RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 9
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MASSIMO D'ALEMA
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La seduta comincia alle 9.45.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Audizione dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e dell'Unione delle province d'Italia (UPI).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e dell'Unione delle province d'Italia (UPI).
Diversi colleghi hanno annunciato il loro arrivo, ma ritengo sia giusto dare comunque avvio al nostro incontro. Mi limito semplicemente a qualche parola di benvenuto ai nostri ospiti, con i quali continua il dialogo che abbiamo avviato incontrando i rappresentanti delle regioni. In questa prima fase delle audizioni promosse dalla Commissione bicamerale tale dialogo ha come tema essenziale ma non unico, nel senso che siamo interessati a raccogliere tutte le indicazioni, la riforma della forma di Stato nel senso federale o quanto meno, a seconda delle diverse proposte all'esame della Commissione, di una accentuata scelta regionalista e autonomistica.
Naturalmente nel confronto che si è aperto assume un grande rilievo il tema del rapporto nel processo di decentramento dei poteri tra regioni e autonomie locali, tra Stato centrale e autonomie locali. Della questione non soltanto si fa cenno in modo significativo in molte delle proposte al nostro esame, ma si è anche discusso - debbo dire in modo approfondito e serio - nel dialogo con le regioni italiane, i cui presidenti si sono mostrati consapevoli della necessità che la riforma federale dello Stato non dia luogo a nuovi e più diffusi centralismi, ma si accompagni ad un allargamento di responsabilità di autogoverno e di partecipazione da parte dell'insieme delle istituzioni locali.
Voi sapete che nella proposta di legge predisposta da alcuni consigli regionali la questione viene risolta attraverso l'istituzione di assemblee regionali federali rappresentative delle autonomie locali, mentre altre proposte mettono l'accento sulla necessità di una garanzia costituzionale del ruolo della autonomie locali e di un rapporto diretto tra Stato centrale e autonomie locali, oltre che tra Stato centrale e regioni.
Siamo ovviamente interessati a raccogliere le vostre opinioni su queste diverse ipotesi di natura istituzionale, ma più in generale credo che il confronto debba muovere dall'individuazione precisa delle esigenze che sono alla base della grande riforma che intendiamo promuovere, esigenze che sono largamente condivise, sentite come comuni dalle diverse forze politiche: in particolare quella di uno Stato più efficiente, più vicino ai cittadini, in grado di garantire nello stesso tempo una ampia partecipazione, che sia più permeabile, ma anche una maggiore tempestività ed efficacia della decisione. Questa è la grande sfida di fronte alla quale ci troviamo, per cui da questo punto di vista il problema è quello di intrecciare innovazione costituzionale, riforma dell'amministrazione pubblica, semplificazione delle procedure in un grande processo di modernizzazione del nostro paese.
I sindaci e i presidenti delle province si trovano ad essere non soltanto portatori
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di istanze legittime di valorizzazione delle istituzioni che rappresentano, ma anche nel quadro istituzionale gli esponenti collocati nella trincea più vicina ai cittadini, più esposta quotidianamente al rapporto con la società, i suoi bisogni, i suoi problemi. Da questo punto di vista mi piacerebbe che nell'odierna conversazione fosse presente non soltanto un punto di vista istituzionale ma anche, forse in modo più largo, una testimonianza della società civile, con la quale peraltro discuteremo anche in altre forme perché prevediamo di incontrare le rappresentanze sociali e dell'associazionismo. Tuttavia credo che il dialogo con la società civile passi anche attraverso un confronto con i rappresentanti delle istituzioni più vicine ai cittadini. Questo, in fondo, sarà il metro del successo del nostro lavoro: la capacità di questo organismo di collocarsi in un rapporto diretto con l'opinione pubblica.
Fino a questo momento questa Commissione ha suscitato attese e curiosità che vanno sicuramente al di là delle nostre aspettative, perché sinceramente viviamo in un paese e in un tempo in cui io pensavo che soltanto l'espressione Commissione bicamerale dovesse suscitare repulsione nell'opinione pubblica; invece risulta largamente che una grande maggioranza dei cittadini conosce e segue con interesse l'esistenza di questo lavoro di revisione costituzionale, e secondo taluno ci sarebbe persino una maggioranza fra i cittadini che segue con fiducia il nostro lavoro, il che dimostra, a mio giudizio, come sia sbagliata l'opinione secondo cui la riforma costituzionale è un tema del ceto politico, un tema - come qualcuno dice - politicista, lontano dai problemi reali dei cittadini; non è vero, anzi i cittadini avvertono come del tutto reale il problema del funzionamento dello Stato, delle istituzioni, della capacità delle istituzioni di rispondere a crescenti bisogni sociali e civili. Questo è un problema vicinissimo alla percezione del cittadino medio, ed è invece del tutto politicista proprio pensare che i problemi istituzionali debbano essere lontani dai cittadini: è un modo di guardare all'opinione pubblica molto vecchio, molto superficiale e in definitiva sprezzante. Non è così. Noi abbiamo un'opinione pubblica democratica evoluta, che è molto attenta all'esigenza di una innovazione istituzionale.
Voi sapete che il tema fondamentale è quello della riforma dello Stato, che evidentemente interessa e tocca più da vicino il ruolo delle autonomie locali. Nello stesso tempo, sapete benissimo che all'esame di questa Commissione vi sono anche proposte di profonda riforma della forma di governo, che vanno nel senso di un Governo, di un esecutivo che sia più direttamente espressione dei cittadini e che sia anche, in modo più garantito, stabile e capace di governare. Poi ci sono diverse ipotesi su come andare in questa direzione. Però io penso che un esecutivo più forte non sia in contrasto con un sistema di autonomie più forti.
Voi sapete, inoltre, che all'esame di questa Commissione ci sono importanti proposte di riforma del Parlamento, del bicameralismo, del sistema delle garanzie. A proposito di riforma del Parlamento, vi è certamente noto che in una certa misura il tema della riforma del Parlamento interagisce, per così dire, con l'ipotesi di una riforma federale dello Stato, per lo meno perché in diverse delle proposte presentate si parla di una Camera delle autonomie, delle regioni, come possibile luogo di sintesi e di incontro, nello Stato federale, tra i diversi livelli dell'autogoverno.
Mi fermo qui, perché so di parlare ad un gruppo di ospiti che conoscono questi problemi e con i quali avremo un dialogo; quindi, credo di non dover illustrare le proposte (d'altra parte, essendo 181, sarebbe abbastanza arduo) che sono all'esame di questa Commissione.
Darò prima la parola al sindaco di Catania Enzo Bianco, presidente dell'Associazione nazionale dei comuni italiani, poi, al termine del suo intervento introduttivo, interverrà il presidente dell'UPI, Marcello Panettoni. Successivamente, discuteremo liberamente. Come sempre, invito i membri della Commissione a svolgere
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degli interventi che, sia per la forma interrogativa sia per la durata, abbiano il carattere di un quesito o di quesiti. Credo sia ragionevole, invece, lasciare un po' più di tempo ai nostri ospiti.
ENZO BIANCO, Presidente dell'ANCI. Grazie, signor presidente, onorevoli componenti la Commissione bicamerale. Voglio anzitutto tranquillizzarvi: anche noi intendiamo usare con discrezione il tempo e l'attenzione che oggi ci rivolgerete; quindi, non parlerò per un tempo proporzionale al numero dei comuni italiani che, come sapete, sono 8.102, ma conterrò quindi questo primo intervento, per una questione di pari dignità nei confronti delle regioni, nel tempo utilizzato dal presidente della Conferenza delle regioni. Successivamente, sui quesiti specifici risponderanno i miei colleghi sindaci che fanno parte di una delegazione composita, rappresentativa delle diverse realtà dei comuni (grandi, piccoli, del nord, del centro e del sud) e delle diverse aree politiche a cui anche i sindaci fanno riferimento, ovviamente tenendo conto del ruolo istituzionale che rappresentano.
Nel suo discorso introduttivo, presidente D'Alema, lei ha fatto riferimento al grande interesse e all'apertura di credito che vi sono nei confronti dei lavori di questa Commissione. Certamente, il mondo delle autonomie locali, i comuni fanno parte di coloro i quali hanno questo grande interesse. L'apertura di credito e la disponibilità derivano anzitutto - ci tengo a dirlo - dal fatto che noi avvertiamo, forse come pochi altri nel paese, l'urgenza di una profonda revisione della Carta costituzionale.
Alcuni di noi sono al completamento del loro mandato elettorale: sono passati, grosso modo, quattro anni dalla prima elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province in Italia e fra poche settimane, ad aprile, ci sarà un primo turno di elezioni. Ebbene, il Governo presieduto dall'onorevole Prodi è il quarto Governo con il quale i sindaci eletti nel giugno del 1993 si sono trovati a confrontare i loro problemi, e questa è la terza Assemblea legislativa. Abbiamo assistito, in questa fase, ad un forte elemento, certamente positivo, introdotto nel sistema-Italia: la stabilità e la progettualità che deriva dalla elezione diretta dei sindaci; viceversa, abbiamo avuto di fronte, nel livello centrale, una fase di profonda instabilità che, naturalmente, nuoce gravemente all'efficacia complessiva dell'azione del sistema-Italia.
Parlerò, come presidente dell'ANCI, sulla parte che ci interessa direttamente e sulla quale abbiamo elaborato delle posizioni comuni. Accoglierò poi brevemente il suo invito, signor presidente, anche a riferire le sensazioni, le opinioni, le emozioni che noi riscontriamo in questo nostro essere, in qualche misura, in prima linea; quindi, interverrò, più in generale, anche sui temi non attinenti alla forma di Stato, che è quella sulla quale, come Associazione dei comuni d'Italia, abbiamo posizioni ovviamente già definite. Ci tengo a ricordare, tra l'altro, che se i regolamenti parlamentari e la prassi parlamentare avessero reso possibile una più intensa collaborazione del mondo delle autonomie con i lavori della Commissione bicamerale, ovviamente noi saremmo stati disponibili; ma siamo disponibili a collaborare nei termini e nei modi che la Commissione riterrà opportuni anche dopo questa audizione: nel momento in cui, sull'argomento relativo alla forma di Stato in particolare, i lavori della Commissione dovessero produrre una proposta più definita, naturalmente chiederemmo di essere ascoltati.
I comuni italiani sono a favore di una scelta di tipo federale. Naturalmente sappiamo perfettamente che il termine «federalismo» assume nel vocabolario politico italiano significati molto diversi. In realtà, pensiamo ad una struttura complessa dello Stato, basata su più livelli di potere tra i quali è ripartita la sovranità. Questa è la nostra concezione di federalismo. Riteniamo che una certa rigidità che vi è stata nella Costituzione italiana, in particolare in quella materiale, in questa prima lunga fase di democrazia nel nostro paese, abbia determinato una certa
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compressione della diversità, che è una delle caratteristiche del nostro paese: l'Italia ha diversità geografiche, storiche, economiche, sociali, che molto spesso sono state vissute come un elemento di debolezza e che invece possono costituire (naturalmente nell'ambito del permanere di un forte principio di solidarietà nazionale) una grande opportunità.
Pensiamo che il paese debba liberare il più possibile le sue risorse. Una delle risorse che possono essere liberate è la grande diversità esistente all'interno del paese, che non è un punto di debolezza ma può diventare un punto di grande forza, soprattutto riscoprendo ciascuno l'orgoglio di appartenere alle comunità locali di cui noi siamo i rappresentanti.
Il tipo di federalismo che immaginiamo è anzitutto un federalismo equilibrato, presidente. Con l'aggettivo «equilibrato» intendiamo che la definizione delle competenze e dei poteri che vengono riconosciuti a ciascun livello di sovranità debba avere un punto di equilibrio. Riteniamo, per esempio, che debba restare un forte nucleo di poteri a livello centrale, perché nella competizione internazionale, nella salvaguardia delle specificità dello Stato italiano anche nel processo di integrazione europea, un forte nucleo di poteri deve restare allo Stato centrale. Ci riferiamo ovviamente ad alcune delle questioni riguardanti la politica estera, la politica di difesa, la giustizia, la politica della ricerca; un complesso di poteri che riteniamo debbano essere mantenuti a livello centrale, sia sotto il profilo legislativo sia sotto quello della grande amministrazione.
«Equilibrato» vuol dire naturalmente che anche il livello regionale deve essere fortemente potenziato; anzi, la regola sotto questo profilo è che la maggior parte dei poteri legislativi, dedotte le materie per le quali lo Stato trattiene una competenza specifica, sia attribuita alle regioni. Pensiamo quindi ad un forte rafforzamento del ruolo delle regioni, perché sappiamo perfettamente che un federalismo non può che esaltare il ruolo importante che le regioni dovranno avere nel nuovo sistema.
Ci poniamo una questione, ma soltanto come interrogativo: se si procede veramente verso una forte esaltazione del ruolo delle regioni, ci chiediamo se il numero delle regioni possa essere quello attualmente previsto dalla Costituzione. Ferma restando evidentemente la specificità di alcune regioni di confine, dove sono presenti forti minoranze linguistiche, vi è un problema (che noi ci limitiamo a porre) relativo al dimensionamento minimo, in qualche misura, per quanto riguarda una regione che abbia fortissime competenze in materia legislativa.
Un elemento importante dell'articolazione del sistema Italia sarà ovviamente il livello provinciale; in tale ambito abbiamo lavorato, in questi mesi e in questi anni, in piena intesa di vedute con l'Unione delle province italiane. Noi immaginiamo che le province debbano avere il governo dell'area vasta, quindi, una serie di competenze riguardanti specificamente il concetto di area vasta soprattutto nella dimensione delle piccole e delle medie realtà, e che possano diventare un elemento importante anche per quanto riguarda il decentramento amministrativo.
Riteniamo che il federalismo italiano non possa non esaltare l'elemento tipico della storia, della struttura istituzionale del nostro paese: i comuni. Non ho bisogno neppure in questo caso di ricordare a voi, onorevoli componenti la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, la tradizione municipalista presente nel nostro paese. Riteniamo, dicevo, che il ruolo dei comuni vada esaltato.
