RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 4

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La seduta comincia alle 10.10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Seguito della discussione generale sui progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.


PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione generale sui progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
Prima di dare inizio alla discussione, vorrei fornire alcune comunicazioni relative allo svolgimento dei lavori della prossima settimana che siamo ora in grado di programmare, essendo pressoché definitivo l'elenco delle richieste di intervento. Gli iscritti a parlare sono ventuno, il che ci consente di prevedere la conclusione del dibattito generale nella prossima settimana. La Commissione sarà convocata martedì pomeriggio, magari anticipando l'orario di inizio alle 15, con prosecuzione mercoledì mattina.
Le proposte conclusive di questa prima fase, che dovranno essere relative sia alla deliberazione formale in materia di stralcio (sulla base degli orientamenti che abbiamo assunto, dobbiamo stralciare le proposte su materie che non ci competono e restituirle alle competenti Commissioni del Senato e della Camera), sia all' organizzazione dei nostri lavori, cioè l'eventuale costituzione dei comitati e la nomina di relatori; penso quindi che sia necessario che l'ufficio di presidenza si riunisca martedì mattina alle 10 per arrivare a formulare, tenendo conto dell'andamento del dibattito, le proposte conclusive. In tal modo con la riunione della Commissione plenaria di mercoledì mattina potremo esaurire la prima fase del nostro lavoro.
Il quadro è quello di una discussione generale molto impegnativa e di una presenza molto larga, che credo ci offriranno gli elementi sui quali poi impiantare il nostro successivo lavoro.
Riprendiamo la discussione, iniziata nella seduta dell'altro ieri.


CIRIACO DE MITA. Onorevole presidente, vorrei svolgere qualche considerazione sulle procedure che lei ha ipotizzato e che immaginiamo di darci con riferimento all'esperienza che io ed altri colleghi abbiamo fatto nella bicamerale del 1992. Quella Commissione incrociò una difficoltà iniziale rilevante proprio perché l'oggetto dell'impegno della discussione rimaneva generale se non generico; infatti i lavori ebbero momenti di difficoltà, che suscitarono anche rilievi sulla procedura, quando per l'avvio del lavoro fu obbligata a determinare un ordine del giorno; dopo di allora il lavoro ebbe una certa speditezza e dagli atti risulta che in un tempo non lungo un insieme di proposte fu elaborato. Quella Commissione non ebbe esito felice perché tra le forze politiche l'accordo tacito che era intervenuto di fare le riforme e poi le elezioni fu sostituito da un improvviso ricorso al corpo elettorale.
Vorrei richiamare l'attenzione dei colleghi su tale circostanza perché temo che anche oggi questa tentazione in un certo senso permanga. Quando dico questo non faccio riferimento al dibattito in corso tra gli esperti, nella pubblica opinione, tra i commentatori, ma ad un'iniziativa sulla quale questo Parlamento sta discutendo:


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si tratta della cosiddetta legge Rebuffa, che trovo strana e singolare, perché se questo Parlamento maturasse la convinzione - e probabilmente la maturerà - di intervenire sulla legge elettorale, avrebbe una cosa sola da fare: affrontare appunto il problema della legge elettorale.
Decidere di rimettere la questione ad un tempo determinato e ad un'iniziativa fuori delle competenze del Parlamento introduce, a mio avviso, un ulteriore elemento di sostegno per quei parlamentari - ve ne sono - i quali immaginano che per affrontare e risolvere il problema del riordino istituzionale vi sia bisogno di una strada diversa da quella della Bicamerale. Involontariamente (non vedo l'onorevole Rebuffa ma vorrei dirlo comunque agli amici di forza Italia) quella che può apparire una forma di intelligente attenzione alla difficoltà che abbiamo di fronte potrebbe tradursi in una sorta di sollecitazione a non provvedere.
Del resto, il dibattito su questi problemi si svolge lungo due direttrici, la prima delle quali è quella di rinviare: tutte le volte in cui tali problemi vengono affrontati, si immagina una soluzione diversa; non a caso la cultura di coloro che invocano la costituente è in realtà una sorta di cultura del rinvio, quasi come un risvolto inconscio dell'intelligenza per cui, rendendosi conto della difficoltà, anziché risolvere i problemi li rinvia, come credo sia accaduto ad ognuno di noi allorché si doveva affrontare un esame universitario e si riteneva che il rinvio fosse la condizione per affrontarlo meglio, mentre in realtà era soltanto la condizione per non sostenerlo.
In ordine alla procedura, signor presidente, ho questa opinione; ciò spiega l'impegno non esaltante, stando a quanto leggo in ordine alle preoccupazioni di Bertinotti, sul dibattito generale. Debbo dire che in parte questo è vero, perché la discussione generale, pur con interventi pregevoli (li ho ascoltati con interesse ed attenzione) ha riproposto un grado di riflessione che si conosce già. Quindi, nel momento in cui si ascoltano cose conosciute, è inevitabile che l'attenzione si riduca.
Ritengo che coloro i quali si trovano qui - ma non solo loro - si vorrebbero impegnare ad andare oltre l'indicazione del problema; la discussione tra noi dovrebbe essere un po' più orientata a confrontare le diverse opinioni, in modo da giungere poi ad una decisione. Questo lavoro è stato fatto ed esiste già; del resto, la quantità delle proposte avanzate dimostra proprio l'esistenza di questa elaborazione. Ciò che manca è il modo in cui passare dalle indicazioni generali all'articolazione delle proposte, liberando la nostra discussione da un grandissimo rischio che è presente, che la pubblicistica ha registrato: mi riferisco alla tentazione di immaginare che una norma costituzionale sia risolutiva dei problemi.
Dobbiamo avere la consapevolezza che il riordino istituzionale al quale facciamo riferimento, in realtà, attiene in gran parte alla legislazione ordinaria ed un po' meno alla legislazione costituzionale e costituente. Certo, a livello costituzionale, vi è la necessità di adeguare norme, però ipotizzare che, dentro il riordino istituzionale, siamo in condizione di mettere norme che risolvano tutti i problemi è quanto di più astratto vi possa essere e di più difficile da realizzare si possa immaginare.
La mia opinione, allora, è che dopo la discussione generale - che ha interesse in quanto comporta la registrazione delle diverse opinioni - si debba articolare subito la discussione nei comitati; d'altronde, con riferimento alla legge che abbiamo votato, ritengo che le questioni da affrontare, tutto sommato, siano tre: la forma di Stato, il Governo e il Parlamento, le garanzie. Con quale criterio? Lei, presidente, ha detto che potremmo convenire sul far partire il momento decisorio dalla fine di aprile: io credo, però, che non sarà possibile indicare il tempo ed il modo di una decisione, perché le decisioni saranno progressive, si deciderà non una volta per tutte ma di volta in volta.

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Si potrebbe, se ritenuto utile, richiamare l'esperienza che abbiamo già compiuto: nella precedente bicamerale, si convenne che, se e quando il lavoro dei comitati incrociava questioni generali di principio che non si era in condizione di risolvere, si passava al loro esame in sede plenaria; in tal modo, liberati dalla questione di principio, il lavoro poteva procedere. Questo è avvenuto più volte, non una volta sola. Cito un esempio a caso: ipotizzata e definita una forma di governo, non è detto che essa non implichi altre questioni di principio; affermato un principio, infatti, non vi è un'articolazione tecnica che ne derivi come una logica deduttiva potrebbe lasciare immaginare.
Le questioni diventano complesse, anche per il lavoro dei comitati, perché chi si occupa della forma di governo e del Parlamento deve sapere che qualche riferimento al suo ambito di interesse lo ha anche chi si occupa del riordino dello Stato. I professori ce lo insegnano: quando si scrive un libro, si conviene sul fatto che vi sono capitoli nei quali le questioni si approfondiscono ed altri viceversa nei quali vengono richiamate. Mi permetto di insistere su questa preoccupazione. Il presidente dice che più intensa è l'aratura del terreno, più si potrebbe poi facilitare la conclusione: in base alla mia esperienza (ma evidentemente con tutti i limiti di chi immagina il futuro, per cui esprimo solo una preoccupazione e non ho minimamente la pretesa di indicare una via sicura) voglio avvertire la presidenza ed i colleghi dell'opportunità di meditare parecchio sulla procedura che ci diamo.
Passando all'esigenza di ascoltare tutti coloro che possono essere interessati alle questioni che dobbiamo affrontare, debbo dire che in effetti sono tanti; nella precedente bicamerale, le sollecitazioni furono infinite e fummo costretti a scegliere. Da quella esperienza, però, cosa ho ricavato? Che, verosimilmente, un confronto, un ascolto su un'ipotesi di proposta è utile. L'ascolto di opinioni, le più libere, le più, stavo per dire, stravaganti, rischia di ingolfarci in un lavoro di difficile conclusione.
Sulla scorta di questa esperienza, ma con scarso successo (mi auguro che in questa circostanza il successo sia leggermente superiore), mi ero permesso di suggerire, di ipotizzare, in occasione della votazione della legge istitutiva, insieme alla Commissione, una commissione di esperti, di personalità interessate. Per quale ragione? Perché rischiamo, nel dialogo che si organizzerà, di avere più rappresentanti di categorie, di interessi, di posizioni determinate che il concorso all'approfondimento di queste questioni. Fuori di un'istituzionalizzazione del raccordo, temo che coloro che potrebbero concorrere di più, dialetticamente, ad approfondire le questioni difficilmente verranno. Però, adesso questa è la procedura, ed io, quando le decisioni sono state assunte, non ho l'abitudine di metterle in discussione. Ma credo si debba immaginare quale possa essere il modo più utile. Allora faccio un esempio. Se la discussione con i rappresentanti nelle istituzioni delle autonomie dovesse far riferimento ad un'ipotesi di proposta, probabilmente la verifica, il riscontro sarebbe anche più utile: sarebbe più utile per chi deve parlare ed anche per chi ascolta. Viceversa, affidandoci ad una libera comunicazione, rischiamo di raccogliere una quantità di materiale che non credo ci aiuti molto.
Perciò, onorevole presidente, onorevoli colleghi, vorrei invitarvi a riflettere sull'avvio di questa procedura. E a questo aggiungo una considerazione di ordine politico, di ordine funzionale. Ho letto i giornali stamattina e ieri. Il rischio è che chi dal di fuori segue questi lavori possa alimentare - perché è molto più semplice parlar male che capire - una comunicazione di inconcludenza e di incapacità. Non è che questo debba condizionarci in maniera assoluta, però credo che commetteremmo un errore se immaginassimo di lavorare al riordino delle istituzioni non facendoci carico di un minimo di comunicabilità con la pubblica opinione.

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Questo raccordo, non necessario dal punto di vista della legge, viceversa è indispensabile dal punto di vista politico.
Sulle questioni che abbiamo affrontato dirò poche cose. Ho ascoltato con grande attenzione l'illustrazione delle posizioni sulla forma di governo. La mia impressione è che la difficoltà ad affrontare le questioni di riordino istituzionale a partire dall'inizio degli anni ottanta, che ha paralizzato la possibilità del Parlamento tutte le volte che qualcuno aveva idea di affrontare queste questioni, era conseguenza (a parte la cultura dei partiti, la non consapevolezza delle forze politiche del processo di corrosione del sistema politico) del fatto che il governo, i governi che si sono succeduti paralizzavano questa iniziativa. Se il Parlamento, qualche volta - è capitato -, ipotizzava di affrontare la modifica del sistema elettorale, il governo, mettendo il veto (perché minacciava di dimettersi, e dimettendosi il Parlamento non poteva funzionare), ha paralizzato questa attività. Quindi, nell'intelligenza comune più diffusa, si è immaginato che il problema centrale fosse quello del governo. Noi dovremmo liberarci da tale interpretazione perché è contingente; è vero che se non c'è un governo in carica il Parlamento non può funzionare, ma dobbiamo renderci conto che un esecutivo stabile e un Parlamento funzionante non risolvono il problema del riordino, problema che riguarda altro e soprattutto, a mio avviso, la forma di Stato. I colleghi Villone e D'Onofrio lo hanno detto ed io sono d'accordo; ma aggiungerei un'ulteriore considerazione. Ritengo che le questioni istituzionali di fronte alle quali ci troviamo siano di diverso ordine.
In primo luogo, mi riferisco alle istituzioni che consentono alle altre istituzioni di provvedere: e queste attengono all'esecutivo, al Parlamento ed alla legittimazione del governo e del Parlamento. Da tale punto di vista, la questione dell'esecutivo è rilevante, ma non è funzionale a rispondere a tutte le domande di riordino esistenti all'interno della nostra comunità. In secondo luogo, rispetto al venir meno, all'esaurirsi della forma di Stato accentrato - e in materia la nostra riflessione dovrebbe essere meno convenzionale -, ho ascoltato, ascolto e leggo quel che si dice su ipotesi di federalismo; per la verità, un po' tutti parlano di ridisegnare lo Stato con riferimento non tanto ai processi che si è chiamati a governare quanto ad un mitico, ipotetico modello di Stato astratto. Questo tipo di discussione mi richiama alla memoria più l'impegno del costituzionalismo astratto che non quello del costituzionalismo concreto. Noi faremo un buon lavoro e sono convinto che se lo affronteremo così le diverse opinioni non potranno essere elemento di rottura o di contrapposizione. Sul piano del riordino istituzionale, così come su quello politico, non vi sono infatti soluzioni-verità, ma soluzioni possibili, adeguate, funzionali; il metro di verifica non è l'astrattezza giuridico-formale, bensì il rapporto fra l'istituzione che si ipotizza e i processi storici che vanno regolati. Al di fuori della consapevolezza di tale raccordo, il discorso sulle istituzioni diventa non solo impossibile, ma inconcludente.
A mio avviso - l'ho già detto nei pochi minuti che in Assemblea mi fu concesso di utilizzare per intervenire sulla proposta di legge costituzionale istitutiva della Commissione bicamerale - il problema vero del riordino (non ce ne occuperemo, però ne dobbiamo tener conto) è quello della garanzia del diritto di cittadinanza all'interno della nostra comunità. La questione dello Stato sociale - oggetto di titoli di giornali, di discussioni, delle più diverse, delle più mutevoli prese di posizione (ogni mattina c'è qualcuno che propone una soluzione e il giorno dopo non ha alcuna difficoltà nel delinearne un'altra) - in realtà è la questione della democrazia in una società moderna più critica, più acuta. Questa conquista del diritto di cittadinanza accresciuto dopo il diritto di cittadinanza politica, di cittadinanza civile, questa formula di cittadinanza sociale indicata dagli studiosi ha messo in crisi non solo i conti dello Stato, ma la funzionalità delle assemblee elettive

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rappresentative, e tra queste il Parlamento. Quindi, quando discuteremo sul governo, sulla sua natura, la sua funzione, sul ruolo del Parlamento, se non ci sarà presente che il vecchio parlamentarismo è stato messo in crisi non solo dall'inconcludenza di certe procedure, ma anche da straordinarie conquiste che hanno configurato una forma di partecipazione democratica dei cittadini, affronteremo i problemi con un grande rischio. Questo rischio lo vedo nella nostra astratta preoccupazione di interessarci della forma di governo. Senza governo non si possono affrontare le questioni, ma noi, avendo recuperato tale preoccupazione, rischiamo di invilupparci - non so quanto consapevolmente - entro una logica diversa, che non è più quella di istituzioni che consentono la partecipazione. Sono queste le questioni della democrazia moderna, non solo di quella italiana. La democrazia vive di una condizione di decisione ma di un contrappeso di partecipazione, che è un equilibrio non definibile una volta per tutte, essendo un processo che continua. A differenza di ciò che leggo qualche volta e che tanti ripetono, vale a dire che la nostra Costituzione, essendo stata scritta cinquant'anni fa, andrebbe rifatta (ignorando che la Costituzione americana risale a molto tempo prima), io osservo che non a caso i romani, che ci hanno insegnato come si ordinano le istituzioni, sono andati avanti per trecento anni con le leggi delle Dodici tavole, senza avere bisogno di cambiarle. Ciò non nel senso di avere una società immobile ma nel senso che l'evoluzione dei processi lascia inalterato l'obiettivo e modifica i modi di comportamento. Le istituzioni che funzionano sono queste. Di questo dovremmo farci carico, evitando il rischio maggiore per noi, che secondo me rende un po' complicato il dialogo sulla forma di governo.
Ho ascoltato con molta attenzione le affermazioni che sono state svolte e sono rimasto sorpreso che in questa sede, nel corso della discussione, tranne l'ipotesi avanzata direi più per onore di firma che per convinzione della forma di presidenzialismo all'americana, si sia parlato su un'ipotesi di governo parlamentare. La logica avanzata è quella del governo parlamentare. L'idea dell'importazione delle istituzioni, quasi che fossero vestiti di moda, è la cosa più astratta che ci possa essere. La forma di governo parlamentare è moderna: l'idea che il progresso sia rappresentato dal governo presidenziale e l'arretratezza da quello parlamentare è quanto di più astratto e improprio vi possa essere. Si tratta di vedere come, nella realtà del nostro paese, questa istituzione di governo, con riferimento alla domanda di partecipazione oltre che di stabilità e di efficienza, possa essere risolta. Ma ciò evitando un rischio, che spesso emerge nella discussione, che fa riferimento molto più all'accentramento di potere decisorio anziché alla funzionalità. In presenza di una domanda di partecipazione - la crisi delle democrazie moderne è relativa ad una domanda di partecipazione, non di efficienza autoritaria - noi stiamo spostando il discorso, non so quanto consapevolmente, su un'organizzazione del potere funzionale a se stessa. Il senatore Miglio è il propagandista di questa forma di riordino: il potere per il potere, vale a dire la logica del potere funzionale alla propria sopravvivenza e alla propria possibilità di comandare. No, la democrazia esige un diverso tipo di istituzioni; quelle efficienti corrispondono alla tutela dell'interesse dei più. La democrazia vive se risolve questo problema, se inventa dei meccanismi che ci aiutano a risolverlo.
La legge elettorale - ed è l'ultima considerazione che svolgo - è un problema vero. Sono d'accordo con il presidente, a parte qualche perplessità. Definita la forma di governo e il ruolo del parlamento, ci troveremo di fronte al problema della legittimazione di chi è chiamato a governare. È opportuno, però, che ciò avvenga dopo. Non nel senso che non se ne possa parlare: il fatto è che cercare di fissare queste regole in precedenza ci porterebbe all'errore che abbiamo già compiuto nella precedente occasione, cioè all'illusione che introdurre

