RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 11

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO

GIUSEPPE TATARELLA

Comitato forma di governo

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La seduta comincia alle 9.50.

Audizione del professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University, Giovanni Sartori.


PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University, Giovanni Sartori.
A nome della Commissione, su delega del presidente D'Alema, e a nome del nostro comitato, ringrazio il professor Sartori per aver accettato l'invito a venire in questa sede per parlare della sua tesi, nota a tutti noi.
L'audizione avrà luogo nei modi seguenti. Io porrò una domanda introduttiva, relativa alla visione costituzionale corretta per il sistema Italia che il professor Sartori ha avanzato in tutti i suoi scritti ed in alcune recenti pubblicazioni. A mio parere l'audizione del professor Sartori è utilissima per i lavori della nostra Commissione, perché la Commissione stessa, tramite il suo presidente D'Alema, ha dichiarato che la legge elettorale non è un tabù, noi siamo andati oltre l'affermazione di principio di D'Alema, parlando liberamente della legge elettorale nel nostro comitato, e l'impostazione del professor Sartori riguarda sia l'aspetto di riforma costituzionale generale sia il collegamento con la legge elettorale. Pertanto oggi è opportuno parlare liberamente - ponendo quesiti al professor Sartori- sia del primo sia del secondo aspetto. Avremo praticamente un'esposizione completa su tutta la vicenda che è al nostro esame. Dopo di me, porrà domande il relatore, che parlerà di tutti gli argomenti collegati al nostro lavoro preparatorio (per il quale si è registrato apprezzamento generale da parte dei componenti la Commissione); successivamente tutti i membri del comitato potranno formulare quesiti su entrambi gli argomenti.
Una sola richiesta rivolgo a tutti, relativa al collegamento fra riforme istituzionali e legge elettorale, perché entrando nel vivo del problema è opportuno che fin da oggi questo collegamento nella discussione e nell'esame venga portato a conoscenza di tutti, della stampa che ci ascolta, attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso, per cui la sua audizione, professor Sartori, è seguita da tutti i giornalisti parlamentari.
Cedo immediatamente la parola al professor Sartori, ringraziandolo nuovamente.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Avevo sentito dire un attimo fa che mi sarebbe stata posta una domanda.


PRESIDENTE. La domanda è in re.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Va bene; sono piccole schermaglie parlamentari iniziali!
Vi ringrazio e sono molto onorato di essere qui. Risponderò volentieri alle domande, non voglio perdere tempo in soliloqui. Non ho molta fantasia, quindi non cambio facilmente e di frequente la mia tesi, che credo pertanto sia abbastanza nota. Poi talvolta le tesi sono approvate perché non troppo note, quindi


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non mi voglio «spericolare» nell'esporla nuovamente in maniera troppo dettagliata.
Visto che mi viene chiesto di intervenire, dico solo che il mio discorso è realistico: affermo queste cose perché le vedo in questo contesto; per quanto professore, non intendo in questa sede fare teoria generale dell'ottima costituzione o altro. Nella situazione italiana, le proposte che avanzo sono quelle che mi sembrano più realistiche o più atte a riuscire o più curative dei mali esistenti. Pertanto (lo dico ora e non lo ripeterò più) credo di essere in contesto; come ho affermato molte volte, prendo quello che mi passa il convento e ci lavoro sopra. Per conto mio, avrei anche qualche ideuzza diversa, ma sto zitto perché ce ne sono già troppe e non credo che sia il caso di aggiungere altro.
È noto che in questa cornice io ritengo che se c'è una maggioranza in favore di un sistema basato su un'elezione diretta del premier o del Capo dello Stato, a questa condizione preferisco il sistema semipresidenziale di tipo francese. Non sono io a dire che dovete prevedere l'elezione diretta; dico che se la volete, questa a mio avviso è la soluzione più ragionevole, più sicura, più controllabile.
Lo stesso discorso faccio per il sistema elettorale. In astratto, se vi fosse una grossissima maggioranza proporzionalista (parlo ad absurdum), io ho un'eccellente ricetta che può conciliare proporzionalismo e governo solido, stabile ed efficace. D'altronde, è un sistema che è già esistito. Il partito che ha la maggioranza relativa ha un premio che lo porta alla maggioranza assoluta e tutto il resto va in distribuzione proporzionale. Magnifico sistema proporzionale, governabilità. Le formule ci sono.
Nel caso italiano direi: un momento, poiché oggi siamo nell'ordine di grandezza del 25 per cento per il primo partito, ci sarebbe un premio di maggioranza del 25 per cento. Forse è un po' altino. Ma in astratto si può anche dire: volete la proporzionale, ve la concedo, purché si concili con la governabilità; questo è il mio pallino fisso.
In tale contesto, com'è noto, sono per il doppio turno. Tuttavia il doppio turno ha una ventina di versioni possibili (non le ho contate esattamente); quindi si tratta di vedere quale doppio turno sia il più adatto e il più conveniente e rispetto a quale scopo, perché poi il discorso è tra mezzi e fini... senza offesa... diciamo tra mezzi e scopi! Se tale è l'obiettivo, questo mi sembra lo strumento migliore per quel fine, ma chiaramente il discorso va organizzato così.


CESARE SALVI, Relatore. Il primo quesito che intendo porre riguarda le modalità di elezione del presidente della repubblica nell'ipotesi di un sistema di tipo semipresidenziale, sotto il profilo del numero dei turni, delle modalità eventuali di selezione delle candidature, che tutti i paesi più o meno conoscono. Chiedo se abbia senso in questo contesto un discorso che faccia riferimento a collegi di grandi elettori, come previsto in altri sistemi. In definitiva, vorrei avere da lei un quadro delle ipotesi possibili e di quelle preferibili nell'ipotesi in cui si dovesse accedere a quel modello.
Il secondo quesito riguarda il problema che viene subito richiamato alla mente quando si parla di semipresidenzialismo, cioè quello della coabitazione. Come si sa, per alcuni essa è un potenziale vantaggio del sistema perché in determinati momenti può creare flessibilità, mentre per altri è un inconveniente. Secondo lei è possibile regolamentare questo istituto, magari in modo più preciso di quanto faccia la Costituzione francese (e quindi operando sui meccanismi di fiducia e sfiducia parlamentare, di nomina e revoca del primo ministro, di scioglimento o meno dell'Assemblea), in modo da venire incontro ai dubbi relativi alla coabitazione applicata ad una situazione costituzionale meno consolidata di quella francese, coabitazione che evidentemente va ipotizzata tra i possibili scenari?
Il terzo quesito riguarda la legge elettorale. Lei ha fatto un discorso molto


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pragmatico: più che un discorso astratto in termini di modelli interessa un risultato in termini di governabilità. Un tema molto discusso è quello dell'ipotesi di un doppio turno sui collegi e dei criteri di accesso al secondo turno, oltre a quello delle dimensioni e delle funzioni della cosiddetta quota proporzionale: le sarei grato se potesse darci la sua opinione in proposito.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Vado quasi a nozze: do volentieri tutte queste opinioni.
A proposito delle elezioni presidenziali, dove c'è un bipartitismo il problema non si pone: il presidente viene eletto con la maggioranza; se i candidati sono solo due, con la maggioranza assoluta dei voti. Nei contesti multipartitici, credo vada evitato l'errore che fu esiziale per il Cile e per Allende, oltre che per la Costituzione della Repubblica di Weimar, cioè quello di ammettere tre candidati. Ciò significa che il presidente - nel caso, Allende - viene eletto con il 34 per cento dei voti; non sarebbe mai successo se ci fosse stato il doppio turno, in questo caso con ballottaggio, cioè con ammissione al secondo turno di due soli candidati.
Siccome in Italia per ora (nel 3000 non so) non si parla di bipartitismo (e non di bipolarismo), credo che il sistema più utile ed efficace, oltre che quello più sicuro, sia l'elezione a due turni dalla quale il presidente sia eletto con una maggioranza assoluta. Ciò non solo per evitare gli scherzi successi a Weimar o in Cile ma anche perché se la carica è importante e se i partiti si orientano sulla «cattura» di questa spoglia non divisibile (perché tale è), allora chiedere il 50 per cento aggrega di più che non andare un po' allo sbaraglio sperando di vincere con una maggioranza relativa: in altre parole il sistema costringe ad una maggiore aggregazione; è una considerazione aggiuntiva che mi sembra opportuno fare.
Quanto alla selezione di candidature, in America si fa con le primarie. Ritengo che sia un pessimo sistema e a domanda posso anche spiegare il perché: per ora non mi dilungo. In Finlandia si faceva fino al 1994 ma ha funzionato bene, nel senso che il sistema ha scelto buoni presidenti, retrospettivamente parlando. Il meccanismo era di un vero collegio di grandi elettori, non come quello americano che è un passamano perché le distribuzioni dei voti sono precostituiti e quindi il collegio di grandi elettori non ha alcuna autonomia.
In Finlandia invece scelgono chi vogliono: semplicemente si crea un organo costituente, un collegio di grandi elettori (che può anche essere piccolo; non c'è bisogno di farne un Parlamento) il quale è liberissimo di eleggere il presidente che vuole. E' un sistema filtrato: logicamente funziona anche secondo linee di partito e può richiedere accordi, ma ci sono valutazioni di merito che in una elezione popolare non si fanno perché in quest'ultimo tipo di elezione si sceglie appunto chi è popolare. In un collegio di grandi elettori di tipo finlandese la scelta dei candidati avviene su calcoli relativi a chi farà meglio, oltre che per linee di partito. La Finlandia ha funzionato con questo tipo di sistema dal 1919 e quindi l'esperienza è abbastanza lunga: se esaminiamo i vari presidenti, possiamo dire che quel sistema non ha prodotto imbecilli o incapaci.
Altrimenti le candidature possono essere selezionate nel modo solito: i partiti fanno i loro calcolini e vedono chi ha più chance di vincere. Ma con un sistema di doppio turno con ballottaggio - e quindi con maggioranza assoluta - i partiti sono molto vincolati a cercare un vincitore assoluto.
L'altro aspetto individuato dall'onorevole Salvi riguarda i sistemi semipresidenziali ed il problema della cosiddetta cohabitation, cioè di una situazione in cui il presidente non ha la maggioranza in Parlamento, e che in America si chiama di «maggioranza divisa». Inizialmente questa cohabitation ha preoccupato anche in Francia: si disse che sarebbe stato meglio eleggere un presidente con la maggioranza assoluta nell'Assemblea nazionale (in Francia il bicameralismo è imperfetto). In


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tal caso il sistema è di tipo presidenziale. Il punto però è che questo tipo di costruzione è bicefala: questa secondo me è stata anche la grande trovata... Funziona bene il mio microfono? Lo devo avvicinare? Ma allora questo è ostruzionismo: si impedisce che io venga sentito e parlo a vuoto...!


PRESIDENTE. Io do un'altra interpretazione: più si è vicini a Sartori e meglio si sente!


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Venite tutti qui, allora!


VALDO SPINI. La cattedra è troppo alta!


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Ma i vecchi professori sono abituati: i miei maestri stavano su cattedre altissime. Lamanna a Firenze aveva una cattedra bellissima, in alto: peccato, non c'è più!
Dunque, dicevo, se un sistema è bicefalo, o questa caratteristica deve servire oppure è una stupidaggine. La mia interpretazione è che serva e che anzi sia questa la grande trovata del meccanismo. In verità nel sistema francese, non solo per prassi ma anche perché così c'è scritto nella Costituzione Debré (poi si potrà aggiungere o precisare meglio, ma l'intenzione di Debré era chiarissima, così come era chiaro il modo in cui il meccanismo avrebbe operato), il problema della maggioranza divisa non si pone mai. Chi ha la maggioranza in Parlamento è la testa prevalente in questo sistema diarchico; il vero motore dell'esecutivo è chi ha la maggioranza. Quindi non ci si deve più tanto preoccupare se un presidente vince con una maggioranza; se non la ottiene poco male: si sposta il baricentro del sistema. La soluzione a me pare straordinariamente abile. Tutti i nostri sistemi si dibattono infatti nel seguente problema: come si fa a dare una maggioranza all'esecutivo? Il sistema semipresidenziale se la trova: se ce l'ha il presidente, tutto va de plano e il problema non esiste (e questo è stato chiaramente il caso con De Gaulle); ma se il presidente non ce l'ha, è lo stesso, perché egli è costretto (anche se non gli si sottrae la discrezionalità della scelta) a dare l'incarico del governo - che è un organo perfettamente autonomo nel sistema francese - ad un candidato che la maggioranza vuole ed è disposta a fiduciare e a sostenere. In quest'ultimo caso, quindi, il governo è in maggioranza mentre il presidente non lo è.
Nei due casi francesi, prima con Chirac e poi con Balladour, questa coabitazione in sostanza ha funzionato, e non perché Mitterrand fosse un personaggio facile (insisto su questo punto): ha funzionato perché Mitterrand si è reso conto che non aveva i poteri (i poteri «usurpati» della costituzione materiale vengono meno nel momento in cui il presidente non ha più la maggioranza in Parlamento), e non avendoli non ha ingaggiato battaglia. Cito un esempio di poteri «usurpati»: il potere di indire un referendum, nella costituzione Debré, deve essere concordato con il primo ministro. Questo è un potere «usurpato». Se ci fosse stata una battaglia, se Mitterrand avesse provato a dire: «Voglio un referendum», Chirac o Balladour lo avrebbero bloccato, non avendo egli il potere di indirlo da solo. Quindi, sapendo che la difesa dei poteri «usurpati» sarebbe fallita perché la costituzione non la consente (dichiarando appunto tali poteri «usurpati»), la coabitazione ha funzionato.
Si può anche studiare qualche accorgimento in più: non ci ho ancora pensato; mi pare che la partita sia in una fase troppo preliminare per arrivare qui con i programmini dei dettagli. Secondo me, il testo della costituzione Debré ai fini del conseguimento di questo effetto è sufficiente, perché in essa i poteri del capo del governo sono molto più precisati che non i poteri del presidente. I poteri del presidente sono largamente poteri di empechement: il presidente può impedire; altrimenti, se non ha la maggioranza assoluta, non può fare quasi niente. Certo, ha


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qualche dominio riservato che diventerebbe irrilevante nel contesto italiano: che il presidente abbia un dominio riservato in politica estera e nella difesa aveva un senso per la grandeur francese e per De Gaulle, ma fortunatamente noi siamo un po' più modesti e possiamo rinunciare a ciò.
Se si va a leggere questo testo, si constata quindi che il governo è autonomo, deve avere la fiducia del Parlamento e funziona sulla maggioranza parlamentare; e se il presidente non ha lui la maggioranza, il governo è il vero motore efficiente di questo sistema. Salvo altre precisazioni, onorevole Salvi, darei quindi una valutazione positiva, non negativa, della coabitazione. Essa è innanzitutto la valvola di sicurezza del sistema, e lo è in modo importante: se nell'elezione diretta viene scelto un presidente sbagliato (probabilità secondo me non da escludere, non bassissima: questo è un understatement), lo si può tranquillamente neutralizzare. Oppure pensiamo al presidente outsider (non faccio nomi, ma tanto li abbiamo tutti in mente): il presidente che viene su dal nulla ma è popolare, viene eletto; se però non ha poi una maggioranza in Parlamento, non ha alcun potere. E' quindi un sistema - come dicevo - che non solo risolve il problema della maggioranza ma che dà anche garanzie di neutralizzazione più alte di qualsiasi altro sistema ad elezione diretta (perché - si capisce - stiamo parlando di elezione diretta). Questo è il discorso per quanto riguarda la coabitazione. Salvo riprenderlo in seguito, onorevole Salvi, per ora mi fermerei qui.
Veniamo alla legge elettorale. Quale che sia la distribuzione «giurisdizionale» fra questa sede e l'Assemblea, infatti, non è pensabile che si possa costruire un edificio costituzionale dimenticando che c'è in ballo al tempo stesso anche il sistema elettorale. Insomma, da noi tutto è in ballo e qui importa precisare l'obiettivo. Un sistema elettorale per che cosa? Qual è lo scopo? Quali sono i problemi che deve risolvere?
L'obiettivo, nel caso italiano, a mio avviso, è indubbiamente quello di ridurre drasticamente la polverizzazione, oramai, del sistema partitico. Va bene la frammentazione, ma siamo ormai a livelli, non dico brasiliani, ma certo inconsueti nell'Europa occidentale. I partiti che in qualche modo oggi hanno voce in capitolo (l'espressione è ecclesiastica ma oramai si è anche laicizzata) nelle decisioni sono infatti più di dieci, per un verso o per l'altro: è un numero enorme! Non ci è arrivata neanche la Repubblica di Weimar! Per trovare situazioni simili si deve andare in America Latina, dove il sistema partitico è spesso spappolato. Un sistema partitico ancora abbastanza strutturato è insopportabile ai fini della governabilità. Certo, ai fini della rappresentanza è una meraviglia; anzi, ai fini della rappresentanza l'ideale sarebbe che ogni eletto fosse un partito: gioia, pacchia dei rappresentati! La protezione del collegio sarebbe magnifica! Tutto sarebbe magnifico, solo che un simile sistema non può funzionare.
Se quindi lo scopo è la riduzione della frammentazione partitica in limiti che consentano governi efficaci ed efficienti, se lo scopo è la cosiddetta governabilità, credo che al punto in cui siamo oggi non abbiamo molte alternative. Possiamo adottare il modello proporzionale che ho prima indicato per scherzo: il primo prende la maggioranza assoluta e il resto si distribuisce. Andrebbe benissimo: il governo diventerebbe monopartitico e probabilmente cercherebbe di essere efficiente, poiché vincendo in questo caso il primo partito con uno scarto di 2, 3 punti percentuali, dovrebbe darsi da fare per reggere; gli altri sarebbero rappresentati quasi in proporzione.
Se dobbiamo però orientarci su un sistema maggioritario, allora non rimane che il doppio turno, secondo me, perché il monoturno secco si traduce, sulla base di questa partenza frammentata, in un maggioritario proporzionalizzato, come è stato scritto (non so se sia stato io per primo a scriverlo o se sia stato qualcun altro): moltiplica i partiti, non li riduce, perché in ogni collegio - lo sappiamo benissimo -

