costituzionali, che non sono però in grado di camminare. Se ci fosse quindi un accordo solo sul doppio turno, sarebbe intanto un bel progresso. In questo sono quindi perfettamente d'accordo con Elia.
Naturalmente, il doppio turno da solo (mi dispiace che l'onorevole Fisichella sia dovuto andare via) non farebbe tanto bene quanto la combinazione del doppio turno con il sistema semipresidenziale, perché la forza aggregante della conquista di una carica indivisibile ed importante fa parte del gioco. Ricordiamoci però che quando in Francia è stato messo in moto questo meccanismo, la Francia era un paese molto simile all'Italia di allora, un paese cioè con una forte sinistra ideologica e con un partito comunista ancora relativamente forte. Si potrebbe pertanto sostenere (lo dico per amor di pace e perché qualcosa devo pur concedere a un amico) che in Italia non ce n'è più bisogno. È vero comunque che se si sommano questi due elementi (il sistema elettorale e l'attrazione determinante della conquista della carica massima) si rinforzano i processi aggregativi (perché è di questo che stiamo parlando per ora).
Anche per quanto riguarda il sistema israeliano siamo perfettamente d'accordo. Io lo ritengo il peggiore possibile. Mi pare che anche Elia la pensi così. Sicuramente preferisce non scegliere fra sistema presidenziale ed elezione diretta del premier, ma se dovesse scegliere tra i due, forse preferirebbe il sistema francese.
Si dice che ho una visione rosea del sistema francese. C'è un aspetto importante, su cui mi voglio soffermare. La prima osservazione di Elia è che le imitazioni, tra le quali si può includere quella dello Sri Lanka e anche - ahimè - quella della Russia (lo dico a mio danno), sono state diverse. Ebbene, posso spiegare perché le imitazioni sono state malfatte o sono riuscite male. Ciò non depone veramente contro il modello francese ma depone contro certe varianti infelici apportate di volta in volta. Il sistema russo è terribile, perché lì veramente si elegge un presidente ultraimperiale che può fare tutto e il contrario di tutto. Quindi, è vero che le imitazioni non sono riuscite, è vero però che il prototipo ha funzionato bene. L'argomento che si porta contro il semipresidenzialismo si può allora portare a maggior ragione contro il presidenzialismo, dal momento che l'unico sistema presidenziale che funziona - o quasi l'unico - è quello degli Stati Uniti: in tutta l'America Latina - e sono venti paesi - non funziona. Bisogna quindi vedere, nel ricostruire un edificio, se riusciamo a farlo bene.
Secondo il senatore Elia nel sistema francese c'è uno squilibrio insanabile. Questa è una diagnosi che non capisco perché, a mio avviso, non vi è né squilibrio né insanabilità ma un riequilibramento continuo che sana gli inconvenienti, cioè la mancanza di maggioranza. Su questo punto, quindi, vi è una diagnosi diversa che vorrei combattere con questa osservazione: che i poteri del presidente francese, nell'ipotesi che non va mai dimenticata, cioè che abbia la maggioranza - che in Francia è stata frequente ma che in Italia non lo sarebbe perché le maggioranze sarebbero sempre di coalizione, per cui questo potere nell'applicazione
LEOPOLDO ELIA. Ma non può porre la questione di fiducia.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Anzitutto, voglio dire che un presidente semipresidenziale non ha maggiori poteri e che essendo lui il governo il problema della questione di fiducia non si pone. Questa è l'enormità del potere presidenziale puro: che le cariche di capo dello Stato e capo di governo si identificano in una sola persona. In un sistema bicefalo, invece, i poteri di ciascuna testa sono minori. Per quanto riguarda lo scioglimento, senatore Elia, la costituzione Debré prevede che esso deve essere concordato dal capo del governo, per cui egli non ha un potere assoluto in questo senso.
LEOPOLDO ELIA. In Francia?
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Sì.
LEOPOLDO ELIA. Senza controfirme?
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Sì.
LEOPOLDO ELIA. Scherziamo?
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. No, controlli. E l'abuso di poteri deve essere concertato con il presidente del consiglio. Può darsi che ricordi male, ma se tutta l'obiezione è questa, per carità... Il punto è che in un sistema presidenziale non ha senso lo scioglimento. In America non c'è perché vi è la divisione dei poteri, per cui ci mancherebbe altro che avesse anche quello di scioglimento...
LEOPOLDO ELIA. Appunto!
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Ma ha tutti i poteri lo stesso, se ha la maggioranza! Il non eccesso di forza del sistema presidenziale americano è dato dal fatto che, non essendo sorretto da partiti disciplinati, non ha mai una vera maggioranza forte (spesso è poi in minoranza). Se si guarda alla struttura dei due sistemi, sostengo la tesi che in un sistema semipresidenziale il potere del presidente è sicuramente inferiore, e se non lo è per questo particolare mettiamo la controfirma e saniamo questo effetto. La diagnosi antirosea del senatore Elia... (Interruzione del senatore Elia).