Diciamo subito, a scanso di equivoci, che questa forma di federalismo non vuol dire affatto panregionalismo. Siamo sinceramente preoccupati che talvolta appaiano, nel dibattito politico-istituzionale ed anche in alcune iniziative promosse dalle regioni (mi riferisco, in particolare, al disegno di legge di riforma della Costituzione predisposto da alcune regioni: sei sono, esattamente, quelle che lo hanno approvato), accanto ad alcuni elementi molto positivi, altri su cui il mondo dei comuni ha una posizione profondamente diversa. In particolare, contestiamo drasticamente
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l'idea che lo Stato unitario si articoli in regioni e che poi queste, a loro volta, si articolino in province e comuni. Al contrario, immaginiamo una pari dignità costituzionale fra tutti gli organi che rappresentano la sovranità nazionale: comuni, province, regioni e, ovviamente, Stato centrale. Consideriamo sbagliato prefigurare un federalismo nel quale le regioni federate rappresentino lo Stato nazionale e le comunità locali federate l'articolazione delle regioni. Il federalismo che immaginiamo, oltre che equilibrato, è di tipo cooperativo e, perciò, basato sul principio di sussidiarietà inteso nella forma più piena possibile.
Qualche giorno fa ho incontrato il sindaco di Piacenza, professor Giacomo Vaciago, che si era recato prima a Bologna e poi era venuto a Roma per ottenere la firma di due ministri su un decreto istitutivo di una comunità per anziani nel comune di Piacenza. Ebbene, questo è esattamente l'opposto di quel che noi crediamo debba essere lo Stato. Se la questione del governo di una comunità di anziani, che viene gestita con i denari degli abitanti di Piacenza, riguarda questi ultimi, per quale ragione, per decidere in merito, occorre andare prima a Bologna e poi a Roma a disturbare due ministri della Repubblica che hanno problemi più importanti di cui occuparsi? Si decida a Piacenza ciò che riguarda gli abitanti di Piacenza, a Bologna quel che concerne gli abitanti di Piacenza, Modena, Parma e Forlì e a Roma solo ciò che attiene agli abitanti di Piacenza, di Napoli, di Milano o di Catania. Questo è il nostro principio di sussidiarietà, inteso nella forma più piena possibile. «Sussidiarietà» vuol dire, come osservavo poc'anzi, pari dignità costituzionale: ciò significa che lo Stato è l'ente esponenziale della comunità nazionale e che le regioni, le province e i comuni sono gli enti esponenziali delle rispettive comunità territoriali. Il modello al quale pensiamo è quello al quale ho accennato: lo Stato trattiene la competenza piena in alcune funzioni essenziali e tra queste noi riteniamo vi sia anche quella ordinamentale in materia di governo delle autonomie locali.
Sotto questo profilo, desidero ricordare l'esperienza - ahimè molto negativa - delle regioni a statuto speciale. Mi riferisco non solo alla mia regione, la Sicilia, ma anche alle altre, e soprattutto al Friuli-Venezia Giulia ed alla Sardegna, dove la stragrande maggioranza dei sindaci è fortemente preoccupata per l'esperienza che si è avuta in questi anni in materia di esercizio della funzione ordinamentale da parte delle regioni a statuto speciale in tema di enti locali.
Per quanto riguarda l'esercizio della funzione attribuita ai comuni, che - come dicevo - dovrebbe essere la più ampia possibile (essendo i comuni, tra tutti gli enti che immaginiamo debbano esplicitare con pari dignità costituzionale la forma di governo del paese, gli unici che in qualche misura possano definirsi comunità naturali, come la famiglia, dal momento che il comune è un'entità fisicamente riconoscibile come tale, con una sua storia ed una sua vita), riteniamo che questi enti debbano avere una generale titolarità di rappresentanza.
Crediamo che debba essere riconosciuto dalla Carta costituzionale un forte principio di autonomia organizzativa per il comune. Garantite le funzioni proprie, gli enti locali devono avere un sufficiente potere di disciplina della propria organizzazione e delle modalità di esercizio di tali funzioni. In caso contrario, la loro autonomia si ridurrebbe alla definizione di priorità nell'utilizzazione delle risorse ma con una forte predeterminazione dei modi di intervento. In qualche misura, in questo caso essi continuerebbero a rappresentare meri terminali operativi dello Stato o delle regioni.
Sotto questo profilo, non è sufficiente riconoscere la potestà statutaria e regolamentare degli enti locali; occorre ridurre al minimo tutte le norme di rango superiore che pongano limiti e vincoli alla disciplina autonoma degli enti locali.
Immaginiamo infine che questo sistema di sussidiarietà e di federalismo debba avere garanzie costituzionali, in
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particolare che sia abolita nella Costituzione ogni forma di gerarchizzazione delle istanze governative, che i comuni abbiano una partecipazione costituzionalmente garantita sia ai processi decisionali nazionali sia a quelli locali, nonché che sia prevista la possibilità di tutelare le posizioni precedenti attraverso ricorsi alla Corte costituzionale, anche sulla base dell'esperienza di altri paesi europei.
Un'altra garanzia costituzionale cui siamo molto interessati è quella che consiste nel prevedere nella Costituzione il bicameralismo regionale. Questa non dovrebbe essere una concessione che le regioni di volta in volta decidono di attuare ma dovrebbe essere una previsione contenuta nella Costituzione: accanto ai consigli regionali devono essere previsti i consigli delle autonomie locali, con una forma di rappresentanza che ovviamente tuteli le minoranze e che preveda la partecipazione elettiva degli esecutivi comunali.
Lo stesso principio noi poniamo a livello centrale. Nell'articolazione del sistema Italia noi immaginiamo che il Senato della Repubblica possa e debba avere una prevalente funzione di Senato delle autonomie, nel quale siano rappresentati gli esecutivi regionali e quelli comunali, anche qui secondo un sistema elettivo per il quale le autonomie locali possano essere elette dai consigli delle autonomie locali a livello regionale, garantendo anche in questo caso la presenza delle minoranze. Tra i compiti del Senato delle autonomie crediamo debbano essere ricompresi un intervento sulla funzione legislativa che riguardi l'intero sistema delle autonomie, una competenza sulla ripartizione delle risorse ed un controllo sull'attuazione della sussidiarietà.
Signor presidente, noi ci proponiamo di presentare, possibilmente insieme alle province e, per la parte su cui saremo d'accordo, insieme con le regioni (speriamo che l'intesa con le regioni in questo campo sia crescente), una proposta articolata concernente la forma di Stato da sottoporre all'attenzione di questa autorevole Commissione. Ribadisco ancora una volta che siamo particolarmente interessati ad essere sentiti nuovamente quando la Commissione - o la sottocommissione sulla forma di Stato - avrà maturato più precisi orientamenti.
Ella ha chiesto di conoscere brevemente le nostre valutazioni - ovviamente personali, queste - sull'umore, i sentimenti, le speranze e le aspettative che nel paese registriamo nei confronti della Commissione bicamerale e del lavoro che svolge. Signor presidente, effettivamente confermiamo la sensazione che lei ha esposto nella sua introduzione: riteniamo che vi sia nel paese una grande aspettativa ed una certa apertura di credito, e pertanto esprimiamo l'auspicio che anche sulle altre parti della riforma della Costituzione questa Commissione possa lavorare al meglio.
Secondo la mia personale posizione, una delle domande più forti che oggi registriamo nel paese riguarda la stabilità e la rappresentatività dell'esecutivo; al di là dei meriti o dei demeriti che ogni sindaco eletto direttamente ha maturato nella sua esperienza, che naturalmente troveranno una conferma nelle prime elezioni nel giudizio supremo della volontà popolare, certamente il meccanismo dell'elezione diretta del sindaco, nel suo livello amministrativo, come in quello della provincia, ha determinato una forte crescita dell'attenzione dell'opinione pubblica e delle aspettative - sono aspetti connessi - nei confronti del livello istituzionale comune.
Riteniamo quindi che forme che prevedano in qualche misura una crescita dei fattori di stabilità e governabilità e del rapporto diretto per quanto riguarda l'esecutivo, nei termini e nei modi che questa Commissione riterrà opportuni, vadano incoraggiate, perché corrispondono ad un sentimento molto diffuso nell'opinione pubblica e in fondo alla valutazione molto positiva che qui si è venuta a determinare. Riteniamo inoltre di cogliere, anche nella nostra esperienza, una certa - parziale - valutazione critica nei confronti di un bicameralismo perfetto come l'attuale, che ha avuto pienamente ragion
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d'essere all'inizio di questa fase costituente e per molti anni, mentre oggi l'obbligo di una seconda lettura piena su ogni forma di iniziativa legislativa probabilmente non corrisponde più alla necessità che anche il livello legislativo, oltre quello esecutivo, sia più efficace e più rapido possibile nelle sue definizioni.
Con questo sentimento di piena disponibilità alla collaborazione, di apertura di credito e di profondo rispetto per i lavori di questa Commissione ribadiamo, onorevole presidente, la nostra disponibilità a collaborare nei termini e nei modi che la Commissione stessa riterrà opportuni.
MARCELLO PANETTONI, Presidente dell'UPI. Signor presidente, onorevoli parlamentari, vorrei intanto esprimere a tutti voi la gratitudine e la soddisfazione dei rappresentanti delle province per l'occasione che oggi ci viene offerta. Con tutta franchezza, noi pensavamo di avere in qualche modo il diritto ad intervenire ai lavori della Commissione bicamerale, sapendo - come sappiamo - che la riforma della forma di Stato è uno dei temi fondamentali del vostro lavoro oltre ad essere molto atteso dal paese.
Ci ha fatto sicuramente piacere che il presidente e la Commissione tutta abbiano accolto la nostra richiesta di essere auditi in seduta plenaria, perché è una sottolineatura implicita dell'attenzione con la quale voi intendete acquisire gli orientamenti ed i pareri che i rappresentanti del sistema delle autonomie nostro tramite vi trasferiscono.
Voglio riprendere una delle questioni che il presidente D'Alema ha proposto nella sua introduzione, relativa all'effettiva attesa e attenzione che c'è, non solo nel sistema delle autonomie, dei rappresentanti elettivi dei comuni e delle province, ma nella popolazione, nella società civile, circa i lavori della Commissione bicamerale. Negli ultimi tempi in particolar modo, pur rimanendo prevalente l'attenzione negli organi di stampa, nell'opinione pubblica, nel dibattito anche culturale che si è sviluppato nel paese verso la forma di Governo per tante ed evidenti ragioni, ci sembra si stia consolidando l'attesa nei confronti di una riforma della forma di Stato, nel suo complesso intesa, che riesca a recuperare e a trasferire nel nostro ordinamento, nel sistema dei poteri pubblici e delle istituzioni tempestività di processi decisionali, efficacia ed efficienza delle decisioni assunte, volontà di vedere il più possibile trasferite verso le dimensioni locali e territoriali tutte quelle responsabilità, quei poteri e quelle risorse che possono rendere più tempestivo e più facilmente verificabile da parte della popolazione l'operato della pubblica amministrazione. Si tratta di un'attesa francamente grandissima circa la necessità di una semplificazione delle procedure e degli ordinamenti che oggi hanno raggiunto un livello di complessità tale da essere difficilmente decifrabili persino dagli operatori e da non essere più sopportabile un intreccio, un impaccio ed un peso burocratico che rende sempre più difficile l'operatività delle istituzioni e soprattutto dei cittadini.
Non vi è dubbio che siamo prevalentemente interessati ad uno dei quattro temi sui quali la Commissione bicamerale ha articolato il proprio lavoro, anche attraverso l'istituzione dei relativi comitati, cioè quello della forma di Stato, anche se come rappresentante delle istituzioni non indirizziamo la nostra attenzione esclusivamente a questo tema, che comunque rappresenta il cuore della nostra funzione istituzionale ed il nucleo fondamentale delle nostre riflessioni.
Una delle attese che trasferiamo alla Commissione bicamerale e al vostro lavoro riguarda la necessità - non solo l'opportunità - di rovesciare la piramide centralistica con la quale storicamente nel nostro paese si sono organizzati i sistemi, il sistema dei pubblici poteri della nostra amministrazione e del nostro Stato. Tale rovesciamento, sulla base del principio di sussidiarietà che a tutti voi è noto essere l'elemento fondante e caratterizzante la Carta europea delle autonomie, dovrebbe consentirci di riattribuire funzioni a livello istituzionale più vicino ai cittadini, partendo quindi dal basso, piuttosto che
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consolidare o mantenere una struttura piramidale dei poteri, così come quella fino ad oggi organizzata.
Per quanto riguarda la riscrittura della parte seconda della Costituzione, nel momento in cui si riesamina la forma di Stato - riprendo un'espressione del presidente Bianco -, siamo per una riarticolazione in termini federali della Repubblica italiana. Questa è una delle cose che dobbiamo dire con chiarezza - ed è una delle attese fondamentali che avvertiamo nell'opinione pubblica - senza smarrire quei caratteri di solidarietà e coesione nazionale che hanno bisogno di essere riformulati e rifondati e confermando che gli elementi costitutivi della nostra Repubblica rimangono comuni, province, regioni e lo Stato come ordinamento. Riteniamo che senza dubbio l'articolo 114 della Costituzione possa essere integrato: ma confermando comuni e province - e regioni, naturalmente -, cioè il sistema delle autonomie, come elementi costitutivi della Repubblica. A tutti gli enti territoriali dovrebbe essere riconosciuta, a ciascuno per il proprio livello, una piena rappresentatività delle rispettive comunità (lo ha già sottolineato il sindaco Bianco nel suo intervento).
Parlare di struttura federale dello Stato significa evidentemente attribuzione di una competenza legislativa generale alle regioni, con una riserva di poteri fondamentali forti e determinanti (ma numericamente ristretti) allo Stato nazionale. Fondamentalmente si tratta di questo: certo è un modo per semplificare - in considerazione del tempo che abbiamo a disposizione -, visto che su questi temi si sono ascoltate affermazioni e letture molto diverse. Naturalmente tutto ciò determina una serie di conseguenze, ma allo stesso tempo significa attribuire le competenze amministrative alle autonomie locali: ai comuni ed alle province. Le competenze amministrative dovrebbero naturalmente essere differenziate con chiarezza per qualità e dimensioni di funzioni (e non sovrapposte come talvolta - troppo spesso - ancora oggi accade, in un quadro di insufficiente chiarezza).