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i candidati sono una «incollatura»; qualsiasi partitino che arriva fa correre il rischio di perdere le elezioni e quindi va accontentato, e per questo si moltiplicano i partiti.
Il maggioritario a due turni può rimediare a questo inconveniente. Dico può perché questo non vale per tutte le formule. Ecco perché vorrei soffermarmi un momento sulle formule possibili. Di recente, ho proposto di far passare al secondo turno i primi quattro partiti, ma solo per evitare la discussione sulla soglia d'ammissione, nel senso che va bene se c'è un accordo - supponiamo il 7 per cento -, mentre se si deve discutere se fissarla al 4 o al 9, per esempio, credo che questa potrebbe essere una soluzione ragionevole per tagliare la testa al toro. Mai, però, il doppio turno con il ballottaggio tra i primi due, perché questo deforma il primo turno. Se al secondo turno entrano soltanto i primi due, occorre che i partiti si mettano d'accordo tra loro già al primo turno (le desistenze), il che riproduce il gioco che, in parte, già conosciamo. Per l'accordo di desistenza ci si scambiano i collegi a tavolino: o ti ritiri o ti faccio perdere. Quindi, in questo caso un doppio turno sarebbe sicuramente sbagliato, non funzionerebbe ai fini di cui dicevo. La soglia del 7 per cento - credo che questo sia l'orientamento o la proposta del presidente D'Alema - può andar bene ugualmente, purché non sia una soglia all'israeliana dell'1,5 per cento. Sulle soglie vi è infatti motivo di litigio: i francesi sono partiti dal 6 per cento e sono arrivati al 12,5 per cento...


CESARE SALVI, Relatore. E poi sono trattabili per definizione!


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Purtroppo sì... non che voglia togliere potere negoziale ai politici e al Parlamento.
Quindi, o l'uno o l'altro. L'importante è, a mio avviso, che il primo turno sia pulito, nel senso che consenta ai partiti di presentarsi da soli nella loro identità e che l'elezione sia proporzionale. Gli elettori, in questa circostanza, esprimono le loro prime preferenze (dieci partiti, per esempio, arrivano tutti e si vede quali sono) e i partiti non devono concordare un bel nulla, si muovono nella loro autonomia, con il loro programma e nella loro indipendenza.
Al secondo turno, dove i collegi sarebbero uninominali, opera invece il sistema maggioritario. Vi spiego la mia idea, ma vi sono possibili soluzioni diverse, purché si convenga sull'obiettivo, sul risultato che ci preme di conseguire. Premesso che mi oppongo al recupero proporzionale se interferisce nel sistema elettorale, lo considero invece molto ragionevole nell'ipotesi in cui il recupero proporzionale vada ai partiti che passano al secondo turno ma che, essendo minori, desistono: un partito che passa al secondo turno con il 10 per cento non ha nessuna possibilità di vincere, però può far perdere il suo alleato; se resta non ha diritto al recupero proporzionale, se si ritira ha diritto al recupero, che potrà essere del 10 o del 15 per cento, per esempio. Questo è un meccanismo di incentivazione che «ripulisce» senza «uccidere» la stretta che deve avvenire al secondo turno. Si tratterà di fare in modo che questo recupero del 10 o del 15 per cento non sia tale da ricreare piccoli partiti che condizionano le maggioranze di governo; deve essere tale, quindi, da rispettare la loro legittima esigenza di non sparire, di essere rappresentati. Può andar bene il 10 per cento di cui ho sentito parlare, forse si può arrivare al 15 per cento (i calcoli li lascio fare a voi), ma credo, in quest'ordine di grandezza, che questo sistema senza «uccidere» troppo mantenga in vita delle voci e, soprattutto, diminuisca molto il potere di ricatto dei partiti minori al secondo turno. E' vero, infatti, che essi possono far perdere i partiti maggiori, però restano senza rappresentanza; se invece si ritirano beneficiano del recupero proporzionale, che può essere concepito in vario modo (lista nazionale con ordine precostituito o


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i primi che entrano al secondo turno, ma questo non è rilevante ai fini del mio discorso).
Se questa fosse la formula adottata - uso il «se» perché il discorso è congetturale - prevedo che si andrebbe, abbastanza rapidamente, ad una quadriglia bipolare (la quadrille bipolaire dei francesi), cioè a una maggioranza di governo fondata su due partiti e poi ad una rappresentanza dei partiti minori garantita dal recupero proporzionale. Quindi, si potrebbe conciliare la governabilità con il massimo di rappresentatività possibile in funzione dell'obiettivo prioritario, cioè governi in grado di funzionare e quindi stabili, anche se i governi funzionano non solo perché stabili ma perché abbastanza omogenei. Ma questo sistema elettorale crea anche omogeneità e aggregazione a prescindere dai cambi meccanici, per così dire, perché i partiti maggiori che passano al secondo turno sanno benissimo che è in questa fase che concorderanno tra loro le desistenze. Nel mio schema è previsto che ciò avvenga senza litigi, perché le proporzioni di distribuzione sono quelle già stabilite al primo turno. Quindi, se alleanza nazionale ha il 50 per cento, avrà diritto al 50 per cento (ovviamente, faccio ipotesi assurde)...


PAOLO ARMAROLI. Perché assurde?


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Scusi, volevo dire che faccio ipotesi azzardate. Quindi, non vi è neanche litigio, ma solo la necessità di vedere, nei due poli, quali sono i collegi dove conviene la desistenza, cioè quelli dove vi sono maggioranze, dove vi sono elettorati più trasmissibili, più passabili, eccetera. Però, anche qui, il tempo tra il primo e il secondo turno è breve e le proporzioni sono prestabilite, per cui si tratta di fare una valutazione di convenienza, fermo restando che ognuno entra con la proporzione autentica che ha ottenuto al primo turno. Ecco l'argomento che mi fa suggerire questo tipo di doppio turno.


GIORGIO REBUFFA. Vorrei porre quattro questioni ed una semplicissima sottolineatura. Quest'ultima attiene al fatto che il professor Sartori ha rilevato una cosa che, di solito, nel dibattito politico, non in quello scientifico, viene considerata uno spauracchio: il fatto che la coabitazione è una valvola di sicurezza, una chiave del sistema francese che lo rende più flessibile.
Passo alla prima questione che volevo porre al nostro interlocutore: considerato che poi dovremmo fare delle modificazioni rispetto al modello che abbiamo pronto, vorrei sapere quali siano, a suo giudizio, i limiti al modello semipresidenziale francese - sul quale bisognerebbe forse fare una sottolineatura - senza stravolgerne la funzionalità (non lo dico per amore dalla purezza dei modelli), considerato che è di questo che stiamo discutendo.
La seconda questione, connessa con questa e sui cui forse sarebbe utile una chiarificazione, è quella della ghigliottina. Io ritengo che questo sia un altro dei meccanismi di duttilità del sistema, perché consente quello che a volte può essere necessario, ossia il governo di minoranza; vorrei comunque avere qualche precisazione al riguardo.
Terza questione. Lei ha ricordato che il meccanismo della coabitazione consente anche di eliminare i pericoli dell'outsider o del cattivo presidente. Prescindendo dalle considerazioni meramente metodologiche che si potrebbero fare sulla questione, vorrei dire che i cosiddetti pericoli dell'outsider sono rimediabili, oltre che con questo meccanismo, anche con quello esistente in Francia, ossia attraverso condizioni di selezione della candidatura. Vorrei sapere quale sia la sua proposta (oltre al meccanismo francese, che mi sembra già molto serio e degno di essere preso in attenta considerazione).
Quarta e ultima questione. Nella discussione giornalistica di questi giorni sono emersi accenni sul «doppio motore». Non avrei voluto sollevare la questione se non fosse stata oggetto di dibattito giornalistico ed anche politico, per cui


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qualche precisazione da parte sua si rende necessaria. Conosciamo la teoria del «doppio motore», così come da lei esposta nei suoi libri, in particolare in Ingegneria costituzionale comparata. Poiché tale ipotesi ha potuto funzionare in condizioni di transizione verso la democrazia, condizioni che pur con tutti i difetti, rischi e problemi che abbiamo non possiamo considerare proprie della nostra realtà, credo che, salve sue eventuali precisazioni, essa potrebbe essere più rischiosa che vantaggiosa.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Vado a gambero, partendo dalla teoria del «doppio motore». Mi piace, ma la ritiro, perché mi pare ci sia già abbastanza carne sul fuoco; se poi tutto fallisse, allora proverei a dire che non sareste nelle peste da qualche anno se l'aveste adottata. Quell'ipotesi infatti contenta tutti, e innanzitutto i parlamentaristi, perché all'inizio il sistema del «doppio motore» è un sistema di presidenzialismo alternante e il secondo motore si attiva soltanto se il Parlamento non funziona; lo castiga, ma al tempo stesso lo stimola a funzionare. Resto affezionato all'idea ma, poiché non è stata presa in considerazione, non è certo questo il momento di discuterne, dato che vi è solo qualche mese a disposizione e tanti problemucci ardui da risolvere (questi sono semplici, ma quelli federali secondo me sono di difficile soluzione). Ma in caso di fallimento, se proprio non ce la faceste, vi direi di provare questo sistema che potrebbe contentare tutti, essendo per metà parlamentare e per metà presidenzialista.
Vorrei tuttavia eliminare l'equivoco: si può dire che anche il sistema semipresidenziale è a «doppio motore»; la differenza è se i due motori siano accesi tutti e due insieme o si alternino. Nella mia proposta i due motori erano proprio in alternanza: veniva meno quello parlamentare, si attivava quello presidenziale. Nel semipresidenzialismo di modello francese non è così, per questo abbiamo la coabitazione: ci sono sempre due motori in moto, con la differenza che uno gira di più e l'altro di meno, in funzione di chi ha la maggioranza; i due motori sono simultanei, ma oscillanti nel peso decisionale.
Poiché in concreto l'ipotesi sul tappeto da considerare maggiormente è quella semipresidenziale, allora evito di parlare di due motori, perché non vorrei che questo discorso si confondesse con l'altro; basta parlare di sistema bicefalo, con teste e ruoli che si possono alternare.
Parlo di sistema semipresidenziale, ma è vero anche il rovescio, nel senso che sarebbe un sistema semiparlamentare, perché la nozione è rovesciabile. L'espressione «semipresidenziale» indica soltanto che il sistema si spiega dall'alto verso il basso: si parte dall'elezione diretta del presidente e poi si vede. Si può tuttavia definire semiparlamentare: quando la maggioranza non è del presidente ma del capo del governo, abbiamo la prevalenza dell'aspetto parlamentare e quindi il sistema (con qualche eccezione che accoglierò quando mi verrà fatta) può essere legittimamente chiamato semiparlamentare. Mi pareva importante precisare questo punto.
Liberato il tavolo dalla «sartorilogia», ritorno ad affrontare nell'ordine i quesiti posti dall'onorevole Rebuffa.
Per quanto riguarda i limiti da porre al sistema semipresidenziale francese, certamente vi sono nella costituzione formale e soprattutto in quella materiale dell'esperienza francese poteri eccessivi, non giustificati; mi riferisco, ad esempio, al dominio riservato al presidente nei settori della politica estera e della difesa, che non ha ragione d'essere nel contesto italiano. Che il presidente nei casi di dominio riservato possa presiedere il consiglio dei ministri, è da valutare anche se tale aspetto può essere disciplinato, nel senso che il presidente potrebbe presiedere in modo innocuo (è una questione da esaminare).
Il potere più forte, nel contesto che ci interessa, cioè quello di imporre la volontà del governo sul parlamento (quindi in termini di rapporto tra esecutivo e


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legislativo), è la ghigliottina alla francese, che mi sembra eccessivo e non necessario: il governo pone quella che definiremmo la questione di fiducia, dà 24 ore di tempo, se non vi è una mozione di sfiducia il provvedimento è approvato. Questo è un colpo di mano, anche se in verità utilizzato pochissimo, perché nell'arco di quarant'anni sarà stato usato sessanta-settanta volte, e quindi vi è stata moderazione nell'utilizzo di questo strumento. La ghigliottina è un eccesso di potere presidenziale e di governo, che a mio avviso non ha ragione o necessità di essere. Diverso è il discorso per la ghigliottina inglese - ora non si emenda, si vota - in quanto un sistema di governo efficace deve disciplinare il filibustering, ossia gli abusi di ostruzionismo; l'ostruzionismo serve a chi è all'opposizione per protestare contro il governo, ma se vi è un sistema di alternanza vi è un interesse generale a disciplinarlo (e a questo serve la ghigliottina inglese).
L'altro strumento di forza dell'esecutivo nei confronti del parlamento nella formula francese è il voto in blocco: il governo raggruppa gli emendamenti (una discussione, un provvedimento) par un seul voix, con un voto solo. Riorganizza un testo che è stato un po' «strapazzato» nel suo iter parlamentare, lo rimette insieme e chiede un solo voto su di esso, in sostanza di fiducia. Questo è, a mio avviso, uno strumento intelligente di cui l'esecutivo deve disporre, perché altrimenti il sistema è parlamentare. L'alternativa che può avere effetti equivalenti è quella di prevedere un potere di veto line item, cioè punto per punto, non bloccando l'intero provvedimento ma una parte di esso.
La complicazione è rappresentata dal fatto che nel sistema presidenziale il potere di veto è attribuito al Presidente, mentre se si ipotizza un sistema semipresidenziale, la questione è più complessa. Preferirei quindi attenermi alla formulazione francese, perché questo è a mio avviso uno strumento efficace di razionalizzazione dei provvedimenti di Governo, in quanto li «ripulisce», li mette insieme. Ritengo peraltro che sarebbe utile introdurre l'elemento della spiegazione a carico sia del Governo sia della maggioranza. Sarei quindi contrario alla ghigliottina francese, mentre manterrei l'altro strumento dell'esecutivo.
Una volta che si accetta il meccanismo e si capisce qual è (questo è il punto), si può negoziare tutto, ma non è possibile arrivare al punto di indebolire l'esecutivo né di accettare la Presidenza imperiale alla De Gaulle. Tuttavia, all'interno di questi estremi, che credo tutti siamo interessati ad evitare, si tratta di fare una valutazione in concreto.
Un'altra questione che è stata affrontata è quella relativa a quale sia il meccanismo di controllo delle candidature. Per la verità, su questo punto sono un po' ossessionato da quella che definisco la videopolitica, che trasforma la natura e anche la proposta relativa ai candidati. Nell'esperienza precedente dei sistemi strutturati dei partiti erano questi ultimi ad esprimere il loro candidato più «vendibile», che era anche quello considerato migliore, nell'aspettativa che in lui vi fosse capacità di governo. La videopolitica dà invece luogo alla ricerca del candidato popolare e basta, ossia di colui che può far vincere: anche se nel caso in cui sia demente, mentecatto, dissennato, analfabeta e così via, se i sondaggi di opinione rivelano che gode del 70 per cento dei consensi, egli viene conteso e chi non riesce ad averlo ne cerca un altro: se uno è un calciatore, anche l'altro sarà un calciatore (parlo per assurdo).
Esprimo questa preoccupazione che riflette non tanto le esperienze del passato quanto questo prevedibile e rischioso futuro. Allora, se ci si avvia verso un sistema di elezione diretta, preferisco quello francese, perché può neutralizzare la cattiva scelta, in quanto contiene un'importante valvola di sicurezza che a mio avviso l'alternativa di tipo israeliano, che prevede l'elezione diretta del premier, non contempla, salvo la dissoluzione, ma su questo se volete mi potete «spidocchiare».