PRESIDENTE. Senatore Elia, le sue interruzioni sono gradite, ma la pregherei di farle a microfono acceso.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. È un potere condiviso, senatore Elia, però torno a dire che nel sistema francese il potere è di chi ha la maggioranza in Parlamento; possiamo renderlo più condiviso per sanare certe preoccupazioni, ma direi che il punto di principio è questo.
Non capisco l'altra osservazione del senatore Elia sul governo responsabile in un sistema semipresidenziale. A questo punto, credo sia bene ripetere che anche il sistema semiparlamentare contraddice il principio di responsabilità. Quando il presidente ha la maggioranza la responsabilità
LEOPOLDO ELIA. Ci sono i due poli. Ci stiamo arrivando.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Non credo. Il sistema inglese e il sistema tedesco sono sistemi di governo monopartitico, non hanno il problema di coalizioni che li impiombino o che li intralcino. In sostanza, in Germania, pur con le concessioni che sappiamo, è il partito democristiano, è Kohl che governa (i liberali hanno provato a cambiare alleato, ma siccome sono stati fortemente bastonati, adesso sono contenti di essere salvi). Sono due sistemi bipartitici, e su questa premessa funzionano benissimo. Ma non perché queste regole siano state costituzionalizzate. Il sistema non è rigido.
Quindi, anche a questa domanda la risposta è «sì». Non vedo alternative fattibili migliori. Se poi vogliamo fare un discorso in dottrina, forse alla fine potremmo trovarci d'accordo, come è sempre stato. In concreto e in questa circostanza, ti risponderei così, senatore Elia.
LEOPOLDO ELIA. Quello che non posso accettare è che tu dica che la soluzione della designazione è troppo furba. Non è un po' troppo dire che sono troppo furbi gli inglesi, i tedeschi e gli spagnoli?
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Non c'è designazione, è automatico. È questa la differenza.
LEOPOLDO ELIA. Non è elezione, sennò non potevano...
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. E' una pura prassi. Ma non c'è neanche designazione. Siccome i partiti inglesi - anche quello tedesco - si fondano sul principio della leadership (non come i democristiani del passato, che non volevano unificare tutto) è automatico che il leader del partito che vince diventi presidente del consiglio. Non c'è nessuna designazione. Se vogliono cambiare possono senza che nessuno protesti. La designazione risiede quindi nel fatto che hanno semplificato il sistema partitico a tal punto che, con due partiti, uno di regola ha la maggioranza assoluta ed esprime il presidente del consiglio (cambiabile). Anche Kohl regge perché vince, ma se cominciasse a perdere verrebbe sostituito (Commenti). Non solo non c'è elezione... E' un meccanismo che funziona così, ma guai a dire che c'è designazione; nella campagna elettorale non si dice che in caso di vittoria il presidente sarà Kohl,
PRESIDENTE. Poiché la pubblicità viene assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso, prima di dare la parola all'onorevole De Mita vorrei fare una precisazione-testimonianza in riferimento alla legge elettorale. L'onorevole Elia, facendo il paragone tra le condizioni oggettivamente mutate di questo periodo e quelle del periodo precedente, ha sottolineato l'emergere di un orientamento verso il doppio turno. Desidero precisare che la caduta del tabù della discussione della legge elettorale porta anche al venir meno del tabù sul doppio turno, che è una conseguenza del superamento del tabù generale.
Poiché l'argomento interessa molto i giornalisti, è bene precisare questo punto per evitare che domani sui titoli dei giornali si legga che la bicamerale è per il doppio turno; dobbiamo invece valutare serenamente tutte le ipotesi, partendo dalla premessa di fondo, che è quella all'esame del nostro Comitato e dell'intera Commissione.
Dopo l'onorevole De Mita sono iscritti gli onorevoli Nania, Passigli, ed altri...
SERGIO MATTARELLA. Vorrei sapere quanti sono gli iscritti, per capire se siano state raccolte tutte le richieste.
PRESIDENTE. Sono nove.
SERGIO MATTARELLA. Finiremo alle quattro!
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Alle quattro sono a Parigi.
PRESIDENTE. Per usare la terminologia del professor Sartori, il mio era un modo furbo per porre il problema.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Scusatemi se sarò breve nelle risposte, non mi rendevo conto...