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un sistema di tipo maggioritario avrebbe risolto tutti i problemi. Ci siamo però dovuti accorgere che non era così. Viceversa, il problema potrà essere risolto adeguatamente quando avremo affrontato compiutamente la questione che viene prima: la legge elettorale, infatti, è funzionale alla legittimazione di chi deve gestire gli organi rinnovati.
Vorrei esprimere una sola preoccupazione, in merito alle considerazioni svolte dall'onorevole Nania e da altri colleghi. In proposito mi rivolgo a tutti: rischiamo di guardare alla legge elettorale con la preoccupazione non di individuare uno strumento utile per legittimare chi è chiamato a gestire le istituzioni, ma di affidare arbitrariamente al sistema elettorale l'obiettivo di risolvere la competizione politica. Siamo in presenza di un sistema politico frammentato, è vero, ma anche di una società politicamente pluralista. Dobbiamo sforzarci di individuare un sistema che conservi il pluralismo politico, ricchezza della democrazia moderna, ed elimini la frammentazione, con la consapevolezza che le istituzioni valide non si sostituiscono alla volontà di chi opera in politica, ma soprattutto sollecitano gli operatori politici a compiere atti e comportamenti, ad organizzarsi per competere efficacemente. Dovremmo liberarci da questa tentazione, che ho vissuto nella precedente bicamerale quando si discusse della legge elettorale. Non voglio fare riferimenti nominali, ma i protagonisti della conservazione della possibilità di rappresentanza delle minoranze oggi sostengono altre tesi.
Le istituzioni non si fanno mai per tutelare un interesse particolare: le istituzioni utili sono quelle volte alla tutela dell'interesse generale. Chi immaginasse di semplificare il sistema politico dentro la forzatura del processo di aggregazione commetterebbe, secondo me, un errore: la via utile è costringere gli operatori politici ad aggregarsi secondo ragioni di omogeneità e di convergenza politiche, lasciando libertà a chi si pone come un momento di vitalità potenziale - o reale - nel processo di dinamica politica che le società libere devono sviluppare.
Mi auguro - e lo dico rivolto a me stesso - che nel corso di questi lavori ciascuno di noi si ponga di fronte alle questioni con la preoccupazione di concorrere a risolverle. Ho colto questa riflessione anche nel discorso introduttivo dell'onorevole D'Alema. La Commissione riuscirà se ognuno di noi, indipendentemente dal partito di appartenenza (esistono vincoli culturali, sì, ma non credo vincoli disciplinari), si muoverà rispetto a questi problemi con lo spirito libero di chi vuole concorrere a trovare una soluzione. Questa è la condizione necessaria: guai ad irrigidirsi in posizioni precostituite.
Per esempio, non mi occuperò in questa sede della questione della giustizia, ma vorrei far riferimento a un criterio generale. Fuori di qui la nostra discussione è accompagnata da una demonizzazione delle posizioni contrapposte; la questione che apparentemente ci dovrebbe dividere di più riguarda la configurazione del ruolo del pubblico ministero. Ho ascoltato con molta attenzione le indicazioni sviluppate nell'intervento della collega Parenti; entreremo successivamente nel merito del problema, ma qualcosa può essere subito detto. L'impianto di quella riflessione ha una sua dignità di analisi: non può essere liquidato con un semplice parere favorevole o contrario, non mi pare sarebbe un modo serio di ragionare. Si configura, infatti, la difficoltà dell'obbligo dell'azione penale all'interno dell'ordinamento dato. Sui giornali di questa mattina ho letto che il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura pone lo stesso problema e pensa di risolverlo con la direttiva delle singole procure. Ciò dimostra che il problema esiste: questa, infatti, è la controprova dell'esistenza del problema. Allora, onorevole Folena - che indico come interlocutore per il solo fatto che egli ha ieri affrontato questo stesso argomento - mi chiedo se, con riferimento all'affermazione finalizzata a conservare il ruolo e la funzione del pubblico ministero nell'ambito dell'attività giurisdizionale, qualcuno,

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in questo periodo particolare, nel quale questa figura è andata assumendo le caratteristiche di un soggetto politico-giudiziario attivo, conosca un caso nel quale un pubblico ministero si sia fatto carico delle ragioni di un imputato. Mai, da nessuna parte...! Sono un attento lettore delle cronache ma non ho mai letto di un procuratore o sostituto procuratore che si sia fatto carico delle ragioni dell'imputato. Questo non mi porta a concludere in un certo modo. Dico solo che il problema esiste, il problema c'è...


CESARE SALVI. Folena lo ha detto!


CIRIACO DE MITA. Salvi, sto parlando dei giornali...


GIULIO MACERATINI. Un caso c'è, quello di Brescia, dove il pubblico ministero...


CIRIACO DE MITA. Voglio solo dire che il problema esiste. Se su tutte le questioni il dialogo tra noi fosse rivolto maggiormente alla ricerca di soluzioni anziché ad impiccarci a tesi precostituite, faremmo un buon lavoro.
Presidente, vorrei chiederle una cortesia tecnico-logistica per le prossime sedute. Le chiedo, in particolare, di far predisporre i banchi in maniera tale che, quando si parla, ci si possa vedere. In questo modo credo che lavoreremmo meglio, eliminando la sensazione di una persona che parla in solitudine, davanti ad una presidenza alta, che non sempre si ha la sensazione che raccolga.


ACHILLE OCCHETTO. Io non ti ho lasciato solo, ma ho seguito il tuo intervento voltando


PRESIDENTE. L'onorevole De Mita ha ragione. La logistica è dovuta alla cortesia di chi ci ospita. Ho chiesto invano di abbassare il banco della presidenza, ma pare sia impossibile farlo. Penso che una soluzione al problema posto dall'onorevole De Mita possa essere trovata accogliendo chi parla al banco della presidenza. A partire dalla prossima seduta, potremmo organizzarci in questo senso, sicché chi parla possa farlo rivolgendosi all'uditorio.


GIULIANO URBANI. C'è una sedia libera perché manca il presidente Tatarella.


PRESIDENTE. In assenza del presidente Tatarella...! Comunque, sistemeremo le cose in altro modo.
Proseguiamo nella discussione.


MAURIZIO PIERONI. Mi scuso con l'onorevole De Mita perché, essendo arrivato in ritardo, ho ascoltato soltanto la conclusione del suo intervento, tra l'altro voltandogli le spalle, quindi con questo limite logistico su cui ora stiamo riflettendo. Tuttavia, alcuni elementi della parte finale del suo intervento li ho colti ed intendo raccoglierli.
Presidente, ho l'onore di rappresentare in questa Commissione il gruppo dei verdi, notoriamente il gruppo politico più antico che esista sulla scheda elettorale di questo paese. Essendo il nostro simbolo comparso per la prima volta nelle elezioni amministrative del 1985, credo che il fatto di essere il più antico simbolo riprodotto sulle schede elettorali nel nostro paese rappresenti la velocità dell'evoluzione politica che quest'ultimo ha conosciuto negli ultimi dieci anni.
Al centro della nostra riflessione vi è qualcosa di più di una crisi di sistema, vi è la crisi dello Stato nazionale così come l'abbiamo conosciuto, talché nella sua introduzione lei stesso, presidente, ci ha chiamati a riflettere sui due fronti dell'alienazione della sovranità che lo Stato, così come l'abbiamo conosciuto, deve affrontare: l'alienazione verso il basso - mi scuso per la metafora verticale - nei confronti del sistema delle autonomie e l'alienazione verso l'alto nei confronti degli organismi sovranazionali, a cominciare dall'Unione europea.
Fondamentalmente la crisi dello Stato, così come l'abbiamo conosciuto, oggi si manifesta attraverso il sintomo dell'impotenza


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della politica (intendendo con il termine politica ovviamente la forma più alta sottintesa alla parola) e l'impotenza della politica crea un deficit di democrazia.
Conosciamo empiricamente l'impotenza della politica attraverso la nostra quotidiana attività parlamentare: costituisce ormai un luogo comune l'esempio dell'insofferenza del senatore Salvi quando il Senato si trova ad esaminare il decreto su Bagnoli ed i cento emendamenti ad esso presentati; pur con tutto il rispetto del diritto dei cento emendatori, la domanda che ci poniamo tra noi è se sia giusto e legittimo che il Parlamento sia il luogo in cui si discute di una questione pur così importante per ore ed ore o se invece essa non dovrebbe essere risolta in altro luogo ed altro contesto.
Al di là di quest'esperienza empirica fatta di numerosi ordini del giorno che presentiamo ai provvedimenti del Governo, sapendo che spesso sono destinati a rimanere gride manzoniane, ed anche al di là del nostro vivere a livello personale il mandato parlamentare spesso come impotenza a rappresentare il ruolo che i cittadini hanno voluto conferirci con i loro voti, un po' come criceti nella gabbia che girano, s'impegnano ma si trovano sempre allo stesso punto, c'è una dimensione molto più alta che sia nell'introduzione del presidente sia soprattutto nell'intervento della senatrice Salvato ho colto quando hanno fatto riferimento all'alienazione di sovranità dello Stato nazionale nei confronti degli organismi sovranazionali e, in particolare, dell'Unione europea.
Si discute molto della privatizzazione del sistema previdenziale, e questo accende rumorosi dibattiti al nostro interno, della privatizzazione del sistema sanitario, ma siamo di fronte a processi di portata ben più ampia: siamo di fronte, per esempio, alla privatizzazione del sistema delle risorse alimentari in dimensione planetaria, talché a volte mi chiedo, pur con il compiacimento che indubbiamente ciascuno di noi prova per il fatto di essere componente di questa Commissione, per il mandato autorevole che ad essa è stato conferito, se non sarebbe più legittimo occuparsi della ridefinizione dei meccanismi decisionali nella Monsanto o della Ciba Geigy, perché ciò darebbe l'impressione di poter incidere molto più a fondo sulla difesa dei diritti dei cittadini di questo pianeta sia nelle nostre società occidentali sia in quella parte del mondo, che è largamente prevalente, in cui più che a cittadini siamo ancora di fronte a uomini trattati al limite della massa umana.
Ebbene, uscire dall'impotenza della politica, pur con il rispetto - che non è rituale - alla dottrina ed alla scienza del senatore Fisichella, mi induce a pensare che abbiano ragione il collega D'Onofrio e, se ho ben inteso la parte finale del suo intervento, l'onorevole De Mita quando richiamano la nostra attenzione sulla forma di Stato come perno essenziale dei nostri lavori. Questa non è una valutazione di carattere personale, ma la scelta che i verdi come forza politica fanno nella loro presenza in questa Commissione. Sia chiaro, noi non intendiamo mettere in discussione la proposta di contemporaneità dei comitati di studio e di approfondimento, che consideriamo giustissima; quando parlo di priorità della forma di Stato non parlo di priorità cronologica, non intendo che questa Commissione debba prima dirimere la questione della forma di Stato per poi solo successivamente avventurarsi a discutere di quella di governo. Parlo di una priorità metodologica, perché se tra forma di Stato e forma di governo coerenza deve esserci, e non può non esserci, allora è inevitabile che la priorità della riflessione vada data alla forma di Stato. Altrimenti, mi pare difficile che si possa uscire dalla condizione dell'impotenza della politica, che in precedenza cercavo di descrivere per larghi e sommari tratti onde non rubare troppo tempo all'attenzione dei colleghi.
Ritengo che questa forma di impotenza della politica, che ho cercato di tratteggiare, sia quella che poi dà spazio alla riduzione della stessa a qualcosa di molto meno nobile. Non ho molte occasione di

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condividere posizioni del presidente Berlusconi, tuttavia ritengo che una sua immagine divulgativa sia efficacie nel rappresentare la nostra condizione - non per colpa dei politici, anche per colpa della rappresentazione che degli stessi viene data -; credo che l'immagine del teatrino della politica corrisponda molto spesso al nostro vano affannarci che resta lontano dalla vita quotidiana dei cittadini.
Ritengo che sia l'impotenza della politica a determinare il suo scivolamento verso forme di concertazione meno nobile, ossia di concertazione con altri poteri, in cui la politica - se mi si consente la metafora meccanica - anziché il motore diventa l'olio che fluidifica l'efficienza di altri poteri, o governo degli interstizi (ciò che gli altri poteri non occupano), o gride manzoniane attraverso l'iperlegificazione che poi non morde sulla realtà concreta dei cittadini (vedo il collega Rigo, immagine vivente del nord-est, annuire, forse comprende che cosa intendo).
La prevalenza della forma di Stato - se mi si consente un'ulteriore metafora meccanica - è la scelta di non cercare di mettere a regime un motore, che poi magari può cantare, aumentare il numero di giri, ma, se non viene ingranata la marcia, lascia comunque il veicolo ad arrugginirsi lì fermo dove era.
Non posso peraltro non concordare con il collega Elia; quando parlo della prevalenza della forma di Stato debbo riconoscere che ho ascoltato con estrema attenzione e molta condivisione il contributo dato alla discussione generale sia dal senatore D'Onofrio sia e soprattutto dal senatore Villone, che ritengo abbia messo in campo con la sua definizione di federalismo competitivo un'ipotesi di percorso su cui la Commissione può davvero procedere, anche per non ridurre i suoi lavori ad un'operazione di mera ingegneria costituzionale.
Abbiamo infatti l'affacciarsi sulla società civile di nuove domande di cittadinanza. Mi ricollego al concetto prima chiamato in causa dall'onorevole De Mita, ma in questo sono arrivato davvero in ritardo, per cui non so se il collegamento sia pertinente o assolutamente ardito. Abbiamo - dicevo - nella società civile italiana una forte richiesta dell'affermazione e dell'istituzionalizzazione di nuovi diritti individuali: i diritti alla differenza, i diritti dei minori, i diritti dei malati (non intendo prolungare la declinazione degli esempi), ma abbiamo una forte richiesta di nuove affermazioni di diritti comunitari. Questa Commissione non è abilitata per mandato istitutivo, ad affrontare la prima parte della Costituzione; non sono - si badi - un mitizzatore della società civile e non inclino alla mitizzazione giornalistica che di questa viene fatta, ma su questo fronte ritengo che, se non siamo in grado di rispondere a queste domande concrete dei cittadini, sarà veramente molto difficile ricostruire un rapporto tra i nostri lavori e la loro vita quotidiana e non rendere l'attenzione che i cittadini hanno verso di noi simile a quella che si ha verso un teatrino.
Non potendo, dunque, agire ed operare sulla prima parte della Costituzione, solo muovendosi coerentemente sulla forma di Stato, sugli aspetti di ridefinizione dei ruoli delle autonomie, sul superamento (su questo voglio affermare che i verdi condividono pienamente la linea dell'intervento del senatore Villone) del ragionalismo così come l'abbiamo conosciuto potremo far sì che questa nuova domanda di cittadinanza trovi risposta nei nostri lavori.
Devo peraltro convenire con una critica che agli assertori di una forte scelta federalista ha mosso il senatore Elia, quando ci ha fatto osservare, in primo luogo, che la codificazione di questa spinta è ben difficile e, in secondo luogo, come le nostre stesse proposte di legge (faccio eccezione forse per quella del CCD, che intendo esaminare con maggiore attenzione), quella del mio gruppo o quella del collega Villone, siano molto timide rispetto a quanto poi asserito nel dibattito generale. Ritengo però che le nostre proposte servano per aprire il fronte della discussione e che se su questo piano c'è concordanza possiamo davvero aprire con coraggio - quello che è stato chiamato in