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VALDO SPINI. Considero giusto il modo in cui è stata posta la questione, cioè con l'intento di cercare non la Costituzione ottima in astratto, ma quella giusta per raggiungere gli obiettivi da perseguire in Italia. Questi obiettivi sono stati individuati dal professor Sartori nella governabilità, alla luce delle esperienze di questi anni e di questo sistema. Da parte mia, aggiungerei anche obiettivi di massima efficacia del voto dell'elettore, cioè di trasparenza e di efficacia del meccanismo elettorale, che consenta all'elettore di avere la massima trasparenza dei risultati del suo voto.
Da questo punto di vista, com'è noto, ritengo che nell'esperienza italiana un semipresidenzialismo alla francese, discusso e adattato nei limiti di cui si sta parlando oggi anche in rapporto alle domande dell'onorevole Rebuffa, sia il sistema più adatto se si vogliono conseguire questi due risultati: governabilità ed efficacia del voto degli elettori.
A volte, tuttavia, nel nostro dibattito e nella pubblicistica si sostiene l'esigenza di aggirarsi in un'area compresa tra il semipresidenzialismo alla francese ed un premierato. Vorrei allora invitare il professor Sartori a dire se le due cose gli sembrano equivalenti o se invece la natura delle due proposte sia profondamente diversa.
Inoltre, con riferimento all'altro punto su cui egli si è soffermato, concernente l'alternativa dell'elezione diretta del premier, gli chiedo quale funzione rivestirebbe di fatto, in tale eventualità, il Parlamento e quale possibilità di «gioco» avrebbe il mutamento dell'opinione pubblica in rapporto agli equilibri politici che si formano nel paese.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Ringrazio per questa domanda e mi soffermo subito sulla questione essenziale, ossia se esista un'area intermedia tra la proposta propriamente detta semipresidenziale e quella propriamente detta di premierato, ossia di elezione diretta del premier; mi soffermerò poi sulle varianti.
Prendiamo come punto di riferimento i due casi concreti precisi: da un lato, vi è il sistema francese e dall'altro quello israeliano, che prevede l'elezione diretta del Presidente del Consiglio; vedremo poi se i due sistemi sono «contaminabili» e con quali correzioni (quello israeliano, per esempio, può essere migliorato).
Occorre scegliere un meccanismo per farlo funzionare: non si può dire che si ha un orologio ad acqua ed un orologio a molla; si devono invece avere le idee chiare per stabilire che un meccanismo funziona in un certo modo e deve avere una sua coerenza di funzionamento. Infatti, quando si parla di sistema politico o costituzionale, la parola «sistema» è seria, nel senso che le varie parti devono formare, appunto, un sistema, per cui devono essere tra loro congruenti e, per così dire, le varie rotelline devono formare un ingranaggio.
In particolare, siamo di fronte a due ingranaggi diversi: uno di essi è il sistema dell'elezione diretta del premier (vedremo poi se l'elezione sia necessaria o se tale aspetto si possa aggirare), adottato recentemente in Israele (il sistema francese è più collaudato), il quale crea a mio avviso problemi che non sono propri del sistema semipresidenziale ed è quindi molto più rischioso di quest'ultimo; in terzo luogo, è caratterizzato da una rigidità che mi spaventa molto. Siccome non potremo mai prevedere le bizzarrie degli elettori, mi terrorizza il fatto di cercare di ottenere in qualsiasi circostanza quella soluzione rigida che occorre per far funzionare un certo sistema.
Procederò però nell'ordine. La prima osservazione è che, a mio parere, il premierato è una forma cattiva, in primo luogo perché crea il problema della maggioranza che non è di facile soluzione. Il sistema francese questo problema non ce l'ha perché si governa con la maggioranza che c'è, mentre se il premier è eletto direttamente è lui che deve avere la maggioranza.
In Israele è andata malissimo: il povero Netaniahu se la deve vedere con partitini di fanatici religiosi che hanno tre membri


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ed ha una maggioranza che credo non gli invidiamo neanche in Italia. In Israele, sprovvedutamente, non hanno pensato a questo aspetto, come non hanno pensato al fatto che se il premier muore si devono rifare le elezioni perché non è prevista alcuna sostituzione; e considerato che Israele è un paese esposto al rischio di guerra o di assassini, è evidente che hanno adottato questa soluzione senza pensarci bene perché c'era fretta.
In Italia ci si è resi conto che questa era una lacuna del modello israeliano, si è pensato quindi all'istituzione di premi di maggioranza. Tali premi possono essere sensati, ma anche dissennati: sono dissennati se non creano omogeneità di coalizione e sono solo moltiplicatori di coalizioni disomogenee. Se una coalizione è composta da cinque partiti, tre dei quali rappresentano il 3 per cento, con il premio di maggioranza diventano partiti del 6 per cento, si rinforza quindi questa frammentazione, non la si modifica, tant'è vero che ai bei tempi dei premi di maggioranza della prima Repubblica (la legge truffa prima, poi i tempi di Craxi e Andreotti), si diceva che il premio di maggioranza diventa una truffa in sé perché prima si acciuffa la maggioranza, poi ciascuno torna più forte nella posizione di disomogeneità o di frammentazione di prima.
Allora, il premio di maggioranza andrebbe attribuito ma anche tolto, perché ci vuole sempre la punizione così diventa un sistema ragionevole: lo diamo alla coalizione vincente, ma se questa poi si divide e non funziona, glielo togliamo. Non è difficile, basta contemplare una maggioranza variabile: chi è entrato con il premio, lo perde se si rompe la coalizione ed il Parlamento, invece di essere di 300 persone, torna ad essere di 250. Il sistema tedesco, per esempio, ha una maggioranza variabile, quindi si può contemplare un premio di maggioranza che imponga di rispettare il vincolo di presentarsi come coalizione di governo.
Non mi oppongo al premio di maggioranza, osservo solo che non si potrebbe fare se non fosse sostenuto da incentivi o da punizioni. Mi chiedo però perché ci dobbiamo arrovellare sui non facili problemi del premio di maggioranza quando nel sistema francese questo problema non esiste perché la maggioranza è quella che è ed esprime il capo del governo.
La seconda osservazione è che nel paragone tra semipresidenzialismo e premierato, nel secondo caso un'eventuale scelta imbecille - possibilità che deve sempre essere messa in conto - non è rimediabile; non so ancora se Netaniahu, per esempio, sia bravo o imbecille, ma il punto è che non si può fare nulla salvo dissolvere il Knesset e tornare a votare.
Un sistema costituzionale che si salva con lo scioglimento annuale mi sembra maldisegnato, d'altronde nel sistema francese non ce n'è nessun bisogno: si può fare, ma il sistema non rende necessario lo scioglimento perché manca una maggioranza. Non mi addentro adesso nel motivo per cui ritengo sbagliate le elezioni anticipate ricorrenti, mi limito ad osservare che evidentemente i governi in stato di fibrillazione elettorale governano maluccio, perché si preoccupano di vincere le elezioni: la distrazione ed i costi della campagna elettorale sono grandi. Inoltre, si possono ripetere elezioni che abbiano sempre lo stesso esito, quindi anche se il deterrente potrebbe essere buono, nella prassi la situazione può rimanere molto stabile anche in presenza di elettorati altamente volatili. Nessuno può garantire che votare nuovamente risolva la situazione: può benissimo accadere che se è premier Di Pietro - faccio un nome a caso - venga rieletto Di Pietro, soprattutto se non gli si dà il tempo di far male.
È un sistema molto rigido che, da un lato, pone difficili problemi in termini di maggioranze di governo efficaci, omogenee, equalescenti, dall'altro lascia incastrati perché non c'è modo di sostituire l'eletto tranne votare di nuovo. A Weimar è successo, hanno fatto quattro elezioni in tre anni, ma non sono certo che permetta un risultato positivo andare a votare quando non è necessario e quando non è detto che una nuova elezione risolverà il problema, considerato anche che ci si

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espone ancora di più al rischio di una elezione sbagliata perché gioca l'elemento della popolarità.
Avrei anche altre osservazioni da fare sulla non funzionalità del modello israeliano, ma mi limito a queste anche perché, visto che uno dei due sistemi risolve questi problemi mentre l'altro no, non vedo perché preferire il secondo al primo.
Naturalmente si può parlare di indicazione del premier invece che di elezione diretta, il che vuol dire una promessa non giuridica, un generico impegno. Secondo me, questa soluzione è troppo furba perché è chiaro che, anche se non ha valore giuridico, la promessa diventa elettoralmente vincolante e che, se venisse violata, l'urlo del ribaltone sarebbe assolutamente assordante (Commenti del deputato Armaroli). Ammettiamo che, in caso di vittoria, una coalizione si impegni ad eleggere un suo esponente Presidente del Consiglio, ma poi questi non funziona, la coalizione non va: cosa fare? Giuridicamente il candidato si può cambiare sostenendo che un cambiamento avvenuto all'interno della medesima coalizione non è un ribaltone. Indubbiamente non lo è, ma sono tranquillo che, in tal caso, inventeremmo la dottrina per la quale anche questo è un tradimento della volontà popolare, e quindi ci incastreremmo nel rispetto di una volontà popolare che poi, tutto sommato, dovrebbe farci riflettere.
Con tutto il rispetto, mi chiedo quante cose voti un povero elettore, quante volontà esprima e come si faccia a sapere quale abbia espresso. Il voto è per un partito, per un programma, quello dell'Ulivo ha cento punti: per quale di questi cento punti ha votato l'elettore? Non esageriamo con la tesi per la quale il popolo ha espresso una certa volontà: il corpo elettorale può aver votato per me perché sapeva che tanto non sarei stato eletto e quindi per non votare un candiato credibile. Anche in questo caso credo che ci incastriamo in problemi di rigidità inutile.
Nello stesso tempo, rischiamo anche di sciupare in una certa misura il sistema elettorale perché, se scegliamo prima un premier, allora si deve cominciare a negoziare fin dal primo turno, cioè si ritorna nel solito «mercato delle vacche». Ma perché ciò dovrebbe accadere? Non ve ne è alcun bisogno, se si adotta il doppio turno che ho descritto. Allora, perché andarsi a cercare problemi di difficile soluzione quando non vi è necessità di farlo?
Sono queste le mie argomentazioni; avrei anche altre piccole riserve, ma non voglio occupare tutto il tempo a disposizione. Onorevole Spini, va bene la mia risposta?


VALDO SPINI. Sì.


ARMANDO COSSUTTA. Mi pare giusta la premessa di cercare di dare ai problemi delle soluzioni possibili e quindi di attenersi al massimo di realismo nella nostra valutazione. Nel realismo credo si debba tener conto (tra breve formulerò qualche domanda) del fatto che in Italia non vi è bipartitismo, né si intravede all'orizzonte la formazione di un sistema fondato sul bipartitismo, come vi è in altre parti del mondo.
Partendo da questa concreta valutazione, vorrei porre al professor Sartori alcune domande. In primo luogo, chiedo perché bisognerebbe prevedere l'elezione diretta del Presidente quando può accadere, com'è avvenuto in Francia, che questi non abbia poi nel Parlamento la maggioranza. Al di là dei poteri che la Costituzione può assegnare al Presidente eletto direttamente dal popolo, quando questi non abbia la maggioranza in Parlamento, se volesse esercitare i poteri sanciti dalla Costituzione, anche i più forti immaginabili, si troverebbe continuamente in urto con il Parlamento nel quale non ha la maggioranza. E' davvero questa la soluzione più valida per garantire la stabilità e quella governabilità che mi pare sia il presupposto da cui parte la riflessione del professor Sartori?
In secondo luogo, perché non si ritiene e non ritiene il professor Sartori che vi sia una garanzia di governabilità con un


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sistema anche fortemente proporzionale? Parlo di governabilità, non soltanto di rappresentatività, che è uno degli aspetti a mio avviso fondamentali per considerare la validità di una legge elettorale. Infatti, sono sempre due gli aspetti che bisogna cercare di conciliare: governabilità e rappresentatività. La legge attualmente in vigore per le regioni ha una forte base proporzionale e prevede anche un premio di maggioranza. Questo sistema ha consentito concretamente, anche con una certa meraviglia per chi tra noi vive da tanti anni la realtà politica italiana, una stabilità dei governi regionali che in passato sarebbe stata impensabile, e ciò proprio in conseguenza di un sistema nel quale contemporaneamente si garantiscono rappresentatività e governabilità.
Certo, quest'ultima può essere conseguita attraverso un premio di maggioranza ed allora perché non pensare proprio all'assegnazione di un premio di maggioranza - parlo di un'ipotetica legge nazionale - da ottenersi in un secondo turno, mentre al primo turno ognuno si presenta come crede, ottiene i voti che ottiene...


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Questa è la mia tesi.


ARMANDO COSSUTTA. ...ed al secondo turno bisogna per forza determinare degli schieramenti, perché per ora in Italia (non so cosa potrà accadere in avvenire) i partiti maggiori conseguono tra il 20 ed il 25 per cento dei voti e quindi è impensabile che possano da soli avere un premio di maggioranza (sarebbe una cosa inaccettabile)? Quindi, il secondo turno dovrebbe servire per assegnare un premio di maggioranza che consentirebbe, insieme alla rappresentatività, la governabilità, cioè la stabilità di un governo.
In terzo luogo, non ritiene, professor Sartori, che il doppio turno di cui lei parla, sia pure con il sistema alla francese o con la previsione di una soglia (vi è una differenza, ma nella sostanza il meccanismo non cambia), determini di certo la possibilità, ma non offra l'assoluta garanzia di governabilità, perché anche con il secondo turno vi possono essere quattro candidati di quattro formazioni diverse, che quindi insieme finiscono per non consentire - parlo teoricamente - la certezza della governabilità, in quanto i contendenti non sono soltanto due? Per coloro che non ritengono di dover accedere al secondo turno (perché, in questo caso, finirebbero solo per fare un danno agli altri e per non recare vantaggio a se stessi, in quanto non avrebbero alcuna possibilità di avere dei candidati eletti) si dice che soltanto per questi, e non anche per coloro che accedono al secondo turno, è prevista una quota proporzionale; certo, occorre definirne l'entità, ma da questo punto di vista mi pare che vi sia nel professor Sartori una visione leninista del Parlamento.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Qui prendo tutti gli elogi!