CIRIACO DE MITA. La risposta alla mia curiosità è nella premessa, ma anche in alcune risposte date dal professor Sartori, quando sostanzialmente afferma che le sue opinioni fanno riferimento ad una soluzione praticabile. Pertanto, la discussione anziché essere tecnico-giuridica - in questo momento avevo immaginato che fossimo in presenza di un dialogo sulla funzionalità del sistema - diventa inevitabilmente politica.
Al professor Sartori vorrei tuttavia trasmettere una curiosità. Ho ascoltato Mitterrand, con il quale ho avuto qualche frequentazione di rapporti, dire che il sistema francese consentiva di vincere le elezioni ma non di governare; nella parte finale della sua vita e del suo mandato egli si è adoperato per porre al centro della riflessione tale questione. Del resto, chi segue con un po' di attenzione le vicende politico-istituzionali francesi sa che quel modello non viene esaltato, su di esso si discute.
Ma quello che non mi convince, professor Sartori, non è la diversità di opinione emersa poco fa nel confronto tra la sua opinione e quella del senatore Elia; è l'assoluta estraneità del modello che propone ai processi politici che viceversa dovrebbe amministrare. In altri termini, tutte le sue osservazioni, risposte e indicazioni in un certo senso ignorano la nostra storia politica; quando il discorso sulle istituzioni si imbarca lungo questa deriva tutte le tesi sono sostenibili e tutte le tesi sono criticabili.
Non mi è parsa convincente la risposta che ha dato ad un'osservazione fatta dall'onorevole Cossutta. È vero - questa è
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Come no?
CIRIACO DE MITA. Intendevo dire che li inventa quanto al risultato.
Ricordo di essere stato sostenitore del doppio turno e voglio raccontarle un episodio che ci aiuta nella comprensione di tali questioni. Allora il mio partito era contro il doppio turno (lei lo sa, visto che ne abbiamo parlato), perché in alcune località aveva la maggioranza relativa. Dissi allora che si doveva essere attenti al fatto che è il sistema che poi cambia ed incentiva il superamento della frammentazione, in quanto è difficile che gli altri si presentino frammentati in presenza di un sistema maggioritario. Il caso volle che in quel periodo si tennero le elezioni amministrative ad Isernia, dove la democrazia cristiana aveva allora il 48 per cento dei voti e tutti gli altri partiti il 52 per cento. In occasione di quelle elezioni, coloro che avevano il 52 per cento si misero insieme perché, in presenza di un'elezione diretta, l'incentivo ad organizzare
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Per quanto concerne gli Stati Uniti, mi permetto di dissentire dalle conclusioni del professore che è stato citato, il quale vive a Pisa, mentre io, vivendo proprio negli Stati Uniti, ho qualche titolo per dissentire. Il discorso è molto più complesso e comunque la spiegazione data non mi convince.
L'Inghilterra è peraltro il paese che più sacrifica forza coercitiva elettorale: vi è infatti un terzo partito che arriva fino al 25 per cento dei voti ma si ritrova con dieci deputati e la partecipazione è molto più alta di quanto avvenga negli Stati Uniti. Il discorso - dicevo - è più complesso ma non ho tempo per svilupparlo e comunque non si tratta di un conflitto tra me e l'onorevole De Mita, in quanto non sono d'accordo con un collega di Pisa.
Passando alle questioni essenziali sollevate dallo stesso onorevole De Mita, la prima può essere riassunta nella considerazione che il modello francese è estraneo alla nostra storia politica; a mio avviso, questo non è tanto vero, anche perché la Costituzione della quinta Repubblica si è innestata in una situazione molto simile a quella italiana. Nella mia classificazione dei sistemi politici Francia e Italia sono sempre state molto vicine: la quarta Repubblica era molto simile alla prima Repubblica italiana del tempo. Quindi, l'esperimento è riuscito in presenza di condizioni politiche del momento analoghe (non parlo di quelle storiche, anche
CIRIACO DE MITA. Per la verità la mia curiosità non era per la risposta che ho avuto, ma riguardava il rapporto tra i modelli istituzionali che si definiscono ed i processi politici che sono chiamati ad amministrare. In proposito, la separatezza che c'era nell'analisi precedente è stata confermata anche dalla risposta.
DOMENICO NANIA. Vorrei fare una considerazione preliminare. Se ho capito bene, preso atto di ciò che passa il convento sul versante dei partiti, cioè che in Italia per la tradizione del paese - tutto sommato simile a quella francese - non si può cercare il bipolarismo soltanto attraverso una legge elettorale o semplificando per decreto, perché questo creerebbe più problemi di quanti ne risolva, puntando sull'elezione diretta del Presidente della Repubblica si farebbe lavorare l'intero sistema politico-istituzionale in direzione bipolare mantenendo una tradizione di tipo parlamentare nella competizione tra le forze politiche e i partiti.
