RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MASSIMO D'ALEMA



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La seduta comincia alle 10.10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Seguito della discussione generale sui progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.


PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione generale sui progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
Chiedo scusa ai colleghi per il ritardo con cui diamo inizio ai nostri lavori. Purtroppo, a quanto ci risulta, il centro di Roma è bloccato per la visita del Presidente del Brasile. Credo sia opportuno a questo punto cominciare i lavori; mi auguro che nel frattempo i colleghi ancora non presenti possano raggiungerci.
Riprendiamo pertanto la discussione iniziata nella seduta di ieri.


ERSILIA SALVATO. Prendo atto, signor presidente, che il centro è bloccato per una visita: io spero che possa essere bloccato anche sul piano politico - prima ancora che elettorale - e che si smetta di discutere in modo astratto del centro.
Mi auguro che in questa Commissione - così come lei ha suggerito ieri nella sua relazione introduttiva - non soltanto riusciamo a ragionare ed a discutere in termini propositivi, giungendo a decisioni comuni, sul terreno delle riforme, ma innanzitutto tentiamo una analisi per portare avanti quello spirito costituente di cui lei stesso ha parlato ieri e per capire, anche sul terreno culturale, sia le ragioni reali della crisi istituzionale sia le risposte da delineare.
Dico questo, iniziando un breve ragionamento, perché della sua introduzione, signor presidente, mi hanno colpito alcuni aspetti: su determinate questioni da lei trattate mi trovo d'accordo, su altre mi pongo interrogativi - non parlo di dissenso - che preferisco esplicitare.
Ieri lei ha detto che ci troviamo di fronte ad una crisi istituzionale la cui dimensione non sfugge ad alcuno; ha sottolineato, inoltre, un problema al quale evidentemente attribuisce grande importanza: il ricambio delle classi dirigenti. Senz'altro è un aspetto essenziale, fondamentale: non dico si tratti di un fatto marginale, tuttavia a mio avviso non è sicuramente l'obiettivo rispetto al quale costruire le risposte sul terreno delle riforme istituzionali. Se guardiamo all'esperienza di altri paesi - cosa che dobbiamo saper fare in questa Commissione -, vediamo che, per esempio, negli Stati Uniti la Costituzione non è stata modificata negli ultimi duecento anni, eppure il ricambio delle classi dirigenti c'è stato e di continuo. Quindi l'indicazione di un nesso così forte fra ricambio delle classi dirigenti e riforme da elaborare nella Commissione mi sembra non dico fuorviante, ma tale da porre qualche interrogativo.
Sono convinta che dobbiamo partire, invece, da un'altra lettura della crisi istituzionale e dalla volontà di capire di più e meglio i disagi reali presenti nei cittadini, anche per costruire le risposte più efficaci. Da tempo ci siamo tutti interrogati non dico sulla rottura del patto istituzionale - un'espressione che mi piace poco -, ma sicuramente sui profondi e molto articolati disagi esistenti nel paese: penso ai disagi delle popolazioni


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del nord (e qui l'assenza della lega nord non ci esime dall'interrogarci su tali questioni), ma - da meridionale - penso soprattutto ai disagi delle popolazioni del sud. Leggo questi fenomeni, sì, come una rottura: una rottura tra lavoro e cittadinanza, un rapporto che era prescritto nella prima parte della Costituzione, che è andato in crisi e che oggi vive una difficoltà profondissima, anche durante la nuova fase politica e dentro le scelte che stiamo compiendo tutti insieme sul terreno politico.
Una delle ragioni fondamentali per riformare profondamente ed innovare la seconda parte della Costituzione è proprio la necessità di trovare le risposte più efficaci per riannodare il patto tra cittadinanza e lavoro; anzi, dico di più: si tratta di riannodare il patto tra cittadinanza, lavoro, lavori, cultura, saperi. Occorre poi ragionare - ed in proposito lei ha detto cose che condivido, signor presidente - anche sul terreno delle libertà e delle garanzie.
Nell'ambito di questo sforzo di riflessione dovremo guardare alle questioni aperte nel nostro paese, ma anche allo scenario dell'Europa, già aperto. Per costruire soluzioni efficaci sul terreno della questione Europa, il primo tassello, la scelta da compiere riguarda il diritto di cittadinanza delle socialità a livello europeo. Occorre rispondere ad una serie di domande: perché rinunciare ad una parte di sovranità? In nome e per conto di chi, per quali interessi? Si pone così la grande questione dello spazio europeo, che non consiste soltanto nella necessità di rivedere le istituzioni della decisione democratica (il deficit di democrazia a livello europeo non sfugge a nessuno di noi), ma anche nell'esigenza di analizzare i tanti silenzi e le tante questioni non risolte sul terreno dei diritti sociali (anche questo è un fenomeno strettamente legato al deficit di democrazia).
Occorre, in sostanza, riannodare i rapporti fra questione sociale e questione istituzionale, per ragionare e lavorare concretamente anche sulla riforma della seconda parte della Costituzione.
Avendo ascoltato con attenzione, oltre alla sua introduzione, signor presidente, gli interventi degli altri colleghi, mi sembra che forse dovremmo anche scrivere un nuovo vocabolario. Capisco che detto così è un po' provocatorio, ma è chiaro che nuove parole stanno entrando nel nostro lessico. - uno sforzo che deve essere compiuto con grande rigore, tentando di capire meglio di cosa stiamo parlando. Ho ascoltato il collega Villone, per esempio, ragionare di federalismo competitivo e di federalismo della concertazione. Egli ci ha dato anche una spiegazione suggestiva in merito alla scelta del federalismo competitivo, parlando innanzitutto di una rigorosa distinzione delle competenze. - una spiegazione molto suggestiva sul piano logico, ma dal punto di vista lessicale si fa un po' fatica ad associare il concetto di competizione a quello di distinzione delle competenze. Siccome, tuttavia, l'espressione «democrazia della competizione» sta entrando nel nostro linguaggio, vorrei che capissimo di più e meglio su cosa stiamo parlando. Tutti abbiamo colto da tempo, sicuramente con molta fatica ma anche con spirito di verità, la necessità di superare pratiche politiche di concertazione o consociative. Da tempo sono convinta che, se un deficit le istituzioni hanno segnato, questo è consistito nel non dare cittadinanza alla democrazia dei conflitti; parlare oggi di democrazia competitiva e solidale mi fa quindi sorgere una serie di domande in ordine alle quali vorrei capire meglio e di più.
Non intendo certo sostenere che competizione e solidarietà siano termini antitetici, ma è indubbio che da essi scaturiscano alcuni interrogativi. Ecco perché vorrei capire di più e meglio l'intenzione di chi propone modelli di democrazia competitiva e solidale, capire cioè dove si intenda approdare e, nel contempo, individuare le questioni vere sulle quali, a mio avviso, dovremmo ragionare. Sono convinta che dovremmo ragionare di più sulla democrazia partecipativa e che in questa Commissione grande spazio debba essere riservato alla riflessione ed all'elaborazione,