ARMANDO COSSUTTA. Dico questo perché lei, professor Sartori, così facendo prevede un diritto di tribuna alle varie forze politiche, concetto ormai da gran tempo superato, anche dai leninisti coerenti, ritenendosi ormai che le forze politiche debbano avere non un diritto di tribuna ma, per quello che contano, il diritto non di pronunciare discorsi brutti o belli dalla tribuna, ma di incidere con la loro azione politica sugli indirizzi del governo e quindi del paese.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. La ringrazio, onorevole Cossutta. Però io ho quattro domande sul mio elenco, quindi lei mi ha frodato nel numero! Risponderò comunque a tali quesiti.
Per quanto riguarda il bipartitismo, bisogna distinguere bene tra bipartitismo e bipolarismo. Bipartitismo vuol dire due soli partiti rilevanti, uno dei quali può governare da solo. Bipolarismo vuol dire


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che esistono due aggregazioni, ognuna di più partiti, che però ormai si strutturano come aggregazioni alternative; questa è la nozione di bipolarismo che si applica all'Italia.
Su questo punto dico subito che anche se il nostro bipolarismo è ancora molto zoppo, o imperfetto, come avrebbe detto a suo tempo Giorgio Galli, o incompiuto, una struttura bipolare è però fisiologica. In Italia non l'abbiamo avuta perché in passato eravamo un caso del tutto anomalo di opposizione permanente e di maggioranza permanente. Ma quando la polarizzazione viene meno o diminuisce, quando le situazioni si normalizzano, tutti i paesi hanno una struttura bipolare. Anche Israele, il più proporzionale dei paesi (120 deputati eletti in un collegio unico, quindi più proporzionale di così si muore!) ha avuto una struttura bipolare. Vi ricordo infatti che fino al 1974 c'era il partito laburista, partito di maggioranza relativa, partito dominante, e dall'altra parte c'era un'alleanza di partiti di destra; poi nel 1974 si è avuta l'alternanza.
Non appena, quindi, le condizioni di anomalia che hanno caratterizzato il sistema italiano e l'alta polarizzazione vengono meno, è normale che i sistemi democratici di tipo occidentale si strutturino su basi bipolari, perché è per noi normale che si debba cercare l'alternanza. Pertanto l'alternanza sta venendo, è venuta e secondo me resta, perché ormai questi aggregati, pur essendo da semplificare, sono quelli che sono: nel vecchio gergo, c'è un aggregato di sinistra o di centro-sinistra ed uno di destra o di centro-destra e non vedo come si possano valicare, salvo il fatto che in condizioni di emergenza si possono sempre costituire (e l'hanno fatto in tutti i paesi) governi di grande coalizione, ma poi si ritorna sempre, non hanno mai sciupato il gioco. Coloro che hanno praticato maggiormente le grandi coalizioni sono stati gli austriaci, per esempio; ma poi alla fin fine anche in Austria sono sempre cattolici contro socialisti, non è che si riesce a sciupare questo cleavage fondamentale che esiste in Austria.
Vengo alla seconda domanda dell'onorevole Cossutta: perché elezione diretta se poi può creare un capo senza maggioranza? Io vado col convento, onorevole. Se lei mi dice: non facciamo elezione diretta, io le propongo anche formule che mi sembrano accettabili senza; ma poiché questa è parte del pacchetto che secondo me è sul tavolo e che consente un accordo tra semipresidenzialismo e doppio turno, se questo è il pacchetto allora le rispondo che questa è l'unica ipotesi realistica che vedo su questo tappeto. Poi ci sono tante ragioni che lo possono giustificare, non solo quella contingente. Se accettiamo che è bene dare questa legittimazione, cioè il tipo di legittimazione che viene da un'elezione diretta, allora cerchiamo di farlo minimizzando il rischio.
Secondo punto (perché il primo era una premessa, altrimenti diventerebbero cinque). Che la governabilità si possa ottenere anche con la proporzionale è vero in astratto: l'Austria vota con la proporzionale ed è stata bipartitica fino ad una decina di anni fa. Dobbiamo vedere che effetti produce la proporzionale in un determinato paese in quel momento. Oggi no, direi. Se in teoria accetto che sia possibile, per tante ragioni sulle quali non mi soffermo, nella sostanza del caso italiano la proporzionalità ormai produce una frantumazione eccessiva, come l'ha prodotta in Israele. Anche in Israele la situazione a lungo andare è peggiorata: fino al 1974 c'era un partito dominante, il partito socialista, con un solo alleato che governava; poi c'è stata la rotazione, ma il Likud è sempre stato una specie di arcobaleno di partiti, e ormai i partiti sono una dozzina. Lì chiaramente la proporzionale è nociva. Lo stesso discorso faccio per l'Italia, dal punto di vista concreto e non come teoria generale.
Sul terzo punto l'onorevole Cossutta mi vuole mettere in difficoltà con il presidente, dicendo che la legge Tatarella è proporzionale ed ha funzionato benissimo. Come me la cavo? Me la caverei con la seguente osservazione. La legge Tatarella ha funzionato nel senso che lei diceva, cioè di dare stabilità. Dare stabilità

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non è lo stesso che dare efficienza d'azione, è una condizione dell'efficienza. Quindi accetto il fatto che abbia dato stabilità; l'efficienza dipende da tante altre cose, anche dai regolamenti, intendiamoci, perché i poveri sindaci in Italia sono irretiti da una rete di extracontrolli o altro. Ma insomma, ha dato stabilità. Mi pare infatti che la difesi; c'era un referendum, Passigli, non ricordo bene, uno dei referendum per i quali andammo insieme in televisione...


STEFANO PASSIGLI. Quello che proponeva l'abolizione del doppio turno alle comunali.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Quindi ha funzionato nel dare stabilità. La mia riserva, se trasferita altrove (non mi azzardo a toccare domini riservati), è che non è un sistema aggregativo; questo diventa il punto. Cioè sana e fa funzionare in termini di stabilità - non ancora di efficienza - la situazione che abbiamo; non è però un meccanismo elettorale aggregativo. Se la si trasferisse quindi alle elezioni nazionali, credo che con tutto il rispetto mi dovrei opporre. Quel pregio di cui lei ha parlato ce l'ha, ma non è un pregio sufficiente e non risolve il problema dell'aggregazione.
Come si creano gli schieramenti? Forse l'ho già detto. E' fisiologico che in un sistema poco polarizzato la distribuzione, almeno in Europa (nell'Islam sarà diverso) sia di tipo destra-sinistra; è quindi fisiologico che chi è più a sinistra vada da una parte e chi è più a destra vada dall'altra. Non vedo reversibilità di questo processo, oggi come oggi. Infatti, il grosso dei paesi europei è a struttura bipolare (con la proporzionale o senza proporzionale, va da sé). Il problema quindi non è di dire che non dobbiamo mettere in pericolo la struttura; non la mettiamo mai in pericolo, neanche se facciamo eccezionalmente accordi trasversali. Il problema è di vedere quali coalizioni, o in che modo creare due poli che al tempo stesso siano coalizioni efficienti di governo. Questo è il problema su cui stiamo discutendo.
L'ultima domanda è: come posso dare una garanzia assoluta? La risposta è che la garanzia assoluta di governabilità non c'è mai; dico semplicemente che con il doppio turno che ho proposto le probabilità di governabilità sono più alte che altrimenti. Che figura farò se fra un anno tornerò in questa sede? Garanzie assolute, quindi, non ne do; ma l'argomento è un po' controproducente dal suo punto di vista, onorevole Cossutta. Se si eliminasse il recupero proporzionale potrei quasi darle la garanzia assoluta. Se manteniamo la proporzionale la garanzia è minore, se la eliminiamo cresce di molto: siamo quasi al 90 per cento. Il grado di garanzia che questo meccanismo produca maggioranze di governo efficienti ed efficaci è in funzione di quanto è alta la quota proporzionale: tanto più il sistema è proporzionale, tanto meno c'è la garanzia.


ARMANDO COSSUTTA. Non vedo perché il doppio turno, anche senza proporzionale, debba dare garanzia di stabilità. Quando concorrono tre o quattro partiti e c'è un bipolarismo, e non un bipartitismo...


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. In Francia non c'è stato il recupero proporzionale. All'origine i due schieramenti erano formati, da una parte, da socialisti e comunisti (questi ultimi avevano circa il 15 per cento e quindi una percentuale rilevante) e dall'altra da gollisti più un pulviscolo di ex radicali e di quelli che rappresentavano il vecchio centro. Nella formula francese la governabilità c'è sempre stata, proprio perché l'andamento del sistema è stato bipolare.
Le maggioranze sono friabili, irrequiete, difficili da controllare se non c'è penalizzazione; ma se il loro disaccordo regala il Governo agli altri - e ad altri definiti - allora la faccenda è diversa. La disciplina di partito inglese non è quella rappresentata necessariamente dal whip


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che punisce; è quella che deriva naturalmente dal fatto che se i deputati non sostengono il Governo, lo perdono. Questa logica si applica anche alle strutture di tipo bipolare; nell'esperienza francese - che dura ormai dal 1960 - non è mai mancata una maggioranza di Governo.
La critica secondo cui cambiano i Presidenti del Consiglio non ha molto senso: i Presidenti del Consiglio vengono cambiati come gli allenatori della squadra di calcio, ma la squadra resta la stessa per tutto il campionato. Vengono cambiati se il Presidente della Repubblica non è contento ma la stabilità e l'efficienza dei governi nella formula francese è stata notevole: se mi chiede il 100 per cento, allora non lo garantisco.


LEOPOLDO ELIA. Vorrei dire che oggi ci troviamo in una posizione diversa rispetto al febbraio 1996, perché allora c'era una specie di sinallagma tra il doppio turno e la scelta di forma di Governo semipresidenziale. Oggi i due temi possono essere trattati in modo abbastanza distinto, nel senso che c'è una convergenza piuttosto ampia, per esempio, sul fatto che si possa arrivare al doppio turno e quindi si possano conseguire già con il sistema elettorale risultati non indifferenti di stabilità e di efficacia.
Quindi possiamo trattare della forma di Governo in modo molto più libero rispetto ad allora, quando sembrava che le due cose fossero in qualche modo tanto legate da costituire oggetto di uno scambio, sia pure a livello di alta politica costituzionale.
Oggi dobbiamo guardare al sistema e alle varie forme di Governo che ci si presentano. Sono d'accordissimo con le critiche che l'amico professor Sartori ha rivolto al sistema israeliano sull'eccesso di rigidità. Questo significa - vedremo che la critica vale un po' anche per la Francia - che si cerca di fissare la storia al giorno delle elezioni, mentre invece essa cammina anche dopo. Ci sono situazioni - come per esempio abbiamo visto in Inghilterra - che in certi momenti inducono la maggioranza a riflettere se considerare veramente irreversibile quell'indicazione oppure se non sia più opportuno che anche un personaggio che aveva benemerenze nella lotta contro il fascismo (come Eden dopo Suez), oppure una personalità come la Thatcher, possa essere rimosso dalla carica di primo ministro.
Vedo invece un eccesso di benevolenza (è un vecchio dissenso che credo però debba essere approfondito) nella visione troppo rosea ed in qualche modo anche semplificata del sistema francese. Si capisce che durante un'esposizione sia necessario un certo grado di semplificazione ma bisogna vedere se essa riguardi punti essenziali.
Quali sono le antinomie, le contraddizioni, i paradossi del sistema francese che spiegano il motivo per cui sia rimasto un'eccezione? Oggi si dice che il semipresidenzialismo investe anche il Portogallo e la Finlandia; tuttavia, nonostante vi sia l'elezione del Presidente della Repubblica, tra la Francia ed il Portogallo c'è un abisso ed anche con la Finlandia le distanze sono abbastanza forti. Secondo me il sistema francese è minato da contraddizioni strutturali insanabili: il massimo di responsabilità è attribuito al primo ministro (che come ha giustamente detto il professor Sartori si cambia come durante i campionati di calcio) ed il bicefalismo è talmente ineguale che chi ha meno potere ha più responsabilità. L'unico responsabile di fronte all'Assemblea nazionale è il primo ministro, mentre il Presidente della Repubblica (che quando ha la maggioranza assomma in sé poteri enormi, superiori a quelli del Presidente americano, in proporzione, per cui si parla di iperpresidenzialismo) può cambiare politica come vuole. Mitterrand nel 1983 operò ben altro che un ribaltone: rovesciò completamente la politica economica cambiando Mauroy, ma egli, che era il vero dominus della fase precedente e di quella successiva a quella data, è passato come la salamandra in mezzo al fuoco.
Questo squilibrio è insanabile e si riflette anche nel rapporto con il corpo elettorale. Il bello delle democrazie dovrebbe essere che c'è un Governo responsabile


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di fronte agli elettori in quanto possa realizzare il programma: non parlo di tutti i 100 punti dell'Ulivo, ma quello che il candidato alla Presidenza del Consiglio ha presentato.
Anche al riguardo c'è una grossa contraddizione. Apprezzo la positività della coabitazione, perché ha dimostrato che questo Presidente poteva anche ritirarsi in un bel castello, senza che necessariamente dovesse sempre avere quel potere straordinario divenuto normale in quasi quarant'anni. La coabitazione ha consentito che ci fosse questo passaggio, ma è un passaggio che contraddice profondamente il principio di responsabilità. Il Presidente della Repubblica, infatti, anche se si ripresenta alle elezioni, può sempre giustificarsi dicendo di aver subito due o più anni di coabitazione (con Chirac potrebbero essere addirittura quattro anni su sette). «Che responsabilità ho» - potrebbe dire - «se non ho potuto realizzare il mio programma, dal momento che su sette anni ne ho avuti a disposizione solo tre o cinque?». E se veramente l'anno prossimo (non ci credo finché non lo vedo) Jospin prevalesse, avremmo allora una coabitazione potenzialmente quadriennale di tipo molto diverso.
Ciò comporta delle contraddizioni che dal punto di vista democratico sono molto gravi. E non mi si dica che in Italia c'è già un semipresidenzialismo di fatto, perché la situazione italiana non è assolutamente comparabile al potere che ha il presidente francese quando è capo della maggioranza: su questo siamo d'accordo.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. È un modo di dire.


LEOPOLDO ELIA. È un modo di dire molto improprio. Mi dispiace quindi che Galli Della Loggia accusi i professori universitari italiani di non scendere in campo. Non scendono in campo perché ci si basa su generalizzazioni che non hanno molto fondamento. Il presidente, in Italia, ammonisce; in Francia, decide: questa è la piccola differenza.
Il secondo punto è che tutto ciò comporta uno squilibrio. Il potere è stato infatti concentrato nel presidente per la maggior parte di questi anni: finora vi è stata coabitazione per quattro anni a fronte di quarant'anni con il presidente capo della maggioranza. In quel sistema il presidente, quando comanda per davvero, non trova nella divisione delle attribuzioni e delle competenze un ostacolo serio. La costituzione materiale, che è quella che è appunto prevalsa per il periodo più lungo, lo porta ad occuparsi della ferrovia regionale tra Parigi e Versailles, a prendere decisioni nel campo urbanistico e così via. Non entro nel merito delle scelte: «l'aver avuto in poesia buon gusto la proscrizione iniqua gli perdona» (diceva l'Ariosto di Augusto). Il buon gusto di Mitterrand è fuori discussione, il problema è quello dell'esercizio delle competenze. Non c'è un limite; questo viene scavalcato continuamente da decisioni che non sono di avocazione sporadica ma di estensione amplissima. Questo spiega perché ci si debba domandare, come il personaggio di Molière: «Ma perché devo salire in questa galera?». In che senso dico questo? Nel senso che noi andremo a scegliere, in tal modo, la concentrazione di potere più forte rispetto a tutte le altre ipotesi che ci presentano i modelli democratici, più forte (quando il presidente comanda: e comanda quasi sempre) che negli Stati Uniti. Perché dovremmo farlo? Per espiare le nostre dissipazioni del passato? Ma per questo dovrebbe bastare un regime commissariale di qualche anno. Dobbiamo espiare per sempre? Mi pare un po' eccessivo.
Allora - e concludo - per quanto riguarda questi due punti, valutiamoli alla stregua della democraticità di cui all'articolo 1 della Costituzione. Io non dico che il sistema francese non è democratico, dico che dobbiamo tener conto di un di più o di un di meno di democrazia. Io temo che la democrazia della delega, con il ritorno per sette o cinque anni di ciascun elettore agli affari privati, sia un sistema che spiega le diffidenze verso il sistema francese. Se quest'ultimo fosse


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infatti tanto bello, credo che sarebbe abbracciato, nell'America del sud e in altri paesi, con più trasporto rispetto a quanto finora non è avvenuto.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Ringrazio il senatore, ma anche l'amico Elia. Siamo stati amici per quarant'anni e lo apprezzo da quarant'anni, quindi, se per una volta, con mio dispiacere, non siamo d'accordo, ciò rientra nella dialettica della vita: prendiamola così.
Non siamo d'accordo ma - devo precisarlo - concordo pienamente con la sua premessa. Egli ha ricordato che ora, rispetto al febbraio dell'anno scorso, siamo stati capaci di disallacciare la riforma elettorale e il progetto del doppio turno da una soluzione semipresidenziale. Sono d'accordo con lui: le gambe sono nel sistema elettorale; se non si mettono a posto le gambe, possiamo creare mirabili castelli costituzionali, che non sono però in grado di camminare. Se ci fosse quindi un accordo solo sul doppio turno, sarebbe intanto un bel progresso. In questo sono quindi perfettamente d'accordo con Elia.
Naturalmente, il doppio turno da solo (mi dispiace che l'onorevole Fisichella sia dovuto andare via) non farebbe tanto bene quanto la combinazione del doppio turno con il sistema semipresidenziale, perché la forza aggregante della conquista di una carica indivisibile ed importante fa parte del gioco. Ricordiamoci però che quando in Francia è stato messo in moto questo meccanismo, la Francia era un paese molto simile all'Italia di allora, un paese cioè con una forte sinistra ideologica e con un partito comunista ancora relativamente forte. Si potrebbe pertanto sostenere (lo dico per amor di pace e perché qualcosa devo pur concedere a un amico) che in Italia non ce n'è più bisogno. È vero comunque che se si sommano questi due elementi (il sistema elettorale e l'attrazione determinante della conquista della carica massima) si rinforzano i processi aggregativi (perché è di questo che stiamo parlando per ora).
Anche per quanto riguarda il sistema israeliano siamo perfettamente d'accordo. Io lo ritengo il peggiore possibile. Mi pare che anche Elia la pensi così. Sicuramente preferisce non scegliere fra sistema presidenziale ed elezione diretta del premier, ma se dovesse scegliere tra i due, forse preferirebbe il sistema francese.
Si dice che ho una visione rosea del sistema francese. C'è un aspetto importante, su cui mi voglio soffermare. La prima osservazione di Elia è che le imitazioni, tra le quali si può includere quella dello Sri Lanka e anche - ahimè - quella della Russia (lo dico a mio danno), sono state diverse. Ebbene, posso spiegare perché le imitazioni sono state malfatte o sono riuscite male. Ciò non depone veramente contro il modello francese ma depone contro certe varianti infelici apportate di volta in volta. Il sistema russo è terribile, perché lì veramente si elegge un presidente ultraimperiale che può fare tutto e il contrario di tutto. Quindi, è vero che le imitazioni non sono riuscite, è vero però che il prototipo ha funzionato bene. L'argomento che si porta contro il semipresidenzialismo si può allora portare a maggior ragione contro il presidenzialismo, dal momento che l'unico sistema presidenziale che funziona - o quasi l'unico - è quello degli Stati Uniti: in tutta l'America Latina - e sono venti paesi - non funziona. Bisogna quindi vedere, nel ricostruire un edificio, se riusciamo a farlo bene.
Secondo il senatore Elia nel sistema francese c'è uno squilibrio insanabile. Questa è una diagnosi che non capisco perché, a mio avviso, non vi è né squilibrio né insanabilità ma un riequilibramento continuo che sana gli inconvenienti, cioè la mancanza di maggioranza. Su questo punto, quindi, vi è una diagnosi diversa che vorrei combattere con questa osservazione: che i poteri del presidente francese, nell'ipotesi che non va mai dimenticata, cioè che abbia la maggioranza - che in Francia è stata frequente ma che in Italia non lo sarebbe perché le maggioranze sarebbero sempre di coalizione, per cui questo potere nell'applicazione


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italiana viene diminuito, eo ipso - siano addirittura superiori a quelli del presidente americano... (Interruzione del senatore Elia). Non mi torna lo stesso. E' importante che si chiarisca questo punto. Il presidente americano ha poteri enormi sulla carta, soprattutto adesso che ha il line item, ma non di fatto perché non ha il sostegno di vere maggioranze di partito; spesso è in minoranza, come lo è adesso, per cui deve negoziare (noi diremmo che deve fare l'«inciucio) con la maggioranza parlamentare. Se il presidente americano governasse in Inghilterra avrebbe poteri colossali, perché con una stretta disciplina dei partiti ed una maggioranza...