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causa da molti interventi - una nuova frontiera in questa direzione.
Spero davvero che tutto ciò possa realizzarsi,non tanto nei confronti del sistema delle autonomie, cioè della forte scelta federalista, ma anche nei confronti della costituzionalizzazione dei nostri rapporti con l'Unione europea. Se di alienazione di sovranità si tratta - riprendo la domanda contenuta nella stessa introduzione del presidente e risollevata dalla collega Salvato -, nei confronti di cosa essa si esplica? Il fatto che oggi la cittadinanza europea sia per larga parte cittadinanza formale e non concreta possibilità di esercizio di un mandato politico rappresentativo è fuori discussione. Ritengo quindi che questo aspetto debba essere necessariamente chiamato in causa.
Debbo convenire anche per un altro motivo con l'impostazione degli interventi dei colleghi Villone e D'Onofrio, rispetto a quella propria del collega Fisichella. Il presidente ci ha più volte richiamati, nella sua introduzione, alla necessità di trovare larghe intese nei lavori di questa Commissione: larghe intese senza secondi fini (più volte è stata ripetuta questa espressione). Ora, noi siamo pienamente favorevoli ad un percorso che conduca a larghe intese: non si riscrive la Carta fondamentale della Repubblica italiana se non seguendo un percorso che ad esse conduca. Tuttavia l'esclusione di secondi fini non è dettata soltanto dall'intenzione morale: affinché non ci siano secondi fini è necessario che sia chiaro un primo fine, che può essere solo quello di delineare un assetto istituzionale adeguato alla forma di Stato che definiremo nei nostri lavori.
Concordiamo pienamente, rispetto al tracciato contenuto nell'introduzione del presidente, con la necessità di approdare ad un sistema bipolare, ad una democrazia dell'alternanza, ad un modello europeo occidentale. Non sembri strano che ciò venga asserito dal rappresentante di una forza politica che è nata e si è affacciata sulla scena di questo paese proclamando di essere né di destra né di sinistra e muovendosi alla ricerca delle più larghe trasversalità per i contenuti di cui si fa portatrice, che sono quelli ecologici tesi alla qualità della vita.
Quando la nostra forza politica si è affacciata sulla scena del paese - mi si consenta soltanto questa piccola punta d'orgoglio - rappresentava l'unico elemento di diversità e di novità in un sistema politico scleroticamente bloccato e la scelta della trasversalità, di una non collocazione geometrica nel panorama politico era l'unico spazio consentito per far emergere quei valori e quei contenuti di cui ci sentiamo portatori. In un sistema che si avvicina al traguardo delle democrazie occidentali, il nostro bagaglio di valori deve essere collocato nel quadro di una coalizione, di uno schema bipolare: su questo non abbiamo alcun dubbio. Non a caso parlo di «coalizione», accetto non a caso il confronto anche sul sistema elettorale e ringrazio la presidenza per aver aperto gli sportelli di questo armadio in modo che il confronto possa essere davvero a tutto campo, perché è chiaro che una forza politica come la nostra può accettare l'indicazione di un modello bipolare, di uno schema di democrazia dell'alternanza tanto quanto esso si fonda sulla contrapposizione di coalizioni che si radicano e si intessono fra loro sulla base di un contenuto programmatico e non ideologico.
Però vorrei esprimere l'unico elemento di differenza e dissenso nel modo in cui il dibattito si è sviluppato fino ad oggi nella discussione generale, soprattutto per quanto riguarda la questione della forma di governo. Abbiamo parlato di sistema bipolare e ci siamo, ne conveniamo; abbiamo parlato di democrazia dell'alternanza: ci siamo e ne conveniamo; abbiamo parlato dei modelli delle democrazie europee ed occidentali. Su tutto questo siamo d'accordo, ma ho l'impressione che circoli fra noi una tentazione di presunzione, la tentazione di un peccato di superbia. L'idea di giungere al traguardo delle democrazie occidentali (cosa che ci dovrebbe far presumere che non vi siamo) e nel contempo di emendarne i difetti ci sembra davvero un peccato di superbia,

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che potremmo poi far scontare al popolo italiano, e una tentazione assai pericolosa.
Sono d'accordo con il presidente: sistema parlamentare e sistema presidenziale sono sistemi democratici; non v'è dubbio che in Germania viga un sistema democratico, così come negli Stati Uniti d'America e nella Francia che oggi conosciamo. Però la tentazione in diversi progetti di legge relativi alla forma di governo pare quella di eccedere rispetto a questi modelli. In realtà, in molte proposte e in molti interventi si rinviene la confluenza di tre elementi che insieme fra loro non stanno in nessuna democrazia occidentale, in nessun modello europeo. Si vorrebbe, ad un tempo, la maggiore legittimazione dell'esecutivo, attraverso un mandato popolare - in questo momento lasciamo perdere la questione del mandato popolare al presidente o al premier, perché ha poca importanza - comunque si vorrebbe o un'elezione o l'indicazione diretta da parte del popolo del massimo rappresentante dell'esecutivo. Si vorrebbe d'altra parte - vedi la proposta Soda - un fermo legame tra l'esecutivo o il premier o il presidente (in questo caso il premier) e la sua maggioranza, onde evitare la trappola del sistema statunitense o di quello francese dell'anatra zoppa, della discrasia tra indicazione del premier o del presidente e maggioranza parlamentare, della convivenza, del dualismo, eccetera. Si vorrebbe, nel contempo, espungere ogni elemento di proporzionalità dal nostro sistema politico.
Badate, queste tre cose non stanno insieme in nessun sistema democratico occidentale. L'idea che si possa avere un premier o un presidente eletto direttamente dal popolo, che gli si possa blindare attorno una maggioranza parlamentare e che nel contempo non ci sia alcuna forma di rappresentanza proporzionale, sfido qualunque degli altri 69 commissari a rinvenirla in qualsiasi altro modello europeo, occidentale o democratico.
L'idea che noi abbiamo dei presunti difetti delle democrazie occidentali è curiosa; forse siamo abituati ai nostri momenti di crisi, che sono crisi di sistema, e non vediamo che quelli che consideriamo difetti dei sistemi democratici europei, invece, non sono nient'altro che valvole di sfogo, crisi di garanzia che consentono al sistema la sua fisiologia lungi dall'essere elementi di patologia.
Nel sistema francese, per esempio, il dualismo fra assemblea nazionale e presidente è quello che consente la democrazia dell'alternanza; ove non vi fosse questo dualismo, con ogni probabilità avremmo avuto una continuità di classe politica ininterrotta da trent'anni a questa parte. Il fatto che ci possa essere la contrapposizione è quello che poi porta al rovesciamento e al configurarsi - come nella situazione odierna - di una tale complementarietà tra presidenza della repubblica e assemblea nazionale che il presidente e il premier si vedono appoggiati addirittura dall'80 per cento dell'assemblea, perché questo ha voluto il popolo sovrano e perché a questo si è giunti attraverso un percorso di crisi fisiologica, quindi di coabitazione e di dualismo. Ove Jospin dovesse vincere le elezioni oggi, con ogni probabilità avremmo poi il passo successivo per l'alternanza.
Nel momento in cui non ci fosse più questa valvola di sfogo, è ben difficile ipotizzare che il ricambio della classe politica potrebbe essere altrettanto efficace. Non sto mitizzando il sistema francese: è il più lontano dalla mia cultura e non ho pudori a dire che è quello che assolutamente non vorrei. Quello che sto cercando di sostenere è semplicemente che non si può pensare di avere un premier eletto dal popolo e un sistema uninominale - in questo momento non ha alcuna rilevanza se a uno o a due turni - e nel contempo pensare di poter blindare una maggioranza per il premier così eletto.
Alla stessa maniera - rispondo ad alcuni osservazioni del collega Nania che oggi non è presente - nel sistema tedesco è fuor di di dubbio, quindi non c'è bisogno di indicarlo sulla scheda, che il leader del partito maggiore della coalizione diventa automaticamente cancelliere, ma ciò accade perché è altrettanto

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fuor di dubbio che le altre forze della coalizione sono rappresentate dal sistema proporzionale, quindi non devono delegare al premier della forza maggiore la rappresentanza della loro identità politica, e che il leader della forza minore della coalizione è il vicario del leader che assurge al ruolo di cancelliere. Non possiamo assolutamente permetterci di violare questo gioco di contrappesi e di equilibri senza commettere peccato di superbia.
Ritengo sia giusto il percorso che il presidente ci ha proposto, deve però essere affrontato con la piena consapevolezza che alla fine di aprile o ai primi di maggio dovremo orientarci verso l'uno o l'altro sistema. Ciò che ritengo sia da evitare è pensare di poterci orientare verso un sistema - sia l'elezione diretta o l'indicazione del premier oppure quello che garantisce l'espressione di coalizione in un sistema di alternanza - senza affrontarlo con logica conseguenza e pensando di ricorrere a mediazioni compensative successive che ne snaturino qualunque funzionalità. La mia preoccupazione di fondo - mi avvio alla conclusione - è semplicemente che la questione della stabilità, vissuta anche da noi come problema fondamentale, non diventi così pesante, nella nostra riflessione, da impedire che i cardini dell'alternanza girino. Altrimenti, si porrebbe in essere un sistema che risulterebbe inevitabilmente blindato.
Nel concludere il mio intervento, ritengo che, se adotteremo questo percorso, non cronologico ma metodologico, che vede al primo posto l'approfondimento dei temi che alla discussione generale hanno sottoposto in particolare i colleghi Villone e D'Onofrio, potremo affrontare anche la parte successiva della discussione con una serenità molto maggiore e senza la contrapposizione di veti incrociati.


NATALE D'AMICO. La tentazione del «benaltrismo», endemica alla politica italiana, comincia a manifestarsi anche nel nostro dibattito: mi riferisco all'opinione per cui ben altre sono le cose importanti, che credo sia un pericolo.
Vi è certamente una giustificazione: il Parlamento è al terzo tentativo formale di riformare la Costituzione, ma dobbiamo avere presente che cosa è cambiato per ragionare sulle probabilità di successo e forse anche sulle vie possibili per il successo di questo nostro tentativo.
Un fatto di cui credo dobbiamo essere orgogliosi consiste nella circostanza che rispetto al passato vi è una più ampia condivisione, nel Parlamento e tra le forze politiche, dei principi fondamentali su cui si basa la convivenza democratica; ne abbiamo avuto testimonianza anche in questo dibattito. I principi essenziali della democrazia rappresentativa sono condivisi da tutte le forze presenti in Parlamento e questa è una novità nella storia repubblicana.
Credo che si possa andare anche oltre, come ha affermato il presidente D'Alema e com'è emerso dalla nostra discussione: esiste una condivisione abbastanza ampia, se non dei contenuti della riforma costituzionale, almeno della direzione da intraprendere e degli obiettivi principali da perseguire.
Poi, come è stato ricordato, è cambiata la situazione di fatto: la spinta referendaria, la riforma elettorale del 1993, pur inadeguata (come è stato sottolineato), ha determinato un cambiamento del sistema politico ed inoltre l'Italia si trova a fare i conti con l'esigenza di riequilibrare una finanza pubblica che solo da pochissimi anni si è tornati a porre sotto controllo. Questo è un primo punto decisivo: di fronte all'unificazione europea, alla competizione globale, il nostro paese non riuscirà ad inserirsi in questi processi come protagonista se non si darà istituzioni all'altezza della situazione, istituzioni in grado di fronteggiare prima di tutto il difficile compito di riparare ai guasti del passato, poi di tenere il passo che impongono la maggiore efficienza e la maggiore competitività sistemiche. Puramente e semplicemente, non ci sono i margini per permetterci istituzioni così mal funzionanti.
Se ciò è vero, non è più tempo di studi, di accademia, di difese di posizioni di


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bandiera: è ormai il tempo della concretezza, tanto più che l'esperienza che abbiamo fatto, quella che possiamo trarre dall'esame comparato con gli altri paesi, così come il nostro dibattito, ci dicono con chiarezza alcune cose che cercherò di riassumere in talune affermazioni un po' apodittiche. Non esistono soluzioni taumaturgiche e parimenti non esistono soluzioni che si impongano in astratto come uniche. Operiamo su una materia che non consente di fondare le scelte sulla base di rigorosi principi di causalità, per cui «se si dà alfa ne consegue beta».
Per dire con parole diverse quanto è stato affermato, per esempio, dai colleghi Rebuffa e Fisichella (ma mi sembra anche dall'onorevole De Mita nel suo intervento di questa mattina), operiamo nel campo dei rapporti probabilistici, o più precisamente - così direbbe uno statistico - in quello delle probabilità soggettive. Se ci atteniamo a questa consapevolezza, dobbiamo trarne in primo luogo la conclusione che per i nostri problemi non esiste una sola soluzione che si debba imporre necessariamente; in secondo luogo, quel che conta più di ogni altra cosa è l'atteggiamento, la disposizione con cui ciascuno di noi affronta il suo impegno.
Sotto il profilo politico, mi pare si possa nutrire, sulla base dei primi passi della Commissione, qualche ragionevole ottimismo.
Il gruppo di rinnovamento italiano non farà mancare il contributo, senza indulgere nella tentazione di fare della Commissione la cassa di risonanza delle proprie opzioni programmatiche a detrimento della ricerca delle necessarie convergenze. Quindi, a cominciare da questo intervento, faccio mio il suggerimento del presidente: nonostante questo sia l'unico intervento del gruppo di rinnovamento italiano nella discussione generale, piuttosto che illustrare la nostra proposta, che è agli atti e che con la consueta solerzia e capacità gli uffici della Commissione provvederanno a rendere confrontabile con le altre, mi soffermerò su alcune questioni essenziali, provando fin da subito ad individuare alcuni spazi di possibile mediazione e sottolineando invece le questioni che, essendo legate agli obiettivi fondamentali, non possono essere oggetto di transazioni.
Ci auguriamo che, in questo lavoro di paziente ma non lenta ricerca di convergenze, nessuno voglia tirarsi indietro. D'altra parte, se trovare soluzioni sorrette dal necessario consenso è indispensabile, altrettanto indispensabile è trovare soluzioni di profilo alto, non furbeschi accomodamenti o pasticci, destinati poi a trovare ostacoli insormontabili in sede parlamentare plenaria. La possibilità che il nostro lavoro giunga a positivo compimento è legata non solo a fattori politici ma anche alla qualità tecnico-istituzionale delle scelte che proporremo. Sotto questo profilo tecnico-istituzionale, o meglio di strategia politico-istituzionale, occorre prima di ogni altra cosa avere chiari gli obiettivi che ci si deve porre e la scala di priorità sulla base della quale ordinare gli obiettivi; le soluzioni vengono dopo.
Gli uni e le altre, obiettivi e priorità, naturalmente derivano dall'analisi che facciamo della vicenda politico-istituzionale repubblicana e del processo di trasformazione del sistema politico avviato fin dai primi anni novanta, processo che riteniamo vitale portare a compimento nel tempo meno lungo possibile; e non ho detto breve, perché trasformazioni del genere non sono cosa che si faccia in poco tempo. Chi si è illuso di ciò e ha concorso ad illudere altri ha compiuto un serio errore.
Dunque, quali sono gli obiettivi e l'ordine di priorità che a nostro avviso si impongono? Li enuncerò in breve. La prima considerazione è che è aperto in Italia un serio e grave problema di efficacia e legittimazione del potere democratico: il nostro paese è l'unica grande democrazia che per ragioni storiche ben note non è stata in grado di affrontare e risolvere il problema della forza del governo democratico, che è il grande tema delle democrazie del XX secolo. Risolverlo non vuol dire risolvere tutti i problemi, come è stato ricordato: basta constatare che anche altri paesi manifestano una

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sorta di stanchezza democratica, ma il nostro caso è unico, dobbiamo averlo presente.
Si tratta allora di assicurare al paese la possibilità di darsi un governo forte: forte di poteri giuridici e forte di legittimazione politica, tenendo conto delle leggi fondamentali delle moderne democrazie, le quali tutte, in una forma o nell'altra, hanno appunto governi dotati di forza giuridica e politica, di ragionevole stabilità, in grado di sviluppare per un certo tempo minimo e con sufficiente coerenza l'indirizzo politico a suo tempo proposto agli elettori e da questi premiato; governi che rispondono prima di tutto davanti agli elettori, anche quando, come accade per esempio in Gran Bretagna, in Germania o anche in Spagna, sono governi di partito.
Si tratta nel contempo di rafforzare adeguatamente la funzione oppositoria, nella consapevolezza che ad essa deve essere principalmente affidata quella funzione di controllo sul governo e di proposta politica alternativa che non possono essere, in linea di massima e salvo eccezioni, le assemblee rappresentative a svolgere, per il buon motivo che da esse vi è da attendersi prima di tutto leale e ragionevolmente compatta collaborazione con l'esecutivo. Ciò impone soluzioni, come la possibilità per l'opposizione parlamentare di far istituire Commissioni d'inchiesta (già citata dall'onorevole Folena), di avere quote sia pur limitate di tempo parlamentare a sua disposizione e l'accesso diretto al controllo di costituzionalità. Anche noi, come ricordava il collega Rebuffa con riferimento alla proposta di forza Italia, prevediamo l'individuazione di una figura esplicita di capo dell'opposizione.
Gli obiettivi appena enunciati possono essere perseguiti in modo diverso ma, quale che sia la decisione che proporremo al Parlamento, in ogni caso si pone il problema specifico del ruolo del governo in Parlamento: questo problema potrebbe ridursi solo nel caso in cui optassimo per una forma di governo di tipo presidenziale a separazione tendenzialmente rigida dei poteri, cosa che mi pare del tutto al di fuori delle prospettive reali, sulla base dei progetti che le principali forze politiche hanno presentato). Dunque, il Governo deve poter contare non solo sul sostegno politico della sua maggioranza, ma anche su strumenti e istituti di diritto parlamentare adeguati (in materia di ordine del giorno, di tempi di approvazione delle sue iniziative, di prevalenza del Governo per tutto ciò che riguarda la finanza pubblica e così via). Il Governo deve inoltre essere tutelato dall'espropriazione dei suoi poteri che, in ultima analisi, è il frutto di un eccesso di produzione legislativa in materie che la Costituzione non riserva alla legge. Di converso, occorre chiudere definitivamente con la legislazione di urgenza e di emergenza che ha espropriato il Parlamento.
Occorre poi provvedere ad una rilevante redistribuzione di potere politico sul territorio, dallo Stato alle regioni e dalle regioni ai comuni; questa, fra tutte, non nascondiamocelo, è la problematica che, dal punto di vista della teoria e della tecnica istituzionale, si presenta oggettivamente come la più difficile. L'unica cosa che al riguardo voglio dire, rimandando come per il resto al testo del nostro progetto, è che occorre abbandonare immediatamente le contese terminologiche e andare sul concreto. Non nascondo, al riguardo, una preoccupazione: che dietro tanti improvvisati slogan federalistici vi sia molto gattopardismo. Confrontiamoci dunque subito sulle soluzioni concrete.
A questo proposito, non si può non richiamare subito la questione, lo si voglia o no, strettamente connessa della riforma del bicameralismo. Alla prova dei fatti, cioè alla prova delle proposte scritte, si sono già visti preoccupanti passi indietro; credo che qui siamo davvero davanti ad una delle cartine di tornasole della disponibilità a riformare le istituzioni. Credo che un punto debba essere pacifico: il bicameralismo italiano è un unicum da superare senza incertezze. La possibile giustificazione di una seconda Camera è oggi la possibilità di assicurare, attraverso di essa, la rappresentanza di interessi diversi rispetto a quelli politico-generali