Avrà notato, professore - come ho notato io - che l'onorevole De Mita ha sostenuto la necessità di valutare l'opportunità di costruire un sistema - le parole in questo caso hanno un peso - che punti all'aggregazione tra i partiti, senza soffermarsi adeguatamente sul fatto che l'aggregazione sia più o meno bipolare. Questo mi pare il passaggio centrale sul quale chiederei un suo approfondimento, considerato che anche D'Alema di recente, in un'intervista concessa a Panorama, ha precisato che l'anomalia dell'attuale sistema italiano consiste nel fatto che non diventa premier il leader del partito della coalizione che prende più voti.
Vorrei chiederle se con il sistema dell'indicazione del premier si risponda all'obiezione di D'Alema - che poi è anche la mia - cioè se si consenta al leader del partito che prende più voti di diventare premier e all'aggregazione di partiti, cioè alla coalizione, di muoversi in direzione bipolare. A me sembra che con la proposta del collegamento, con la proposta «furba» di cui parlava lei, il sistema lavori in maniera esattamente opposta, funzioni cioè in maniera tale che si sceglie come candidato a premier il leader capace di portare la percentuale finale per vincere. Anzi, paradossalmente, se una coalizione pone in campo il leader dello schieramento che prende più voti (Berlusconi per il Polo, per esempio) è destinato a perdere, se invece candida il leader che porta la percentuale che serve per vincere, anche se è minima (teorema Prodi) è destinato a vincere. La prova del nove è che se il Polo avesse candidato Dini con il suo 3-3,5 per cento, e quindi non avesse ragionato in maniera bipolare, avrebbe potuto vincere le elezioni.
Il sistema dell'indicazione del premier, quindi, aggrega gli schieramenti, ma lavora in direzione antibipolare. I problemi del Governo Prodi nascono probabilmente dal fatto che, non essendo il sistema bipolare, il premier punta a crearsi una sua legittimità, una sua forza che lo porta a competere con il partito che ha più voti all'interno della sua stessa coalizione. In conclusione, non le sembra che il sistema del collegamento in realtà spinga come linea di tendenza verso un ritorno al sistema proporzionale?
In relazione al fatto che si sceglie un premier per far perdere l'avversario piuttosto che cercare di vincere con una politica di programma e di schieramento, alla fine si pone la necessità - che tutti abbiamo avvertito in una stagione nella quale più che sul sistema si è lavorato sui
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Alla sua ultima domanda rispondo subito di sì, sono d'accordo.
Vorrei brevemente soffermarmi sugli inconvenienti, che lei richiamava, dell'indicazione del premier, non dell'elezione diretta dello stesso. Ad uno di tali inconvenienti ho già avuto modo di fare cenno: se una coalizione di partiti che in partenza può essere ampia, perché si trova in una fase precedente a quella della decapitazione elettorale, prima delle elezioni deve concordare un candidato premier, ciò produce una grossa distorsione nel processo elettorale che, secondo me, dovrebbe avvenire al primo turno in tutta indipendenza ed autonomia dei singoli partiti e con comportamenti elettorali dei votanti di tipo proporzionale, nel senso che costoro esprimono la loro prima scelta, e quindi al primo turno dichiarano le loro prime preferenze. Se ci affianchiamo l'indicazione del premier, però, tutto questo viene abbastanza disturbato.
Quanto agli altri punti, in particolare quello sollevato da D'Alema, è senz'altro un'anomalia che il capo del governo non sia il capo del partito di maggioranza; certo che è un'anomalia, e direi che va contro il buon senso: nei sistemi più sensati, se un partito è in maggioranza, quel partito ha titolo per indicare e proporre, quanto meno in prima battuta, il capo del governo. A mio avviso, l'anomalia è grave intanto perché crea una dialettica, un contrasto interno alla coalizione (sono cose che vedete tutti i giorni) tra un presidente minoritario che vuole restare in sella ed il capo del partito di maggioranza che lo deve sostenere, magari obtorto collo, chiedendosi forse il motivo per il quale debba sostenere qualcuno che fa cose che egli non vorrebbe fare e che per di più non gli stanno bene perché poi la sua maggioranza parlamentare vorrebbe mantenerla, non vorrebbe perderla per far rimanere in sella il presidente del consiglio. Quindi, si tratta di una gravissima distorsione.