LEOPOLDO ELIA. Ma non può porre la questione di fiducia.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Anzitutto, voglio dire che un presidente semipresidenziale non ha maggiori poteri e che essendo lui il governo il problema della questione di fiducia non si pone. Questa è l'enormità del potere presidenziale puro: che le cariche di capo dello Stato e capo di governo si identificano in una sola persona. In un sistema bicefalo, invece, i poteri di ciascuna testa sono minori. Per quanto riguarda lo scioglimento, senatore Elia, la costituzione Debré prevede che esso deve essere concordato dal capo del governo, per cui egli non ha un potere assoluto in questo senso.


LEOPOLDO ELIA. In Francia?


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Sì.


LEOPOLDO ELIA. Senza controfirme?


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Sì.


LEOPOLDO ELIA. Scherziamo?
GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. No, controlli. E l'abuso di poteri deve essere concertato con il presidente del consiglio. Può darsi che ricordi male, ma se tutta l'obiezione è questa, per carità... Il punto è che in un sistema presidenziale non ha senso lo scioglimento. In America non c'è perché vi è la divisione dei poteri, per cui ci mancherebbe altro che avesse anche quello di scioglimento...


LEOPOLDO ELIA. Appunto!


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Ma ha tutti i poteri lo stesso, se ha la maggioranza! Il non eccesso di forza del sistema presidenziale americano è dato dal fatto che, non essendo sorretto da partiti disciplinati, non ha mai una vera maggioranza forte (spesso è poi in minoranza). Se si guarda alla struttura dei due sistemi, sostengo la tesi che in un sistema semipresidenziale il potere del presidente è sicuramente inferiore, e se non lo è per questo particolare mettiamo la controfirma e saniamo questo effetto. La diagnosi antirosea del senatore Elia... (Interruzione del senatore Elia).


PRESIDENTE. Senatore Elia, le sue interruzioni sono gradite, ma la pregherei di farle a microfono acceso.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. È un potere condiviso, senatore Elia, però torno a dire che nel sistema francese il potere è di chi ha la maggioranza in Parlamento; possiamo renderlo più condiviso per sanare certe preoccupazioni, ma direi che il punto di principio è questo.
Non capisco l'altra osservazione del senatore Elia sul governo responsabile in un sistema semipresidenziale. A questo punto, credo sia bene ripetere che anche il sistema semiparlamentare contraddice il principio di responsabilità. Quando il presidente ha la maggioranza la responsabilità


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è sua, ma quando è in minoranza e governa il capo del governo la responsabilità è parlamentare, come accade in tutti i sistemi parlamentari. E' chiaro che in un un sistema bicefalo si sposti anche il rapporto di responsabilità: la responsabilità può essere presidenziale se è il presidente a comandare; è del primo ministro e del Parlamento se è il primo ministro a comandare. Nel primo caso si tratta di una responsabilità presidenziale, nel secondo di una responsabilità parlamentare. Questo fa parte della natura dimorfica o bicefala del sistema.
Ma perché devo salire in questa galera, diceva il senatore Elia citando Moliére? Perché non vedo alternative accettabili migliori. In astratto, questo è l'unico argomento, se il cancellierato potesse funzionare sulle gambe italiane: in un sistema dove il rapporto di forza è di due partiti e un quinto - lì i liberali hanno il 5 o il 6 per cento, mentre gli altri partiti viaggiano sul 35 o il 40 per cento, per cui si tratta di un sistema quasi bipartitico dove i liberali più di tanto (più del Ministero degli esteri) non possono pretendere - è automatico che il leader del partito vincente funzioni come in Inghilterra. Ma ci vogliono due gambe e un quarto, e l'onorevole Cossutta si opporrebbe a questa soluzione. Quindi, non le abbiamo due gambe e un quinto. E se manca questa premessa, mancano le condizioni di fatto per attuare il cancellierato, che a me piace molto, tant'è che l'ho elogiato.


LEOPOLDO ELIA. Ci sono i due poli. Ci stiamo arrivando.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Non credo. Il sistema inglese e il sistema tedesco sono sistemi di governo monopartitico, non hanno il problema di coalizioni che li impiombino o che li intralcino. In sostanza, in Germania, pur con le concessioni che sappiamo, è il partito democristiano, è Kohl che governa (i liberali hanno provato a cambiare alleato, ma siccome sono stati fortemente bastonati, adesso sono contenti di essere salvi). Sono due sistemi bipartitici, e su questa premessa funzionano benissimo. Ma non perché queste regole siano state costituzionalizzate. Il sistema non è rigido.
Quindi, anche a questa domanda la risposta è «sì». Non vedo alternative fattibili migliori. Se poi vogliamo fare un discorso in dottrina, forse alla fine potremmo trovarci d'accordo, come è sempre stato. In concreto e in questa circostanza, ti risponderei così, senatore Elia.


LEOPOLDO ELIA. Quello che non posso accettare è che tu dica che la soluzione della designazione è troppo furba. Non è un po' troppo dire che sono troppo furbi gli inglesi, i tedeschi e gli spagnoli?


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Non c'è designazione, è automatico. È questa la differenza.


LEOPOLDO ELIA. Non è elezione, sennò non potevano...


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. E' una pura prassi. Ma non c'è neanche designazione. Siccome i partiti inglesi - anche quello tedesco - si fondano sul principio della leadership (non come i democristiani del passato, che non volevano unificare tutto) è automatico che il leader del partito che vince diventi presidente del consiglio. Non c'è nessuna designazione. Se vogliono cambiare possono senza che nessuno protesti. La designazione risiede quindi nel fatto che hanno semplificato il sistema partitico a tal punto che, con due partiti, uno di regola ha la maggioranza assoluta ed esprime il presidente del consiglio (cambiabile). Anche Kohl regge perché vince, ma se cominciasse a perdere verrebbe sostituito (Commenti). Non solo non c'è elezione... E' un meccanismo che funziona così, ma guai a dire che c'è designazione; nella campagna elettorale non si dice che in caso di vittoria il presidente sarà Kohl,


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non si dice niente, si punta a vincere e poi di fatto il presidente è Kohl, finché serve. Questa è una grossa differenza, perché altrimenti soprattutto in Italia - lo abbiamo visto - ci sarebbe violazione della volontà popolare, mentre questo argomento in Inghilterra non si è mai sentito e non si sentirebbe neppure in Germania; Schmidt ad un certo momento se ne è andato e nessuno ha detto «abbiamo votato Schmidt». Il meccanismo fa coincidere la carica di leader di partito con quella di capo del governo.


PRESIDENTE. Poiché la pubblicità viene assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso, prima di dare la parola all'onorevole De Mita vorrei fare una precisazione-testimonianza in riferimento alla legge elettorale. L'onorevole Elia, facendo il paragone tra le condizioni oggettivamente mutate di questo periodo e quelle del periodo precedente, ha sottolineato l'emergere di un orientamento verso il doppio turno. Desidero precisare che la caduta del tabù della discussione della legge elettorale porta anche al venir meno del tabù sul doppio turno, che è una conseguenza del superamento del tabù generale.
Poiché l'argomento interessa molto i giornalisti, è bene precisare questo punto per evitare che domani sui titoli dei giornali si legga che la bicamerale è per il doppio turno; dobbiamo invece valutare serenamente tutte le ipotesi, partendo dalla premessa di fondo, che è quella all'esame del nostro Comitato e dell'intera Commissione.
Dopo l'onorevole De Mita sono iscritti gli onorevoli Nania, Passigli, ed altri...


SERGIO MATTARELLA. Vorrei sapere quanti sono gli iscritti, per capire se siano state raccolte tutte le richieste.


PRESIDENTE. Sono nove.


SERGIO MATTARELLA. Finiremo alle quattro!


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Alle quattro sono a Parigi.


PRESIDENTE. Per usare la terminologia del professor Sartori, il mio era un modo furbo per porre il problema.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Scusatemi se sarò breve nelle risposte, non mi rendevo conto...


CIRIACO DE MITA. La risposta alla mia curiosità è nella premessa, ma anche in alcune risposte date dal professor Sartori, quando sostanzialmente afferma che le sue opinioni fanno riferimento ad una soluzione praticabile. Pertanto, la discussione anziché essere tecnico-giuridica - in questo momento avevo immaginato che fossimo in presenza di un dialogo sulla funzionalità del sistema - diventa inevitabilmente politica.
Al professor Sartori vorrei tuttavia trasmettere una curiosità. Ho ascoltato Mitterrand, con il quale ho avuto qualche frequentazione di rapporti, dire che il sistema francese consentiva di vincere le elezioni ma non di governare; nella parte finale della sua vita e del suo mandato egli si è adoperato per porre al centro della riflessione tale questione. Del resto, chi segue con un po' di attenzione le vicende politico-istituzionali francesi sa che quel modello non viene esaltato, su di esso si discute.
Ma quello che non mi convince, professor Sartori, non è la diversità di opinione emersa poco fa nel confronto tra la sua opinione e quella del senatore Elia; è l'assoluta estraneità del modello che propone ai processi politici che viceversa dovrebbe amministrare. In altri termini, tutte le sue osservazioni, risposte e indicazioni in un certo senso ignorano la nostra storia politica; quando il discorso sulle istituzioni si imbarca lungo questa deriva tutte le tesi sono sostenibili e tutte le tesi sono criticabili.
Non mi è parsa convincente la risposta che ha dato ad un'osservazione fatta dall'onorevole Cossutta. È vero - questa è


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stata una sua spiegazione che ha una sua forza - che il sistema francese in fondo funziona perché fa riferimento alla maggioranza: se c'è la maggioranza del presidente è quella del presidente; se nel corso della presidenza emerge una maggioranza contrapposta, funziona quella del presidente del consiglio. Ma allora se così è - ed io ritengo che così sia - non si riesce a capire perché l'introduzione di questa forma di organizzazione del governo sia diversa da quella presidenziale.
Da quanto riesco a capire questo sistema francese - ha ragione l'onorevole Elia - è un ibrido perché conserva qualcosa del sistema parlamentare ed anticipa in parte quello presidenziale in un momento di difficoltà. E' vero quanto sostiene Elia, che quelli del presidente quando c'è la maggioranza sono poteri straordinari, eccessivi, che non ha neppure il presidente degli Stati Uniti. Il modello presidenziale degli Stati Uniti - il solo che abbia una sua razionalità - legittima in maniera forte e il potere esecutivo e il potere legislativo. La ricchezza e la forza della democrazia americana stanno in questa dialettica dei poteri, sono nella esperienza, nella prassi costituzionale che non hanno fondato il governo americano sulla maggioranza. Il ruolo del parlamento è di controllo del potere anche da parte dei rappresentanti della maggioranza, direi che questa è la funzione dell'assemblea elettiva - una grande conquista della democrazia moderna -, lì è nata e si conserva. Il giorno in cui ipotizziamo di saldare la maggioranza a chi la esprime davvero introduciamo un qualche rischio nell'organizzazione del potere democratico. Credo che questo volesse dire l'osservazione di Elia ed io convengo nel ritenere che questo sia il problema.
Accanto a questa considerazione, ne sottopongo un'altra a lei, ma anche a me e a tutti i colleghi. Non ci pare strano che mentre per un verso tentiamo di caricare la responsabilità del governo di problemi enormi che non gli sono propri, in contemporanea scopriamo che i problemi che vorremmo fossero risolti dal governo stesso in realtà attengono ad una questione diversa, alla forma di Stato? Questa è la contraddizione, per cui da una parte discutiamo del modo in cui articolare un riordino dello Stato che non fa riferimento al decentramento ma alla ricchezza di un pluralismo istituzionale diffuso, dall'altra con meccanismi ed accorgimenti tecnico-giuridici successivi ci illudiamo che concentrando un po' di più il potere, sia pure legittimato democraticamente, in mano al presidente della repubblica o al presidente del consiglio eletto, risolveremmo problemi che invece attengono ad una questione diversa. Mi pare che su tale questione la sua osservazione, il suo giudizio, il suo consiglio, sempre così acuti, potrebbero aiutarci a superare questa difficoltà.
Passando alla legge elettorale, devo premettere, professor Sartori, che sono un suo grande estimatore, oltre che attento lettore di quanto lei scrive. Vorrei però dirle, con la cordialità di sempre, che lei inventa un po' i meccanismi elettorali.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Come no?