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presenti nella Camera titolare del rapporto fiduciario e principale titolare del potere legislativo. Poiché l'esperienza corporativa nessuno credo intenda riproporla, la seconda Camera non può essere che la rappresentanza delle singole entità che costituiranno l'Italia non più centralistica di domani. D'altra parte, mi pare anche inopportuno fare della seconda Camera una sorta di cocktail di rappresentanze di natura e origine diversa: fare ciò vorrebbe dire davvero indebolirla in vista di un monocameralismo di fatto. Al contrario, ritengo che, come accade in gran parte, anche se non in tutti, degli Stati contemporanei, la seconda Camera non possa che rappresentare le unità subnazionali in cui la Repubblica si riparte e, meglio, le istanze di governo più che i consigli o i cittadini (altrimenti si rischierebbe di riprodurre una seconda rappresentanza di tipo solo partitico, della quale non vi è alcuna necessità).
A noi pare, infine, che non si possa perdere questa occasione per aprire esplicitamente la nostra Carta costituzionale all'Europa, sul terreno del recepimento nel nostro ordinamento di alcuni principi sui quali si basa l'edificio comunitario, sul terreno dei criteri per la delega di sovranità, sui criteri ai quali deve conformarsi la politica economica. È una questione delicata, anche perché rischia di travalicare in quella prima parte della Costituzione che, come ci è stato ricordato, è al di fuori del nostro oggetto sociale. Tuttavia, come ha avuto la cortesia di ricordare il presidente, abbiamo formulato nel nostro progetto una limitata proposta che va nella direzione indicata. Il ministro degli affari esteri ha scritto una lettera, che è agli atti della Commissione. Fin da questa discussione generale ci sembrerebbe utile conoscere il parere degli altri gruppi.
Tralascio di soffermarmi su altri aspetti della riforma, come la giustizia e l'accesso alla giurisdizione costituzionale, la cui importanza è ben rilevante ma sui quali il gruppo avrà occasione di ritornare. E vengo alla questione effettivamente cruciale della forma di governo. Di nuovo: si può affrontarla ciascuno magnificando le caratteristiche del proprio progetto, come facendo finta che anni di dibattito siano passati invano; oppure, la si può affrontare nello spirito autenticamente concreto e costruttivo di cui dicevo, e che è appunto quello a cui mi intendo attenere.
Seguendo la linea costruttiva, mi sembra difficilmente contestabile, al di là dei meriti di ciascun modello e di ciascun pacchetto di soluzioni proposto dai 185 progetti assegnati alla Commissione, che noi abbiamo di fatto davanti, oggi, solo due strade alternative per affrontare, nel contesto dato e nel rispetto (sia pure diversamente interpretato) della tradizione costituzionale del paese, il problema della stabilità, della continuità e della potenziale efficacia di governo democratico (potenziale, perché, come è ovvio, non bastano le regole).
La prima strada è quella che abbiamo proposto agli elettori, quella che è stata al centro del dibattito prima dello scioglimento della scorsa legislatura, quella che rinnovamento italiano ha formulato con il proprio progetto. Essa si fonda sull'idea di fare, di norma, della figura del Presidente della Repubblica-Capo dello Stato il punto di riferimento fondamentale anche dell'indirizzo politico, pur nel mantenimento del rapporto fiduciario tra governo e Camera politica. Questa soluzione comporta che il Capo dello Stato possa nominare il governo che da lui promana e che non abbisogna di presentarsi al Parlamento se non per illustrare il suo programma, ma senza necessità di chiedere la fiducia (il che significa, in casi eccezionali, la possibilità di governi minoritari); ma comporta, altresì, la possibilità che la Camera lo costringa alle dimissioni. In questo senso, il rapporto di responsabilità politica è sostanzialmente fatto salvo. Nel nostro progetto suggeriamo che, in caso di sfiducia ordinaria, anche la Camera sia sciolta ed il corpo elettorale sia chiamato ad arbitrare il contrasto implicito fra indirizzo presidenziale e indirizzo parlamentare; ma suggeriamo altresì che, in caso di sfiducia costruttiva (cioè di presenza in Parlamento di una maggioranza

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alternativa non solo negativa, ma positiva) non - ripeto: non - consegua lo scioglimento prima di un certo lasso di tempo (circa un anno), dopo di che il Capo dello Stato valuterà se sciogliere e rimettere la decisione al corpo elettorale oppure se accettare la coabitazione. In sostanza, lo scioglimento è potere presidenziale, come lo è attualmente, pur incontrando alcuni vincoli. Il secondo vincolo che immaginiamo è che la Camera appena eletta non possa essere subito sciolta; invece il Presidente neoeletto, se la Camera è espressione di equilibri politici superati, può, sciogliendola, chiedere ai cittadini se intendano adeguarla all'indirizzo di cui egli è espressione.
Questa è la strada che possiamo convenire di definire semipresidenziale; naturalmente occorre rendersi conto che una strada del genere fa uscire il Capo dello Stato da un ruolo di arbitro neutro ed imparziale per farne, in linea di massima, un garante attivo nell'indirizzo politico, designato dal corpo elettorale nel più politico dei voti. Quasi per inciso, e con riferimento al Capo dello Stato, voglio sottolineare che questa è l'unica sezione della legge elettorale, a nostro avviso, che potrebbe essere costituzionalizzata, prevedendo un sistema a doppio turno: ad esempio, che il Capo dello Stato sia eletto a maggioranza assoluta dei voti validi. Ho dunque apprezzato le considerazioni dell'onorevole Nania riguardo alla necessità di accelerare la transizione verso un sistema più compiutamente bipolare e alla necessità che, attraverso un doppio turno o altro sistema simile, gli elettori siano messi in grado di scegliere non solo gli eletti, ma anche i candidati.
La seconda strada, alternativa alla prima, punta a perseguire i medesimi obiettivi di stabilità, continuità ed efficacia dell'azione di governo, attraverso il rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio (vero e proprio premier) e del circuito cittadini-Parlamento-governo. È la strada che possiamo convenire (senza scendere in dispute terminologiche) di chiamare neoparlamentare; essa peraltro pone una serie di questioni ulteriori altrettanto decisive che vanno affrontate e risolte. Infatti, battere la strada neoparlamentare comporta l'esigenza di non riprodurre le condizioni che hanno creato il malfunzionamento del governo nell'Italia repubblicana; un risultato del genere si può ottenere in forme diverse ed è qui che questa soluzione neoparlamentare si divide, in realtà, in una pluralità di ipotesi diverse, tra le quali occorre lucidamente individuare quella che possa permettere di dare esiti migliori sulla base di un'attenta analisi dei costi e dei benefici. Si può puntare sull'investitura diretta del premier, che è maggioritaria per definizione fondandosi sulla diretta elezione da parte del corpo elettorale: ma essa comporta anche il rischio dell'affermarsi di un diverso, se non contrapposto, indirizzo politico nella Camera politica secondo quanto, per esempio, si è concretamente dato in Israele. Oppure, si può puntare su un'investitura indiretta del premier, ma ciò impone di legare insieme i due momenti della formazione della rappresentanza e dell'investitura del premier: così fanno infatti vari progetti. Il problema è fino a che punto realizzare questa connessione. Se essa è solo l'indicazione sulla scheda grazie alla quale gli eletti legati ad un certo candidato premier sono vincolati a votarlo, è chiaro che l'investitura indiretta può diventare diretta, di fatto, solo nel caso in cui una maggioranza si formi: senza di che - come implicitamente ma lealmente ammetteva l'onorevole Soda - tutto torna rimesso ai negoziati fra gruppi parlamentari e il corpo elettorale rischia di restare tagliato fuori. Se, invece, all'indicazione sulla scheda si uniscono meccanismi tali da assicurare, in un modo o nell'altro, che vi sia una corrispondenza fra scelta dei cittadini e investitura del premier (per esempio attraverso premi elettorali), si incorre nel rischio di un candidato eletto con meno voti popolari dell'altro (esattamente come nel sistema presidenziale statunitense): ecco che si consegue il risultato dell'investitura virtualmente diretta, ma si è costretti ad alterare il meccanismo di formazione della rappresentanza (come di fatto av

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viene già oggi nel caso dei due sistemi comunale e regionale, al di là della questione del carattere proporzionale o meno del meccanismo principale di trasformazione dei voti in seggi).
In ogni caso, quale che sia la strada scelta, è chiaro che i modelli neoparlamentari comportano forti ricadute sulla figura presidenziale, che non può che uscire del tutto dal circuito dell'indirizzo politico, perdendo tra l'altro il potere di scioglimento, che non può che essere affidato - con eventuali vincoli, da esaminare attentamente - al premier, come del resto è in tutte le vere forme di governo parlamentare.
Sono queste le opzioni di fondo che abbiamo davanti in questa materia. Rinnovamento italiano ritiene che la via più conveniente sarebbe quella semipresidenziale perché, a ben vedere e contrariamente a certe apparenze, più in linea con le tradizioni costituzionali del paese e, per certi aspetti, più flessibile e meno rigida. La soluzione neoparlamentare, per essere effettivamente una svolta, abbisogna al contrario di qualche rigidità in più, contro la quale si sono pronunciati autorevoli studiosi (penso per esempio al professor Giovanni Sartori e ai pericoli che con lucidità ha individuato nel nostro dibattito il presidente Elia). Ma, nello spirito che dicevo, siamo aperti al confronto.
Ciò che auspico, in conclusione, nel raccogliere i suggerimenti e le proposte operative formulati dal nostro presidente, è che su questo innanzitutto, ma anche sugli altri punti, i comitati che andremo a formare formulino per la Commissione plenaria ipotesi alternative fra loro: due, anche tre, ma al loro interno ragionevolmente organiche e coerenti. Quello che noi non possiamo proporre al Parlamento e al paese è un patchwork, una stoffa d'Arlecchino fatta di soluzioni e istituti appartenenti a logiche diverse quando non contrastanti fra loro, come frutto di occasionali convergenze su singoli punti (com'è avvenuto in parte, per esempio, per la giustamente criticata legge elettorale nazionale). Certo, non ci devono essere rigidità né, tanto meno, astratte purezze teoriche da inseguire; ma neppure può esserci, tanto più in questa materia, l'assurda casualità cui conducono a volte certi processi legislativi.
Questa è dunque la mia conclusione: scegliamo, ma scegliamo fra modelli che abbiano una loro minima coerenza interna.


FRANCESCO SERVELLO. Onorevoli colleghi, desidero fare innanzitutto alcune notazioni alla relazione introduttiva del presidente Massimo D'Alema, per rilevare che essa ha trovato vasta eco in una stampa che è stata unanime nel lodarne lo spirito ecumenico. La struttura di questa Commissione, pensata per rendere possibile il compimento del lavoro entro il 30 giugno, è impegnata nella definizione di un progetto coerente di riforma, superando i prevedibili e vivaci contrasti che emergeranno nelle discussioni.
In questo senso, il presidente si rammarica del fatto che «l'idea di tale intesa è sempre vista con sospetto da determinati settori, dall'opinione pubblica». Un'osservazione che comunque non gli impedisce di esprimere una personale professione di fede per la riuscita dell'impresa. Dice il presidente D'Alema di credere nelle intese e di credere che «noi siamo in grado di dimostrare che esse possono essere raggiunte in modo limpido, trasparente, nell'interesse generale del paese e senza secondi fini». Verificheremo presto, quando i dibattiti entreranno nel merito delle riforme, se questo augurio troverà fondamento nella realtà.
D'Alema dice che anche il nostro lavoro si dovrà svolgere «in un rapporto vivo con l'opinione pubblica»: proprio questo è il punto, perché bisognerà innanzitutto far sapere ai cittadini che l'obiettivo è non il raggiungimento di un qualsiasi accordo ma la definizione di una riforma coerente e vera. Bisognerà cioè far sapere agli italiani che le riforme di cui il paese ha bisogno dovranno essere non il semplice frutto dell'ingegnosità costituzionalistica, un fatto meramente tecnico, nonché riservato agli addetti ai lavori, ma una questione in cui sono


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strettamente intrecciati i principi ed i valori con i quali dovrà essere ricostruito lo Stato.
La linea efficientistica ed ecumenica che emerge dalla relazione del presidente D'Alema tende a limitare il discorso, conformemente - del resto - alla lettera della legge istitutiva della Commissione, alla revisione della seconda parte della Costituzione, con ciò escludendo il piano strettamente culturale e morale che, circoscritto alla prima parte, viene pur sempre coinvolto dal cambiamento degli istituti costituzionali.
Qui la contraddizione emerge nello stesso intervento di D'Alema, laddove il presidente auspica - per esempio - che si possa introdurre nella seconda parte della Costituzione l'impegno e la scelta dell'Italia di essere parte dell'Unione europea. Ma come può un tale impegno, che è culturale e morale insieme, essere inserito nella parte tecnica della Costituzione? È evidente che anche l'onorevole D'Alema avverte che nella vita italiana sono emersi valori e problemi che non potevano essere previsti dai padri costituenti.
Allora, visto che il presidente auspica l'inserimento della prospettiva europea nella Costituzione italiana, come si può non collegare questo stesso discorso al grande tema dell'identità nazionale, che pure è altra grande novità culturale e morale espressa dalla società italiana in quest'ultimo scorcio di storia? Ma parlare della nazione e della sua identità e coesione significa anche andare, inevitabilmente, alla prima parte della Costituzione, che non può essere un tabù ma che dovrà recepire - prima o poi - il valore di una concordia e di una coesione ritrovate. I temi dell'unità e dell'identità del paese dovranno essere in ogni caso affrontati, anche perché l'eventuale trasformazione dello Stato in senso federalista imporrà inevitabilmente le garanzie dell'unità nazionale.
Parlare dei principi e dei valori stabiliti nella prima parte della Costituzione non è, quindi, un capriccio o un irrigidimento ideologico, ma una necessità imposta dalla evoluzione stessa delle culture e dei principi che ha reso necessaria la riforma istituzionale. Non dovremo, insomma, soltanto disegnare le linee dell'architettura costituzionale: avremo il compito di cambiare anche la Costituzione materiale del nostro paese, quell'insieme di regole non scritte che hanno reso insufficiente la partecipazione politica e debole l'etica pubblica pratica in Italia.
Dovremo perciò rivolgere un'attenzione particolare anche alla scuola. La Costituzione non potrà mai funzionare realmente e durare nel tempo se non sarà accompagnata dalla formazione di una nuova cittadinanza. Sarà essenziale, in questa operazione, la funzione pedagogica, da affidare ad un'istruzione rinnovata, un'istituzione adatta a formare gli italiani di una patria ritrovata e di una Costituzione che appartenga a tutti.
Da questa premessa di ordine generale possiamo partire per considerare che una modifica della forma di Stato e dei rapporti fra i tre elementi dello Stato (territorio, popolo e poteri sovrani) deve innanzitutto tenere presenti le peculiarità dello Stato la cui forma si intende mutare.
Prima ancora, tuttavia, si rende necessario determinare alcuni postulati che costituiscono la base comune dalla quale dobbiamo partire tutti noi - al di là delle differenze di concezione politica -, senza la quale si rischierebbe di condurre un dialogo tra sordi. Ritengo che questa base comune non possa non essere la riaffermazione della volontà di esistere dell'Italia come Stato nazionale, che riconosce a se stesso un compito necessario da adempiere nel concerto degli altri Stati nazionali e soprattutto nella Comunità europea. Corollario di tale presupposto non può non essere l'unitarietà dell'Italia come soggetto politico internazionale.
Onorevoli colleghi, nell'accingerci a modificare la forma dello Stato italiano dobbiamo tener presenti le sue peculiarità geopolitiche e storiche, specialmente quando si fa riferimento a modelli di altri Stati, per verificare se tali modelli si adattano al nostro Stato, se la loro adozione - sia pure corretta - contribuirà a risolvere e non, invece, ad aggravare le