Parlo di comuni e di province perché noi siamo convinti dell'opportunità di mantenere il livello istituzionale della provincia. Non lo diciamo semplicemente per una impostazione di parte, di difesa istituzionale. È noto a noi tutti che di questo punto si è largamente discusso ed è stato preso in considerazione anche nelle proposte di legge all'esame di questa Commissione. Non si tratta di condurre una difesa d'ufficio nei confronti dell'istituzione che sono qui chiamato a rappresentare, ma di constatare - fra l'altro - che paesi europei di dimensione e di struttura sociale analoghe alla nostra (penso alla Francia ed alla Germania) prevedono nell'ordinamento un ente di livello istituzionale e di dimensioni territoriali legati a responsabilità, poteri, risorse reali, servizi che vanno oltre la dimensione comunale (qualunque essa sia: dal piccolo comune, per il quale il successivo livello amministrativo sarà più evidente e più incidente, alla grande città). Questa previsione è confermata nei département francesi e nei landkreis tedeschi, ma la vediamo apparire anche nei paesi del centro-Europa che stanno riarticolando la loro dimensione statuale. I problemi e le tematiche dell'amministrazione evidentemente non conoscono confini. Ci sembra opportuno ribadire questo fatto.
Naturalmente occorre differenziare le funzioni con chiarezza: tutti i servizi alla persona e quelli di ambito locale non possono che appartenere fondamentalmente alla dimensione comunale, mentre tutti i servizi di carattere territoriale (dai trasporti alla scuola, dalla protezione ambientale alla pianificazione territoriale, ai servizi di rete alle imprese e così via) non possono che far riferimento - a nostro avviso - alla dimensione provinciale.
Anche a questo riguardo il sindaco Bianco ha espresso una sintonia di posizioni fra comuni e province, i quali si sono presentati oggi a questa audizione con documenti separati (affiderò un nostro contributo alla presidenza della Commissione bicamerale), ma che condividono un nucleo di riflessione unitario: si affida al comune - come è ovvio - una funzione
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fondamentale, ma si riconoscono altresì alle province le funzioni che esse sono chiamate a sviluppare in questa organizzazione dei sistemi del governo locale.
Alcune considerazioni ulteriori. Siamo altresì convinti che nella Costituzione debbano essere previste alcune garanzie riguardanti il sistema delle autonomie locali.
Pur ribadendo la nostra piena convinzione circa la necessità di attribuire una competenza legislativa generale alle regioni nel quadro della riforma di tipo federale della Repubblica, siamo altresì convinti che la specificità della tradizione italiana, in questo caso certo da valorizzare e da recuperare, necessiti che nella Costituzione siano inserite garanzie per una pari dignità costituzionale dei livelli di governo territoriale per regioni, comuni e province. Crediamo opportuno che almeno i tratti fondamentali dell'ordinamento siano garantiti sia nella Costituzione, sia più diffusamente e più precisamente in una legge generale dello Stato, perché siamo consapevoli di come il trasferimento di competenze legislative al sistema regionale non possa che prefigurare la necessità di una differenziazione su base regionale dei tratti fondamentali dell'ordinamento di comuni e province.
Riteniamo utile che oltre a questo vi possa essere una previsione costituzionale circa la possibilità di istituire con legge generale dello Stato ordinamenti differenziati. Mi riferisco in modo particolare alle aree metropolitane del nostro paese; chiediamo cioè di confermare che nell'articolo 114 della Costituzione si parli di comuni e di province accanto alle regioni circa i livelli del governo locale, ma anche la possibilità che il Parlamento abbia previsioni di ordinamenti differenziati per situazioni particolari. Valutiamo inoltre necessario che nella Costituzione e nella legge generale dello Stato siano indicati i tratti fondamentali almeno dell'autonomia finanziaria e che non si parli soltanto di ordinamento, ma anche di risorse, per consentire l'esercizio effettivo delle responsabilità così come definite.
Chiediamo che nella Costituzione sia contenuta la previsione di quel consiglio regionale delle autonomie al quale dare la possibilità e la responsabilità di una codecisione almeno sulle materie ordinamentali con i consigli regionali, previsione peraltro tanto più necessaria per noi se riteniamo che le regioni possano intervenire ad incrementare ed a differenziare i tratti fondamentali dell'ordinamento di comuni e province. Ciò significa la possibilità per quest'ultimi, attraverso la Camera regionale delle autonomie, di poter intervenire nel processo decisionale e di veder riconosciuta in Costituzione la possibilità, sia pure disciplinata da legge, di un ricorso da parte di comuni e province alla Corte costituzionale, quando Parlamento o livelli regionali possano in qualche modo mortificare quei tratti fondamentali dell'ordinamento e delle funzioni alle quali la Costituzione vorrà chiamarle.
L'ultima questione riguarda la Camera delle autonomie o, meglio, la seconda Camera. E nostra convinzione ed interesse rappresentarvi come riteniamo assolutamente necessario il superamento del bicameralismo perfetto. Non crediamo neanche noi, in analogia a quanto diceva il sindaco Bianco, che si possa mantenere questa struttura; mi sembra peraltro che essa sia convinzione diffusa in tutti i parlamentari che hanno presentato proposte alla Commissione per la revisione di questa parte della forma di governo, che si intreccia strettamente con la nostra esigenza di modifica della forma dello Stato.
Riteniamo che il primo problema sia quello di determinare le funzioni di questa seconda Camera, laddove istituita e se esse devono essere quelle legate alle competenze proprie delle autonomie locali e territoriali (comuni, province e regioni) e se devono far riferimento alla salvaguardia dei principi di sussidiarietà. Se queste funzioni, tra l'altro, debbono fare riferimento alla distribuzione delle risorse, non v'è dubbio che la composizione di questa Camera può e deve essere funzionale e coerente alla attribuzione di competenze della seconda Camera. Alla luce di questo
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riterremmo auspicabile ed opportuno che la seconda Camera fosse composta di rappresentanti delle autonomie, di regioni, comuni e province, non semplicemente di un livello esclusivo o, se mi permettete, di due livelli con esclusione di un terzo. Questo, francamente, sarebbe un paradosso inaccettabile laddove la Commissione bicamerale ed il Parlamento consacrassero, nella revisione degli articoli relativi alla costituzione degli elementi fondanti della Repubblica, i tre livelli, ossia i comuni, le province e le regioni.
Queste sono le riflessioni che vi trasferiamo consegnandovi un primo documento, che è ancora in forma di relazione. Nelle prossime settimane, d'intesa con il presidente Bianco, relativamente al sistema delle autonomie - cioè i comuni e le province - svilupperemo un vero e proprio testo normativo, riferito più specificatamente ai temi oggetto del nostro lavoro odierno.
GIANCLAUDIO BRESSA. Signor presidente, il mio sarà un intervento molto breve perché mi ritrovo completamente nelle relazioni dei due presidenti, tranne che per una questione trattata più dettagliatamente dal presidente Bianco, allorché ha affrontato il problema tutt'altro che secondario dell'attivazione di una Camera delle autonomie.
Vorrei che riflettessimo insieme su questo aspetto, perciò vi invito ad avviare una riflessione comune. Nell'impianto illustrato dai presidenti Bianco e Panettoni si fa esplicito riferimento alla necessità di dar vita ad un federalismo di tipo cooperativo, che significa possibilità di avere occasioni non solo di confronto, ma anche di cooperazione nelle scelte decisive riguardanti la vita delle autonomie e, dunque, dei cittadini italiani.
Nel momento in cui si intraprende questa strada, che condivido pienamente, si deve individuare il luogo in cui la cooperazione si realizzi realmente. Se questo è il percorso, credo sia difficile immaginare quanto ha detto il presidente Bianco, cioè che si debba trattare di una Camera in qualche modo rappresentativa, di maggioranze e di minoranze, delle autonomie locali. Se di Camera delle autonomie si deve parlare, Camera delle autonomie deve essere fino in fondo e deve essere rappresentativa degli esecutivi: non può essere una forma di rappresentanza personale, deve essere una Camera che rappresenta le istituzioni.
Poiché questa è una pagina importante non solo per la definizione del Parlamento, ma anche per la definizione vera e propria del modello federale da costruire, vorrei che riflettessimo insieme in questa direzione, perché - lo ripeto - non si tratta di definire chi rappresenta i comuni, ma il ruolo che in questa Camera debbono e possono rappresentare le autonomie locali, ossia i comuni, le province e le regioni.
ENZO BIANCO, Presidente dell'ANCI. Poiché l'onorevole Bressa ha interpretato il mio pensiero in senso difforme dall'impostazione allo stesso sottesa, evidentemente mi sono espresso in maniera poco chiara. Io ho sempre parlato di esecutivi locali e regionali. Vorrei chiarire che pensiamo ad un Senato delle autonomie nel quale vi sia sempre una rappresentanza degli esecutivi regionali e locali.
TARCISIO ANDREOLLI. Credo che l'impianto complessivo proposto dai relatori per quanto riguarda i comuni e le province possa rappresentare un'utile base di confronto al nostro interno. Sotto questo profilo, ne condivido pienamente il contenuto e l'impostazione.
Ai rappresentanti dell'ANCI vorrei chiedere se ritengano che l'attuale assetto dei comuni sia idoneo a recepire le proposte da essi formulate; se, invece, costituisca un ostacolo oggettivo alla realizzazione del progetto configurato; se, infine, l'articolazione differenziata dei comuni risulti ininfluente ai fini delle possibilità di concretizzazione del progetto.
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Poiché questo tema non è stato toccato, vorrei sapere se riteniate di dover fornire una risposta specifica o se, invece, una risposta l'abbiate già fornita, nel senso di ritenere che l'assetto attuale soddisfi le esigenze prospettate.
DOMENICO FISICHELLA. Avrei bisogno di qualche chiarimento di fondo con riguardo alla logica delle istituzioni rappresentative, con riferimento cioè agli elementi basilari sui quali siamo chiamati a lavorare. Ho sentito parlare - traggo spunto da uno degli ultimi interventi, nonostante il discorso, in qualche modo, aleggi su tutto l'insieme della riflessione che la Commissione bicamerale sta conducendo - di una Camera «che rappresenta delle istituzioni». È evidente che un tale modello fa sorgere alcune questioni.
Anzitutto, si dovrebbe stabilire se coloro i quali fanno parte di una Camera che - ripeto - rappresenta delle istituzioni e, come tale, è espressa da queste ultime, siano rappresentanti oppure delegati. Va infatti considerato che il rappresentante in quanto tale rappresenta la nazione, mentre il delegato in quanto tale non la rappresenta. Inoltre, il rappresentante in quanto tale non è revocabile, mentre il delegato in quanto tale è o può essere revocato. Il rappresentante in quanto tale vota per capita, il delegato in quanto tale può essere chiamato a votare per corpo. Tutte queste cose le dobbiamo chiarire, perché attengono ai fondamenti, non ai giochi di ingegneria istituzionale sui quali ci possiamo esercitare in vario modo.
Si pongono poi altre questioni, come il problema del veto: un delegato, proprio perché tale, può essere titolare di un diritto di veto; se un'assemblea è composta da rappresentanti delle istituzioni, si pone o no il problema del veto? Quando è che le rappresentanze funzionano in questa maniera? Per esempio, quando vi sono dei grossi problemi di linee di frattura all'interno di una società, per cui si consente ai segmenti di una società così percorsa da linee di frattura di partecipare ai lavori di una qualche assemblea, ma in qualche modo facendo sì che ciascuno di questi segmenti possa salvaguardare la propria sussistenza attraverso il veto, talché certe decisioni non possono essere assunte se non vi è una tendenziale unanimità.
L'altra questione è quella delle quote, affrontata dai padri fondatori del federalismo americano: cosa significa avere dei delegati o dei rappresentanti? Questo problema è stato fondamentale nel dibattito del costituzionalismo americano: la lotta che i grandi padri - Hamilton e così via - hanno condotto per arrivare alla costruzione degli Stati Uniti è stata contro la logica della quota, in virtù della quale ciascuno Stato riteneva di potersi esprimere con un «pezzo» di sovranità, trascinando dietro questo tutta una serie di altri interessi. Nel federalismo americano, la lotta è stata per superare la logica della quota rinviando alla rappresentanza dei singoli soggetti, dei singoli cittadini, che in quanto aggregati attraverso il voto esprimevano poi una logica di tipo - come allora si diceva - patriottico, quindi generalistico.
Su tali questioni dobbiamo confrontarci ed esprimere delle valutazioni precise, perché altrimenti corriamo davvero il rischio, su questa seconda Camera nazionale, o su queste seconde aggregazioni a livello regionale, di dar luogo a degli ibridi che in qualche modo sono incoerenti con la logica della democrazia rappresentativa. Dobbiamo avere chiaro, allora, cosa stiamo facendo ed in questo senso mi permetto di porre questi interrogativi o chiedo, comunque, che queste mie affermazioni siano considerate altrettanti interrogativi dei quali la Commissione bicamerale e gli altri rappresentanti degli organi istituzionali qui intervenuti si facciano in qualche modo carico.
PRESIDENTE. Si stanno iscrivendo a parlare numerosi colleghi ed ospiti: ribadisco che, alla fine della discussione, vi sarà una possibilità di replica rispetto ai numerosi quesiti avanzati, ai quali tuttavia si può già dare una risposta nel corso degli interventi.
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SERGIO MERUSI, Sindaco di Novara. In coerenza con le linee guida fondamentali emerse dalla relazione di Bianco e di Panettoni, direi che uno strumento di garanzia delle funzioni degli enti locali potrebbe essere costituito dalla previsione costituzionale di una diretta individuazione da parte della legge generale di un nucleo minimo inderogabile di funzioni. Tali funzioni sarebbero dall'ordinamento riconosciute come proprie di comuni e province, a sottolinearne il carattere originario e indefettibile.
Fondamentale appare poi riconoscere in modo esplicito a comuni e province una generale titolarità di rappresentanza degli interessi delle rispettive comunità, a cui ricollegare il riconoscimento della possibilità per loro di esercitare tutte le attività strumentali allo sviluppo delle loro competenze e alla rappresentanza degli interessi espressi.
Si introdurrebbe così, in funzione di garanzia, un elemento di uniformità (le funzioni sono proprie di tutti i comuni e le province in tutto il territorio della Repubblica) e di garanzia, che attenui la differenziazione e la flessibilità che discende dall'esercizio del potere regionale di attribuzione.