La terza obiezione che si può muovere la sistema dell'indicazione del capo del governo è che in un solo atto si mettono insieme due criteri di scelta profondamente contraddittori: infatti, se si sceglie di indicare preventivamente il capo del governo, si compie una scelta a mio avviso populistica, perché si cerca il candidato che porti più voti; che poi in prospettiva sappia governare o abbia talento di governo diventa irrilevante, ma questo è un fatto gravissimo. In tal modo predisponiamo non dico la scelta del peggiore, ma sicuramente non quella del migliore. Sono contrario all'indicazione del capo del governo
STEFANO PASSIGLI. Poiché con le diverse domande e risposte è stata messa molta carne al fuoco, cercherò di focalizzare il mio intervento su due o tre punti che mi sembrano più rilevanti, ponendo delle domande e cercando nello stesso tempo su quei due o tre punti di fare un breve riassunto per verificare se la domanda sia ben posta e se su di essa sia possibile da parte del professor Sartori fornire una risposta con un sì o con un no.
La prima domanda riguarda la vexata quaestio della governabilità; vi è una tendenza generale, riemersa anche oggi in varie domande, pur se non in tutte, ad equarla con il concetto di stabilità. Mi sembra che invece il professor Sartori abbia detto, a mio avviso correttamente, che la stabilità è una condizione necessaria, ma non sufficiente ed ha parlato di efficacia. In un sistema che ovviamente rimarrà di pluripartitismo, anche se razionalizzato, anche se dovessimo andare ad aggregazioni, si avrebbero comunque governi di coalizione, nell'ambito dei quali l'efficacia sarebbe legata all'omogeneità della coalizione medesima.
Pertanto, se per governabilità intendiamo stabilità, è chiaro che un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza può senz'altro avviare - non dico garantire - almeno inizialmente una stabilità. Infatti, quando il clima della prima Repubblica non consentiva di pensare ad innovazioni radicali del sistema elettorale, si era formulata l'ipotesi, già allora rivoluzionaria, d'introdurre un premio di maggioranza ed a lungo gli studiosi che si occupavano di queste materie hanno lavorato su di essa. Qui voglio fare una dichiarazione di pentitismo: allora sostenevo questa tesi (gli amici dei popolari conoscono bene questa posizione); sembrava che per stabilizzare ulteriormente il prodotto di un sistema elettorale di quel genere si potesse addirittura pensare - lo ricordava il professor Sartori - alla revocabilità del premio: se la coalizione veniva meno, gli eletti decadevano. Teoricamente la cosa poteva funzionare, in pratica avrebbe portato (ne sono convinto e da qui nasce il mio pentimento attuale) a coalizioni ingessate che, per non entrare in crisi, per non veder decadere quindi un certo numero di parlamentari, avrebbero fatto l'impossibile per mantenere in vita governi inefficaci proprio perché divisi al loro interno, che quindi non avrebbero ottenuto alcun prodotto, alcuna policy output significativa, che non avrebbero risolto i problemi.
Se definiamo dunque la governabilità in termini di omogeneità, chiaramente una legge elettorale di questo genere non è sufficiente per assicurarla. Il professor Sartori concorda pienamente con quest'analisi o no (perché questo mi sembra essere uno dei punti chiave in materia di
PRESIDENTE. Faccio presente ai colleghi che il professor Sartori partirà per Parigi verso le 13,5, ora in cui dovremo necessariamente concludere l'audizione. Pertanto, o proseguiamo ad oltranza fino a quel momento, alternando le domande e le risposte, oppure lasciamo intervenire i colleghi che ancora devono formulare quesiti, ai quali il professor Sartori risponderà alla fine.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Preferisco rispondere subito, per evitare di dimenticare i quesiti. Vado a Parigi, ma non alle Folies Bergeres - sia chiaro - bensì alla televisione: alla Cinquième c'è un programma sulla democrazia in cui terrò una lezione. Si
SERGIO MATTARELLA. Rimuovo la tentazione di replicare a qualche affermazione fatta dai colleghi nei loro interventi; mi limito a tre richieste di chiarimento al professor Sartori, premettendo che riguardano gli aspetti sui quali ho qualche dubbio, mentre su altre cose dette dal professore c'è da parte mia piena condivisione.
La prima richiesta riguarda il cosiddetto sistema semipresidenziale. Il professor Sartori ha detto che nel caso in cui vi sia coabitazione vengono meno quei poteri «usurpati» dal Capo dello Stato quando invece non c'è coabitazione. Nel modello che egli ha disegnato, nel contrasto tra Capo dello Stato e primo ministro è quest'ultimo che prevale.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Se ha la maggioranza!
SERGIO MATTARELLA. Sostanzialmente lei ha disegnato un modulo variabile, che affida al voto il concreto atteggiarsi del modello istituzionale. Quest'ultimo, quindi, non è rigido ma muta a seconda del voto. Esprimo un dubbio e vorrei qualche chiarimento sull'utilità di tutto ciò. Non stiamo parlando di pesi e contrappesi di un sistema istituzionale ma di un modello che cambia nel suo concreto atteggiarsi e nella sua fisionomia a seconda dell'andamento del voto. Non so se questo sia un bene, particolarmente - è un'altra domanda che le rivolgo - in un paese che non ha una forte struttura amministrativa pubblica, per di più dotata di forte autonomia, come invece accade in
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'università di Firenze e della Columbia University. La risposta sul punto è facilissima. Proprio per questo voglio i primi quattro e la soglia del 7 per cento: altrimenti il suo discorso diventa valido.