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cause della nostra crisi attuale. Ebbene, sotto questo profilo dobbiamo tener presente che la nazione italiana - intesa come aspirazione delle genti della penisola italiana a vivere insieme per adempiere un compito comune - costituisce una delle realtà socio-politiche più antiche del continente europeo. Rispetto a questo dato va tenuto presente che il ritardo nella costituzione dell'Italia Stato unitario sia dovuto non solo, ma soprattutto, alle interferenze straniere prima ed alla sottomissione politica a potenze straniere poi. Da secoli, pertanto, l'Italia è oggetto di un programma di condizionamento da parte di altri Stati, prima solo europei e - dopo la seconda guerra mondiale - non solo europei, che sono interessati ad indebolirla o a neutralizzarla come soggetto autonomo di diritto internazionale. Queste vicende hanno provocato profonde lacerazioni nel tessuto sociale della nazione italiana; hanno creato nuclei di interessi regionalistici e di aree territoriali, specialmente lungo i confini e nelle isole, i cui titolari hanno sempre tentato di impedire il realizzarsi del progetto unitario. Una volta realizzatosi quest'ultimo, fortunosamente e con costo di sangue, hanno operato con continuità e con l'ausilio di forze estranee per far fallire l'unità, soprattutto cercando di differenziare, accentuandone le peculiarità, le varie parti del territorio; cercando di contrapporre alla coscienza nazionale le coscienze etniche; cercando di convincere gli italiani ad accettare determinati stereotipi circa le loro attitudini in ordine alla capacità produttiva ed organizzativa, alle loro attitudini militari; in sintesi, cercando di convincerli che tutte le loro doti potrebbero valorizzarsi e che tutti i loro problemi troverebbero l'unica soluzione possibile nel separarsi, mentre l'unica fonte di tutti i loro mali sarebbe nell'infondata presunzione di poter vivere insieme.
Il richiamo di questi dati ha la funzione di proporli come criterio di giudizio per le diverse proposte di riforma istituzionale relative all'adozione di modelli federali, presidenziali, di decentramento amministrativo e di autonomia locale. Il modello federale è stato proposto in questi ultimi anni e, significativamente, per la prima volta da quelle formazioni politiche classificabili genericamente con il termine «leghismo» che, pur essendo chiaro fin dall'inizio quale fosse il loro programma finale, solo in questi ultimi mesi hanno rivelato la loro esplicita volontà secessionistica che li ricollega direttamente a quei nuclei di interessi particolaristici che nel passato hanno prima cercato di ostacolare l'unità e poi di farla fallire; sicché, tali interessi si rivelano non una reazione all'attuale crisi, ma una causa non secondaria della crisi medesima. Rivelatrice di questo indirizzo è l'intervista al senatore Miglio pubblicata sul Corriere della Sera di oggi. Comunque, di federalismo tali forze hanno tanto parlato che ormai è difficile trovare soggetti politici che non propongano modelli di riforma in tal senso.
A questo punto occorre esaminare alcuni dati. Il modello federalista nel mondo è in diffusione o in regresso? Il modello federalista risponde alle esigenze di uno Stato moderno, attuale? Il modello federalista riguarda esclusivamente il titolo V della Costituzione in via di riforma, oppure intacca altre parti, soprattutto i principi fondamentali di cui agli articoli 1 e 12, che a ragione dobbiamo considerare sacri ed intangibili? Il modello federalista contribuirebbe a risolvere oppure ad aggravare i problemi della nostra governabilità, della nostra amministrazione e, soprattutto, il problema dell'esistenza dell'Italia come soggetto politico internazionale unitario?
Accennerò, nell'ordine, ai singoli interrogativi e, per ragioni di tempo, sarò sintetico. Il modello federalista, laddove si realizza nei casi più tipici, come negli Stati Uniti ed in Germania, o costituisce lo strumento per unire realtà politiche prima distinte (Stati Uniti), oppure viene imposto d'autorità dai vincitori ad una nazione che lo rifiuta, come è accaduto in Germania. Negli Stati Uniti, a parte il fatto che il vincolo confederale, dopo la guerra di secessione, dovette trasformarsi in federale, si assiste, nei successivi emendamenti

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che segnano l'esperienza costituzionale di quello Stato, ad un progressivo spostamento di competenze dagli Stati federati allo Stato federale. In molti settori di materie rimasti agli Stati federati si verificano, specialmente in questi ultimi tempi, fenomeni centrifughi, che corrodono la monolitica coscienza nazionale statunitense, alla quale fa da granitico baluardo il sistema presidenzialista.
Il Canada, recentissimamente, ha corso il rischio della secessione del Quebec, in quanto i poteri degli Stati federati possono essere usati anche a questo fine.
Il federalismo tedesco, come tutti sappiamo, oltre ad essere stato imposto alla nazione tedesca, tant'è vero che essa è tuttora retta da una Legge fondamentale e non da una Costituzione nel senso proprio del termine, non può considerarsi un vero e proprio federalismo, in quanto il diritto del Bundestag prevale su quello della Camera dei Laender e quest'ultima non ha una rappresentanza diretta delle popolazione dei laender, in quanto è costituita da ministri di questi. Anche in Germania, in ogni caso, alcune competenze vengono progressivamente spostate dai laender ai poteri centrali.
La Francia, uno Stato la cui funzionalità amministrativa permane indiscussa ed indiscutibile, ha una struttura tradizionalmente accentrata. La Svizzera, per la sua esiguità territoriale, non può considerarsi un modello di peso internazionale, quale lo Stato italiano deve ambire a riconquistare.
Quanto alla rispondenza del modello federalista alle esigenze dello Stato moderno attuale, occorre tenere presente alcuni dati di fatto. Anche volendo mettere da parte velleità programmatorie a lungo periodo (un'esigenza molto sentita della quale, tuttavia, oggi nessuno parla), permane e si accentua l'esigenza, che poi attiene all'essenza stessa dello Stato, di coordinamento in tutti i settori della vita sociale, nessuno escluso, il che presuppone una forte autorità normativa centrale che detti direttive comuni in tutto il territorio nazionale, in modo da assicurare la certezza del diritto, specialmente sotto il profilo della semplificazione qualitativa e quantitativa delle fonti normative.
Oggi, in un'epoca in cui si parla di globalizzazione dell'economia, il minimo che si possa perseguire è l'omogenea redistribuzione delle risorse nazionali: si pensi ai parchi naturali, alle risorse idriche, alle economie di scala derivanti dall'accentramento di strutture (basti pensare al problema delle discariche dei rifiuti ed al riciclaggio, che va ben oltre le aree metropolitane e le stesse regioni). Nell'epoca dell'informatica e delle comunicazioni a tempo reale e dei trasporti immediati le peculiarità locali, dovute a periodi in cui la comunità locale si caratterizzava in ordine ai condizionamenti naturali del territorio, si sono andate sempre più attenuando rendendo sempre meno sostenibili le argomentazioni che vogliono normative specifiche per i diversi territori. Laddove diversità nel popolo italiano tuttora si riscontrano esse sono dovute a provvedimenti localistici che hanno cercato di differenziare in ogni modo un popolo che tende ad una cultura comune.
Mi preme sottolineare sinteticamente che il modello federalista, se preso nella sua purezza essenziale, non riguarda esclusivamente il titolo quinto della Costituzione, ma intacca altre parti di essa e soprattutto i principi fondamentali, cioè gli articoli 1 e 12 e, ancor più profondamente, l'articolo 5. L'essenza del federalismo si fonda sulla coesistenza di due livelli di statualità: quello dello Stato federale e quello dei singoli Stati federati. Uno dei caratteri essenziali della statualità è la sovranità, che a sua volta non può riguardare alcuni ambiti della vita e non altri perché la vita di una comunità politica è tutta collegata. Pertanto, o è vero Stato quello federale e non sono veri Stati quelli federati, nel qual caso avviene l'accentramento di diritto o di fatto nello Stato federale delle competenze, o viceversa sono veri Stati quelli federati e non lo è quello federale, ed allora avviene ciò che è accaduto in Iugoslavia, in Cecoslovacchia, ciò che sta avvenendo in Belgio e che stava per avvenire in Canada.

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Per questo il federalismo è un sistema di transizione verso un'unità più accentuata o verso separazioni e non può costituire di per sé un vero Stato. In breve, federalismo significa pluralità statuale: ora, la forma della Repubblica una ed indivisibile di cui all'articolo 5 della Costituzione significa che nella Repubblica italiana, essendo una, cioè unica, si esclude ogni pluralità statuale, quindi si esclude la federalità. Ci chiediamo, pertanto, se il modello federalista contribuirebbe a risolvere o ad aggravare i problemi della nostra governabilità, della nostra amministrazione e soprattutto i problemi dell'esistenza dello Stato come soggetto politico internazionale unitario.
Alleanza nazionale si inserisce tra coloro che propongono una riforma in senso federalista in quanto deve tener conto dell'orientamento prevalente dello schieramento di cui è parte e dell'orientamento generale della classe politica nelle sue diverse componenti; ma non per questo rinuncia alla sua responsabilità di agire quale coscienza critica della nazione e di proporre tutti quei correttivi affinché la Repubblica italiana permanga nella sua unitarietà e soprattutto rimanga indivisibile. Perché si scongiuri il pericolo della secessione che balcanizzi lo Stato nazionale e disperda la nazione non basta proporre strumenti irrinunciabili di coesione e di coordinamento forte come l'elezione diretta del Capo dello Stato e la nomina da parte di questi del premier o, viceversa, l'elezione diretta del premier; bisogna evitare che, nonostante l'esistenza di garanzie istituzionali, altri istituti relativi alla forma di governo diano luogo al formarsi dei presupposti di fatto che tarlino dall'interno le travi su cui si regge la costruzione dello Stato.
A tale fine alleanza nazionale intende il federalismo come ampio decentramento distributivo di funzioni e di competenze amministrative ed economiche, come si evince dalla proposta n. 3065 a firma Migliori e da quella di cui è primo firmatario il collega Fisichella. Se, infatti, la politica costituisce il momento dei fini e l'amministrazione il momento dei mezzi, i fini del popolo italiano devono essere convergenti verso il comune ed unitario compito della nazione, teso oltre tutto alla costruzione della comune coscienza europea. Comunità intermedie come quella regionale e quella comunale debbono avere fini propri, ma come momenti costruttivi della comune finalità nazionale. Solo in tal modo costituiranno le parti di un tutto, solo così si realizzerà l'autentica solidarietà, nel senso pregnante del termine - solidale da solus, ossia unico, unitario - non nel senso umiliante, filantropico, caritatevole del più forte che si degna di aiutare il più debole, del più capace che aiuta il meno capace.
In Italia si hanno diversità di situazioni economiche, ma ciò è dovuto, oltre che a ritardi storici, al localismo di alcune regioni, nelle quali il boicottaggio dell'unità nazionale ha operato più tenacemente, impedendo il radicarsi un forte senso dello Stato.
Di qui la nuova redazione dell'articolo 114, con la separazione delle funzioni fra regioni e comuni, corretta dalla sussidiarietà - in ciò che il comune deve fare e non lo fa, la regione lo sostituisce - e dalla leale «collaborazione», che significa convergenza nella pratica e nello spirito del perseguimento dell'interesse della base sociale.
Non si tratta, onorevoli colleghi, di espressioni generiche e retoriche, ma di portata imperativa e programmatica. Rassegno queste mie riflessioni all'attenzione dei colleghi.


VALDO SPINI. Signor presidente, colleghi, vorrei iniziare con un ringraziamento diretto al gruppo della sinistra democratica, che mi ha consentito di portare qui in Commissione bicamerale una posizione non opposta, ma diversa da quella ufficiale del gruppo illustrata molto bene dagli onorevoli Soda, Villone e Folena. È un buon segno di pluralismo e di articolazione, che faciliterà - ne sono sicuro - il nostro lavoro e le nostre possibilità di convergenza e quindi di successo in Commissione bicamerale.


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Qual è il nostro obiettivo? Il presidente D'Alema lo ha individuato, al fondo, nel ricostruire un rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni dello Stato democratico. Collegherei volentieri questa frase di D'Alema ad una frase di Calamandrei alla Costituente, quando prese la parola per dire che le dittature sorgono non dai governi che governano ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici. Noi siamo qui appunto a lavorare per la democrazia e non certo per fare vuote alchimie istituzionali.
Perché siamo qui a ricostruire questo rapporto di fiducia? Perché è caduto il vero principe, se vogliamo usare il termine machiavellico, o il moderno principe, se vogliamo usare il termine gramsciano, della prima Repubblica. Il principe della prima Repubblica era il partito politico di una democrazia bloccata a regime proporzionale puro. Questo sistema è stato prima delegittimato dal punto di vista ideologico dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, poi messo in crisi nelle sue basi materiali, ossia il modello spartitorio delle risorse della spesa pubblica, dagli accordi di Maastricht dal 1992 in poi e contemporaneamente distrutto da una rivoluzione, prevalentemente ma non solo giudiziaria, e come tale incompiuta, nonostante il referendum elettorale, incompiuta come testimonia l'attuale ibrido sistema elettorale che ci governa.
Ebbene, certamente c'è chi si lamenta del fatto che vi sia stato un ampio ruolo giudiziario in questa rivoluzione, però bisogna anche ricordare come il vecchio sistema fosse sordo ad indicazioni di cambiamento; lo fu sui temi della riforma elettorale, lo fu sui temi del finanziamento della politica. Chi vi parla dal 1984 in poi, cioè subito dopo i primi scandali, bussò più volte alle porte del Parlamento con una proposta di legge di un sistema più onesto e trasparente ed insieme più moderno ed efficiente di finanziamento della politica, ma non fu possibile mai nemmeno discuterne nelle aule parlamentari.
Tornando ai temi più generali, oggi questo è il trittico di problemi che abbiamo davanti: i partiti, le istituzioni e le leggi elettorali; un trittico che entra contemporaneamente in gioco.
È vero, il primato in questa vicenda di riforma spetta alle istituzioni, ma già il presidente D'Alema ha detto opportunamente che sul tema delle leggi elettorali potrà legittimamente delinearsi un indirizzo. Mi permetterei di chiedere formalmente che altrettanto possa essere fatto - certo solo in termini di indirizzo al competente legislatore ordinario - in tema di attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, quello sui partiti, perché il legislatore ordinario fissi quei principi di democraticità e di partecipazione cui liberamente gli istituti dei partiti potranno poi conformarsi. Questo è importante anche nel momento in cui abbiamo reistituito il finanziamento pubblico dei partiti, con tutto quello che ciò comporta.
Ma il primato di questa vicenda spetta appunto alle istituzioni. Forma di Stato e forma di governo: a seconda del modo in cui queste saranno riformate anche i partiti ne verranno di conseguenza rimodellati nella loro azione e nel loro modo di essere. Mi sembra vi sia tra noi - ed è molto incoraggiante - una larga consapevolezza dell'insufficienza dell'attuale stato di cose, che non dà al cittadino piena garanzia che il suo voto verrà usato per le finalità per le quali è stato richiesto, né viceversa ha ovviato alla frammentazione politica, non bloccata ma anzi alimentata dall'intreccio esistente tra maggioritario e proporzionale; né tanto meno ha creato una corrispondenza biunivoca tra governi e maggioranze, e questo nonostante che si sia di fronte al sempre più impegnativo confronto in atto in sede europea e alle conseguenze strutturali, economiche e sociali che ne derivano per il nostro paese, per i suoi lavoratori, per i giovani.
Abbiamo tra noi una vasta convergenza di finalità; abbiamo tutti anche l'interesse a riuscire ed a riuscire bene, perché vi è un referendum popolare che ci aspetta al traguardo per verificare se abbiamo o meno corrisposto alle attese dei cittadini. Occorre quindi elaborare una riforma forte e convincente.