Si tratterebbe di un elemento da collegarsi strettamente al complesso di funzioni e di servizi pubblici che le autonomie locali sono tenute a svolgere ed erogare a garanzia dei diritti fondamentali di cittadinanza, da riconoscersi in eguale misura per tutti i cittadini della Repubblica.
In risposta alla questione della numerosità dei comuni e della possibilità di valutare se essi siano in grado di far fronte a queste richieste, sono dell'avviso che debba essere esclusa dal sistema ogni possibilità di intervento coattivo dell'«identità civica», che segua una via di riordini territoriali generalizzati, alla ricerca di modelli di «comuni ottimali». Infatti, tali soluzioni sono incompatibili con una concezione del sistema delle autonomie basato sul riconoscimento delle comunità territoriali per quello che sono, secondo la loro provenienza storica, culturale, economica, sociale, e risultano assolutamente contrarie al principio di sussidiarietà.
Sono favorevole a che si faciliti il consorziamento di comuni attraverso l'individuazione di un'area ottimale di erogazione di servizi, che i comuni potrebbero, in un sistema consortile, erogare più proficuamente alle loro comunità.
Per quanto attiene allo sviluppo del sistema, non è sufficiente riconoscere la potestà statutaria regolamentare degli enti locali; occorre ridurre al minimo tutte le norme di rango superiore (leggi statali e regionali) che pongono limiti e vincoli alla disciplina dell'autonomia degli enti locali. A questo fine si potrebbero adottare le seguenti misure: affermare a livello costituzionale il principio che tutte le leggi statali e regionali distinguano tra norme di principio, inderogabili, e norme di dettaglio, cedevoli; prevedere eventualmente, con apposita disposizione transitoria, una revisione in questa direzione della legislazione vigente entro un certo termine, decorso il quale le stesse fonti di autonomia potranno individuare nella legislazione vigente le norme di principio.
Si tratterebbe di una vera innovazione nei rapporti tra fonti, che avrebbe un valore istituzionale di grande rilievo, in quanto ribadirebbe la pari dignità di ogni livello di governo democratico e avrebbe effetti pratici considerevoli su un'espansione del sistema delle autonomie; può essere poi esteso anche ai comuni e alle province il potere di ricorrere alla Corte costituzionale contro leggi statali o regionali invasive della loro competenza normativa. Analogamente, andrebbe riconosciuto a comuni e province il potere di sollevare conflitto di attribuzione nei confronti di attività amministrative statali o regionali che siano ritenute invasive della competenza amministrativa degli enti locali. In entrambi i casi, la legge costituzionale o ordinaria potrà prevedere forme di adeguata limitazione dell'accesso diretto alla Corte costituzionale, quale una preventiva valutazione di ammissibilità e rilevanza, anche in rapporto al carattere generale della questione sollevata.
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Questi sono i chiarimenti che intendevo dare.
SILVANO MOFFA, Sindaco di Colleferro. Signor presidente, onorevoli commissari, vorrei aggiungere brevemente qualche considerazione all'introduzione svolta dal presidente dell'ANCI Bianco, soffermandomi in particolare su due aspetti e cercando di dare anche una risposta all'interrogativo che è stato posto sul livello di gradimento delle associazioni delle autonomie locali rispetto all'attuale assetto dei comuni.
Credo che nell'ambito di una revisione della Carta costituzionale, anche tenendo conto di quello che parallelamente sta accadendo in tema di riforma della legge n. 142 del 1990 come processo di semplificazione amministrativa, non sia ininfluente affrontare la questione relativa al sistema complessivo dei controlli. È un tema che a noi sta particolarmente a cuore, perché senza dubbio l'esperienza di elezione diretta nata dalla legge n. 81 del 1993 sostanzialmente ha posto il sindaco nella condizione di avere una rappresentatività enormemente maggiore rispetto al passato, di vedere esaltata la sua figura di collegamento diretto con il cittadino, operando tuttavia in un contesto normativo vecchio, superato, imbrigliato in una burocrazia, che è esattamente la stessa rispetto al periodo precedente l'approvazione della legge n. 81.
Vorrei allora sottoporre come elemento importante di riflessione l'opportunità di concepire una riforma della Carta costituzionale che sia poi accompagnata da una vera riforma della burocrazia nel nostro paese; altrimenti, ho l'impressione che non riusciremo mai ad eliminare quei lacci e quei lacciuoli che impediscono lo svolgimento della vita amministrativa.
Abbiamo da tempo sviluppato una posizione comune sul sistema dei controlli: riteniamo che debbano essere esaltati quelli interni e ridotti fino all'annullamento alcuni esterni. Penso per esempio al comitato regionale di controllo, che non ha più ragione di esistere e costituisce veramente un orpello indigeribile, assolutamente inutile per l'azione amministrativa che deve essere svolta. Mi sembra che su questo punto vi sia una condivisione molto ampia, ma voglio sottolinearlo perché in proposito le autonomie locali si sono da tempo confrontate ed hanno raggiunto una posizione comune.
Il presidente Bianco poneva come elemento di riflessione il rapporto tra regioni e autonomie locali (comuni e province). Senza dubbio il problema principale è quello di trovare un elemento di equilibrio tra i vari poteri dello Stato, questa è la sfida maggiore di fronte alla quale questa Commissione si trova. Individuare livelli di equilibrio, a mio avviso, significa anche riconsiderare complessivamente qual è stato e qual è il modo di porsi del regionalismo nel nostro paese. Noi siamo su una posizione molto semplice e netta: riconoscere ed esaltare il ruolo delle regioni soprattutto nell'ambito legislativo significa accompagnare questa esaltazione di ruolo ad un riflusso netto delle regioni rispetto all'invadenza nel campo gestionale che ha caratterizzato le fasi più recenti della storia delle politiche regionali del nostro paese; significa anche, se vogliamo incardinare la nostra Carta costituzionale in un contesto che faccia riferimento alla storia, alla cultura, alle tradizioni, alla geografia della nostra nazione, aprire un dibattito - credo che questa sia la sede più opportuna - anche sotto il profilo culturale, per capire se l'assetto regionale sia coerente con le storie, le tradizioni, le culture, la geografia del nostro paese.
In proposito uso spesso un riferimento che mi sembra abbastanza calzante. Ci sono delle province italiane, nella Versilia e nel Salento, che hanno un'identità sicuramente maggiore rispetto a quella delle regioni nelle quali sono comprese. Forse allora una sfida culturale di grande livello sarebbe quella di andare a vedere se è possibile disegnare un nuovo assetto regionale su basi provinciali che abbiano un contenuto storico, culturale, geografico sicuramente più forte e più permeato rispetto alle realtà e alle comunità cui ci si deve riferire. Da qui discende una considerazione:
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mi sembra non si possano accettare poteri ordinamentali della regione nei confronti delle autonomie locali, degli enti immediatamente subordinati, altrimenti andremmo sostanzialmente a confliggere con la stessa tesi delle autonomie locali, che si basa su un potere statutario dei comuni, su una grande capacità regolamentare che consente, questa sì, di semplificare il tutto.
Voglio fare, infine, un'ultima considerazione sulle aree metropolitane. Anche al riguardo ci rendiamo conto che il disegno della legge n. 142 del 1990 era sostanzialmente fallace, perché immaginava di poter esportare un modello metropolitano unico per tutte le realtà metropolitane del nostro paese. Credo che vada fatta una riflessione profonda per capire quale sia il livello di governo metropolitano cui bisogna tendere, tenendo presente che l'interesse prioritario delle comunità è che i servizi siano gestiti al meglio e che l'intervento sul territorio sia fatto nelle migliori condizioni possibili. In proposito (lo dico, anche se oggi non è presente il sindaco Rutelli) non credo che sia di poco conto stabilire cosa vogliamo fare della capitale d'Italia. Non c'è dubbio infatti che siamo l'unico paese al mondo a non avere uno status speciale per la sua capitale. E non sarebbe ininfluente far discendere da quello anche il riferimento che facevo prima ai nuovi assetti regionali, perché uno status speciale di Roma capitale indubbiamente si ripercuote sull'assetto regionale, nel caso specifico su quello della regione Lazio.
Rispondo infine alla domanda che è stata posta. Io non capisco, in effetti, a quale assetto comunale oggi ci si riferisca. Se ci riferisce all'assetto dato dalla necessità di contemperare il livello politico ed il livello gestionale, sicuramente i problemi ci sono e sono grandissimi; ecco perché chiedevo con insistenza un'attenzione verso la riforma della burocrazia e anche verso l'applicazione del decreto legislativo n. 29 del 1993, che ha portato a delle conseguenze certamente rilevanti nell'ambito dei comuni italiani. Se invece il riferimento è al numero dei comuni, anche al riguardo attenzione: la realtà storica e culturale nel nostro paese è tale per cui i campanili esistono. Interpretare ciò in maniera deteriore è un errore, ma pensare di sopprimerli sarebbe un errore altrettanto gravissimo. Cercare invece di mettere insieme i campanili per poter gestire in comune i servizi questa sì è una strada da percorrere, una strada che nasce però dal basso, sulla base della consapevolezza e delle scelte delle comunità di base. Allora non mi preoccuperei tanto dell'aumento del numero dei comuni, quanto piuttosto di creare condizioni, anche di livello costituzionale, che consentano di mettere insieme più comuni per governare realtà e servizi di aree vaste.
MASSIMO VILLONE. Credo, presidente, che abbiamo bisogno dai nostri ospiti di qualche indicazione che non sia generica, perché qui, nel corso di qualche settimana, bisognerà scrivere dei progetti concreti. Le enunciazioni di principio, quindi, a questo punto servono a poco. Bisognerebbe aver chiaro in testa che cosa si vuole e che cosa non si vuole. Lo diceva poc'anzi proprio il sindaco Moffa.
Vi sono alcune questioni di fondo. Se parliamo di sistema federale, dobbiamo sapere che esiste un'ipotesi di sistema federale nel quale le autonomie locali praticamente sono inesistenti, nel quale cioè gli enti locali sono, come dicono gli inglesi, delle political subdivisions dello Stato federato. Questa è una lettura forte, ed è sostanzialmente il modello che sta sotto la filosofia e le proposte presentate dalle regioni (sia detto senza alcuna censura).
Poco fa è stata fatta una domanda: i poteri ordinamentali chi li ha? Perché, vedete, non è possibile che di per sé ce l'abbiano ciascun comune o ciascuna provincia. Questa non è una risposta. Allora, chi ce l'ha? Chi è che stabilisce la forma di governo dell'ente locale? Chi è che stabilisce il sistema elettorale? Chi è che stabilisce se l'ente locale ha o non ha risorse proprie garantite? Chi è che stabilisce se vi sono controlli sulle attività?
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Queste cose chi le decide? Secondo la lettura di cui dicevo, esse sono affidate alla normazione dello Stato federato, delle regioni nella nostra ipotesi (dobbiamo sapere che è così). Un temperamento è dato, per esempio, quando, in alcune proposte, si prevede l'istituzione di organi consultivi a livello regionale. Si ritiene che questa sia una garanzia adeguata, no? Vi basta essere in una consulta regionale, anche con parere obbligatorio, perché sia consentito alla regione stabilire, per esempio, che gli enti locali sono sottoposti a controlli ora regionali, e prima statali?
Una via più raffinata può essere quella di dire che queste garanzie vanno poste negli statuti regionali. Vi sta bene o non vi sta bene? Consentitemi: a queste cose bisogna dare risposte puntuali, perché a questo punto le affermazioni di principio non credo che siano più utili. L'alternativa qual è? Una previsione diretta, in Costituzione, di garanzie. Possiamo dire che questa è la sola via per avere un federalismo di regioni e di città. Questo è il principio generale; ma cosa mettiamo in Costituzione? Anche qui: volete una garanzia di partecipazione a processi decisionali o, in alternativa - mi pare infatti difficile che si possano prevedere tutte e due - una garanzia di autonomia statutaria, di potestà di autorganizzazione, di individuazione delle risorse (quali, dove e come)? Bisogna, a questo punto, che queste indicazioni siano sufficientemente precise. Chiedere tutto non serve a niente; opporsi a tutto non serve a niente. Diteci, quindi, cosa nella vostra valutazione è accettabile, cosa non è accettabile.
PRESIDENTE. Grazie per la chiarezza dei quesiti.
GIAN FRANCO CIAURRO, Sindaco di Terni. Signor presidente, onorevoli parlamentari, non sarei intervenuto in questa audizione perché mi riconosco compiutamente nella relazione svolta dal presidente Bianco, nonostante le nostre posizioni politiche siano diverse; credo, infatti, che ormai abbiamo tutti abbandonato - e mi pare che questa Commissione sia una delle sedi più importanti in cui ciò stia avvenendo - la logica delle appartenenze, per cui si deve essere per forza di parere contrario se si appartiene a schieramenti diversi. Dicevo che sono pressoché completamente d'accordo con il presidente Bianco (ci lascio un «pressoché» non per distinzioni di carattere politico ma perché ognuno può avere, dal punto di vista personale, qualche diversa accentuazione) e che però ho chiesto di intervenire sollecitato da importanti provocazioni - lo dico, ovviamente, nel senso più positivo - venute prima dall'amico, senatore Fisichella e adesso dal senatore Villone.
Prima di rispondere alle loro domande, però, vorrei svolgere un'osservazione di carattere metodologico e una di merito. Dal punto di vista metodologico è stato rilevato più volte che i diversi tipi di riforme che ci accingiamo ad affrontare (anzi, che la Commissione si accinge ad affrontare anche con il nostro contributo) sono strettamente interconnessi.
Riteniamo, in particolare, che il discorso sulla forma di governo non possa essere disgiunto da quello sulla forma di Stato e viceversa. Per dirla in termini più chiari, non pensiamo che si possa attuare una forma accentuata di federalismo e di autonomismo senza nel contempo rafforzare e rendere più stabile l'esecutivo e, al contrario, riteniamo che non si possa compiere un'operazione di rafforzamento dell'esecutivo senza contestualmente pensare ad un vasto decentramento del potere, per evitare rischi di carattere autoritario.