SERGIO MATTARELLA. Anche con quattro, c'è la possibilità che si verifichi quanto ho detto.
PRESIDENTE. No, con quattro non c'è questa possibilità.
CESARE SALVI, Relatore. Il problema è un altro. È che non sarebbero gli stessi quattro, perché la ripartizione geografica sul territorio...
SERGIO MATTARELLA. Collegata a questa, faccio allora la seconda obiezione.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'università di Firenze e della Columbia University. Sviluppiamo questo
SERGIO MATTARELLA. Questo l'ho capito bene, professore. Ovviamente non si tratta di garantire la proporzionalità.
PRESIDENTE. Ma rispetto all'ipotesi dei quattro, onorevole Mattarella, qual è l'obiezione?
SERGIO MATTARELLA. Certamente, con quattro il pericolo è ridotto. Ma vorrei formulare l'obiezione diversamente, dal momento che può essere vista anche sotto un'altra ottica. L'obiettivo è eliminare o ridurre il più possibile il potere di ricatto dei piccoli partiti.
CESARE SALVI, Relatore. Il potere di interdizione.
SERGIO MATTARELLA. Il potere di interdizione, se vogliamo chiamarlo in maniera più elegante: prendo atto della finezza del relatore.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. L'espressione «potere di ricatto», però, è di Downs e risale al 1954. Io l'adopero dal 1966. L'onorevole Salvi mi deve quindi consentire di essere fedele.
CESARE SALVI, Relatore. Mi ero rivolto al collega Mattarella. Non mi permetterei mai di farlo con lei, professor Sartori.
SERGIO MATTARELLA. Nel caso in cui si assegnasse questo premio a chi desiste, non sarebbe insito nel meccanismo istituzionale un premio ad un altro potere di ricatto? Si finirebbe con il lucrare una presenza sulla base di un determinato accordo. E' una domanda che le formulo, professore, pregandola di rifletterci qualche istante.
Vengo alla seconda obiezione. Questo meccanismo prefigura e postula una concezione, un modulo fortemente legato ai partiti, non ai candidati. Per valutare infatti la soglia e la percentuale di ciascuno occorre una configurazione di partiti - e non di candidati - che attraversa tutti i collegi. Per decidere la desistenza occorre un punto di coesione centrale rappresentato appunto dai partiti. Ne risulta quindi schiacciata la fisionomia dei singoli candidati e la loro autonomia rispetto al potere dei partiti. Al riguardo vorrei una risposta.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Per quanto riguarda quest'ultimo punto, onorevole Mattarella, è solo in parte così. Perché in collegi uninominali (dal momento che alla fine il secondo turno è un collegio uninominale) tra partiti che grosso modo si configurano molto vicini (noi avremo infatti molti collegi altamente competitivi, dove il vincitore vince per il 2 o il 3 per cento dei voti) il candidato diventa importante. Il candidato è schiacciato dal partito quando il partito ha un margine di vantaggio tale per cui riuscirebbe a far eleggere anche il cavallo di Caligola. Quindi, anche se il suo discorso, onorevole Mattarella, è in parte vero, è neutralizzato da questa considerazione. I partiti devono cercare il candidato più vincente possibile in ogni collegio...
SERGIO MATTARELLA. Mi scusi se la interrompo, professore, ma questo vale negli accordi di coalizione per desistenze. Se però un partito deve concorrere alla quota proporzionale, deve essere assente in tutto il secondo turno. Vi è quindi il
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. No, io non dico affatto questo.
SERGIO MATTARELLA. Ma la quota proporzionale come si distribuisce, allora?
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. È una questione aperta. Io non ho mai detto questo. Non voglio entrare nel merito perché non abbiamo il tempo per farlo, ma non ho mai detto questo. Io intendo collegio per collegio. D'altra parte, la distribuzione delle desistenze è prefigurata dagli esiti del primo turno.
GIUSEPPE CALDERISI. Non ci sarebbe lo scorporo, allora.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Sì, perché chi resta perde anche, nel cumulo, il suo impatto proporzionale. Certo, siamo malmessi: non vengo qui a dire che ho una soluzione miracolosa. Forse in questo modo riusciamo ad uscirne.
Rispondo rapidamente sugli altri punti.