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Credo, a questo punto del dibattito, che si possa entrare nel merito delle questioni che sono state qui proposte. Innanzitutto mi domando: è o no tra noi un elemento di divisione aprioristica il fatto che una delle figure di vertice del nostro ordinamento possa essere eletta dai cittadini? Personalmente mi rifiuterei di crederlo; rifiuterei che questo fatto in sé per sé, in via di principio, possa essere lacerante nella nostra Commissione. Mi rifiuto di credere che quello che è buono per i sindaci di grandi città con milioni di abitanti, ben dotati anche di quelle televisioni e di quei mass media che renderebbero secondo taluni non democratica l'elezione di un vertice delle istituzioni (parlo di città come Milano, Roma o Napoli) sia di per sé cattivo per l'Italia. Altrimenti dovremmo definire antidemocratico Piero Calamandrei, che alla Costituente si pronunciò per l'elezione diretta del Presidente della Repubblica, addirittura anche all'americana - cosa che non condivido - cioè capo dell'esecutivo.
Non mi sembra quindi che questo possa essere in sé per sé un elemento di divisione aprioristica e di principio. Credo invece che si debba entrare nel merito del sistema dei pesi e contrappesi, delle garanzie e delle potenzialità che ciascun istituto può presentare. Dico subito che non condivido l'idea che si debba eleggere direttamente il primo ministro; questo concentrerebbe in sé troppi poteri. Già altre volte mi sono domandato che funzione avrebbe il Presidente della Repubblica, solo apparentemente sovraordinato ma in realtà sottordinato.
E quanto al Parlamento, esso potrebbe avere come difesa solo quella di quegli insetti che per difendersi pungono ma al contempo muoiono: potrebbe far cadere il primo ministro, decretando però nello stesso tempo il proprio scioglimento, a meno che non si dovesse accettare l'aberrazione di un primo ministro coabitante con una maggioranza parlamentare che gli fosse contrapposta.
Credo poi che dobbiamo essere animati tutti insieme dalla logica e non dall'alchimia; a mio parere la logica vuole che se si elegge qualcuno si elegge il vertice delle istituzioni, e non il numero due.
Propongo quindi alla Commissione di confrontarsi pure sul principio dell'elezione diretta di uno dei vertici istituzionali, ma - questo è il mio parere - su uno, il Presidente della Repubblica Capo dello Stato, che non assume in sé i poteri del primo ministro, il quale invece risponde al Parlamento con il suo governo. È quello che si chiama semipresidenzialismo e che - con l'eccezione certo importantissima della Germania - si è affermato nella più parte dei paesi europei che non hanno conservato la monarchia. Il semipresidenzialismo, in varie forme diverse fra loro, è un sistema affermatosi in paesi come la Finlandia, il Portogallo, l'Austria, la Francia, che ne ha dato naturalmente l'espressione più nobile.
L'onorevole Rebuffa, che penso sia in aula a difendersi o a difendere la sua legge, ieri ha subito messo le mani avanti, lamentandosi - se ho ben capito - che la proposta di legge che ho presentato con la firma di parlamentari laburisti, ma anche con quella di altri colleghi del gruppo della sinistra democratica cui apparteniamo, elencasse con precisione le situazioni in cui può darsi luogo allo scioglimento del Parlamento da parte del Presidente della Repubblica. Nessuna paura, onorevole Rebuffa: non consideriamo questo elenco come tassativo, né per noi esso è Vangelo; lo si può tranquillamente discutere o addirittura, a certe condizioni, anche eliminare. Così certamente il senatore Passigli, che parlerà dopo di me, da par suo apporterà al sistema presidenziale arricchimenti e possibili precisazioni; altri parlamentari, come l'onorevole Targetti, hanno già compiuto lo stesso sforzo. Ma il punto è politico.
Perché da parte di chi vi parla vi è questa disponibilità all'elezione diretta del Presidente della Repubblica? Per due motivi, uno di sostanza e uno di coerenza. Nella sostanza - parliamoci francamente - occorre ricostruire l'Italia nei suoi aspetti etici, civili, politici e sociali e occorre un punto di riferimento democratico

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estremamente rappresentativo, istituzionalmente visibile, che possa garantire tale processo: un Presidente della Repubblica eletto dalla maggioranza, ma che una volta eletto diviene qualcosa di più, un supremo moderatore delle istituzioni, un punto di riferimento per la loro continuità, il rappresentante dell'unità nazionale, lasciando al primo ministro e al governo il ruolo di prima linea della maggioranza nel confronto politico-parlamentare. Vi è anche un motivo di coerenza: temo che i cittadini non vedrebbero una sufficiente novità nel passaggio dalla situazione di fatto di oggi - l'indicazione preventiva del premier nel caso di vittoria della coalizione, così come è stato per Romano Prodi e prima per Silvio Berlusconi - ad un'altra certo più formalizzata e più garantita: la dichiarazione dei candidati parlamentari all'atto della loro candidatura di qual è il candidato primo ministro cui sono collegati e l'automatica designazione di questi ove la maggioranza assoluta dei deputati eletti vi si riferisca. Siamo veramente convinti che l'opinione pubblica avvertirebbe un grande salto di novità rispetto alla situazione attuale? A meno che non fossimo costretti ad ingessare questo primo ministro, rendendolo in qualche modo impermeabile agli indirizzi parlamentari, il che naturalmente non è nelle intenzioni di nessuno. Si tratta di quel sistema che Antonio Soda ha collocato molto correttamente nell'ambito dei sistemi neoparlamentari. Però mi domando se sia costituzionale un mandato parlamentare così dimezzato. In questo caso, chi è l'investito del voto popolare, il deputato o il primo ministro? Quanto il popolo ha scelto l'uno e quanto l'altro? Se volessimo seguire questa chiave, mi domando in termini ipotetici se non varrebbe la pena di costruire un sistema elettorale all'inglese, uninominale e maggioritario a turno secco, dove i partiti che di fatto, anche se non di diritto, possono andare al governo sono due e dove è automatico che il leader del partito vincente diventi primo ministro, carica la cui durata non è di per sé eterna ma può esaurirsi quando non vi sia più il sostegno del gruppo parlamentare, come avvenne per primi ministri illustri come la signora Thatcher.
Ma non mi sembra che vi siano in Italia le condizioni per ridurre i partiti, almeno quelli che intendono contare, a due soli. Allora, un sistema semipresidenziale adattato all'esperienza italiana, collegato ad un sistema elettorale a doppio turno, può opportunamente realizzare la stabilità (il Presidente eletto direttamente) e la flessibilità (il primo ministro ed il governo cambiano se cambia l'espressione dell'elettorato e/o anche se l'azione di governo si logora). I partiti si accorperebbero e si ridurrebbero di numero, ma senza far violenza alle nostre tradizioni e al nostro quadro politico.
So bene qual è la principale opposizione a questa proposta: il rischio della coabitazione, che però non mi sembra tale da rovesciare il nostro ragionamento. Se il Presidente della Repubblica e il primo ministro vengono ad appartenere allo stesso schieramento politico, è naturale che il ruolo politico del Presidente della Repubblica sia più pronunciato, tanto più quanti saranno i poteri che gli daremo. Ciò non è necessario: in Portogallo, per esempio, vale la regola opposta; ma comunque sarà tanto più pronunciato a seconda dei poteri che gli daremo, penso all'esempio francese. Se invece le maggioranze divergessero, vi sarà un ruolo del Presidente della Repubblica maggiormente di garanzia, senza che questo abbia conseguenze particolarmente gravi, assumendo il primo ministro in questo caso la rappresentanza e la guida della maggioranza. Mi domando: c'è stata più o meno tensione sociale in Francia durante la coabitazione Mitterrand-Chirac o durante il monocolore Chirac-Juppé? Non mi sembra che la coabitazione abbia portato a particolare tensione, anzi al contrario essa ha avuto un ruolo di equilibrio; ve ne è stata senz'altro meno durante la coabitazione Mitterrand-Chirac. Non è stata un dramma in Portogallo la coabitazione di Mario Soares con Cavaco Silva, con un primo ministro moderato e così via.

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L'argomento contrario si fa allora prettamente italiano. Secondo qualcuno l'Italia non è una democrazia matura e potremmo correre il rischio di eleggere a Presidente della Repubblica qualcuno irresponsabile, incapace di tenersi nei suoi limiti e quindi di coabitare, mentre invece un primo ministro proposto dai partiti e scelto insieme ai deputati dal popolo ma con il vaglio dei partiti sarebbe comunque più saggio e responsabile, anche se magari non potrebbe essere sfiduciato.
Non vedo come potremmo considerare questa una assunzione stabile: è sul terreno delle regole, dei pesi e dei contrappesi che possiamo discutere questa eventualità, anche quella del filtro per le condizioni di eleggibilità a Presidente della Repubblica. Se si pensa che la democrazia americana ha saputo sfiduciare il suo presidente Richard Nixon, credo che anche noi potremo studiare dei meccanismi di contrappeso e delle regole che tutelino la maggioranza parlamentare e le sue espressioni di Governo, proprio perché non possiamo pensare di fare regole per una democrazia non solida. Se non la facciamo solida ora, mi domando quando la faremo.
Insomma, il punto è veramente politico. Vogliamo mantenere un potere di coalizione come quello che si determina nella scelta preventiva del premier a favore dei partiti della coalizione stessa, cui poi i candidati dei collegi dovranno collegarsi oppure vogliamo affidarci all'elettorato? Se vogliamo fare qualcosa di veramente nuovo, credo che dovremmo fare la seconda scelta, senza peraltro - lo ribadisco - trascurare la necessità di operare una condivisione dei poteri come quella che assicura il sistema cosiddetto presidenziale, scartando quindi - lo ripeto per la seconda volta - l'idea della elezione diretta del premier che questa condivisione dei poteri non assicura.
Se ci si libera per un attimo della pregiudiziale aprioristica dell'elezione diretta, ci si accorge che il semipresidenzialismo può essere un sistema molto garantista e che si può uscire con successo su questo terreno da una contrapposizione, che garbatamente già si è espressa in queste giornate, tra premierato eletto o premierato indicato e che, alla lunga, nella ricerca di soluzioni, può rafforzare troppo il premier stesso e rendere la nostra democrazia troppo squilibrata.
Per questo ho voluto sottoporre alla Commissione il semipresidenzialismo in modo aperto e dialogante; di proposito non ho illustrato punto per punto i contenuti del mio progetto di legge, che potrebbe essere utilmente confrontato con quelli di Passigli, di Targetti o con altri, ma ho cercato di enucleare il punto politico e di metodo di questa prefigurazione. Mi auguro che altri accettino questo metodo e questo terreno di confronto.
Signor presidente, onorevoli colleghi, ho voluto concentrare sul tema della forma di governo il mio intervento, anche perché rifuggo dalla tuttologia; in realtà su tutto lo scacchiere dei problemi ci sarebbe da dire e da dire tanto, ma naturalmente mi capiterà in altre occasioni. Mi limiterò a tre soli accenni: i referendum, l'ambiente, il federalismo.
Vorrei richiamare la nostra proposta di legge n. 194 in tema di sospensione del procedimento referendario abrogativo - se poi si passasse al propositivo, sarebbe diverso - per permettere al Parlamento, ove lo ritenga e senza la possibilità di ostruzionismi che abbiamo verificato come dannosi, di modificare la materia e l'oggetto del quesito referendario quando si sia manifestata con chiarezza una maggioranza in questo senso. Questo nella convinzione che al Parlamento spetti legiferare e al referendum abrogativo spetti la grande funzione di tribunale supremo di appello degli interessi e dei sentimenti della popolazione che ebbe al tempo del divorzio e dell'aborto e che con il tempo ha perduto.
Vorrei auspicare che quanto il ministro degli esteri ha fatto meritoriamente in tema di Europa lo si ripeta qui in tema di ambiente. Quando la Costituzione è stata fatta, di questa esigenza non si poteva tenere conto, non era allora presente e questo tema è trattato come di sfuggita in materia di beni culturali. Non entra,

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signor presidente, nelle nostre competenze dirette, ne sono convinto, perché fa parte del I titolo della Costituzione, ma anche qui forse potrebbe essere compiuto un atto di indirizzo e sono convinto che sarebbe recepito molto bene dall'opinione pubblica e da tutti coloro che in Italia e nel mondo sono interessati alla salvaguardia di questo valore o, se vogliamo, di questo diritto.
Ho promesso anche una notazione finale sul federalismo e vorrei essere talmente breve da essere un po' brutale. Cari colleghi, se si vuole fare quello che tecnicamente si chiama federalismo, occorre dirsi con sincerità che bisogna raggruppare le regioni in un numero sufficientemente ristretto di macroregioni; se invece, come mi sembra, vogliamo operare su quelle attuali, dobbiamo vedere il federalismo come un work in progress, non come un fatto miracoloso che scaturisce da un giorno all'altro, e operare intanto per un vero decentramento e per un reale regionalismo, capace di rendere funzionanti le regioni senza trascurare le autonomie locali e le grandi aree urbane metropolitane il cui problema di Governo è fondamentale per gli equilibri sociali del nostro paese.
Credo che, se svolgeremo audizioni, sarà interessante esaminare il destino delle leggi di spesa che passano dalle regioni, valutando quanto e come esse vengano adempiute.
In ogni caso, l'elezione diretta del Presidente della Repubblica, nell'accezione che ho proposto, facilita, rende maggiormente garantite e non ostacola forme più avanzate di regionalismo o di federalismo, perché dall'altro lato garantisce autorevolezza e rappresentatività a chi è chiamato a rappresentare l'unità nazionale e rende più garantito questo processo.
Mi avvio ora alla conclusione, signor Presidente, care colleghe e colleghi. Se dovessimo tracciare dei cerchi aventi come centro i punti rappresentativi delle varie posizioni espresse in questa sede, constateremmo che parte della loro superficie comincia a combaciare, a sovrapporsi, che vi sono aree di incontro. Non disperdiamole con l'inerzia né tanto meno ostacoliamole con veti che in questa sede non sarebbero certamente accettabili. Il nostro punto di riferimento è il cittadino, il cui voto va massimizzato nel suo valore e nei suoi effetti pratici; questo è il legame con i suoi diritti e con la democrazia. Non parliamo il «latinorum» di formule astruse, ma il linguaggio chiaro della democrazia e della trasparenza.
La nostra Commissione dei 70 parte con auspici incomparabilmente più positivi rispetto alle altre due che l'hanno preceduta, e ciò per motivi politici, non certo perché alle prime due mancasse la competenza tecnica, che è stata anzi dimostrata in prodotti molto pregevoli. Ma credo che la nostra solidità politica derivi dal fatto che ambedue i principali schieramenti che si sono in questi anni confrontati hanno in vario modo sperimentato le insufficienze di quei meccanismi istituzionali, di quella che è stata chiamata la seconda Repubblica in questo periodo 1994-1997.
Qualcuno disse una volta una frase scherzosa: se questa è la seconda Repubblica, speriamo che arrivi presto la terza. Operiamo allora per capovolgere la frase e perché si possa dire davvero che quella che costruiremo, che costruiamo, è l'autentica seconda Repubblica, la quale funzionerà sufficientemente bene perché nessuno abbia poi bisogno di augurarsene davvero una terza.


MARIDA DENTAMARO. Raccolgo in un certo senso la sollecitazione del senatore Pieroni, che anche altri hanno seguito, e ricordo che molte sono le ragioni storiche, culturali, ordinamentali per le quali la stessa legge istitutiva di questa Commissione bicamerale, recependo le indicazioni del dibattito in corso ormai da tempo non solo tra le forze politiche e nelle istituzioni, ha imposto anzitutto alla nostra riflessione il tema della forma di Stato.
Oltre cento anni di Stato unitario ed accentrato e circa venticinque di Stato regionale non sono serviti né a costruire


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un'Italia capace di superare una storica frammentazione territoriale tra realtà profondamente disomogenee sul piano economico, sociale e culturale, né a dar vita a sistemi regionali in grado di rendersi interpreti autentici ed efficaci delle rispettive realtà strutturali e propulsori forti della loro crescita, di uno sviluppo ordinato, soprattutto qualitativo, della vita delle rispettive comunità.
Sembra allora quasi obbligata la scelta per una forma di Stato diversa, per un superamento netto del regionalismo della Costituzione vigente, per una Repubblica che veda le regioni come entità costitutive accanto allo Stato.
La prima istanza che è alla base della nostra opzione federalista consiste, quindi, nel riconoscimento delle diversità e nella convinzione che ogni realtà territoriale e ogni comunità richieda un'azione di governo adeguata alle proprie peculiari connotazioni. Tradurre questa istanza in norme di organizzazione costituzionale ed amministrativa e in norme di azione dei pubblici poteri significa escludere l'adozione di modelli unitari e prevedere un quadro costituzionale che consenta ad ogni regione di adottare un proprio modello organizzativo, con conseguente assoluta flessibilità degli schemi operativi.
Nella nostra proposta, quindi, si stabilisce soltanto che lo statuto disciplina gli organi rappresentativi, la forma di governo, l'organizzazione amministrativa, senza nessuna ulteriore indicazione di merito, nemmeno di larga massima. Coerente in questa direzione anche la scelta di collocare interamente nell'ambito regionale il procedimento di adozione dello statuto, per il quale si prevede soltanto l'approvazione con referendum; e mi sembra che per questo aspetto (per la verità, anche per altri relativi al tipo di federalismo italiano) la proposta abbia molto in comune con quella che è stata illustrata dal senatore Villone e condivisa anche dal senatore Pieroni.
Abbiamo posto attenzione alle regioni a statuto speciale, per le quali si è attribuita rilevanza alla collocazione attuale degli statuti al gradino più alto della gerarchia delle fonti, e soprattutto alla persistenza delle ragioni sostanziali che furono storicamente a base di questa scelta, ai delicati problemi politici e giuridici che molto approssimativamente possono sintetizzarsi nel tema della tutela delle minoranze, per la quale non si può rinunciare al massimo livello di garanzia, quello costituzionale. Questi elementi, quindi, hanno suggerito di mantenere in vigore la forma della legge costituzionale per gli statuti di quelle regioni e per le loro eventuali modificazioni.
Agli statuti regionali è affidata anche la definizione dell'autonomia dei comuni e degli altri enti locali. La scelta, cioè, è stata quella di inscrivere il sistema delle autonomie locali all'interno dell'ordinamento regionale, sulla base di una serie di considerazioni: anzitutto, la chiara riconoscibilità di una precisa identità geografica, storica, strutturale delle venti regioni esistenti, che richiede soluzioni istituzionali in grado di mantenere queste identità e salvaguardarle dal rischio di frammentazioni eccessive, rischio molto concreto se si adottassero - come alcuni auspicano - formule tali da lasciare spazio ad ogni localismo.
In secondo luogo, la dimensione regionale appare largamente la più adeguata al migliore esercizio della funzione di legislazione, programmazione, governo in senso alto. Un insieme di municipalismi al di fuori di questo raccordo sulla scala regionale non potrebbe che generare il caos, così come un raccordo diretto tra comuni e Stato ridurrebbe enormemente la portata della scelta federalista e soprattutto ridurrebbe la portata e l'operatività di quel principio attorno al quale si vuole costruire il rapporto fra i livelli istituzionali (ma io dico ancora prima tra società civile e istituzioni), anche in armonia con le scelte che hanno ispirato nel trattato di Maastricht la configurazione dei rapporti fra Unione europea e Stati membri: il principio di sussidiarietà, che appare a noi come un principio di organizzazione sociale e istituzionale in grado di conciliare, nell'esercizio delle funzioni di rilevanza e di interesse sociale e collettivo,