Il discorso che in questo senso ci accingiamo a portare avanti è quindi, almeno nella nostra visione, un discorso di contestualità dei due ordini di riforme, anche per evitare che si ricrei uno sbilanciamento. Onorevole presidente, lo sbilanciamento avvenne già dopo la Costituente, quando, essendosi creato con la Costituente uno Stato ad ordinamento regionale, come lo definì Vittorio Ambrosini, viceversa poi si tardò vent'anni ad attuarlo. Non è solo una questione di ritardo; il fatto è che nel frattempo si era riformato - come non poteva non essere
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- uno Stato fortemente centralistico, per cui quando poi si è proceduto all'istituzione delle regioni, queste sono apparse come un corpo estraneo che si inseriva in un tipo di Stato che aveva già raggiunto un suo equilibrio ed una sua logica. Non vorremmo che si ripetesse un'esperienza di questo genere, quindi a nostro avviso occorre portare avanti contestualmente i due tipi di riforma.
Sempre dal punto di vista metodologico, riteniamo molto importante che sia portato avanti quell'insieme di riforme che vanno sotto il nome di progetti di legge Bassanini, cioè il complesso di riforme che si riferiscono ad un insieme di revisioni normative a Costituzione vigente. Perché questo? Perché, come mi sembra sia stato rilevato in uno degli interventi precedenti, l'apparato burocratico degli enti locali, con l'insieme asfissiante di normative confuse e spesso contrastanti tra loro in cui ci troviamo ad operare, non può più andare avanti così. Va benissimo la riforma costituzionale, anzi è ancor più urgente ed importante, ma anche la riforma legislativa a Costituzione vigente è assai importante, ovviamente cercando di attuarla in maniera da non contrastare con le linee portanti, già abbastanza chiare e prefigurate, della riforma costituzionale. Ma credo che sarebbe sbagliato aspettare l'una cosa per il compimento dell'altra, perché si correrebbe il rischio che un eccesso di globalità porti anche ad un eccesso di oneri e quindi ad un'asfissia legislativa.
Un'osservazione di merito che mi pare importante è quella che fa riferimento al discorso del bicameralismo, sul quale soprattutto mi soffermerò (salutando il vicepresidente Elia che in queste cose è maestro), innanzitutto perché sotto il profilo culturale l'argomento mi interessa più di altri, inoltre in quanto la sollecitazione del senatore Fisichella era specificamente riferita al fondamento ontologico di questo discorso, a proposito del quale egli ha sollevato il problema della rappresentanza.
Credo che il prevedere un ramo del Parlamento che sia specificamente investito della rappresentanza degli interessi territoriali, di fronte ad un ramo del Parlamento principalmente investito della rappresentanza degli interessi che si esprimono con il voto personale ed indifferenziato dei cittadini, rappresenti un complemento importante e forse ineliminabile, se vogliamo veramente pervenire ad una forma di Stato che chiamiamo in qualche modo federale. Dico questo perché spesso, in Italia, ci incartiamo sulle parole: allora «federale» deve avere per forza un certo significato anziché un altro; se vogliamo abbandonare l'aggettivo "federale", facciamolo, però importante è intendersi sul suo significato. Ora, in tutti i tipi di Stato che, per convenzione anche culturale, definiamo federali, non è un caso che vi sia una forma di rappresentanza differenziata del territorio e dei cittadini. Non è strettamente la stessa cosa, ma mi torna alla mente la polemica insorta durante la Rivoluzione francese fra rappresentanza dei citoyens e rappresentanza dei bourgeois; qui si tratta di citoyens da una parte ma, dall'altra, non di bourgeois, bensì di territori, però in genere l'esigenza è importante negli Stati federali. Io mi permetto di aggiungere che essa è importantissima in Italia perché il nostro è un paese estremamente differenziato, in cui la rappresentanza territoriale acquista un rilievo straordinario, che si riflette sulla stessa unitarietà del paese. Questo è uno in quanto composto da cento diversità: è la nostra caratteristica, forse la nostra benedizione (qualcuno potrebbe considerarla la nostra maledizione), ma comunque si tratta della nostra caratteristica e dobbiamo starci dentro.
Ora, come si possa passare, dal punto di vista della rappresentanza territoriale, ad un ramo del Parlamento articolato in un modo o in un altro è la questione di fronte alla quale ci troviamo, senatore Fisichella, che dovrete risolvere se deciderete di prendere questa strada ed alla quale anche noi cercheremo di dare il nostro contributo.
Come sanno coloro che alla Camera mi conoscono, io sono figlio del Parlamento e come tale non mi piace molto un organo
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legislativo composto da pedine intercambiabili: un giorno arriva uno, un giorno un altro e per questo solo fatto li si chiama niente po' po' di meno che senatori (tra l'altro, ricordo la pompa che circondava un tempo, fin dalle origini romane, la qualifica di senatore). Quindi, io non sposo una tesi di questo tipo, però ciò che è importante nel settore - che dobbiamo trovare la maniera di redigere nella forma di un meccanismo accettabile (anche noi ne sottoporremo uno alla vostra attenzione) - è quanto segue. Il primo elemento è che vi deve essere una rappresentanza degli esecutivi per evitare che la seconda Camera diventi, un'altra volta, un duplicato della prima. È dalla Costituente che ci trasciniamo dietro il problema di evitare che un ramo del Parlamento sia il duplicato dell'altro e continuiamo tranquillamente ad essere in tale situazione; speriamo di uscirne, quindi occorre individuare i modi per farlo. Il secondo elemento, opposto in qualche modo al primo, ma da coniugare con esso, è che non dobbiamo rifare una conferenza Stato-regioni trasferita a livello parlamentare. Il rapporto fra gli esecutivi regionali e quello nazionale è utilissimo, ma la conferenza Stato-regioni non è un Parlamento; quest'ultimo è un qualcosa di assolutamente diverso e in proposito condivido l'opinione che debba avere, alla sua base, il principio della rappresentanza; ovviamente, dovremo trovare una soluzione nel senso di un federalismo italiano. Credo che dobbiamo stare molto attenti ad evitare di accettare acriticamente modelli diversi. Si parla degli Stati Uniti, ma il riferimento non c'entra niente; si tratta di un tipo di Stato completamente diverso, nato dalla confluenza di più Stati che avevano avuto una vita indipendente gli uni dagli altri e, a un certo punto, si sono federati. Infatti, nei dibattiti per la costituente americana, assumeva un enorme rilievo il problema del diritto di recesso, cioè di riconoscere agli Stati il diritto di recedere dalla federazione; è un problema che non ci riguarda e che non mi pare sia stato sollevato in tutti gli innumerevoli dibattiti sul federalismo.
DOMENICO FISICHELLA. Ma qualcuno sta ponendo il problema della secessione!
PRESIDENTE. Al nostro esame c'è una proposta di referendum per secedere!
GIAN FRANCO CIAURRO, Sindaco di Terni. Voglio dire, presidente, che non mi pare, salvo che le notizie in mio possesso non siano parziali o inesatte, che in questa sede vi sia una grande tendenza ad accettare il diritto di recesso: questo porrebbe in gioco l'unitarietà della Repubblica. La pongo allora come una mia tesi: non ritengo che il diritto di recesso sia un tema attuale perché siamo un paese diverso dagli Stati Uniti ed anche dalla Germania. Molti sono innamorati del modello tedesco; ma per quanto riguarda specificamente il problema di cui stiamo parlando, il Bundesrat, la seconda Camera tedesca costruita in un certo modo, ad avviso degli stessi costituzionalisti di quel paese rappresenta un modello in via di deperimento perché i partecipi a questo consesso non hanno grande interesse a frequentarlo, proprio per la limitatezza della loro autonomia rappresentativa. Per questa ragione l'organo deperisce: dobbiamo tener conto di tutto ciò nel momento in cui costruiamo qualcosa di nuovo.
In definitiva, per concludere su questo punto, dobbiamo trovare il modo di creare un modello italiano che consenta di avere un secondo ramo del Parlamento che sia ancora tale e non una mera delegazione (mi pare che l'onorevole Fisichella abbia usato questa parola) e di farlo in modo accettabile anche dal punto di vista della rappresentatività democratica: questo è il compito cui secondo me dobbiamo accingerci.
Un'ultima osservazione per rispondere alle domande del senatore Villone. Credo che l'ANCI abbia già coerentemente risposto alle stesse; comunque, intendiamo qui riaffermare, in primo luogo, che nel ritenere che la Repubblica debba articolarsi in diversi livelli di autonomia costituzionalmente garantiti, facciamo riferimento
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alla garanzia che, unica nel nostro attuale ordinamento, può offrire la Corte costituzionale. Pensiamo cioè che occorra evitare che i vari livelli di autonomia si sovrappongano, si confondano e diano luogo anche ad un neocentralismo da parte regionale; siamo soprattutto preoccupati, onorevole presidente, che a questo famoso ordinamento piramidale contro il quale siamo tutti schierati si sostituisca un ordinamento di venti piramidi più piccole. Si è detto che non è sostituendo Roma con venti rome che si risolvono i problemi dell'autonomia e del decentramento del potere. Quindi, la tendenza di molte regioni a vedere i comuni come entità ad esse subordinate è un modo di ragionare che ci trova completamente contrari; per rispondere concretamente, l'unica garanzia che vediamo a difesa dell'autonomia dei comuni e delle province nei confronti delle regioni è la possibilità di accesso diretto alla Corte costituzionale.
In secondo luogo, per quanto riguarda il sistema dei controlli, dico spesso che alle autonomie o ci si crede oppure non ci si crede. In questo secondo caso, va benissimo e il concetto è coerente; ma se ci si crede, non si deve pensare che il soggetto dell'autonomia, una volta lasciato libero, svincolato da controlli pesanti e causidici, combini un sacco di guai. Siamo usciti dalla tutela prefettizia; le nostre donne si sono liberate nel tempo dalla tutela dei mariti e dei padri, senza i quali non potevano compiere atti giuridici nel nostro paese (e non parlo di tanti anni fa). Quello della tutela è un concetto che non accettiamo più: i comuni e le province si rifiutano di essere organi sotto tutela di chicchessia. Il controllo dei loro atti, che rappresenta spesso un'indebita ingerenza, anche politica, nelle decisioni concernenti soltanto l'autonomia comunale e provinciale (sono stati fatti prima alcuni esempi in contrasto con il principio di sussidiarietà), deve essere soppresso come tale, puramente e semplicemente, senza arzigogolarci tanto intorno. Naturalmente, sindaci e presidenti di provincia saranno sempre soggetti alle leggi amministrative, a quelle contabili e, al limite, a quelle penali, nel caso in cui le travalichino; ma quello dell'esistenza di un tutore che dica ciò che si può e ciò che non si può fare è il punto di fondo sul quale il nostro dissenso è assoluto e radicale, anche rispetto al provvedimento sottoposto alla vostra attenzione dalle regioni.
Cercheremo di offrire in tutti i modi un contributo costruttivo e non soltanto negativo, vale a dire di trovare delle formule, che ci riserviamo di presentare; credo con ciò di aver esposto con chiarezza i capisaldi, i punti di fondo della nostra posizione.
ANTONIO BASSOLINO, Sindaco di Napoli. Ringrazio per l'odierno invito e sottolineo anch'io innanzitutto, come è stato fatto già dal presidente Bianco e dagli altri sindaci, l'importanza della sede e l'attesa esistente nel paese per profonde riforme istituzionali e costituzionali, per le scelte che si vanno a compiere e per i tempi in rapporto ai quali riuscire a produrre un cambiamento.
Vorrei sottolineare un elemento - cui il collega Ciaurro ha accennato un attimo fa - concernente il Parlamento e al quale io attribuisco molta importanza. Lo abbiamo visto in queste settimane a Milano. Il problema potrebbe estendersi, se non ne abbiamo tutti piena consapevolezza, prestando la massima attenzione a quanto può essere risolto, in relazione alla vita e al funzionamento dei comuni, a Costituzione invariata, anche prima delle riforme da decidere in questa sede.
Considererei dunque un gravissimo errore politico l'attesa ed il rinvio, aspettando orientamenti e decisioni di questa Commissione che devono riguardare ed investire altri temi esterni ai due disegni di legge Bassanini, che sono in Parlamento, ed anche ad una indispensabile riforma della legge n. 142 del 1990. Penso che in riferimento a tutti e tre questi provvedimenti sia indispensabile ed urgente muoversi in tempi brevi: mi riferisco alla riforma amministrativa ed al funzionamento quotidiano della macchina amministrativa, tema questo per i comuni e
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per i sindaci francamente non meno importante delle necessarie riforme costituzionali alle quali occorre procedere. Il caso di Milano mi è sembrato emblematico da questo punto di vista. Poi vi è ovviamente chi si assume onori, oneri e rischi e chi non se la sente, ma vi è la consapevolezza di un divario troppo stridente.
MARCO BOATO. Sindaco Bassolino, posso chiederle di specificare a cosa si riferisce quando parla del caso di Milano?
ANTONIO BASSOLINO, Sindaco di Napoli. Alla consapevolezza di un contrasto troppo stridente tra elezione diretta dei sindaci, livello di responsabilità e concreti strumenti, inadeguati rispetto all'elezione. Questo è il punto del quale dobbiamo avere tutti consapevolezza piena.
I due disegni di legge Bassanini e la revisione della legge n. 142 ci consentono di fare alcuni passi avanti. Poiché sono mesi che i disegni di legge sono in Parlamento (Camera e Senato) e sono state espresse volontà di rinviarli in attesa degli orientamenti che saranno assunti in questa sede, ci tengo a sottolineare che si tratterebbe di un gravissimo errore che dimostrerebbe che non ci si rende conto di quello che succede nel paese e dell'attesa molto forte di riforme immediate.
Ritengo - per aiutare la discussione lo dico in modo più netto di quanto abbiano fatto altri sindaci - che in un paese come il nostro occorra andare, per quanto riguarda la forma di Stato e l'assetto federalista, ad una soluzione molto equilibrata. Un federalismo esclusivamente o anche solo fondamentalmente regionale rischierebbe di aggravare l'attuale situazione di assetto centralistico dello Stato. Penso dunque che debba esserci un equilibrio molto forte e ciò significa: nessuna visione gerarchica tra i livelli istituzionali, anche perché - mi permetto di aggiungere - un'eventuale visione gerarchica non avrebbe alcuna corrispondenza nella realtà, in presenza di una forza delle cose, dei fatti e della storia molto più forte dei vincoli artificiali che possiamo introdurre. Quindi, nessuna visione gerarchica ed un equilibrio forte. Neppure in Costituzione deve esserci alcuna gerarchia di istanze e livelli governativi; dobbiamo avere relazioni funzionali, non gerarchiche e subordinate, tra i diversi e principali livelli istituzionali. Ciò significa dare, in Costituzione, ai comuni forma, dignità e parità costituzionale.