CIRIACO DE MITA. Intendevo dire che li inventa quanto al risultato.
Ricordo di essere stato sostenitore del doppio turno e voglio raccontarle un episodio che ci aiuta nella comprensione di tali questioni. Allora il mio partito era contro il doppio turno (lei lo sa, visto che ne abbiamo parlato), perché in alcune località aveva la maggioranza relativa. Dissi allora che si doveva essere attenti al fatto che è il sistema che poi cambia ed incentiva il superamento della frammentazione, in quanto è difficile che gli altri si presentino frammentati in presenza di un sistema maggioritario. Il caso volle che in quel periodo si tennero le elezioni amministrative ad Isernia, dove la democrazia cristiana aveva allora il 48 per cento dei voti e tutti gli altri partiti il 52 per cento. In occasione di quelle elezioni, coloro che avevano il 52 per cento si misero insieme perché, in presenza di un'elezione diretta, l'incentivo ad organizzare


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processi politici li indusse a mettersi insieme per non perdere.
Ritengo allora che si dovrebbe ragionare un po' di più su questo aspetto: anche se le sue indicazioni sono volte a superare la frammentazione (del resto, mi sono battuto per evitare questi processi), non vorrei però che si commettesse l'errore opposto, quello di superare la frammentazione cancellando il pluralismo. Occorre invece organizzare un sistema che spinga alle aggregazioni.
Quanto al doppio turno al 7 per cento, devo dire innanzitutto che inorridisco sempre allorché qualcuno propone un sistema elettorale a favore di qualcosa che esiste. Mi sembra quindi un po' più neutro il principio per cui coloro che non accedono al secondo turno recuperano nell'ambito del proporzionale, senza però fissare una soglia: se si facesse questo, vi sarebbe la spinta dei partiti minori ad aggregarsi per raggiungere la soglia. Lei immagina che vi sia una sorta di neutralità assoluta, che non vi sia negoziazione; le istituzioni, tuttavia, funzionano quando incentivano le aggregazioni, se però queste ultime sono possibili; viceversa, ipotizzare di ridurre la frammentazione politica con meccanismi molto rigidi non porterebbe, a mio avviso, ad una soluzione positiva.
Desidero ora svolgere un'ultima osservazione di carattere storico-politico, ricordando che in Cile la situazione precipitò non perché non c'era il doppio turno, ma perché non c'era la maggioranza ed il sistema fu tripolare. Non a caso - lo diceva sottovoce il collega Mattarella - ho ascoltato una rievocazione drammatica della situazione del Cile all'epoca di Pinochet fatta dal cardinale Silva, il quale ci raccontò dello sforzo compiuto per comporre una maggioranza possibile e del fallimento di questo tentativo.
Il doppio turno in quanto tale, il maggioritario in quanto tale è un sistema da usare con discrezione. Al riguardo, ho letto un saggio del professor Teti, dell'Università di Pisa, che ha cancellato una mia falsa impressione: immaginavo, infatti, che in America la riduzione della partecipazione al voto fosse legata ad una certa indifferenza in ordine al risultato. In quel saggio viene dimostrato, con analisi molto attente, che è il meccanismo maggioritario che progressivamente spinge le minoranze a non partecipare. Il fenomeno è in qualche misura analogo a quello che si verifica nelle corse ciclistiche: chi è tagliato fuori dalla possibilità di vittoria non partecipa. Un sistema democratico che si illude di risolvere i problemi attraverso meccanismi artificiosi introduce sacche nelle quali il sistema si inceppa.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Per quanto concerne gli Stati Uniti, mi permetto di dissentire dalle conclusioni del professore che è stato citato, il quale vive a Pisa, mentre io, vivendo proprio negli Stati Uniti, ho qualche titolo per dissentire. Il discorso è molto più complesso e comunque la spiegazione data non mi convince.
L'Inghilterra è peraltro il paese che più sacrifica forza coercitiva elettorale: vi è infatti un terzo partito che arriva fino al 25 per cento dei voti ma si ritrova con dieci deputati e la partecipazione è molto più alta di quanto avvenga negli Stati Uniti. Il discorso - dicevo - è più complesso ma non ho tempo per svilupparlo e comunque non si tratta di un conflitto tra me e l'onorevole De Mita, in quanto non sono d'accordo con un collega di Pisa.
Passando alle questioni essenziali sollevate dallo stesso onorevole De Mita, la prima può essere riassunta nella considerazione che il modello francese è estraneo alla nostra storia politica; a mio avviso, questo non è tanto vero, anche perché la Costituzione della quinta Repubblica si è innestata in una situazione molto simile a quella italiana. Nella mia classificazione dei sistemi politici Francia e Italia sono sempre state molto vicine: la quarta Repubblica era molto simile alla prima Repubblica italiana del tempo. Quindi, l'esperimento è riuscito in presenza di condizioni politiche del momento analoghe (non parlo di quelle storiche, anche


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perché occorre valutare quanto andare indietro nella storia).
Tra l'altro, l'Italia è sempre andata, per così dire, a rimorchio: basti considerare che lo Statuto albertino del 1848 era la copia conforme in francese della Costituzione belga del 1831. In sostanza, i nostri costituenti, che sapevano poco del sistema americano (anche se qualcuno lo elogiava), si sono riferiti all'esperienza francese della terza e quarta Repubblica. Non intendo aggiungere altro, ma non ne farei un grande argomento di discussione, perché se c'è un paese che presenta forti analogie rispetto all'Italia, questo è la Francia: quanto tali analogie siano forti, diventa materia di interpretazione.
Passando alla seconda domanda dell'onorevole De Mita, credo di poterla riassumere nel perché la Francia sia tanto diversa da un sistema presidenziale puro. Il modello francese è certamente molto diverso, in quanto il sistema americano si regge sul principio della separazione del potere, un principio paralizzante che viene superato soltanto dagli Stati Uniti, in parte perché per lungo tempo le maggioranze sono state indivise ed in parte perché un sistema che funziona da duecento anni ha sviluppato capacità negoziali e tecniche tali da garantire il suo funzionamento anche in casi di paralisi. Si tratta comunque di una struttura di paralisi costituzionale, come si può constatare nei venti paesi dell'America latina, in cui questo sistema, che non può fruire della Costituzione materiale ormai esistente negli Stati Uniti, si rivela disastroso, tanto che quasi tutta la letteratura è concorde nell'affermare che i sistemi presidenziali dell'America latina sono pessimi. Tra l'altro, in Brasile si è tenuto, con esito giustamente negativo, un referendum sulla trasformazione del sistema in senso parlamentare.
A mio avviso, quello della separazione del potere è costituzionalmente un principio di paralisi, che può essere superato dalle maggioranze indivise oppure dall'accettazione del fatto che non c'è maggioranza indivisa, per cui la maggioranza presidenziale è diversa da quella del Congresso, si negozia ed il Presidente agisce come sta facendo attualmente Clinton. In tutta l'America latina, però, l'esperienza dimostra che il sistema del potere diviso non funziona, mentre quello francese è un sistema di potere condiviso alternante o oscillante. Si tratta di una differenza fondamentale.
Potrei aggiungere altro, ma questa è la prima risposta che mi viene in mente circa la differenza più evidente tra i due tipi di sistema.
L'onorevole De Mita mi ha posto inoltre un quesito vertente sulla contraddizione di fondo che era talmente complesso che non lo ricordo bene, ma forse non ho neanche il tempo per rispondere, anche perché mi preme controbattere sul fatto che invento gli esiti del doppio turno; da questo punto di vista, è in gioco il mio onore: in che senso invento gli esiti del doppio turno? L'onorevole De Mita osserva che non è detto che il doppio turno abbia gli esiti che io ho previsto. Mettetemi alla prova e poi vedremo se i risultati li invento o no; io sono convinto che non siano inventati, perché lavoro agli effetti dei sistemi elettorali da quarant'anni e di solito li azzecco. Se invece li ho inventati, farò ammenda, ma spero di non doverlo fare.
L'appello generale è superare la frammentazione salvando il pluralismo: questo è il problema di cui mi preoccupo anch'io, per questo accetto il recupero proporzionale e per questo invito ad aprire il doppio turno ai primi quattro o a quelli che raggiungano il 7 per cento. Mi pare che il senso della proposta dell'onorevole De Mita fosse di non prevedere una soglia, ma credo che se si ammettesse qualsiasi partito, il meccanismo del recupero proporzionale si sminuzzerebbe troppo e non funzionerebbe più, perché il partitino in grado di fare ricatti sarebbe ancora lì. Con l'ipotesi dei primi quattro - o con quella del 7 per cento proposta da D'Alema - ho ritenuto di forzare aggregazioni che più o meno siano nell'interesse di tutti e due i poli; il mio scenario - che ora non vi racconto - prevede che questo tipo di coercizione elettorale, che

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avviene solo al secondo turno, sia a vantaggio di entrambi i poli.
Quanto al Cile, osservavo solo che l'elezione di un presidente con una maggioranza relativa determina una pessima situazione. Negli Stati Uniti questa clausola non c'è perché il sistema è bipartitico, ma in paesi diversi dagli Stati Uniti questo determinerebbe un presidente con fortissimi poteri, che però non può esercitare perché non ha la maggioranza, costretto a governare con decreto e ciò deriverebbe da difetti strutturali. Credo pertanto che per l'elezione presidenziale ci voglia il doppio turno e il ballottaggio tra i primi due.


CIRIACO DE MITA. Per la verità la mia curiosità non era per la risposta che ho avuto, ma riguardava il rapporto tra i modelli istituzionali che si definiscono ed i processi politici che sono chiamati ad amministrare. In proposito, la separatezza che c'era nell'analisi precedente è stata confermata anche dalla risposta.


DOMENICO NANIA. Vorrei fare una considerazione preliminare. Se ho capito bene, preso atto di ciò che passa il convento sul versante dei partiti, cioè che in Italia per la tradizione del paese - tutto sommato simile a quella francese - non si può cercare il bipolarismo soltanto attraverso una legge elettorale o semplificando per decreto, perché questo creerebbe più problemi di quanti ne risolva, puntando sull'elezione diretta del Presidente della Repubblica si farebbe lavorare l'intero sistema politico-istituzionale in direzione bipolare mantenendo una tradizione di tipo parlamentare nella competizione tra le forze politiche e i partiti.
Avrà notato, professore - come ho notato io - che l'onorevole De Mita ha sostenuto la necessità di valutare l'opportunità di costruire un sistema - le parole in questo caso hanno un peso - che punti all'aggregazione tra i partiti, senza soffermarsi adeguatamente sul fatto che l'aggregazione sia più o meno bipolare. Questo mi pare il passaggio centrale sul quale chiederei un suo approfondimento, considerato che anche D'Alema di recente, in un'intervista concessa a Panorama, ha precisato che l'anomalia dell'attuale sistema italiano consiste nel fatto che non diventa premier il leader del partito della coalizione che prende più voti.
Vorrei chiederle se con il sistema dell'indicazione del premier si risponda all'obiezione di D'Alema - che poi è anche la mia - cioè se si consenta al leader del partito che prende più voti di diventare premier e all'aggregazione di partiti, cioè alla coalizione, di muoversi in direzione bipolare. A me sembra che con la proposta del collegamento, con la proposta «furba» di cui parlava lei, il sistema lavori in maniera esattamente opposta, funzioni cioè in maniera tale che si sceglie come candidato a premier il leader capace di portare la percentuale finale per vincere. Anzi, paradossalmente, se una coalizione pone in campo il leader dello schieramento che prende più voti (Berlusconi per il Polo, per esempio) è destinato a perdere, se invece candida il leader che porta la percentuale che serve per vincere, anche se è minima (teorema Prodi) è destinato a vincere. La prova del nove è che se il Polo avesse candidato Dini con il suo 3-3,5 per cento, e quindi non avesse ragionato in maniera bipolare, avrebbe potuto vincere le elezioni.
Il sistema dell'indicazione del premier, quindi, aggrega gli schieramenti, ma lavora in direzione antibipolare. I problemi del Governo Prodi nascono probabilmente dal fatto che, non essendo il sistema bipolare, il premier punta a crearsi una sua legittimità, una sua forza che lo porta a competere con il partito che ha più voti all'interno della sua stessa coalizione. In conclusione, non le sembra che il sistema del collegamento in realtà spinga come linea di tendenza verso un ritorno al sistema proporzionale?
In relazione al fatto che si sceglie un premier per far perdere l'avversario piuttosto che cercare di vincere con una politica di programma e di schieramento, alla fine si pone la necessità - che tutti abbiamo avvertito in una stagione nella quale più che sul sistema si è lavorato sui


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congegni per correggere i sistemi - di occuparsi del rapporto tra indicazione o elezione del premier ed eventuale scioglimento della maggioranza. Poiché siamo in una Commissione bicamerale per costruire il nuovo, non per mantenere in piedi quello che c'era, non le pare che, se abbiamo il collegamento e nella maggioranza dei casi viene scelto il leader del partito che ha più voti, tutti i problemi all'interno della maggioranza alla fine conducano di necessità verso lo scioglimento?
Praticamente non creiamo una situazione che di per sè, per il fatto che premier non diventa il leader del partito che consegue il maggior numero di voti, di necessità impone a noi di congegnare un sistema per il quale o si vota entro un anno in caso di ribaltone o si può porre in essere il ribaltone una sola volta; comunque, alla fine è un sistema in cui ogni tensione interna alla maggioranza conduce come esito finale allo scioglimento delle Camere.
Se è così, il semipresidenzialismo non rappresenta un sistema più flessibile rispetto sia all'elezione diretta del premier sia all'indicazione di quest'ultimo proprio perché consente la competezione interna alla maggioranza, il confronto, la tensione, sia che si tratti di maggioranza di colore identico a quello del Presidente della Repubblica sia che si tratti di maggioranza di colore diverso, senza condurre, anzi, escludendolo quasi in partenza, al ricorso allo scioglimento anticipato?


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Alla sua ultima domanda rispondo subito di sì, sono d'accordo.
Vorrei brevemente soffermarmi sugli inconvenienti, che lei richiamava, dell'indicazione del premier, non dell'elezione diretta dello stesso. Ad uno di tali inconvenienti ho già avuto modo di fare cenno: se una coalizione di partiti che in partenza può essere ampia, perché si trova in una fase precedente a quella della decapitazione elettorale, prima delle elezioni deve concordare un candidato premier, ciò produce una grossa distorsione nel processo elettorale che, secondo me, dovrebbe avvenire al primo turno in tutta indipendenza ed autonomia dei singoli partiti e con comportamenti elettorali dei votanti di tipo proporzionale, nel senso che costoro esprimono la loro prima scelta, e quindi al primo turno dichiarano le loro prime preferenze. Se ci affianchiamo l'indicazione del premier, però, tutto questo viene abbastanza disturbato.
Quanto agli altri punti, in particolare quello sollevato da D'Alema, è senz'altro un'anomalia che il capo del governo non sia il capo del partito di maggioranza; certo che è un'anomalia, e direi che va contro il buon senso: nei sistemi più sensati, se un partito è in maggioranza, quel partito ha titolo per indicare e proporre, quanto meno in prima battuta, il capo del governo. A mio avviso, l'anomalia è grave intanto perché crea una dialettica, un contrasto interno alla coalizione (sono cose che vedete tutti i giorni) tra un presidente minoritario che vuole restare in sella ed il capo del partito di maggioranza che lo deve sostenere, magari obtorto collo, chiedendosi forse il motivo per il quale debba sostenere qualcuno che fa cose che egli non vorrebbe fare e che per di più non gli stanno bene perché poi la sua maggioranza parlamentare vorrebbe mantenerla, non vorrebbe perderla per far rimanere in sella il presidente del consiglio. Quindi, si tratta di una gravissima distorsione.
La terza obiezione che si può muovere la sistema dell'indicazione del capo del governo è che in un solo atto si mettono insieme due criteri di scelta profondamente contraddittori: infatti, se si sceglie di indicare preventivamente il capo del governo, si compie una scelta a mio avviso populistica, perché si cerca il candidato che porti più voti; che poi in prospettiva sappia governare o abbia talento di governo diventa irrilevante, ma questo è un fatto gravissimo. In tal modo predisponiamo non dico la scelta del peggiore, ma sicuramente non quella del migliore. Sono contrario all'indicazione del capo del governo


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per i tre motivi che ho detto (oltre che per altri su cui potrei intrattenervi a lungo), che mi sembrano davvero gravi. Peraltro, come al solito si può dire che non vi è bisogno di adottare questo sistema perché, se semplifichiamo il sistema partitico, la soluzione viene in un certo senso da sé, come d'altronde avveniva in passato: la democrazia cristiana poteva consentire a Spadolini in un determinato frangente di fare il presidente del consiglio, ma in definitiva si sapeva che tale carica sarebbe andata alla democrazia cristiana, ed era normale e giusto che fosse così.
Quindi, la prassi deve essere che chi ha la maggioranza governa; poi si possono porre situazioni di difficoltà superate da un premier di minoranza, ma andare contro la regola che ho esposto non sarebbe giusto e soprattutto vi è una distorsione terribile in una siffatta preselezione del premier. Al limite, si potrebbe dire: sì, è scemo, è stupido, non capisce niente, però è bello, sorride bene, ha talento oratorio e porta un milione di voti, ma perché tutto questo se non ve ne è bisogno? Quindi, sarei contrarissimo anche alla designazione che in pratica porta lo stesso ad una forma di rigidità, non di natura giuridica, ma con riferimento al fatto che, una volta che il candidato non vada più bene, si dovrebbe tornare a votare: poveri noi, quanto voteremmo!