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democraticità ed efficienza, potere e responsabilità.
È proprio dalla costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà che deriva la garanzia piena per i comuni dei loro ambiti operativi e funzionali, ma direi la garanzia per l'ordinamento che non si ripeta l'esperienza del passato e del presente, cioè quella di una regione in cui la funzione amministrativa e gestionale ha finito con il prevalere e con il soffocare quella legislativa e programmatoria, comprimendo a sua volta gli spazi che devono essere riservati appropriatamente al livello ed all'autonomia locale. Gli statuti e le leggi regionali devono quindi assicurare ai comuni autonomia statutaria (all'unica condizione di una forma di governo caratterizzata da un'assemblea e da un sindaco eletti a suffragio universale e diretto), autonomia amministrativa e autonomia finanziaria (dovendo essere garantite entrate proprie e quote di tributi regionali adeguate al corretto svolgimento delle funzioni e dei compiti propri e delegati).
Un'altra delle scelte operate è quella di eliminare la garanzia costituzionale della provincia e della sua autonomia. Le province, a differenza dei comuni, non sempre corrispondono ad entità autogiustificate sul piano dell'identità strutturale delle collettività che rappresentano; non sempre, cioè, sono enti esponenziali di collettività cui si adatti la più pregnante e significativa definizione di «comunità». Storicamente, molte province si connotano soltanto come circoscrizioni di decentramento amministrativo. Ci sono comuni di confine che potrebbero indifferentemente appartenere ad una o ad altra provincia. Le stesse battaglie in corso un po' in tutto il territorio nazionale per l'istituzione di nuove province credo che stiano a testimoniarlo. È sembrato più opportuno, allora, limitare la garanzia costituzionale ai comuni e lasciare alle regioni la scelta, da operarsi negli statuti (quindi con sottoposizione a referendum), in ordine al mantenimento o all'istituzione non solo delle province, ma anche, eventualmente, di altri enti locali, definendone i rispettivi ambiti di autonomia.
Componente essenziale del disegno è, evidentemente, l'autonomia finanziaria, la potestà impositiva propria delle regioni, unitamente alla titolarità di quote del gettito dei tributi erariali prodotti nel proprio territorio. L'aspirazione a costruire l'Italia federale non può infatti prescindere dall'attivazione piena del circuito autonomia impositiva-autoresponsabilità finanziaria, che consente di mantenere in loco la gran parte delle risorse, valorizzando le vocazioni dei territori e delle popolazioni.
E tuttavia, di fronte alle diversità che segnano profondamente e dolorosamente troppe aree del paese, non si è voluto rinunciare alla promozione di un patto di solidarietà territoriale, consentendo interventi perequativi e di riequilibrio in favore delle aree e delle popolazioni meno sviluppate, ammettendo cioè a questi fini il trasferimento di fondi dallo Stato alle regioni. Ci è sembrato che solo così potesse garantirsi, da parte di tutte le componenti della Repubblica, l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, nonché del principio di eguaglianza sostanziale, sanciti nella prima parte della Costituzione, che non ci è dato di toccare, ma che anzi deve costituire la linfa che abbiamo il dovere di infondere nelle istituzioni rinnovate, e deve trovare in esse nuova vitalità, terreno più fertile per la sua concretizzazione.
Il principio federalistico non esclude, quindi, il valore solidarietà ed anzi, alla migliore conciliazione di questi due termini noi aspiriamo come al momento più alto di possibile e necessaria saldatura tra le due questioni che connotano tempestosamente questo scorcio di millennio: la questione istituzionale e la questione economica.
Nell'angolazione del rapporto con lo Stato, federalismo - è quasi superfluo dirlo - significa innanzitutto devoluzione massiccia alle regioni di quell'aspetto della sovranità che consiste nel potere legislativo; si è quindi invertita, come del resto

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in molte delle proposte di riforma, la tecnica attuale, elencando tassativamente le materie riservate alla competenza legislativa dello Stato, individuando invece, in via generale e residuale, la potestà legislativa delle regioni e configurandola, nelle materie non riservate allo Stato, come esclusiva. Anche in questo ambito di rapporti, si è fatta applicazione del principio di sussidiarietà, prevedendo a chiusura che, in assenza di legislazione regionale, si applicano le norme legislative e regolamentari dello Stato.
Ma vi è un'altra rilevantissima sfera di rapporti istituzionali che non solo incide sulla configurazione della Repubblica a struttura federale, ma rappresenta anche un'altra e non meno importante ragione tra quelle poste a base dell'opzione federalista. L'evoluzione storico-ordinamentale in atto verso la costituzione di una sovranità comune europea impone infatti un ridimensionamento anche dal basso, per così dire, dello Stato nazionale, se solo si pensa che la normativa e l'azione dell'Unione europea riguardano molto spesso materie già oggi di competenza regionale, e se si pensa che il trattato istitutivo dell'Unione riconosce livelli decisionali substatuali, e anzi assegna un ruolo essenziale alle istituzioni decentrate, assunte come riferimenti per l'elaborazione e l'attuazione delle politiche dell'Unione; se, ancora, si considera l'affermazione del principio di sussidiarietà come cardine della distribuzione delle funzioni, in materie di grande rilievo, tra Unione e Stati membri. Un modello istituzionale, quindi, quello federalista basato sul principio di sussidiarietà, che esteso o riprodotto all'interno dello Stato rappresenta un atto positivo in direzione della costruzione dell'Europa, se non una via obbligata per l'Europa stessa. Di qui l'attribuzione alle regioni, nel nostro progetto, di un ruolo consultivo in vista della stipulazione dei trattati e della partecipazione del governo alla determinazione delle politiche settoriali dell'Unione europea; e l'attribuzione di tutti i poteri per l'attuazione della normativa europea rientrante in materie di loro competenza esclusiva, fermo restando l'intervento sostitutivo dello Stato in caso di inadempimento. Le regioni, quindi, come interlocutori diretti dell'Europa, in forme però che escludano radicalmente ogni rischio di dissoluzione della struttura nazionale, il che significherebbe non solo negare una identità che è nella storia - direi negare la storia -, ma anche subire conseguenze negative gravissime nel contesto di un'Europa in cui tutti i partner, anche quelli con ordinamenti a più decisa struttura federale, ad esempio la Germania, mantengono una struttura nazionale forte.
Lo Stato nazionale, dunque, svolge una indispensabile funzione di cerniera fra il sistema delle regioni e quello europeo, sicché acquista rilievo essenziale il tema del raccordo delle competenze. La soluzione prescelta si innesta sulla proposta che abbiamo formulato per il superamento dell'attuale sistema bicamerale perfetto. Nel nuovo Stato federalista, in cui le strutture regionali vedono pure accentuate autonomie al loro interno, al Senato sono assegnate le funzioni più direttamente connesse alla struttura pluralista dello Stato, prima fra tutte la cura del coordinamento fra le norme comunitarie, nazionali e regionali, del raccordo fra le diverse realtà territoriali anche attraverso forme di vigilanza sulle diverse funzioni pubbliche, completata dal potere di approvare gli interventi sostitutivi proposti dal governo in caso di inerzia delle regioni nelle materie di loro competenza. Una funzione, riassuntivamente, che assicuri una verifica permanente della rispondenza dell'azione complessiva dei pubblici poteri alla realtà ordinamentale che risulta dinamicamente dallo sviluppo degli accordi internazionali e, prima di tutto, delle politiche dell'Unione europea.
Per il Senato, quindi, si propone un ruolo prioritario di raccordo fra il sistema delle regioni, quello dello Stato nazionale e il sistema europeo internazionale nonché la competenza per le politiche di solidarietà e di riequilibrio territoriale. Da questa attribuzione di funzioni discende naturalmente la scelta per una composizione elettiva a suffragio universale e

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diretto; una elezione di secondo grado - cioè un Senato emanazione delle assemblee o addirittura degli esecutivi regionali - non sarebbe evidentemente compatibile con il delicato ruolo di raccordo fra livelli ordinamentali diversi e sovrani, tutti cioè dotati, sia pure diversamente, di un proprio ambito di sovranità. Sicché, l'istituzione di raccordo e di vigilanza non può che avere una legittimazione popolare diretta, mentre non può ripetere la propria legittimazione da uno solo dei soggetti istituzionali che deve raccordare e vigilare.
Nella nostra proposta il sistema di bicameralismo differenziato è poi completato dalla previsione delle leggi organiche sottoposte all'esame e all'approvazione di entrambe le Camere per tutte le materie indicate dalla stessa Costituzione (elettorale, giustizia, bilancio, autorità indipendenti ed altre). Inoltre, segnalo il potere di richiamo delle leggi approvate dalla Camera su richiesta di almeno un quinto dei senatori.
Vi è un'altra parte della proposta sulla quale vorrei soffermarmi, confortata anche dall'aver sentito alcuni commissari - ad esempio, il senatore Fisichella nella seduta di ieri - sottolineare più che giustamente che nessuna revisione della forma di Stato e della forma di governo potrà sortire gli effetti sperati se non sarà accompagnata e sorretta da una profonda, adeguata riforma della pubblica amministrazione. Si tratta di una riforma che certamente può essere in parte affidata alla legge ordinaria, ma credo che questa Commissione non possa perdere l'occasione di fissare dei punti fermi di rango costituzionale, considerato anche che, proprio in tema di pubblica amministrazione e organi ausiliari, il testo vigente contiene poche norme, tra le più scarne e meno soddisfacenti. Se miriamo dunque a realizzare risultati positivi sul concreto e complessivo funzionamento della macchina pubblica, dobbiamo guardare con attenzione anche ai cosiddetti rami bassi, dobbiamo cioè pensare all'amministrazione nel nuovo sistema costituzionale. Nessun governo sarà davvero efficiente e compiutamente democratico senza un'amministrazione che sia efficiente e partecipata; nessun federalismo sarà compiutamente realizzato senza una radicale revisione dell'ordinamento e dell'organizzazione degli uffici, senza una massiccia riallocazione di risorse organizzative e anche umane.
Non credo, poi, di dovermi soffermare troppo a lungo sull'insofferenza diffusa per un'azione amministrativa che, da un lato, costituisce intralcio sistematico, inesorabile quanto inutile allo svolgimento dei rapporti economici e che, dall'altro, non è mai in grado di svolgere un ruolo efficace di impulso e di sostegno e nemmeno di controllo sostanziale.
Questo atteggiarsi normalmente conflittuale del rapporto tra società civile e amministrazione pubblica ha radici profonde nella storia stessa, non recente, delle nostre istituzioni, ma ha anche una ragione ordinamentale attuale in quel fenomeno, tipicamente patologico del nostro ordinamento, noto come ipertrofia legislativa: una congerie caotica di leggi in cui è facile che il burocrate, maliziosamente o no, si perda e perda il suo tempo e quello dell'utente, pregiudicandone normalmente interessi, diritti e aspettative.
Ecco allora che la prima riforma che investe la pubblica amministrazione deve riguardare le fonti normative: le leggi devono essere poche e di principio, riservando tutte le discipline di dettaglio al potere regolamentare, più duttile, più capace di adeguarsi rapidamente ed efficacemente alle situazioni, più vicino al livello di esercizio della funzione amministrativa. La nostra proposta introduce quindi la previsione costituzionale di riserve di regolamento, nonché di ambiti da riservare con legge organica ai provvedimenti, anche per consentire la piena attivazione degli strumenti di garanzia di fronte a decisioni che riguardino situazioni puntuali e che a quelle garanzie non devono essere sottratte.
Venendo alla pubblica amministrazione in senso stretto, non posso non ricordare che molti principi generali sono stati ormai sufficientemente elaborati, soprattutto

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dopo il varo della legge n. 241 del 1990, per ritenere maturo il tempo di costituzionalizzarli. Abbiamo quindi riscritto l'articolo 97 anzitutto estendendone esplicitamente l'ambito di applicazione all'azione e non solo all'organizzazione amministrativa, risolvendo uno dei tormenti - forse inutili eppure storici - della dottrina amministrativistica.
Non mi dilungo nel dettaglio, segnalando soltanto che la duplice istanza della partecipazione e dell'efficienza ispira il favor costituzionale con cui guardiamo agli accordi sostitutivi di provvedimenti, in sostanza a modelli di amministrazione contrattata che assicurano molti vantaggi: in sintesi, consentono di delineare un'amministrazione che agisce secondo il metodo dell'economia, vale a dire che segue i processi economici, li conosce e poi li governa, piuttosto che sovrapporvi decisioni astratte, spesso non realisticamente attuabili.
Se la pubblica amministrazione è diretta emanazione e strumento della funzione di governo ai vari livelli, non si è voluto trascurare che esistono vasti settori che presentano una connessione funzionale con l'esecutivo ma, in quanto interferiscono con fondamentali diritti di libertà personale ed economica, devono essere sottratti alla sfera di influenza della maggioranza di governo e, più in generale, all'ambito delle decisioni politiche. Da questa consapevolezza, dalla convinzione profonda della necessità di sottrarre la società civile ad un'occupazione da parte della maggioranza di governo che tenda ad organizzarla al servizio del proprio potere, si è fatta derivare la previsione costituzionale di autorità amministrative indipendenti, neutre, terze, da istituirsi con legge organica per la regolazione di settori di rilevante interesse nazionale e a garanzia dell'effettivo esercizio dei diritti fondamentali.
Con lo stesso intento di individuare fuori dal sistema delle garanzie giurisdizionali un organo di rilievo costituzionale a presidio dei diritti fondamentali nell'ambito dei rapporti economici, sono state ridisegnate struttura e funzioni dell'obsoleto CNEL, prevedendo un numero di 30 componenti ed aggiungendo alle attuali funzioni quelle di vigilanza e di difensore civico per la tutela dei diritti economici, d'impresa e sociali.
In questo modo, operando incisivamente sull'organizzazione amministrativa di rilievo costituzionale, possono trovare nuovo respiro diritti il cui riconoscimento circola e traspare da una lettura evolutiva della prima parte della Carta, ma la cui realizzazione rimane sul piano dell'astrattezza o in considerazione di asfissia. Un solo esempio, uno qualsiasi: il diritto alla casa, che un organo di rilievo costituzionale ben dovrebbe tutelare anche rispetto alla compressione che può derivarne da misure di carattere fiscale e tributario.
Non si tratta di astuzie, di voler incidere surrettiziamente sulla prima parte della Carta costituzionale modificando la seconda. Lo dichiariamo apertamente, con trasparenza: abbiamo cercato strumenti per dare rilievo ai vecchi, ma anche ai nuovi diritti (poco fa l'onorevole Spini ha parlato di ambiente, per esempio) della nuova società; la società dell'Unione europea, del villaggio globale, della tecnologia pervasiva, della democrazia massmediologica. Si tratta di corrispondere così alle domande del paese, che molto si attende dal lavoro di questa Commissione; e non sarebbe facile spiegare al paese che riformare la Costituzione non serve, se non indirettamente e nella prospettiva di un futuro più o meno lontano, a cambiare e a migliorare la vita delle persone.
Concludo, forse un po' fuori del seminato, rivolgendomi direttamente al presidente D'Alema e consegnando un invito alla sua saggezza: l'invito a riflettere sull'intento - che ha dichiarato - di voler mantenere nel corso dei lavori della Commissione un raccordo costante con il Governo.
Il Governo sta procedendo, come è ovvio, a Costituzione vigente ed ha intrapreso il suo cammino di riforme amministrative con molta decisione assai prima dell'insediamento di questa Commissione. Alcune sue scelte, in particolare nei settori

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della funzione pubblica e dell'interno, sono state a suo tempo contestate dall'opposizione - senza risultato - proprio perché ritenute inutilmente o negativamente interferenti con il processo di revisione costituzionale che si prevedeva di iniziare a breve. Alcune rilevanti proposte governative sono ormai in dirittura d'arrivo: mi riferisco in particolare ai disegni di legge del ministro Bassanini. Il Governo non ha inteso, dunque, raccordarsi con il percorso di riforma della costituzione. Del resto, il tempo assegnato a questa Commissione è così breve che tra quattro mesi gli indirizzi di riforma saranno non solo emersi, ma formalizzati. Allora il Governo eventualmente si adeguerà. Ma l'idea di una sorta di adeguamento continuo ad indirizzi in fieri mi sembra, presidente, molto astratta.
Pensare oggi ad un raccordo della Commissione bicamerale con il Governo mi sembra possa ingenerare quanto meno il sospetto di possibili condizionamenti, che possa complicare la strada, rendere più difficile il superamento dei vincoli di schieramento ed il raggiungimento di quelle larghe intese, di quelle ampie condivisioni che tutti stiamo auspicando. Mi sembra anche che sarebbe del tutto ingiustificato, anzi sarebbe grave sotto il profilo ordinamentale ed istituzionale, poiché nulla come la riscrittura della Costituzione, la ridefinizione delle regole della casa comune, deve essere più estraneo e più lontano dalle logiche di Governo. Mi sembra, infine, che sarebbe inopportuno, dopo che è stata respinta, sia pure con la dolcezza di una promessa di interlocuzione, la richiesta delle regioni.
Concludo quindi, signor presidente, dichiarando di non condividere l'esigenza e l'intento di un raccordo dei lavori della Commissione con l'autorità di Governo. Al contrario, ho idea che proprio il Governo debba essere l'unico organo, l'unica istituzione da tenere rigorosamente esclusa da ogni forma di interlocuzione con questa Commissione.