Ho letto gli atti relativi all'audizione dei presidenti delle regioni e mi permetto di aggiungere: federalismo cooperativo ed integrale, senza alcuna gerarchia e con parità costituzionale. In questo senso penso che non possano essere le regioni a decidere le competenze che rimangono loro e quelle che vengono trasferite ai comuni. Noi dobbiamo avere parità costituzionale e stabilire limpidamente per il Governo, per le regioni, per i comuni l'ambito delle responsabilità e delle funzioni (è importante per tutti e tre questi livelli). Dunque le regioni devono avere funzioni di legislazione e di programmazione, mentre la gestione amministrativa spetta ai comuni e agli enti locali sul territorio e deve esservi una distinzione netta e limpida tra legislazione, programmazione e gestione.
Non possono essere le regioni a stabilire quello che vogliono tenersi e quello che vogliono passare ai comuni; anzi, per esprimere fino in fondo la mia opinione, ritengo che su tutta una serie di materie e di funzioni che vanno dallo Stato ai comuni e agli enti locali, quello che spetta ai comuni debba essere trasferito direttamente, mentre alle regioni deve essere trasferito quello che compete loro, senza situazioni ibride che non ci aiuterebbero. Sono questi i passi avanti che dobbiamo compiere insieme ad una più attenta riflessione sulle città metropolitane, che sono un punto delicato del governo, sia pure a diversi livelli, con questo sforzo di positiva mediazione e di forte equilibrio tra i diversi gradi istituzionali, senza alcuna gerarchia.
MARCO BOATO. Signor presidente, colleghi ed amici, la maggior parte delle questioni è già stata affrontata e quindi il
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mio intervento sarà molto schematico; del resto è anche giusto che il dibattito tenga conto delle posizioni già emerse.
Non prevedevo di accennare alla questione cui ora farò riferimento, ma poiché il sindaco Bassolino ha posto in questa sede un problema che compete non alla Commissione, ma al Parlamento, di cui anche siamo membri, voglio sottolineare che convengo con lui sulla necessità di evitare interferenze e sovrapposizioni, ma di non bloccare il duplice processo avviato dal Parlamento di una organica revisione della seconda parte della Costituzione (compito che rientra nella competenza della Commissione) e del massimo, non di federalismo, bensì di decentramento dei poteri a Costituzione invariata (che ci compete non in quanto membri della Commissione, ma del Parlamento). Da questo punto di vista, vi può essere qualche problema di possibile interferenza ed è solo su questo terreno - credo - che vi può essere un rallentamento non nell'approvazione dei due disegni di legge cosiddetti Bassanini dal nome del ministro che ne è stato il presentatore, insieme al Presidente del Consiglio, ma nell'esercizio successivo delle deleghe. Ricordo che al Senato il provvedimento denominato Bassanini 2, alla Camera è diventato il Bassanini 1, essendo stato «rovesciato» l'esame dei due provvedimenti.
Il disegno di legge Bassanini riguardante le deleghe ora è all'esame definitivo - spero - del Senato (il presidente Elia mi ha appena confermato che martedì dovrebbe svolgersi la votazione finale) mentre l'altro disegno di legge Bassanini è ancora all'esame della Commissione affari costituzionali della Camera e dovrà necessariamente tornare al Senato, essendo state apportate alcune modifiche al testo. Vi è stato obiettivamente un rallentamento dell'esame dovuto al fatto che, mentre nella Commissione esiste una dialettica, e fino a adesso - mi auguro per sempre - si prescinde dallo scontro maggioranza-opposizione, perché tutti ci confrontiamo con molta libertà ed autonomia, nell'attività ordinaria del Parlamento tale scontro non solo è presente, ma lo è fortemente, in alcuni casi fino al limite dell'ostruzionismo.
Una questione analoga si pone per quanto riguarda la riforma della legge n. 142 del 1990, cui anche il sindaco Bassolino ha fatto riferimento. Egli incidentalmente, ha toccato un tema che lo riguarda anche come primo cittadino di Napoli, ma che interessa i sindaci delle principali città. Mi riferisco alla questione delle aree metropolitane, che è esattamente il nodo ancora oggi irrisolto che sta bloccando tutto. Debbo dire, però, che non è irrisolto soltanto dal Parlamento, ma anche a livello delle regioni e dei comuni interessati. Giustamente il sindaco Bassolino ha detto che è necessaria un'ulteriore riflessione sulla questione delle città metropolitane. Sta di fatto che quello è il groviglio che fino ad oggi non si è riusciti a districare, pur essendo una questione di enorme rilevanza.
Sia negli interventi svolti oggi sia - per altri aspetti - in quelli ascoltati durante la precedente seduta di martedì i problemi sono stati per lo più impostati non sulla base di una legittima identità politica di partito e di gruppo. Naturalmente ognuno ha la propria sensibilità politica, come ha ricordato il professor Ciaurro; tuttavia i problemi sono stati posti in base ai livelli di responsabilità istituzionale: i presidenti di giunta regionale, i presidenti dei consigli, i sindaci, i presidenti delle province ci pongono questioni che riguardano non il loro partito o la loro posizione politica, ma il loro livello di responsabilità istituzionale. Credo che ciò sia molto significativo dello spirito costituente che riguarda non solo la bicamerale, ma anche tutti coloro che si immettono all'interno di un processo in qualche caso rifondativo dell'ordinamento della Repubblica (non della Repubblica).
Da questo punto di vista ho trovato di grande interesse le riflessioni del professor Ciaurro sul problema del federalismo. In proposito chiederei anche ad altri colleghi ed ospiti che dovessero intervenire successivamente di definire il proprio punto di vista.
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Federalismo: tutti noi ormai usiamo con una certa libertà questa parola, con una certa elasticità, non dico con leggerezza. Nel momento stesso in cui affrontiamo il tema, si pone o si può porre la questione «incidentale» che il professor Ciaurro ha posto (apparentemente irrilevante, ma che non a caso ha suscitato - invece - una precisazione del presidente D'Alema): il problema del diritto di recesso (uso questa formula soft, per indicare invece un meccanismo dirompente dal punto di vista dell'unità nazionale). Evidentemente l'aspetto deve essere da noi tenuto presente in quanto Parlamento, perché poi la potestà di deliberare al riguardo spetta a noi. Sorvolerei, però, su questo punto: lo ritengo ancora indefinito; e della sua portata forse ancora non abbiamo piena consapevolezza.
Penso che l'affermazione ad ogni livello del principio di sussidiarietà sia comunque la questione cardine che accumuna tutti. In proposito credo che non si possa chiedere oggi ai rappresentanti dei comuni e delle province di definire un'organica riforma della Costituzione: altrimenti potremmo sciogliere la Commissione bicamerale. Se avessimo già definito le questioni - che sono state indicate, per esempio, con grande acutezza dal senatore Fisichella e per altri aspetti, in modo anche polemico, dal senatore Villone - non servirebbe portare avanti queste audizioni o il lavoro che stiamo svolgendo in modo serrato in questi mesi. Non c'è dubbio, però, che il punto fondamentale è il pieno riconoscimento - in Costituzione - del carattere originario delle autonomie locali: è il punto di partenza fondamentale. Altre questioni centrali riguardano la definizione - essenziale in Costituzione - dei poteri e delle risorse e l'inserimento in Costituzione (alcuni di voi ne hanno parlato) del diritto di accesso alla Corte costituzionale, sul terreno delle garanzie. Mi pare siano queste le questioni fondamentali.
È invece ancora aperto - e devo dire a mio parere ancora irrisolto -, il problema della rappresentanza, che attraversa tutti non solo e non tanto come forze politiche. Mi ha colpito - perché mi è capitato di dirlo al Senato nella X legislatura (quando ancora di questi problemi non si discuteva molto) - l'attenzione del professor Ciaurro sulla riflessione critica da anni in corso, sia in dottrina sia in politica, nella Repubblica federale di Germania in merito al depotenziamento del ruolo del Bundesrat. Credo che lei abbia giustamente attirato l'attenzione della nostra Commissione su questo aspetto, perché a volte si registra un'attenzione puramente formale al testo della Grundgesetz in materia di Bundesrat, senza verificare concretamente l'evoluzione dei processi istituzionali.
La questione della forma della rappresentanza a tutti i livelli è il nodo irrisolto che abbiamo di fronte, e tutto ciò che oggi sostenete e chiedete è in aperta contraddizione con quanto hanno detto e chiesto le regioni. È sufficiente ricordare questo per far capire che il nodo è ancora irrisolto e che dovrà essere dipanato avendo presente tutte le istanze poste e senza chiedere ai nostri interlocutori - che non a caso sono presenti in sede di audizione - di contrattare la soluzione. Dovremo prestare una grandissima attenzione alle questioni da voi poste, perciò chiedo agli ospiti che interverranno dopo di me di definire meglio l'ipotesi, che in me suscita perplessità, di un secondo consiglio regionale in rappresentanza delle autonomie locali, che vada ad affiancarsi a quello già esistente.
Ho una sola preoccupazione che sottopongo a voi, quella cioè che si complicherà, in modo forse inestricabile, il sistema della rappresentanza dei diversi poteri nel nostro paese: è un dubbio che sollevo e che affido al confronto odierno.
WALTER VITALI, Sindaco di Bologna. Tenterò di rispondere, come ha fatto il sindaco Bassolino, alle domande del senatore Villone, che sono risultate quanto mai opportune perché ci consentono di entrare nel vivo della problematica. Lo farò in modo diverso da lui, perché - come i miei colleghi sanno - in materia
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sono una voce fuori dal coro, essendo io più regionalista non solo per area geografica, ma anche per l'esperienza autonomista che caratterizza la nostra terra da un secolo e che ha dato qualche insegnamento.
Credo esistano due modi nettamente distinti per concepire la riforma costituzionale in cui è impegnata questa onorevole Commissione. Il primo - naturalmente mi riferisco alla forma di Stato - consiste nell'immaginare una maggiore autonomia delle comunità locali garantita dallo Stato centrale; il secondo modo - per il quale opto - fa perno invece su una reale riforma in senso federale dello Stato.
Se vogliamo evitare la prima strada, è necessario porre un limite costituzionale alle materie per le quali lo Stato centrale può istituire dicasteri. In proposito sono d'accordo con quanto ha sostenuto il presidente D'Alema introducendo la seduta odierna, ossia che occorre considerare insieme i processi costituzionali e quelli di snellimento amministrativo, perché se si vuole veramente mettere mano alla riforma dello Stato si deve pensare insieme alla sfera legislativa ed a quella amministrativa.
Secondo punto: in uno Stato di ispirazione federale le regioni svolgono un ruolo importante e centrale. Tutto sta a capire quale tipo di regione. L'errore che troppo spesso compiamo è di identificare le regioni di uno Stato federale con quelle attuali, che sono il frutto di una sovrapposizione di competenze rispetto alla situazione preesistente, per il modo in cui furono concepite.
Poiché è questa la tematica fondamentale, ossia il modo di organizzare la regioni, occorre pensare al fatto che nuove competenze, nuove funzioni e nuovi compiti delle regioni, derivanti da una ristrutturazione dello Stato centrale, possono essere attribuite anche con forme differenziate, «a velocità differenziata»; pensare, per esempio, ad un processo come quello spagnolo, per cui è necessario che le regioni dimostrino che tutte le funzioni amministrative sono affidate ai comuni ed alle province, per poter essere titolari di nuove funzioni. Questo è l'unico modo - credo - di concepire un processo che, comunque, non potrà essere immediato, uniforme e lineare su tutto il territorio nazionale.
Per quanto riguarda i poteri ordinamentali, la mia valutazione è meno drastica di quella dei colleghi. I comuni debbono avere certamente una garanzia costituzionale; però - vivaddio! - non si può introdurre la grande riforma ma, alla fine, non cambiare nulla. Credo quindi che si debbano introdurre modifiche a livello di Stato centrale, di regioni e anche di comuni. Questi ultimi debbono acquisire nuova funzionalità e maggiore capacità di rispondenza ai bisogni dei cittadini.
Quanto alle province, sono favorevole alla possibilità di differenziarne la forma. In alcune parti del paese, per esempio, potrebbero essere costituiti consorzi o associazioni di comuni; in generale, si potrebbero configurare forme diverse a seconda delle esigenze.
Infine, credo che il Senato delle autonomie dovrebbe essere rappresentativo delle istituzioni. Qualora ciò non fosse possibile, preferirei di gran lunga un'unica assemblea nazionale, cioè un'unica Camera, auspicando nel contempo la riorganizzazione del tavolo di confronto tra Governo, regioni ed autonomie locali, cioè una riorganizzazione delle attuali conferenze.
GIUSEPPE TORCHIO, Sindaco di Spineda. Alla domanda relativa alla polverizzazione degli 8 mila comuni, cercherò di fornire una risposta collegata a quella sorta di inerzia che caratterizza l'attuale situazione, inerzia alla quale il legislatore giustamente si preoccupa di porre rimedio. La dimensione riguarda l'80 per cento del territorio e più del 40 per cento della popolazione nazionale.
L'unificazione coattiva ha portato di fatto, dopo il 25 aprile 1945, alla rinascita dei vecchi comuni. Non possiamo, quindi, ripercorrere tale modello. In quest'ottica va ampliata la sfera di volontarietà ai fini dell'aggregazione sovracomunale di uffici
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e di servizi, introducendo una legislazione premiale ispirata ad una cultura della municipalità, oggi fortemente radicata e presente, soprattutto con riferimento al presidio elettivo. Si tratta di affermare un momento di forte visibilità (momento che è stato conservato, ad esempio, dal sistema francese), nel contesto di una tendenza fortemente evolutiva e dipartimentale, per quanto riguarda ad esempio, a livello provinciale, la gestione associata di una serie di servizi.