L'onorevole Mattarella sostiene che il sistema bicefalo di tipo francese ha troppa flessibilità. Certo, si può metterla anche così. Siccome io ritengo che questa flessibilità sia un pregio di un buon sistema costituzionale, preferisco quel sistema. E' chiaro che i sistemi bicefali si raccomandano perché più flessibili dei sistemi monocefali. Siccome il sistema presidenziale americano funziona solo, per miracolo, negli Stati Uniti, io preferisco l'altro.
Che io preferisca o meno le coabitazioni è irrilevante. Può darsi che le preferisca ma - ripeto - ciò è irrilevante. Io dico solo che non mi fanno paura le coabitazioni e che secondo me sono una valvola di sicurezza del sistema. Se poi gli italiani vorranno non farvi mai ricorso, sono contento lo stesso. La mia preferenza credo non incida sul discorso.
Per quanto riguarda il doppio turno, così come lo propongo e lasciando perdere il discorso se ci si debba o meno ritirare da tutti i collegi (io non l'ho concepito così, ma è materia su cui occorre riflettere), il mio obiettivo è quello di neutralizzare il potere di ricatto dei partitini, dei partitini maggiori che passano al secondo turno. In sostanza gli si dà un incentivo. Gli si dice: «Voi potete far perdere il partito maggiore del vostro schieramento, però restate senza un rappresentante». Lo scopo primario è questo, poi si può sostenere che ciò mantiene in vita il pluralismo. Io non faccio il mercante di tappeti. Bisogna decidere qual è la priorità: questo è il punto. Ogni priorità poi, se accettata, implica che certe cose vengano sacrificate.
NATALE D'AMICO. Sarò molto breve. La questione importante del meccanismo di recupero proporzionale proposto dal professor Sartori, credo non si faccia in tempo ad approfondirla. Anch'io l'avevo inteso come il presidente Mattarella: chi si ritira lo fa in tutti i collegi, non sceglie di volta in volta.
Se ho ben capito, il professor Sartori, rispetto a un'esigenza che è stata discussa in questo Comitato, cioè la ristrutturazione del sistema politico in direzione di quella che è stata chiamata alternanza governante (dove per governante si intende efficiente), afferma che se noi abbiamo il doppio turno acceleriamo questa evoluzione, se abbiamo il doppio turno con il semipresidenzialismo la acceleriamo ancora di più.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Grosso modo è così.
NATALE D'AMICO. Le ipotesi alternative, di tipo parlamentare o neoparlamentare, presupporrebbero un sistema partitico già ristrutturato, idoneo. Se questo è
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. L'ultima questione non posso affrontarla adesso sia perché non c'è tempo sia perché è molto complicata. Però, nel mio scritto sull'ingegneria costituzionale sottolineo come anche in questo caso si tratti di dare e di concedere. I problemi, quindi, sono quelli del bicameralismo perfetto e imperfetto e della composizione. Non posso affrontarli adesso ma - ripeto - sono stati oggetto di un mio scritto.
Mi è sembrato di capire, a proposito della domanda sulle condizioni minime, che una riguarderebbe i poteri di scioglimento, cioè chi li ha e con quanta discrezionalità li esercita, l'altra i governi di minoranza. Personalmente, non cederò sangue per nessuna delle due alternative. Accettato il principio di un sistema diarchico, se prevarrà la componente parlamentarista è chiaro che i poteri di scioglimento dovranno essere condivisi tra il presidente ed il capo del governo; se prevarrà un orientamento presidenzialista si può andare, invece, verso l'altra soluzione. Il potere di scioglimento è un deterrente efficace ma quasi mai è usato con molta frequenza, perché tutti si rendono conto di quali siano le controindicazioni (per la verità, l'unico caso aberrante è stato quello di Weimer).
Per quanto riguarda i governi di minoranza, ritengo che con la formula francese non ve ne sia la necessità, ma sappiamo tutti che alle volte vi sono dei partiti che preferiscono non andare al governo e che rendono necessari governi di minoranza. In verità, in questi casi si tratta di governi di maggioranza camuffati, nel senso che vi è un accordo abbastanza preciso tra chi sta fuori e appoggia il governo e chi, invece, se ne assume le responsabilità. Ma se questa dannatissima ipotesi si verificasse (lo voglio escludere, anche se in questo sistema mi sembra molto ridotta una probabilità
PRESIDENTE. Vorrei offrire quale anedottica al professor Sartori la semiconclusione dei nostri lavori: facendo violenza sull'ordine cronologico degli iscritti a parlare, darò la parola al sostenitore maggioritario, l'onorevole Calderisi, che, in funzione di una rappresentazione proporzionale degli interventi, chiede di parlare come rappresentante di forza Italia. Quindi, piegando il principio maggioritario al sistema proporzionale, do la parola all'onorevole Calderisi.