STEFANO PASSIGLI. Poiché con le diverse domande e risposte è stata messa molta carne al fuoco, cercherò di focalizzare il mio intervento su due o tre punti che mi sembrano più rilevanti, ponendo delle domande e cercando nello stesso tempo su quei due o tre punti di fare un breve riassunto per verificare se la domanda sia ben posta e se su di essa sia possibile da parte del professor Sartori fornire una risposta con un sì o con un no.
La prima domanda riguarda la vexata quaestio della governabilità; vi è una tendenza generale, riemersa anche oggi in varie domande, pur se non in tutte, ad equarla con il concetto di stabilità. Mi sembra che invece il professor Sartori abbia detto, a mio avviso correttamente, che la stabilità è una condizione necessaria, ma non sufficiente ed ha parlato di efficacia. In un sistema che ovviamente rimarrà di pluripartitismo, anche se razionalizzato, anche se dovessimo andare ad aggregazioni, si avrebbero comunque governi di coalizione, nell'ambito dei quali l'efficacia sarebbe legata all'omogeneità della coalizione medesima.
Pertanto, se per governabilità intendiamo stabilità, è chiaro che un sistema elettorale proporzionale con premio di maggioranza può senz'altro avviare - non dico garantire - almeno inizialmente una stabilità. Infatti, quando il clima della prima Repubblica non consentiva di pensare ad innovazioni radicali del sistema elettorale, si era formulata l'ipotesi, già allora rivoluzionaria, d'introdurre un premio di maggioranza ed a lungo gli studiosi che si occupavano di queste materie hanno lavorato su di essa. Qui voglio fare una dichiarazione di pentitismo: allora sostenevo questa tesi (gli amici dei popolari conoscono bene questa posizione); sembrava che per stabilizzare ulteriormente il prodotto di un sistema elettorale di quel genere si potesse addirittura pensare - lo ricordava il professor Sartori - alla revocabilità del premio: se la coalizione veniva meno, gli eletti decadevano. Teoricamente la cosa poteva funzionare, in pratica avrebbe portato (ne sono convinto e da qui nasce il mio pentimento attuale) a coalizioni ingessate che, per non entrare in crisi, per non veder decadere quindi un certo numero di parlamentari, avrebbero fatto l'impossibile per mantenere in vita governi inefficaci proprio perché divisi al loro interno, che quindi non avrebbero ottenuto alcun prodotto, alcuna policy output significativa, che non avrebbero risolto i problemi.
Se definiamo dunque la governabilità in termini di omogeneità, chiaramente una legge elettorale di questo genere non è sufficiente per assicurarla. Il professor Sartori concorda pienamente con quest'analisi o no (perché questo mi sembra essere uno dei punti chiave in materia di


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legge elettorale)? Vogliamo non solo, ovviamente, garantire una rappresentanza, attraverso il meccanismo della proporzionale, a quelle forze politiche che rappresentano se non altro una grande famiglia spirituale del paese, cioè le grandi tradizioni politiche, ma anche raggiungere una governabilità reale. La proporzionale con premio di maggioranza, cui faceva riferimento per esempio l'onorevole Cossutta, garantisce forse solo la stabilità. Su questo punto vorrei una risposta precisa.
Se quanto vogliamo promuovere (è la seconda domanda) è invece l'omogeneità, allora bisogna verificare se in effetti il doppio turno - e quale doppio turno - la produca o non la produca, perché mi sembra che sia vitale l'osservazione di Sartori secondo cui di doppi turni ce ne sono tantissimi. Sicuramente non il doppio turno con ballottaggio, perché ricreerebbe la rinegoziazione sul formarsi della coalizione prima del doppio turno da parte di tutti i partiti che sanno benissimo che non arriverebbero primi o secondi, quindi gli esiti sarebbero sostanzialmente la proporzionalizzazione del maggioritario così come abbiamo avuto.
Non sarei tuttavia così sicuro che sia indifferente pensare in termini di quattro partiti, di 7 per cento o (suggerimento che veniva ora dall'onorevole De Mita) di accesso al secondo turno libero, salvo desistenza da premiare poi in sede di proporzionale. Se pensiamo ai quattro partiti, cioè ad un'ammissione al secondo turno dei primi quattro, è vero che la distribuzione del voto geograficamente è diversa e quindi i partiti non sarebbero quattro; sarebbero sicuramente cinque, data la presenza della lega in molti collegi del nord, ma si potrebbe pensare anche a sei partiti che, diversamente distribuiti sul territorio, accedono. C'è un'astuzia che torna fuori nel comportamento dei soggetti politici, è inevitabile, e credo che se imponessimo questa regola daremmo una forte spinta, ad esempio, al riaggregarsi sul centro dello schieramento, al riformarsi dell'unità politica dei cattolici: è una possibilità. Non vorrei cioè che per ovviare al rischio (e le domando: lei vede tale rischio?), per cercare di conseguire una razionalizzazione ed una riaggregazione del sistema dei partiti correggendo l'eccessivo pluralismo, poi si tendesse a sminuire quella tendenza alla bipolarità che fino ad oggi abbiamo avuto. Non vorrei cioè che poi le necessità elettorali ingenerassero comportamenti in senso contrario a quello che auspichiamo.
Mi sentirei più sicuro con una soglia al 7 per cento; ma la logica è più o meno la stessa: anche con la soglia al 7 per cento potremmo ingenerare tendenze alla riaggregazione di una tradizione politica frammentata oggi in più attori politici ma che probabilmente, vedendosi fortemente penalizzata, potrebbe trovare motivi di riunione.
In questo senso, il suggerimento dell'onorevole De Mita mi sembra forse più corretto, però con un'avvertenza, perché sarebbe tutto giocato sul sistema degli incentivi; tutti potrebbero passare al secondo turno, salvo ovviamente il mantenere una soglia minima qual è probabilmente già l'attuale, il 4 per cento, che garantisce l'accesso alla proporzionale attuale. Oltre tutto, questa soluzione eviterebbe la discussione sulle soglie, sulle percentuali, sul numero dei partiti, perché la discussione sulla soglia si riproduce tale e quale se ragioniamo in termini di numero dei partiti per ogni collegio che passano al secondo turno. La discussione forse è meno accesa, ma potrebbe riaccendersi. Se prevedessimo invece che possono passare tutti e che hanno diritto ad accedere alla proporzionale se desistono al secondo turno, purché naturalmente abbiano le percentuali già oggi fissate per poter accedere alla proporzionale, questo potrebbe essere un suggerimento, sul quale chiedo l'opinione del professor Sartori.
La questione di fondo è tuttavia che stiamo ragionando, più che di soluzioni istituzionali, di soluzioni che incidono sull'assetto del sistema dei partiti, visto quindi come variabile fondamentale della governabilità. Ciò ovviamente è scontato per chi si è sempre occupato di politologia,

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ma non necessariamente per tutti, sicuramente non per il dibattito in corso nel paese.
A questo punto potrebbe tornare valida la domanda che si facevano De Mita, Cossutta ed anche Elia: è proprio necessario il semipresidenzialismo? E' necessario pensare, in termini di modifica istituzionale, a cosa serva questo presidente? Mi sorprende sempre un po' che chi è così timoroso del semipresidenzialismo francese sia poi invece così remissivo rispetto alla designazione del premier. Credo veramente che Sartori abbia ragione, lo ricordava anche adesso e quindi non torno sull'argomento, ma certo gli effetti in termini di rigidità dell'esecutivo potrebbero essere analoghi al presidente eletto, perché in termini di «ribaltone» un sistema in cui vi sia un presidente designato e eletto congiuntamente ai parlamentari, con un elettorato che sulla stessa scheda o separatamente, ma comunque contestualmente, si esprima per entrambi, è molto difficile pensare che possa essere un sistema flessibile. Gli effetti sono di rigidità pari a quella dell'elezione diretta del premier, quindi sfioriamo la rigidità dei sistemi presidenziali. Il vero problema è il seguente: c'è un quid in più che l'elezione diretta del presidente in un sistema semipresidenziale ci dà? Vorrei conoscere l'opinione del professor Sartori su questi punti.
Il primo punto è che mi sembra (l'hanno sempre sottolineato molto i francesi) che vi sia un effetto ad adiuvandum, ma in realtà qualcosa di più che ad adiuvandum, un effetto quasi decisivo, nel riassetto del sistema partitico; cioè l'aggregazione delle forze politiche verso la quadriglia bipolare in Francia è avvenuta sicuramente per effetto del doppio turno a livello di sistema elettorale, ma anche per effetto dell'elezione presidenziale.
Il secondo punto è che oltre a facilitare la quadriglia, e quindi il formarsi, particolarmente in un sistema come quello italiano, delle coalizioni, le tiene anche insieme. Mi chiedo se in Francia, ad esempio, la sinistra sarebbe stata così unita in certi momenti, se mai avrebbe formato una coalizione se non ci fosse stato il momento dell'elezione presidenziale, se ci fosse stata solo l'elezione parlamentare. Credo quindi che si possa dire (ma al riguardo vorrei conoscere il parere del professor Sartori) che innanzitutto facilita la formazione delle coalizioni perché distribuisce due risorse e non una, e secondariamente tiene unite le maggioranze più di quanto non farebbe altrimenti.
L'ultimo punto è che, in caso di crisi di quella maggioranza, permette una flessibilità al sistema: non si va diritti allo scioglimento quando esiste un presidente.
Se questi sono i vantaggi, mi sembra che esistano due implicazioni, sulle quali chiedo nuovamente un giudizio. La prima è che i poteri del presidente sono assolutamente secondari; i poteri formali previsti in Costituzione sono abbastanza secondari. Naturalmente deve avere il potere di scioglimento; ma che abbia, per esempio, il potere di presiedere il Consiglio dei ministri o altri poteri mi pare assolutamente secondario. La seconda implicazione è che se questi sono gli effetti, soprattutto sul riassetto del sistema dei partiti, la contestualità dell'elezione di Parlamento e Presidente della Repubblica sia consigliabile rispetto ad una soluzione di discontinuità nell'elezione.


PRESIDENTE. Faccio presente ai colleghi che il professor Sartori partirà per Parigi verso le 13,5, ora in cui dovremo necessariamente concludere l'audizione. Pertanto, o proseguiamo ad oltranza fino a quel momento, alternando le domande e le risposte, oppure lasciamo intervenire i colleghi che ancora devono formulare quesiti, ai quali il professor Sartori risponderà alla fine.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Preferisco rispondere subito, per evitare di dimenticare i quesiti. Vado a Parigi, ma non alle Folies Bergeres - sia chiaro - bensì alla televisione: alla Cinquième c'è un programma sulla democrazia in cui terrò una lezione. Si


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tratta di un impegno che ho da otto mesi; mi dispiace per la sfortunata coincidenza, ma la gloria vera è lì! Insomma, devo andare e mi scuso. Molto rapidamente, rispondo all'onorevole Passigli sul punto che mi pare centrale.
La domanda è: se vogliamo l'omogeneità delle coalizioni, qual è il tipo di doppio turno che la produce? Io ho parlato di quattro partiti, del 7 per cento, dell'accesso libero: dobbiamo deciderlo in funzione di questa domanda. Non accetterei però due controdeduzioni del suo discorso: la prima è che c'è il pericolo che queste ipotesi di doppio turno favoriscano la creazione di un partito di centro. Questo l'ho sempre escluso perché si confonde l'opinione di centro (che, per carità, esiste) con il partito di centro. Secondo me, con un sistema elettorale maggioritario il partito di centro è escluso dal meccanismo: in un sistema binario sì-no, per il centro non c'è spazio.
La logica della competizione e di governo vuole che il partito di centro si estenda a macchia d'olio e quindi ha una sua ragione di esistere, che è esattamente contraria a quella posta in essere dai sistemi di governo alternativo. Questo è vero per tutta l'Europa occidentale: la competizione è di natura bipolare.
Dal fatto che ci sia una larga opinione di centro discende che ciascuno dei due poli si dovrà avvicinare nella competizione, per cui questa - come si dice tecnicamente - diventa centripeta: non fino al punto della completa sovrapposizione, ma comunque alla caccia dell'elettorato di centro, che è anche quello che si sposta più facilmente. Ma non mi sentirei di dire che c'è il pericolo del formarsi di un partito di centro: il maggioritario non lo consente perché è uno strumento di decapitazione binario e pone solo una possibilità di scelta. Non bisogna mai confondere - lo ripeto - l'opinione di centro con il partito di centro.
Circa la possibilità di far passare tutti (o anche solo quelli che superano il 4 per cento) al secondo turno, dirò che questa soglia mi sembra bassa perché induce troppi partiti a tentare di sopravvivere invece di costringerli ad aggregarsi. Se abbassiamo troppo questa soglia ed ipotizziamo che le prossime elezioni saranno a doppio turno, il rischio è che i partiti provino ad andarci come sono: questo danneggerebbe i partiti stessi e non metterebbe in moto quel meccanismo aggregativo che con una soglia più alta o ricorrendo al sistema che ho suggerito funzionerebbe meglio. Si tratta comunque di una materia totalmente negoziabile.


SERGIO MATTARELLA. Rimuovo la tentazione di replicare a qualche affermazione fatta dai colleghi nei loro interventi; mi limito a tre richieste di chiarimento al professor Sartori, premettendo che riguardano gli aspetti sui quali ho qualche dubbio, mentre su altre cose dette dal professore c'è da parte mia piena condivisione.
La prima richiesta riguarda il cosiddetto sistema semipresidenziale. Il professor Sartori ha detto che nel caso in cui vi sia coabitazione vengono meno quei poteri «usurpati» dal Capo dello Stato quando invece non c'è coabitazione. Nel modello che egli ha disegnato, nel contrasto tra Capo dello Stato e primo ministro è quest'ultimo che prevale.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Se ha la maggioranza!


SERGIO MATTARELLA. Sostanzialmente lei ha disegnato un modulo variabile, che affida al voto il concreto atteggiarsi del modello istituzionale. Quest'ultimo, quindi, non è rigido ma muta a seconda del voto. Esprimo un dubbio e vorrei qualche chiarimento sull'utilità di tutto ciò. Non stiamo parlando di pesi e contrappesi di un sistema istituzionale ma di un modello che cambia nel suo concreto atteggiarsi e nella sua fisionomia a seconda dell'andamento del voto. Non so se questo sia un bene, particolarmente - è un'altra domanda che le rivolgo - in un paese che non ha una forte struttura amministrativa pubblica, per di più dotata di forte autonomia, come invece accade in


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altri paesi. Il mutare del sistema a seconda del voto suscita in me qualche dubbio su cui le chiedo un chiarimento.
Mi sembra inoltre di capire, se non ho forzato l'interpretazione, che il professor Sartori preferisca la coabitazione, configurando in quest'ultima un ruolo di garanzia per il Capo dello Stato. Mi domando se connotati tanto forti dal punto di vista politico come l'elezione diretta ed i poteri conferiti non siano eccessivi - anche nell'ipotesi di coabitazione e di funzionamento tanto variabile del modello - rispetto ad un ruolo di sola garanzia del Capo dello Stato.
Una seconda considerazione concerne il doppio turno. Condivido l'affermazione per cui, se si definisse con un ballottaggio tra i primi due candidati, questo sistema non cambierebbe i poteri di ricatto dei piccoli partiti, particolarmente in un paese come il nostro nel quale le distanze sono minime, nessun partito supera il 20 per cento e nel quale, anche laddove i candidati sono stati tre (come nel nord), i distacchi fra di loro sono stati molto bassi.
Se il secondo turno fosse aperto a tutti non cambierebbe nulla perché si sposterebbero in quella sede i poteri di ricatto del primo turno. Il problema è l'individuazione della soglia e della formula in grado di evitare questo pericolo; probabilmente non è possibile evitarlo del tutto perché c'è sempre l'interesse ad alimentare l'atmosfera del vincitore prima del secondo turno, atmosfera che influisce sicuramente sull'andamento di quest'ultimo. E' chiaro infatti che chi si presenta come vincitore al primo turno, avendo conquistato molti collegi, gode probabilmente di una spinta in più per il secondo turno, per cui il potere di ricatto non viene mai meno del tutto.
Il problema è allora come definire quella soglia che impedisca il pieno manifestarsi di questo fenomeno. L'indicazione del professor Sartori relativa a quattro partecipanti al secondo turno o al 7 per cento di soglia mira evidentemente a questo scopo: vorrei sapere in base a quali parametri questi elementi siano stati elaborati.
La terza considerazione riguarda la quota proporzionale. Essa è riservata a chi desiste, ha detto il professore. Le formulo due richieste di chiarimento: non faccio obiezioni perché altrimenti svolgerei anch'io una relazione; mi astengo quindi dall'esternare le mie convinzioni. Configurata in questo modo, la quota proporzionale non mira in realtà a garantire quel grado di proporzionalità tale da non mettere a rischio la governabilità, cioè la possibilità di formare maggioranze assolute ed omogenee, bensì a premiare chi si tira fuori dal gioco, chi esce dal tavolo, con la possibilità, oltretutto paradossale, che chi ha pochissimo consenso ma esce dal gioco abbia più rappresentanza di chi magari ha più voti e rimane in competizione. In tal modo si mira pertanto non a garantire la proporzionalità compatibile alla stabilità, ma ad incentivare l'uscita dal gioco. Su questa obiezione vorrei una risposta.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'università di Firenze e della Columbia University. La risposta sul punto è facilissima. Proprio per questo voglio i primi quattro e la soglia del 7 per cento: altrimenti il suo discorso diventa valido.


SERGIO MATTARELLA. Anche con quattro, c'è la possibilità che si verifichi quanto ho detto.


PRESIDENTE. No, con quattro non c'è questa possibilità.


CESARE SALVI, Relatore. Il problema è un altro. È che non sarebbero gli stessi quattro, perché la ripartizione geografica sul territorio...


SERGIO MATTARELLA. Collegata a questa, faccio allora la seconda obiezione.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'università di Firenze e della Columbia University. Sviluppiamo questo


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punto, che è molto importante. La ragione per la quale parlo dei primi quattro è evidente. Ovviamente, in primo luogo, cerco di costringere i partiti già da prima ad operazioni aggregative. Comunque il mio obiettivo primario chiaramente non è assicurare una rappresentanza proporzionale soddisfacente (al riguardo non si è mai soddisfatti). Il mio obiettivo è di far funzionare il meccanismo elettorale in modo tale che il potere di ricatto (non di tutti i partiti, ma dei secondi partiti) non abbia più incentivo; viene anzi incentivato il ritiro. Questo è l'obiettivo primario.