L'ANCI e l'UPI hanno presentato 6 convenzioni tipo finalizzate a consentire lo svolgimento a livello sovracomunale di questo insieme di attività. Oggi si pone un problema di vuoto che si registra, con riferimento al livello locale, in tutta una serie di organizzazioni territoriali. Penso, in particolare, alla questione della razionalizzazione scolastica ed al rapporto diretto provveditore-ministro, senza gli enti locali; alla questione della razionalizzazione sanitaria ed al rapporto diretto direttore generale-assessore regionale, senza gli enti locali; alla questione della razionalizzazione dei trasporti con un rapporto diretto ferrovie-ministero; alla questione delle poste ed ai tagli annunciati degli uffici locali, con un rapporto diretto tra direzione provinciale, direzione nazionale e ministero, senza nessuna possibilità di svolgere un ruolo effettivo. In definitiva, la rinegoziazione della partita legata ai servizi locali, per quanto riguarda i grandi enti concessionari di tali servizi a livello statale, anche in vista di una fase preannunciata di privatizzazioni, è fondamentale ed è legata alla necessità di far emergere servizi e responsabilità rispetto ai grandi investimenti fissi sviluppati sul territorio, nonché alla necessità di ovviare ad un crescente dissesto ideogeologico che comporta l'esigenza del mantenimento del presidio umano sul territorio.
Tutte queste esigenze dovrebbero essere contemplate in uno dei passaggi di riforma. Già si è parlato del disegno di legge Bassanini, come segnale forte del Parlamento a Costituzione vigente. Vi è poi il problema, che forse non è materia di questo tavolo, di evitare che gli enti locali immaginino una legislazione contro di loro, sull'omogeneità dei mandati elettorali, sulla rieleggibilità degli eletti e sulla questione legata alla composizione stessa degli organi, compreso il momento esecutivo, che dovrebbe essere assegnata agli statuti in un momento chiaro di autonomia locale.
La questione della seconda Camera regionale è stata posta nella domanda dell'onorevole Boato: ora, vi sono in questo paese campioni di federalismo, che spendono centinaia di milioni per annunci sui giornali, i quali all'interno della loro regione non attuano nemmeno un tavolo di consultazione con le autonomie locali. Noi vogliamo arrivare ad una situazione nella quale, dalla totale assenza di riferimento ai livelli locali, vi sia almeno una camera locale di consultazione, direi in questo caso obbligatoria, dei pareri, le opinioni, i voleri delle autonomie locali. Questo oggi non è garantito: quindi, la seconda Camera regionale non vuole sostituirsi in termini legislativi ma vuole porsi come momento obbligato in termini di consultazione delle realtà locali.
MERCEDES BRESSO, Presidente della provincia di Torino. Desidero intervenire su due questioni che riguardano sostanzialmente la tutela costituzionale delle province. Se è vero che nel nostro paese esiste una forte identità municipale, è altrettanto vero che esiste una forte identità provinciale, dimostrata non solo dalle fortissime lotte per la difesa delle province, o per l'istituzione di nuove province laddove non vi era una perfetta coincidenza tra l'identità territoriale e l'identità amministrativa, ma anche dalla forte coesione che gli stessi comuni sentono nei confronti delle province a cui appartengono. Non è un caso che vi sia un rapporto molto buono fra comuni e province ed invece un rapporto oggettivamente difficile tra comuni e province da un lato, regioni dall'altro lato, forse perché il rispetto dell'identità reciproca tra comuni e province è sempre stato forte. D'altronde, anche il rapporto di collaborazione e di aiuto da parte delle
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province nei confronti dei piccoli comuni è forte, anche se al riguardo andrebbe fatto un ragionamento per potenziarlo.
Al di là degli aspetti di identità, vi è peraltro un problema di efficienza del nostro Stato che deve necessariamente essere affrontato: nel nostro paese abbiamo trascurato i livelli operativi istituzionali, ritenendo in particolare che il livello intermedio, essenziale per la gestione di funzioni operative amministrative di area vasta, potesse essere una cosa qualsiasi. Ne è risultata una proliferazione incredibile di enti di livello intermedio: per esempio, esistono enti parco che hanno venti-trenta membri del consiglio di amministrazione, o del consiglio direttivo, e due o tre dipendenti. Enti di questo tipo, dai consorzi all'infinita serie di prodotti del processo di «entificazione» del nostro paese, rappresentano una struttura di governo senza responsabilità elettiva, quindi senza nessun controllo democratico attraverso l'elezione, con costi iperbolici. Si produce così una differenziazione delle regole di lavoro e dei contratti collettivi, un'assenza di mobilità fra un ente e l'altro; si ha in sostanza l'opacità e l'inefficienza della nostra struttura amministrativa e operativa, con i costi iperbolici e la confusione amministrativa di fronte ai quali ci troviamo. Crediamo che un ente intermedio solidamente ancorato in una difesa costituzionale e in precise definizioni dei suoi compiti possa rappresentare, così come prevedono almeno in parte i due disegni di legge Bassanini di cui si è già parlato, un momento di ricompattazione in un ente intermedio unico di tutte queste funzioni «sbriciolate» ed in quanto tali estremamente inefficienti, oltre che difficilmente accessibili per il cittadino. È evidente, infatti, che, man mano che la rappresentanza si «sbriciola», per il cittadino diventa sempre più difficile capire a chi debba rivolgersi rispetto ad una funzione operativa di area vasta.
Ritengo pertanto che sia estremamente importante il problema di fermare il processo di entificazione e ricomporlo in capo agli enti locali elettivi, ossia alle province e ai comuni, quando si tratti di operazione che più opportunamente può essere gestita in forma associata dai comuni e non attraverso una successiva costituzione di enti. Peraltro, la legge n. 142 del 1990 prevede una funzione di assistenza tecnica da parte delle province ai piccoli comuni, funzione che, tra ANCI e UPI, stiamo cercando di definire meglio (la questione richiederebbe tuttavia un chiarimento legislativo) attraverso sistemi di tipo convenzionale; la situazione sarebbe migliorabile - lo ripeto - attraverso un chiarimento sul piano legislativo oltre che relativamente al finanziamento e alle rispettive competenze; questo potrebbe consentire di risolvere il problema di una parte molto grande del paese: se è vero che la maggior parte della popolazione vive nei grandi comuni, è altrettanto vero che la maggior parte del territorio è in realtà controllato dai piccoli comuni, per cui i problemi di governo del territorio sono legati a carenze operative molto gravi, alle quali occorre dare una risposta.
Da questo punto di vista, se si vuole salvaguardare l'autonomia e l'esistenza dei piccoli comuni, occorre anche affrontare, attraverso una più precisa definizione dell'assistenza tecnica, la questione di come l'ente intermedio provincia possa supportare i piccoli comuni nella gestione delle funzioni tecniche che in parte consistente non possono essere svolte attraverso forme di tipo cooperativo, perché le dimensioni di questi comuni non lo consentirebbero. Basti pensare che normalmente dieci piccolissimi comuni dispongono, insieme, di dieci-venti dipendenti, per cui si resta sempre sotto la soglia minima di efficienza.
Suggerirei di rivolgere attenzione al problema dell'operatività dello Stato, in particolare a fronte dell'ipotizzato forte decentramento di funzioni amministrative, perché l'esistenza di enti locali intermedi «robusti», dotati di capacità operativa e competenza tecnica, diventa essenziale per far funzionare un processo di decentramento che altrimenti potrebbe rivelarsi letale, ossia tale da produrre un peggioramento e non un miglioramento della
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capacità operativa del nostro sistema. Ritengo pertanto che si debba rivolgere attenzione alla questione dell'ente intermedio, che spesso viene troppo facilmente trascurata nel nostro dibattito.
Infine, per le ragioni che dicevo, considerato il forte radicamento nell'identità collettiva del nostro paese delle identità comunali e provinciali, riteniamo che non sia corretto ipotizzare un sistema federale che affidi alle regioni i principi generali, l'ordinamento degli enti locali e anche la questione della loro dimensione: non esiste, a nostro avviso, un'identità regionale così forte da giustificare questo potere di vita e di morte da parte delle regioni sull'ordinamento degli enti locali, in una situazione in cui continuiamo a vivere in condizioni di forte concorrenzialità verso il basso da parte delle regioni nei confronti degli enti locali. Le regioni sono ovunque percepite dagli enti locali come sorelle matrigne: questo dà la misura della difficoltà di una riforma che concepisca come snodo principale del nostro Stato solo il sistema regionale.
ALESSANDRO STARNINI, Presidente della provincia di Siena. Vorrei riprendere la richiesta, avanzata dal presidente D'Alema, di mettere in luce le esigenze più che indugiare su affermazioni astratte di organizzazione istituzionale. Sono molto più interessato a riflettere sul modo in cui si possa governare efficacemente un paese moderno, complesso, industrializzato, piuttosto che a soffermarmi sui pur importanti principi della rappresentanza o della funzione delegata.
Avendo uno Stato sociale che si governa localmente e regionalmente e uno sviluppo delle politiche del lavoro promosse sempre più in questi ambiti - nei paesi complessi è così; anzi, tali ambiti tendono sempre più a interloquire direttamente non solo con lo Stato nazionale, ma anche con l'Europa ed il mondo - avvertiamo anzitutto l'esigenza di agevolarne nella misura maggiore possibile la flessibilità e la libertà di governo; di questo c'è infatti bisogno per far stare in piedi i servizi alle persone, nonché quelli allo sviluppo e alle imprese.
Mi chiedo quindi se nella revisione costituzionale non dobbiamo aver presente in modo particolare questa necessità e tutelare come affermazione di principio, ben più di quanto sia successo fino ad oggi, la libertà e la capacità fino in fondo di autorganizzazione e di autogoverno, non soltanto le competenze tematiche dei sistemi regionali e locali. Pur essendo scritto in via di principio in molte leggi del Parlamento, tutto ciò non è stato tutelato, irrigidendo la capacità di governo, facendo arretrare il paese e soprattutto facendo consumare tempo. Una delle esigenze che la società, i singoli e le imprese esprimono consiste proprio nel non essere più costretti a consumare tempo, poiché in questo modo si rallenta il paese (si potrebbero riportare mille esempi).
Questo vuol dire che abbiamo bisogno di più libertà e flessibilità, per esempio, nella capacità di governo delle risorse umane - viene qui il tema dei contratti nazionali (chi li fa, chi non li fa), della flessibilità nell'organizzazione del lavoro -, nella gestione fiscale, un tema da costituzione della Repubblica, che da questo punto di vista ha precisi limiti nella legislazione ordinaria. Viene poi la questione delle competenze, rispetto alla quale bisogna ribaltare la logica con riferimento non soltanto a quelle che restano allo Stato, ma anche all'individuazione di chi debba stabilire con quali strumenti ci si organizza, come si fanno i contratti, come si gestisce la flessibilità e via dicendo.
Governare un paese complesso come il nostro, a mio giudizio, comporta che il processo legislativo nazionale per essere efficace abbia bisogno di un confronto con chi governa i sistemi locali e regionali. Questo è, a mio giudizio, il problema vero della seconda Camera, non tanto quello della rappresentanza. A questo punto - vi dico la verità - a me non interessa molto stabilire se chi è nella seconda Camera sia delegato o rappresentante. A me interessa soprattutto che questo scambio, che questo
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confronto ci sia e funzioni, perché altrimenti noi avremo molti più limiti nell'attività di governo del paese. Ciò naturalmente comporta che tutti i livelli istituzionali abbiano garanzie costituzionali dirette, compresi le province e i comuni, e che l'ordinamento fondamentale di questi enti sia stabilito dal Parlamento della Repubblica federale, almeno per quanto riguarda i suoi caratteri sostanziali. Mi riferisco cioè ai sistemi elettorali, agli organi necessari, all'eliminazione dei controlli (al riguardo dobbiamo a mio avviso aprire una discussione reale non solo sui controlli formali ma anche sulla giustizia amministrativa, che a mio giudizio è in generale un residuo ottocentesco che non controlla nulla ma fa solo consumare tempo e denaro). Sono quindi necessarie garanzie costituzionali almeno sui punti fondamentali.
È stata posta una domanda, alla quale, in conclusione, vorrei rispondere. Si è parlato degli attuali comuni e degli attuali enti locali. Ebbene, ha ragione Vitali: c'è un problema di cambiamento e di innovazione anche per quanto riguarda l'attuale sistema, non c'è dubbio. E se occorre dare a tutti le garanzie costituzionali, compresi i comuni e le province, scorgo un ruolo fondamentale delle regioni nel disciplinare la cooperazione tra questi diversi livelli di governo locale. Naturalmente, sempre con le dovute garanzie, non cioè secondo un rapporto gerarchico, ma in presenza di un consiglio delle autonomie e così via: non si dovrebbe trattare affatto di un rapporto gerarchico.
Un'ultima osservazione sull'ente intermedio, e al riguardo non sono d'accordo con Vitali. La mia esperienza (sperimentata sia in Emilia sia in Toscana) è la seguente: un ente intermedio che non sia direttamente eletto non funziona, perché non è autorevole nel prospettare politiche di area vasta, di programmazione. Questo è il punto nodale. Abbiamo a che fare con 8 mila comuni: se dobbiamo spingere questo sistema verso una crescente cooperazione, ci vuole qualcuno che lo faccia. Questo è il compito fondamentale della regione e delle province, e per farlo occorre che l'ente in questione sia eletto, altrimenti non può farlo. Questa è la mia esperienza e questa è la ragione moderna dell'ente intermedio, diversa da quella degli anni venti o trenta in cui tale figura è nata.
FRANCESCO D'ONOFRIO. Presidente, il mio, più che un intervento, proprio per il compito che rivesto, insieme con il presidente Elia, di relatore del Comitato forma di Stato, è un momento di riflessione da parte mia sulle cose che ho ascoltato oggi e su quello che è stato detto martedì da parte degli esponenti delle regioni.
Noi dobbiamo discutere in vista di decisioni molto rapide, ha fatto bene il collega Villone a farlo presente. Non lavoriamo con i tempi ed i ritmi della Commissione De Mita-Iotti: nessuno intende superare il 30 giugno come termine per presentare le proposte di riforma. Il presidente D'Alema ha detto più volte che possiamo non essere in grado di farlo per ragioni politiche, ma non possiamo non essere in grado di farlo per ragioni di tempo. E andando a ritroso dal 30 giugno, nel Comitato forma di Stato ieri abbiamo stabilito di tentare di elaborare la nostra proposta complessiva entro Pasqua, almeno dal punto di vista delle proposizioni normative, in modo che sia possibile un confronto su proposizioni scritte e non più su parole. Questo tenendo conto che dopo Pasqua dovremo stabilire il raccordo sui quattro temi da trattare, che riguardano cose dette da voi anche oggi: il rapporto con la forma di governo, il rapporto con la struttura del Parlamento, il rapporto con il sistema delle fonti, il rapporto con le garanzie costituzionali. Ognuno di questi temi, che vedremo dopo Pasqua, pone un problema politico molto serio. Quindi, abbiamo pochi giorni nei quali lavoreremo intensamente. Questo per dire che stiamo giungendo al punto di conclusione di una riflessione che dura da anni.