MARCELLO PERA. Presidente, mi consentirà di iniziare il mio intervento con una nota di rincrescimento. La limitatezza dei microfoni mi costringe a parlare seduto (anche se spero non «da sedere», come disse un collega della prima Repubblica eletto nel mio collegio), in una posizione, cioè, nella quale non riesco nemmeno a declinare le mie generalità. Spero quindi di essere chiaro e di superare questa situazione di imbarazzo.
Inoltre, associandomi a quanto diceva il collega De Mita, osservo anch'io che la disposizione delle postazioni in questa sala è tale per cui possiamo rivolgerci soltanto alla nuca o alla schiena, sia alta che bassa, dei colleghi seduti di fronte a noi. Questo ci impedisce di guardarci in faccia, salvo a traguardare il rispettivo naso, criterio che nel mio caso funziona mentre per altri casi vi sono delle limitazioni.
Il tema del mio intervento, presidente, verterà sull'«anche». Nella relazione da lei svolta martedì scorso, molto lunga ed articolata, la parte finale, quella dedicata alle garanzie, è introdotta da un «anche». In particolare, lei ha detto: «Anche questo tema può essere affrontato con serenità (...)»; ha aggiunto: «anche tale questione può essere affrontata con serenità e trasparenza (...); ha inoltre detto: »Penso che su questo tema dovremo discutere con il ministro di grazia e giustizia anche per l'evidente connessione (...)«. Ha fatto poi riferimento alla »possibilità di discutere serenamente anche di questo delicato problema (...)«. Chiedo scusa per la lunga citazione, ma siano al quinto »anche« quando infine, ha dichiarato che la Commissione discuterà »anche con i rappresentanti del mondo della magistratura e dell'avvocatura italiana (...)«.


PRESIDENTE. È una bozza non corretta!


MARCELLO PERA. Sì, ma credo contenga una trascrizione più o meno fedele di quello che lei ha detto.
L'«anche», presidente, è una particella aggiuntiva piuttosto modesta e timida, quasi timorosa, che contiene una punta di sottovalutazione della congiunzione o,


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forse, di subordinazione, come se io dicessi che questa sera ho a cena Valeria Marini ma «anche» mia moglie; oppure dicessi: a me piacciono molto le aragoste ma «anche» l'aringa. Si capisce che quell'«anche», inserito dopo la principale, dà un senso di subordinazione, non dico di svalutazione. Certo, non credo fosse questa la sua intenzione, ma vorrei riprendere il tema perché vorrei trasformare questa particella così modesta in una particella un po' più fiera e coraggiosa e, se me lo consentono le colleghe presenti, in una particella un po' più maschia. Ciò per dire che dovremmo affrontare «anche» (nel senso di «in particolare», «soprattutto») il tema della garanzie dei cittadini, un tema fondamentale e tanto importante quanto gli altri perché, se in un paese si avverte che le garanzie dei cittadini sono messe in discussione e non rispettate, allora quel paese rischia di non avere più uno Stato di diritto. E laddove uno Stato di diritto sia messo in discussione e minacciato, la democrazia corre molti rischi.
Lei ha anche detto giustamente che c'è la preoccupazione di conciliare l'indipendenza della magistratura con il rispetto delle garanzie dei cittadini. Concordo pienamente con lei su questo punto. Mi pare, tuttavia, che i principi da conciliare siano non soltanto due ma tre. Anzitutto, il principio della parità tra accusa e difesa, principio a tutela dei cittadini; inoltre, il principio dell'indipendenza dei magistrati, a tutela dei cittadini e dei magistrati stessi; infine, il principio della responsabilità politica in ordine alle iniziative di politica criminale (meglio sarebbe dire di politica anche criminale, per evitare un clima di sospetto che molti cittadini nutrono nei confronti dei partiti politici).
Mentre i principi di parità (accusa-difesa) e di indipendenza dei magistrati sono evidenti a tutti e tutti li sottolineano, non mi pare che sia altrettanto sottolineato il principio della responsabilità per le iniziative o per le politiche anticriminali. E credo che dovremmo farlo, innanzitutto per motivi di carattere nazionale, perché c'è un dovere dello Stato di dare indirizzi politici e di risponderne ai cittadini; uno Stato che fa la politica finanziaria - tramite il Governo e il Parlamento - o la politica monetaria o la politica industriale o la politica dell'inflazione, non può sottrarsi anche ad una politica anticriminale o giudiziaria. Vi sono poi motivi di carattere internazionale; lei ne parlava nella prima parte di quella relazione cui ho fatto riferimento. Il nostro paese si trova in una situazione abbastanza strana. Quando i ministri italiani delle finanze, dell'interno o del tesoro si riuniscono con i colleghi europei e concordano delle azioni comuni, tornano in Italia ed applicano, attraverso i canali normali della politica - Governo e Parlamento - quegli accordi, quelle politiche. L'unico che non può farlo è il ministro di grazia e giustizia, il quale partecipa, come i suoi colleghi, ad incontri internazionali europei; poi, mentre i suoi colleghi tornano a casa ed attuano gli accordi democraticamente sottoscritti in quella sede internazionale, il ministro italiano torna nel nostro paese e non può dire alcunché, perché non ha nessuno a cui rivolgersi. Se in quella sede si è stabilito, per esempio, che è prioritario per gli interessi dell'Europa combattere il narcotraffico, la mafia internazionale o magari gli scempi al paesaggio, e tutti ne convengono, il ministro italiano quando torna a casa non può dirlo che a se stesso oppure farlo sapere con un'intervista ai giornali, come spesso accade.
Ecco perché questo tema della responsabilità politica dell'azione anticriminale dovrebbe essere un tema da mettere al pari degli altri.
A questo punto formulo una domanda. Se dobbiamo combinare questi tre principi - la parità accusa-difesa, l'indipendenza dei magistrati e la responsabilità politica - mi chiedo: sono soddisfatti, sono tutti egualmente soddisfatti oggi in Italia questi principi, che sono principi sacrosanti, principi di un pilastro di una democrazia? Io credo di no ed in particolare ritengo che non sia soddisfatto il principio della parità, che è proprio il principio base delle garanzie dei cittadini.

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Noi abbiamo approvato (credo che ricorra quasi il decennale) un nuovo codice, che introduceva finalmente una logica nuova, più liberale, il rito accusatorio; rito che abbiamo visto realizzato anche graficamente: di qua l'accusa, di là, ad un tavolo separato, la difesa, ed in mezzo (più o meno come lei, presidente, in questo momento) il giudice. Ma questo codice ha ricevuto delle picconate. Uso un termine, «picconata», che è stato impiegato (devo dargliene atto) dal procuratore capo della Repubblica di Milano, Borrelli, in un convegno a Saint-Vincent nel 1993, quando, tra i molti altri, denunciò gli stravolgimenti (egli li definì, appunto, «picconate») che stava subendo l'applicazione del nuovo codice.
Ne cito alcuni. La Corte costituzionale nel 1992 ha emanato la sentenza n. 254 che viene definita - mi dicono gli esperti - sentenza manipolativa additiva, e già questo ci dovrebbe mettere in allarme: se la Corte costituzionale può emanare sentenze manipolative additive vuol dire che in questo paese abbiamo un legislatore nuovo, che sfugge al controllo democratico. Comunque, in quella sede - sentenza n. 254 del 1992 - trattando l'articolo 513 del codice di procedura penale, la Corte ne dichiara l'illegittimità per la parte in cui non prevede che gli imputati di reato connesso possano avvalersi della facoltà di non rispondere. Questo in pratica vuol dire che l'imputato non può controinterrogare. Per fare un esempio molto plastico, lei signor presidente dà a me del mafioso, sostiene di esserne convinto e di averne le prove, tra le quali cita il collega Urbani; si va in dibattimento, io vorrei controinterrogare il collega Urbani, che per un caso è imputato in un procedimento connesso; il collega Urbani che ha detto a lei che io sono un mafioso non viene in dibattimento, il giudice acquisisce la dichiarazione che è nel fascicolo del pubblico ministero, senza che io possa controinterrogare il collega Urbani. La parità non c'è più.


ORTENSIO ZECCHINO. Questa norma è stata già cancellata.


MARCELLO PERA. Meno male.
Corte di Cassazione, sentenza n. 3066 del 1992, interpretazione - anche qui interpretazione - dell'articolo 38 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale: l'acquisizione di elementi di prova da parte della difesa deve avvenire tramite il canale esclusivo del pubblico ministero. Anche questo significa che l'avvocato della difesa non può raccogliere in maniera autonoma prove a favore; altro elemento di disparità.
Si arriva poi ad una sentenza della Corte Costituzionale, che a mio avviso è tra le più stravolgenti tra quelle di questi ultimi anni, in cui è contenuta una frase che veramente mi allarma e dovrebbe allarmare tutti, credo che abbia allarmato moltissimi magistrati e giuristi: «Fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere la ricerca della verità». Veda, signor presidente, ci sono due cose che i magistrati non dovrebbero mai fare: la prima è fare giustizia, perché a loro non sta fare giustizia ma applicare la legge e comminare le sanzioni; la seconda che un magistrato non dovrebbe fare perché non può fare è accertare la verità. Il processo penale non è il luogo in cui si accerta la verità, è il luogo in cui si controlla un'ipotesi accusatoria. L'accusa porta un imputato in dibattimento, muovendo contro lo stesso un'ipotesi accusatoria; compito della difesa è smantellare tale ipotesi; se la difesa riesce l'imputato se ne va, se l'accusa invece resiste alle obiezioni della difesa l'imputato viene condannato. I paesi di alta civiltà giuridica come gli Stati Uniti hanno anche una formula verbale molto evidente a questo proposito: nel verdetto alla fine del processo si dice guilty oppure not guilty. Sei colpevole soltanto perché io accusa ho resistito alle controargomentazioni della difesa, sei altrimenti not guilty perché la difesa ha vinto. Non si accerta la verità, si controlla l'ipotesi accusatoria.
Se allora la Corte costituzionale obbliga il processo penale a diventare la sede di accertamento della verità, il processo nuovo che era stato introdotto da


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accusatorio torna ad essere inquisitorio e nuovamente la parità diminuisce.
Il primo fenomeno è stato quello dell'innalzamento dell'accusa rispetto alla difesa, ma poi ve ne è stato un altro che ha scardinato la parità effettiva: l'avvicinamento dell'accusa al giudice terzo. Questo è avvenuto per la degenerazione di una serie di istituti presenti nel nostro ordinamento: dell'istituto dell'unitarietà delle carriere, dell'istituto dell'obbligatorietà dell'azione penale, dell'istituto dell'autonomia dei singoli pubblici ministeri. Ho osservato - facendo un minimo di studio di diritto comparato - che la maggior parte di questi istituti l'abbiamo solo noi in Europa. L'unità delle carriere non c'è in Portogallo, in Spagna, in Francia, in Belgio, in Germania; l'obbligatorietà dell'azione penale non esiste in Francia, in Belgio, in Spagna, in Olanda.
Signor presidente, se fra i cosiddetti parametri di Maastricht fossero previsti anche requisiti riguardanti l'ordinamento giudiziario, non entreremmo in Europa. Abbiamo istituti giudiziari che non sono competitivi con quelli dei paesi con cui dovremmo unificarci. Siamo in ritardo non soltanto per i parametri finanziari, economici, valutari e così via, né solo per quelli che riguardano l'istruzione superiore; siamo in ritardo anche per gli istituti giudiziari. Abbiamo anomalie rispetto agli altri paesi e dovremmo superarle.
La degenerazione di questi istituti anomali e peculiari (nel senso che li abbiamo praticamente solo noi) ha prodotto preoccupanti fenomeni, ben osservati e che sono sotto gli occhi di tutti. Mi riferisco alla discrezionalità di fatto dell'azione penale; qualche volta si è avuta anche la sensazione che la discrezionalità di fatto si fosse trasformata in una intenzionalità. Non voglio nemmeno toccare la pagina di Tangentopoli e di Mani pulite ma un giorno, quando scriveremo la storia di questo fenomeno, troveremo la documentazione di questi episodi.
Altro effetto perverso è la personalizzazione del pubblico ministero e la politicizzazione della sua azione penale. Abbiamo assistito (volontariamente od involontariamente: non voglio fare polemiche né fare il processo al passato, come diceva ieri il collega Folena) ad una trasformazione surrettizia del pubblico ministero in giudice. Ricordo - come tutti i colleghi, credo - una gaffe del nostro Presidente della Repubblica - non penso fosse freudiana perché veniva pronunciata in modo molto diffuso - risalente a qualche tempo fa. In una dichiarazione televisiva egli disse (credo di ricordare le parole testuali): «Giudice Di Pietro, la toga non si lascia mai!».


MARCO BOATO. Lo dicevano tutti, anche in Parlamento dicevano «giudice Di Pietro»!


MARCELLO PERA. Fu una gaffe: certamente tutti sanno che Di Pietro non era un giudice ma - ahimé - nell'opinione pubblica, e magari anche nel convincimento di qualche pubblico ministero, questa degenerazione di istituti ha fatto sì che in molti casi abbiamo assistito ad una trasformazione surrettizia e sotterranea della funzione del pubblico ministero in quella di giudice.
A questo proposito, non intendo rifare il processo al passato (lo consegno alla storia, che però conta parecchie pagine di ingiustizia: ci sono persone, partiti, movimenti e gruppi che hanno sofferto ingiustizie da quella storia) né ripercorrere la discussione circa il cosiddetto «passo avanti» o «passo indietro». La magistratura avrebbe fatto un passo avanti - del resto lo riconosceva anche il collega Folena quando parlava della tentazione della «democrazia giudiziaria» - e quindi ora dovremmo intimarle di fare un passo indietro: non voglio metterla così né dire che, poiché la magistratura ha fatto un passo avanti, lo deve fare anche la politica (altra frase del nostro ministro di grazia e giustizia). Messo in questi termini il problema è totalmente privo di soluzioni. Dobbiamo però tener presenti gli istituti particolari che ci hanno costretto e ci costringono a parlare di «passo avanti» o «passo indietro». Non è un problema di


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rapporti tra politica e magistratura: esso attiene proprio alle garanzie dei cittadini. Insisto a parlare di garanzie e non di magistratura - accolgo un invito che mi pare la collega Salvato abbia formulato ieri - perché si tratta di decidere quali nuovi istituti di garanzie e di libertà possano essere introdotti. Parte di questi ultimi - convengo con quanto diceva ieri Folena - sarà affidata alla legislazione ordinaria, ma un'altra parte dovrà essere inserita nella Costituzione, proprio perché è quest'ultima che deve garantire le libertà fondamentali.
Chiedo allora a tutti più coraggio, più di quello che ho riscontrato leggendo alcuni testi o sentendo alcuni interventi; chiedo che non si facciano calcoli; chiedo che si coltivi l'ambizione e la lungimiranza di legiferare non con l'occhio rivolto all'immediato passato o al prossimo futuro ma per almeno una generazione (non voglio essere troppo ambizioso e dire «per altri cinquant'anni»); chiedo che non si abbiano paure, che non si abbiano tabù, che non si invochino dogmi, neppure, come è stato detto, «dogmi laici» (è un ossimoro perché i dogmi laici non esistono). Perciò chiedo che si discuta seriamente anche - cito ancora lei, signor presidente - dell'unità e unitarietà della giurisdizione: fu o non fu una grande battaglia liberale quella di rendere la giurisdizione unica? Perché dovremmo tornare a dividerla, visto che ciò ha provocato danni e guasti nella libertà dei cittadini? E chiedo che si parli con serietà e con l'intenzione di fare un accordo serio della separazione delle carriere: non è un tabù, è un istituto che hanno molti e che è stato sostenuto anche da insigni magistrati e giuristi di questo paese; non vi è niente di demoniaco in ciò. Chiedo che si parli anche della non obbligatorietà dell'azione penale oppure della combinazione dell'obbligatorietà dell'azione penale con le direttive. Oggi medesimo, in tema di direttive vi sono dichiarazioni alla stampa del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura; insigni giuristi - ne ho uno davanti a me - come Vladimiro Zagrebelsky, ancora nel 1993 nel convegno che ho citato, parlava di direttive approvate dal Parlamento, in sede di esame del bilancio del Ministero della giustizia oppure della relazione del Consiglio superiore della magistratura, di direttive date dal Parlamento alle procure. Non faremmo un passo avanti se affidassimo responsabilità politica alle procure, però credo che ci approprieremmo di un istituto di democrazia se a fronte del potere delle procure, soprattutto se dovessimo salvaguardare il principio della obbligatorietà nell'interesse generale, potessimo istituire un contropotere. La democrazia vive proprio di questo. Ieri si è parlato parecchio di principi liberali o liberal-democratici, ma allora non dobbiamo preoccuparci del fatto che se diamo un potere a qualcuno dobbiamo stabilire un contropotere. Dov'è la responsabilità della politica nell'azione giudiziaria?
Chiedo che di tutti questi istituti contenuti nel nostro progetto di legge - alcuni sono contenuti anche in altri ed evidentemente muovono tutti dalla medesima preoccupazione - si parli in maniera laica e spassionata, con l'ambizione di legiferare per una legislatura, senza i tabù e senza le remore del recente passato. Ci sarà modo di riparlare del passato; adesso cerchiamo di metterlo fra parentesi e legiferiamo con lungimiranza, dunque anche di questo. Come vede, signor presidente, un «anche» qualche volta è assai importante.


PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

La seduta termina alle 13.10.


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