SERGIO MATTARELLA. Questo l'ho capito bene, professore. Ovviamente non si tratta di garantire la proporzionalità.


PRESIDENTE. Ma rispetto all'ipotesi dei quattro, onorevole Mattarella, qual è l'obiezione?


SERGIO MATTARELLA. Certamente, con quattro il pericolo è ridotto. Ma vorrei formulare l'obiezione diversamente, dal momento che può essere vista anche sotto un'altra ottica. L'obiettivo è eliminare o ridurre il più possibile il potere di ricatto dei piccoli partiti.


CESARE SALVI, Relatore. Il potere di interdizione.


SERGIO MATTARELLA. Il potere di interdizione, se vogliamo chiamarlo in maniera più elegante: prendo atto della finezza del relatore.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. L'espressione «potere di ricatto», però, è di Downs e risale al 1954. Io l'adopero dal 1966. L'onorevole Salvi mi deve quindi consentire di essere fedele.


CESARE SALVI, Relatore. Mi ero rivolto al collega Mattarella. Non mi permetterei mai di farlo con lei, professor Sartori.


SERGIO MATTARELLA. Nel caso in cui si assegnasse questo premio a chi desiste, non sarebbe insito nel meccanismo istituzionale un premio ad un altro potere di ricatto? Si finirebbe con il lucrare una presenza sulla base di un determinato accordo. E' una domanda che le formulo, professore, pregandola di rifletterci qualche istante.
Vengo alla seconda obiezione. Questo meccanismo prefigura e postula una concezione, un modulo fortemente legato ai partiti, non ai candidati. Per valutare infatti la soglia e la percentuale di ciascuno occorre una configurazione di partiti - e non di candidati - che attraversa tutti i collegi. Per decidere la desistenza occorre un punto di coesione centrale rappresentato appunto dai partiti. Ne risulta quindi schiacciata la fisionomia dei singoli candidati e la loro autonomia rispetto al potere dei partiti. Al riguardo vorrei una risposta.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Per quanto riguarda quest'ultimo punto, onorevole Mattarella, è solo in parte così. Perché in collegi uninominali (dal momento che alla fine il secondo turno è un collegio uninominale) tra partiti che grosso modo si configurano molto vicini (noi avremo infatti molti collegi altamente competitivi, dove il vincitore vince per il 2 o il 3 per cento dei voti) il candidato diventa importante. Il candidato è schiacciato dal partito quando il partito ha un margine di vantaggio tale per cui riuscirebbe a far eleggere anche il cavallo di Caligola. Quindi, anche se il suo discorso, onorevole Mattarella, è in parte vero, è neutralizzato da questa considerazione. I partiti devono cercare il candidato più vincente possibile in ogni collegio...


SERGIO MATTARELLA. Mi scusi se la interrompo, professore, ma questo vale negli accordi di coalizione per desistenze. Se però un partito deve concorrere alla quota proporzionale, deve essere assente in tutto il secondo turno. Vi è quindi il


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caso del partito che obbliga a ritirarsi anche il suo candidato risultato primo nel collegio.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. No, io non dico affatto questo.


SERGIO MATTARELLA. Ma la quota proporzionale come si distribuisce, allora?


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. È una questione aperta. Io non ho mai detto questo. Non voglio entrare nel merito perché non abbiamo il tempo per farlo, ma non ho mai detto questo. Io intendo collegio per collegio. D'altra parte, la distribuzione delle desistenze è prefigurata dagli esiti del primo turno.


GIUSEPPE CALDERISI. Non ci sarebbe lo scorporo, allora.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Sì, perché chi resta perde anche, nel cumulo, il suo impatto proporzionale. Certo, siamo malmessi: non vengo qui a dire che ho una soluzione miracolosa. Forse in questo modo riusciamo ad uscirne.
Rispondo rapidamente sugli altri punti.
L'onorevole Mattarella sostiene che il sistema bicefalo di tipo francese ha troppa flessibilità. Certo, si può metterla anche così. Siccome io ritengo che questa flessibilità sia un pregio di un buon sistema costituzionale, preferisco quel sistema. E' chiaro che i sistemi bicefali si raccomandano perché più flessibili dei sistemi monocefali. Siccome il sistema presidenziale americano funziona solo, per miracolo, negli Stati Uniti, io preferisco l'altro.
Che io preferisca o meno le coabitazioni è irrilevante. Può darsi che le preferisca ma - ripeto - ciò è irrilevante. Io dico solo che non mi fanno paura le coabitazioni e che secondo me sono una valvola di sicurezza del sistema. Se poi gli italiani vorranno non farvi mai ricorso, sono contento lo stesso. La mia preferenza credo non incida sul discorso.
Per quanto riguarda il doppio turno, così come lo propongo e lasciando perdere il discorso se ci si debba o meno ritirare da tutti i collegi (io non l'ho concepito così, ma è materia su cui occorre riflettere), il mio obiettivo è quello di neutralizzare il potere di ricatto dei partitini, dei partitini maggiori che passano al secondo turno. In sostanza gli si dà un incentivo. Gli si dice: «Voi potete far perdere il partito maggiore del vostro schieramento, però restate senza un rappresentante». Lo scopo primario è questo, poi si può sostenere che ciò mantiene in vita il pluralismo. Io non faccio il mercante di tappeti. Bisogna decidere qual è la priorità: questo è il punto. Ogni priorità poi, se accettata, implica che certe cose vengano sacrificate.


NATALE D'AMICO. Sarò molto breve. La questione importante del meccanismo di recupero proporzionale proposto dal professor Sartori, credo non si faccia in tempo ad approfondirla. Anch'io l'avevo inteso come il presidente Mattarella: chi si ritira lo fa in tutti i collegi, non sceglie di volta in volta.
Se ho ben capito, il professor Sartori, rispetto a un'esigenza che è stata discussa in questo Comitato, cioè la ristrutturazione del sistema politico in direzione di quella che è stata chiamata alternanza governante (dove per governante si intende efficiente), afferma che se noi abbiamo il doppio turno acceleriamo questa evoluzione, se abbiamo il doppio turno con il semipresidenzialismo la acceleriamo ancora di più.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Grosso modo è così.


NATALE D'AMICO. Le ipotesi alternative, di tipo parlamentare o neoparlamentare, presupporrebbero un sistema partitico già ristrutturato, idoneo. Se questo è


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il punto, vorrei allora sapere dal professor Sartori quali sono le condizioni minime per definire questo sistema semipresidenziale. Mi spiego meglio. Lei dice che il sistema semipresidenziale favorisce questa evoluzione desiderabile. Ma visto che comunque sarà necessario giungere ad una mediazione, quali sono secondo lei, professor Sartori, le condizioni minime? E mi riferisco in particolare a due questioni. La prima riguarda il potere di scioglimento. A me pare che il potere di scioglimento debba essere essenzialmente del presidente e possa essere limitato in un caso: nel caso in cui nella Camera emerga una maggioranza positiva alternativa, non solo cioè una maggioranza contraria al governo del Presidente della Repubblica ma una maggioranza positiva, secondo un meccanismo di sfiducia costruttiva.
La seconda questione, sulla quale insisteva all'inizio il collega Rebuffa, attiene alla necessità di governi di minoranza. Lei ha ripetuto più volte che il vantaggio di questo sistema consiste nel fatto che si trova la sua maggioranza. Il problema è quando non se la trova. Da qui la necessità che esistano governi di minoranza. Mi pare che questo porti con sé - ma vorrei sentire la sua opinione - una soluzione che vada a meccanismi di fiducia presunta, per cui il primo ministro scelto dal presidente della repubblica non ha bisogno di una fiducia esplicita ma può accontentarsi di una fiducia presunta. Ecco, quindi, le condizioni minime.
Senza introdurre un altro tema, vorrei da lei una risposta, anche molto sintetica, rispetto a qualunque forma di governo che tenti di risolvere il problema di coalizioni efficienti. Gradirei conoscere la sua opinione rispetto ad ipotesi di bicameralismo più o meno perfetto. Siccome su questo versante sono preoccupato, anche perché su questa strada del superamento del bicameralismo perfetto mi sembra di vedere in Commissione marce indietro molto decise, le chiedo come si concilierebbe una forma di governo più «governante» con meccanismi che prevedano, per esempio, rapporti fiduciari sulle due Camere.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. L'ultima questione non posso affrontarla adesso sia perché non c'è tempo sia perché è molto complicata. Però, nel mio scritto sull'ingegneria costituzionale sottolineo come anche in questo caso si tratti di dare e di concedere. I problemi, quindi, sono quelli del bicameralismo perfetto e imperfetto e della composizione. Non posso affrontarli adesso ma - ripeto - sono stati oggetto di un mio scritto.
Mi è sembrato di capire, a proposito della domanda sulle condizioni minime, che una riguarderebbe i poteri di scioglimento, cioè chi li ha e con quanta discrezionalità li esercita, l'altra i governi di minoranza. Personalmente, non cederò sangue per nessuna delle due alternative. Accettato il principio di un sistema diarchico, se prevarrà la componente parlamentarista è chiaro che i poteri di scioglimento dovranno essere condivisi tra il presidente ed il capo del governo; se prevarrà un orientamento presidenzialista si può andare, invece, verso l'altra soluzione. Il potere di scioglimento è un deterrente efficace ma quasi mai è usato con molta frequenza, perché tutti si rendono conto di quali siano le controindicazioni (per la verità, l'unico caso aberrante è stato quello di Weimer).
Per quanto riguarda i governi di minoranza, ritengo che con la formula francese non ve ne sia la necessità, ma sappiamo tutti che alle volte vi sono dei partiti che preferiscono non andare al governo e che rendono necessari governi di minoranza. In verità, in questi casi si tratta di governi di maggioranza camuffati, nel senso che vi è un accordo abbastanza preciso tra chi sta fuori e appoggia il governo e chi, invece, se ne assume le responsabilità. Ma se questa dannatissima ipotesi si verificasse (lo voglio escludere, anche se in questo sistema mi sembra molto ridotta una probabilità


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di questo tipo) funzioneranno come tutti i governi di minoranza. Nel caso che non riescano a funzionare si tornerà a nuove elezioni. I modi sono tanti perché sono tanti i tipi di governo di maggioranza: si può andare verso maggioranze variabili in questo caso, per esempio trovando l'accordo con la destra sui provvedimenti economici, con la sinistra sui provvedimenti sociali. Si può anche andare verso un patto, trattandosi, in verità, di governi di finta minoranza che hanno concordato un sostegno con la maggioranza, la quale preferisce restare fuori. In questo caso direi che si applicano la normale letteratura e cognizione che abbiamo su come funzionano i governi di minoranza.


PRESIDENTE. Vorrei offrire quale anedottica al professor Sartori la semiconclusione dei nostri lavori: facendo violenza sull'ordine cronologico degli iscritti a parlare, darò la parola al sostenitore maggioritario, l'onorevole Calderisi, che, in funzione di una rappresentazione proporzionale degli interventi, chiede di parlare come rappresentante di forza Italia. Quindi, piegando il principio maggioritario al sistema proporzionale, do la parola all'onorevole Calderisi.


GIUSEPPE CALDERISI. La ringrazio, signor presidente. Premesso che sarò brevissimo, dico subito che vorrei esprimere una mia soddisfazione. Pur essendo questa un'audizione, infatti, quindi non una sede di sindacato ispettivo o di risposta ad interrogazioni, avendo presentato una proposta per introdurre una forma di governo semipresidenziale alla francese, devo dichiararmi soddisfatto dalle risposte del professor Sartori. Siccome non mi è capitato spesso di avere un suo giudizio conforme, ho voluto prendere la parola.
Condivido le caratteristiche di maggiore flessibilità del sistema semipresidenziale francese rispetto agli obiettivi che vogliamo prefiggerci, cioè governabilità e ristrutturazione del sistema dei partiti verso un bipolarismo più maturo. Questi sono gli scopi e da questo punto di vista il sistema offre flessibilità maggiore rispetto alla forma di governo del premier, dove se non si hanno meccanismi rigidi per garantire la stabilità più che la governabilità il sistema non funziona. Infatti, se togliamo gli elementi di rigidità dovuti alle elezioni o a tutta una serie di meccanismi simul stabunt simul cadent, si ha un sistema di un certo tipo che o risulta molto rigido o, in assenza di queste caratteristiche, non risolve i nostri problemi.
Sono soddisfatto dell'intervento del professor Sartori in merito al meccanismo di una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza, nel senso che tale meccanismo non garantisce quella ristrutturazione in senso bipolare garantita proprio dal doppio meccanismo dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica e dal doppio turno. Questo binomio è essenziale. Personalmente, accedo ad un sistema a doppio turno per la legge elettorale, se connesso con l'elezione diretta del presidente della repubblica, perché le due cose si tengono insieme, e a un sistema con il premio di maggioranza, in quanto non si tratta di un meccanismo che porta alla formazione di maggioranze coese.
Le domande o le precisazioni che voglio rivolgere attengono al fatto che la coabitazione è dovuta ad un voto, ad un diverso indirizzo politico espresso dal corpo elettorale: l'indirizzo politico espresso dal presidente della repubblica deve tornare in un ambito diverso perché vi è stato un nuovo voto del corpo elettorale che ha dato un altro indirizzo politico. Credo che questo sia essenziale per comprendere la coabitazione. Quindi, di fronte ad una nuova pronuncia del corpo elettorale e con una maggioranza diversa, evidentemente non c'è tutta una serie di rischi: il Presidente non può permettersi atti in contrasto con questo indirizzo politico, perché non ha la maggioranza, perché potrebbe essere messo in stato d'accusa.
Mi preoccupa molto il problema della controfirma per lo scioglimento delle Camere:


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non sono preoccupato nel caso di un premier di coabitazione, perché in questo caso è difficile che il Presidente sciolga le Camere; mi preoccupa invece il premier di non coabitazione, perché se ha la controfirma potrebbe perseguire politiche che potrebbero anche essere espressione di indirizzi politici trasformistici. Non mi preoccupa quindi il potere di controfirma al premier di coabitazione, che gli darei se fosse possibile ciò che invece è difficile, cioè definire la coabitazione, ma il potere di controfirma al premier non di coabitazione, perché potrebbe andare per conto suo. Mi preoccupa il rischio di un conflitto istituzionale tra premier e Presidente della Repubblica, un rischio che non avrebbe senso perché non si tratta dell'equilibrio tra il presidente e la maggioranza ma tra il presidente ed il proprio premier. È questo il pericolo che vorrei scongiurare.


PAOLO ARMAROLI. Mi dichiaro soddisfatto di questa audizione perché ex adverso si può rilevare che l'unico vantaggio del premierato sarebbe che il Presidente della Repubblica avrebbe gli stessi poteri della regina d'Inghilterra (un po' pocucci); per il resto, nessun vantaggio, sarebbe come fare le nozze con i fichi secchi. Questa visione da quinta Repubblica personalmente mi persuade molto perché presenta diversi vantaggi.
Per quanto riguarda l'effetto M - la Marini Presidente della Repubblica - prescindendo dal fatto che non ha il requisito dell'età, è tranquillizzante il fatto che avremmo una maggioranza; si possono poi studiare altri motivi per appoggiare seriamente le candidature.


GIOVANNI SARTORI, Professore emerito dell'Università di Firenze e della Columbia University. Si capisce, la coabitazione presuppone elezioni asincrone, deriva da un'espressione diversa dalla volontà popolare. Non vedo il difetto che suggeriva l'onorevole Elia circa l'individuazione del responsabile; si risponde sempre all'esito elettorale, se la maggioranza è del Presidente, questi è il responsabile, in caso contrario, sarà il capo del Governo.
Sulla questione riguardante la controfirma, un'altra idea potrebbe essere - ci dobbiamo un po' giocare, anche qui la formula perfetta non esiste - attribuire il potere di scioglimento al Presidente, dicendo che tuttavia vi è un potere di override del parlamento in corrispondenza ad una certa aliquota di voti; in altri termini, se un parlamento non accetta lo scioglimento e vota contro..., però in quanto espressione del 60 per cento è costretto a fare maggioranza di governo. Potrebbe essere un'idea, guardiamoci un po' dentro; lo dico così, ci ho pensato in questo attimo.
Si deve pur trovare una soluzione accettabile, anche se non perfetta, per questi problemi. Se c'è questa forte preoccupazione, l'altra è una possibilità da vedere. Più di questo non dico, perché non vi è il tempo ed ancora non ho approfondito l'argomento.


PRESIDENTE. Concludiamo l'audizione del professor Sartori, che ringraziamo per il prezioso contributo offerto in questa occasione.

La seduta termina alle 13.15.