Cosa vorrei mettere in evidenza in questi pochissimi minuti? Da un lato una
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preoccupazione, dall'altro un desiderio. La preoccupazione è che si giunga ad una riforma dello Stato con una insufficiente elaborazione culturale del senso del cambiamento che questo comporta. Infatti, anche quello che abbiamo ascoltato oggi, come quello che abbiamo ascoltato dai rappresentanti delle regioni l'altro giorno e come quello da noi detto in Parlamento - quindi non faccio distinzioni di gerarchia politica - risente in modo drammatico del modo in cui sono avvenute le cose: sono convinto che se ascoltassimo gli esponenti dei consigli circoscrizionali sentiremmo lamentare il centralismo comunale non meno di quanto si senta lamentare il centralismo regionale da parte vostra o quello statale da parte delle regioni o l'ossessione per Bruxelles da parte del Governo centrale. Dobbiamo uscire fuori da questa logica delle contrapposizioni per livelli territoriali e cercare di capire se vogliamo andare verso un sistema nel quale, cambiando quello elettorale, voi siete i primi esponenti di un sistema elettorale totalmente nuovo, quello dei comuni e delle province. Il sistema regionale è un ibrido come lo è quello nazionale. Dobbiamo quindi giungere, a conclusione di questa transizione, a sistemi elettorali complessivamente stabili e definitivi. Ecco perché considero la vostra opinione molto più legata all'esperienza concreta degli ultimi anni che non alle cose che ricordo di aver sentito dieci, quindici o vent'anni fa quando abbiamo stabilito il decentramento delle funzioni.
Perché, premesso che sono molto grato al collega Fisichella per aver posto il problema con molta precisione, mi preoccupa una insufficiente chiarezza di posizioni anche di cultura istituzionale? Abbiamo due strade di fronte a noi, anche se può darsi che alla fine sceglieremo una strada di compromesso. La prima strada che possiamo seguire è quella che ha portato il Parlamento nazionale a cambiare la legge elettorale, comunale e provinciale per consentire a sindaci e presidenti di provincia di governare le proprie città e le proprie province (lascio da parte la questione della legge siciliana che aveva alcune particolarità sue, quindi capisco le ragioni di giudizio diverso che essa può avere) con un mandato stabile nel tempo; voi siete infatti il primo esempio italiano di stabilità durata quattro anni, e alla stabilità chiedete che corrispondano mezzi, procedure e contenuti. Chiedete quindi di completare quella legge elettorale in termini di funzioni, poteri e responsabilità. Ma se scegliamo questa strada, il punto di equilibrio tra i singoli comuni e i comuni di ogni provincia, tra le province e le regioni non necessariamente deve condurre ad una forma come quella delle USL o delle comunità montane, che sono state i luoghi dove i comuni, in qualche modo associati per via partitica, cercavano di porre un interesse comune alla spedalità o alla politica della montagna, e la camera di secondo grado che hanno rappresentato normalmente non ha raccolto grande consenso.
Temo alcune ipotesi; come ha detto molto bene prima il presidente della provincia di Siena, l'esigenza della vostra partecipazione ai processi legislativi è altra cosa dalla codecisione di alcuni rappresentanti delle autonomie: se i comuni sono circa 8 mila, non esisterà nessuna camera regionale, in nessuna regione, capace di rappresentarli. Sarà altra cosa. Si rappresenteranno i comuni più popolosi, un po' di maggioranza, un po' di opposizione. Saranno cioè qualcosa di diverso dai popoli che hanno eletto quegli esecutivi. E lo stesso vale nei rapporti tra le regioni e il Governo nazionale. Rispetto ad una giusta esigenza che voi ponete, cioè come evitare la pura frantumazione e come stabilire il punto di eguaglianza - perché questa è la solidarietà rispetto al principio di sussidiarietà - vedo la tentazione di dare una risposta di tipo consociativo e istituzionale, che non escludo in via di principio ma che ritengo impropria dal punto di vista della transizione che stiamo attraversando. Ecco, vedo con preoccupazione la tentazione - per così dire - di trasmettere il bisogno di uniformità in forme organizzative e istituzionali che sanno di vecchio, del peggior vecchio. Non vi è dubbio,
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infatti, che i comitati di gestione delle USL sono un'esperienza negativa e credo che i consigli delle comunità montane (non le comunità montane in quanto tali) non rappresentino il miglior modo di tutelare le esigenze della montagna.
Vorrei allora che in tempi rapidi (mi rivolgo al presidente), quando avremo elaborato queste proposizioni normative, magari prima dell'integrazione con gli altri comitati, quindi prima di giungere a quelle conclusioni molto delicate sulla struttura del Parlamento, sulla forma di Governo, sulle garanzie e sulle fonti, si possa avere una sede, non fredda e formale come questa, ma una sede di autentico approfondimento, per capire la coerenza complessiva che può aver guidato il comitato sulla forma di Stato rispetto a quella che può aver guidato le vostre riflessioni, ritenendo che tutti vogliamo ottenere possibilmente un risultato migliore di quello che abbiamo alle nostre spalle.
Ultima considerazione. Come dicevo prima a Fisichella, da più di vent'anni, dal 1970 viviamo questa stagione di decentramento. Dal 1970 in poi siamo andati avanti secondo il principio in base al quale tutti i poteri pubblici, legislativi ed amministrativi, spettavano allo Stato; si sono decentrati dallo Stato alle regioni taluni poteri legislativi previsti dall'articolo 117 della Costituzione; sono stati progressivamente ampliati i poteri amministrativi di comuni e province con il decreto del Presidente della Repubblica n. 616, ma in una logica dal centro alla periferia.
Noi stiamo cercando di ragionare rovesciando questo principio costitutivo dell'ordinamento. Se andiamo davvero ad affermare che all'origine vi è il comune e al termine vi è lo Stato, tutta la logica del passato va rivista in senso critico ed in qualche misura va messa anche da parte. Se cioè il principio di sussidiarietà diventa il fondamento del nuovo ordine costituzionale, molti dei problemi che voi avete vissuto e vivete con difficoltà nei rapporti tra comuni e province, tra province e regioni e tra regioni e Stato andranno affrontati in modo totalmente diverso rispetto al passato; saranno problemi seri, perché il principio di sussidiarietà pone un serio problema di ordine costituzionale.
Vorrei che vi fosse più chiaro di quanto mi è sembrato in questa audizione che si sta tentando un rovesciamento del principio di ordinamento statuale; ciò non significa abbandonare l'unità della sovranità nazionale, che è un'altra cosa. Prima ho sentito parlare di sovranità ripartita: sono i poteri pubblici ad essere ripartiti, nessuno pensa di avere 8 mila sovranità in Italia. La sovranità nazionale è una cosa, la pluralità degli enti titolari di potere è altra cosa. Stiamo cercando di partire dal principio in base al quale il potere amministrativo nasce nella comunità locale e viene progressivamente trasferito al livello superiore quando necessario.
Se questo è il principio costitutivo, molte delle vostre preoccupazioni possono essere accantonate, ma non può esserlo l'esigenza che voi ponete. Ho voluto dire questo per evidenziare che stiamo lavorando con molta intensità e che i tempi sono molto più brucianti di quanto forse non sia apparso a voi.
PRESIDENTE. Ringrazio i partecipanti a questa discussione, che ha arricchito i termini del nostro lavoro e della nostra riflessione.
Non entro nel merito delle considerazioni. Condivido largamente quelle del senatore D'Onofrio. È evidente che dobbiamo andare ad un processo di innovazione molto profondo e forse anche liberarci di una discussione che in parte è iniziata, essendo condizionata - anche comprensibilmente - da un'esperienza non positiva. Il peso dell'esperienza non positiva del modo in cui si è sviluppato il regionalismo nel nostro paese, il ruolo delle regioni, sia pure con delle diversità, di cui d'altro canto si coglie un segno anche nel vostro dibattito, indubbiamente condiziona la discussione.
Bisogna fare delle scelte chiare da questo punto di vista, perché se si invoca la flessibilità occorre sapere che non è
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coerente con le tutele costituzionali, che introducono una rigidità; ciò è indiscutibile. Flessibilità organizzativa, ordinamentale: allora è l'ipotesi, che pure è stata avanzata, di fare perno su un federalismo regionale che poi in modo flessibile si autogoverna. La logica delle tutele costituzionali è sicuramente meno flessibile e comporta, a mio giudizio, una chiara distinzione di responsabilità, pena il rischio di creare un sistema confuso, che dà luogo ad un conflitto di poteri permanente, a cui non si rimedia attraverso meccanismi partecipativo-consociativi; un proliferare di bicameralismi, diciamo. Cerchiamo di liberarci di quel che abbiamo, per lo meno del bicameralismo perfetto, attraverso una netta distinzione di funzioni. Considero con terrore l'idea che noi usciamo dal processo di revisione costituzionale avendo reso ancora più confuso e lungo il processo delle decisioni per cui, nell'esercizio dei propri poteri, lo Stato centrale associa i processi legislativi, il sistema delle autonomie, che a sua volta si associa e così via.
Credo vi siano due logiche. La logica di un rigido principio di sussidiarietà comporta una chiara distinzione costituzionale di funzioni, di poteri, e un chiaro principio di responsabilità, per cui ciascuno esercita i propri poteri: certo, in una logica di collaborazione fra le istituzioni, ma anche di chiara distinzione di responsabilità, pena il rischio di un meccanismo decisionale confuso ed ancora più farraginoso e complesso di quanto non sia l'attuale. Si tratta, quindi, di scelte molto impegnative che dobbiamo operare, ma con una certa chiarezza. Penso che vi sia una logica istituzionale anche nel modo in cui si organizza il rapporto fra diversi livelli. Per esempio, mentre l'idea di un Parlamento, di un'Assemblea rappresentativa delle regioni federali in quello schema ha un senso, in uno schema in cui il principio di sussidiarietà si articoli già in Costituzione su vari livelli, con una distinzione di responsabilità, mi domando cosa possa rappresentare quel Parlamento federale, perché sembra molto difficile che esso possa rappresentare gli 8 mila comuni italiani: attraverso quali meccanismi? La rappresentanza finirebbe per essere di terzo grado, neanche più di secondo. A quel punto, si determinerebbe un rischio di deperimento, perché un organismo del genere difficilmente potrebbe controbilanciare la forza di un'assemblea nazionale eletta dal popolo, eventualmente ridotta nel numero dei componenti, e quindi pienamente rappresentativa, con una forza politica, con un meccanismo elettorale che l'agganci alla formazione di una maggioranza di Governo; avremmo un luogo che difficilmente può rappresentare un contrappeso istituzionale.
Credo che la discussione con i rappresentanti delle regioni ed oggi con voi ci abbia aiutato a mettere a fuoco le diverse scelte possibili, che a me pare abbiano logiche istituzionali diverse e si accompagnino logicamente anche a differenti soluzioni per quanto attiene al problema del bicameralismo. A me sembra infatti abbastanza difficile conciliare l'idea di un'assemblea di delegati di secondo grado con un modello istituzionale che concepisce il federalismo come attribuzione di responsabilità non soltanto alle regioni, ma anche alle province, alle città, sulla base di un principio di sussidiarietà che chiarisce già in Costituzione le diverse responsabilità. Queste ultime sono differenti, perché il potere legislativo non può essere assegnato se non alle regioni; vi è una diversità: pari dignità, sì, ma una chiara distinzione di funzioni; e tuttavia dentro tale logica, a mio giudizio, nascono anche certe conseguenze per quanto attiene all'organizzazione del sistema parlamentare. Io sottolineo l'utilità - ne parlavo al senatore D'Onofrio - di ulteriori momenti di cooperazione, di ascolto, che eventualmente avranno forme più rapide, meno formali, ritengo a livello del Comitato che si occupa delle questioni. Noi siamo un organismo di lavoro, con tempi di lavoro molto accelerati, come è stato detto; mi sembra importante che si stabilisca un canale diretto di consultazione, di ascolto, tanto più quando la
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consultazione potrà avvenire ormai su formulazioni, ipotesi, testi.
L'ultima considerazione che volevo fare riguarda la questione posta da Bassolino e da altri e che interessa solo in parte i lavori di questa Commissione: mi riferisco al problema del rapporto tra i lavori della bicamerale e l'attività legislativa ordinaria.
Credo che la questione sia già stata risolta bene e con equilibrio. Nessuno - se non per ragioni politiche - ha posto il problema in Commissione di bloccare l'iter legislativo delle deleghe che prevedono le riforme a Costituzione vigente. Allo stesso tempo, sottolineo l'importanza dell'impegno assunto dal ministro Bassanini a raccordarsi, nell'esercizio delle deleghe, con gli orientamenti che scaturiranno dalla Commissione bicamerale. Fare riforme importanti a Costituzione vigente mentre la Costituzione stessa sta cambiando comporta logicamente la necessità di tener conto degli orientamenti che riguardano la Costituzione che sarà in vigore, se vogliamo che queste riforme amministrative diano luogo a soluzioni durature nel tempo.
Non drammatizzerei la questione e mi dispiace che Bassolino non sia qui. Si tratta - lo ripeto - di un problema che abbiamo già risolto con equilibrio: il processo legislativo vada avanti e poi, nell'esercizio delle deleghe legislative, si opererà inevitabilmente un raccordo. Oltre tutto, i tempi previsti per le deleghe stesse consentono che la stesura definitiva dei provvedimenti collegati tenga conto delle conclusioni della Commissione bicamerale.
Da questo punto di vista, quindi, nessuno vuole ostacolare il processo di cambiamento ma logica vuole che il mutamento istituzionale orienti anche la riforma amministrativa; altrimenti si corre il rischio di avere un sistema amministrativo non in sintonia con il nuovo ordinamento e che quindi non servirà a niente.
Vi ringrazio.
La seduta termina alle 12.30.