GIUSEPPE CALDERISI. La ringrazio, signor presidente. Premesso che sarò brevissimo, dico subito che vorrei esprimere una mia soddisfazione. Pur essendo questa un'audizione, infatti, quindi non una sede di sindacato ispettivo o di risposta ad interrogazioni, avendo presentato una proposta per introdurre una forma di governo semipresidenziale alla francese, devo dichiararmi soddisfatto dalle risposte del professor Sartori. Siccome non mi è capitato spesso di avere un suo giudizio conforme, ho voluto prendere la parola.
Condivido le caratteristiche di maggiore flessibilità del sistema semipresidenziale francese rispetto agli obiettivi che vogliamo prefiggerci, cioè governabilità e ristrutturazione del sistema dei partiti verso un bipolarismo più maturo. Questi sono gli scopi e da questo punto di vista il sistema offre flessibilità maggiore rispetto alla forma di governo del premier, dove se non si hanno meccanismi rigidi per garantire la stabilità più che la governabilità il sistema non funziona. Infatti, se togliamo gli elementi di rigidità dovuti alle elezioni o a tutta una serie di meccanismi simul stabunt simul cadent, si ha un sistema di un certo tipo che o risulta molto rigido o, in assenza di queste caratteristiche, non risolve i nostri problemi.
Sono soddisfatto dell'intervento del professor Sartori in merito al meccanismo di una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza, nel senso che tale meccanismo non garantisce quella ristrutturazione in senso bipolare garantita proprio dal doppio meccanismo dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica e dal doppio turno. Questo binomio è essenziale. Personalmente, accedo ad un sistema a doppio turno per la legge elettorale, se connesso con l'elezione diretta del presidente della repubblica, perché le due cose si tengono insieme, e a un sistema con il premio di maggioranza, in quanto non si tratta di un meccanismo che porta alla formazione di maggioranze coese.
Le domande o le precisazioni che voglio rivolgere attengono al fatto che la coabitazione è dovuta ad un voto, ad un diverso indirizzo politico espresso dal corpo elettorale: l'indirizzo politico espresso dal presidente della repubblica deve tornare in un ambito diverso perché vi è stato un nuovo voto del corpo elettorale che ha dato un altro indirizzo politico. Credo che questo sia essenziale per comprendere la coabitazione. Quindi, di fronte ad una nuova pronuncia del corpo elettorale e con una maggioranza diversa, evidentemente non c'è tutta una serie di rischi: il Presidente non può permettersi atti in contrasto con questo indirizzo politico, perché non ha la maggioranza, perché potrebbe essere messo in stato d'accusa.
Mi preoccupa molto il problema della controfirma per lo scioglimento delle Camere:
PAOLO ARMAROLI. Mi dichiaro soddisfatto di questa audizione perché ex adverso si può rilevare che l'unico vantaggio del premierato sarebbe che il Presidente della Repubblica avrebbe gli stessi poteri della regina d'Inghilterra (un po' pocucci); per il resto, nessun vantaggio, sarebbe come fare le nozze con i fichi secchi. Questa visione da quinta Repubblica personalmente mi persuade molto perché presenta diversi vantaggi.
Per quanto riguarda l'effetto M - la Marini Presidente della Repubblica - prescindendo dal fatto che non ha il requisito dell'età, è tranquillizzante il fatto che avremmo una maggioranza; si possono poi studiare altri motivi per appoggiare seriamente le candidature.
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Si capisce, la coabitazione presuppone elezioni asincrone, deriva da un'espressione diversa dalla volontà popolare. Non vedo il difetto che suggeriva l'onorevole Elia circa l'individuazione del responsabile; si risponde sempre all'esito elettorale, se la maggioranza è del Presidente, questi è il responsabile, in caso contrario, sarà il capo del Governo.
Sulla questione riguardante la controfirma, un'altra idea potrebbe essere - ci dobbiamo un po' giocare, anche qui la formula perfetta non esiste - attribuire il potere di scioglimento al Presidente, dicendo che tuttavia vi è un potere di override del parlamento in corrispondenza ad una certa aliquota di voti; in altri termini, se un parlamento non accetta lo scioglimento e vota contro..., però in quanto espressione del 60 per cento è costretto a fare maggioranza di governo. Potrebbe essere un'idea, guardiamoci un po' dentro; lo dico così, ci ho pensato in questo attimo.
Si deve pur trovare una soluzione accettabile, anche se non perfetta, per questi problemi. Se c'è questa forte preoccupazione, l'altra è una possibilità da vedere. Più di questo non dico, perché non vi è il tempo ed ancora non ho approfondito l'argomento.
PRESIDENTE. Concludiamo l'audizione del professor Sartori, che ringraziamo per il prezioso contributo offerto in questa occasione.
La seduta termina alle 13.15.