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in un'epoca segnata dal maggioritario, su tutti gli strumenti di democrazia diretta.
Ragionare sulla democrazia partecipativa risponde, a mio avviso, anche ad un'altra esigenza di fondo. Nella nostra società assistiamo sempre più a processi di esclusione. Se tutti siamo convinti dell'opportunità di non toccare la prima parte della Costituzione, dovremmo anche essere convinti che l'asse culturale di questa parte è legato ad un processo e ad un progresso inclusivo e non esclusivo. Ragionare nuovamente di democrazia partecipativa, a mio avviso, può consentirci di trovare un equilibrio tra più questioni, obiettivo certamente difficile ma che, con grande coraggio, volontà innovativa ed apertura al confronto, dobbiamo cercare di conseguire: equilibrio tra le ragioni della governabilità e dell'efficacia e ragioni della partecipazione della rappresentanza, dando un senso ed una sostanza diversi a quest'ultima.
Noi siamo aperti a questo ragionamento. Lei ieri ha detto, signor presidente, che questa Commissione non dovrà occuparsi di legge elettorale, ma è chiaro che sulle questioni attinenti a tale materia potrà fornire indirizzi. D'altra parte, in molti disegni di legge - in particolare, ho letto quello della sinistra democratica - è contenuto un riferimento molto chiaro a questioni attinenti alle leggi elettorali, con proposte - che rappresentano scelte del tutto legittime, sulle quali dovremo discutere - tese alla costituzionalizzazione di alcuni punti riconducibili alla specifica materia. Dovremo quindi ragionare di indirizzi e, in tale ambito, voglio subito dire che appartiene alla nostra cultura l'esigenza di fornire risposte forti alla questione della governabilità e dell'efficacia, a tal fine utilizzando diversi strumenti.
Alla nostra cultura appartiene anche - e credo si tratti di un aspetto sul quale tutti dovremmo essere particolarmente sensibili - la questione della partecipazione. Al di là dell'equilibrio sul terreno elettorale, un equilibrio che possiamo e dobbiamo ritrovare, va considerato l'equilibrio dei poteri. A tale riguardo passo ad esaminare una delle questioni che si è ormai collocata al centro della discussione non tanto in Commissione ma soprattutto fuori di qui, con una massmediologia molto attenta a questi problemi ma anche tesa a strumentalizzare i ragionamenti nel momento in cui induce a ritenere che la questione principe della quale dovremmo occuparci sarebbe sostanzialmente quella attinente alla forma di governo. A tale riguardo si dà conto di una scelta molto netta, operata da famosi politologi, su una forma di governo che metta immediatamente in contatto diretto il premier, il leader, con i cittadini, scelta che, d'altra parte, ho appreso essere stata assunta a pieno titolo in varie proposte di legge. Anche su questo versante si avverte la necessità di capire di più e meglio. In particolare, mentre considero del tutto legittimo e, quindi, trasparente un processo di collegamento diretto tra premier e cittadino in tutte le ipotesi presidenzialiste e semipresidenzialiste, mi convince di più un ragionamento che parta da una diversa cultura, qui definita, con termine ambizioso, neoparlamentarismo, una riflessione cioè che si concentri anzitutto sull'equilibrio tra i poteri e sui poteri reali da attribuire al Parlamento. In realtà, nelle proposte avanzate (che costituiranno oggetto di riflessione e di confronto), da una parte si afferma - a mio avviso, in maniera molto teorica - il neoparlamentarismo e, dall'altra, si opera la scelta molto netta del collegamento diretto tra premier e cittadino, tra premier non soltanto designato ma tale da essere strettamente legato alla sua maggioranza parlamentare. Appena ieri, l'onorevole Soda ci ha indicato quali sono i poteri riconducibili a questo particolare modello, poteri che in larga misura, signor presidente, somigliano a quelli presidenziali. Di qui la necessità di capire di più e meglio da dove partiamo, quale cultura vogliamo affermare, quali sono le scelte sulle quali ragionare.
Nel nostro disegno di legge è contenuta una proposta diversa, che considero realmente neoparlamentarista. Essa infatti

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prevede non soltanto un equilibrio reale dei poteri tra Governo e Parlamento ma attribuisce anche ad una sola Camera, risultato della nostra scelta convinta a favore del monocameralismo, il potere di dare la fiducia al premier e la sfiducia costruttiva. Si tratta quindi di una scelta diversa, che considero più coerente con l'intento dal quale si parte.
Sono convinta che, oltre alla forma di governo, grande importanza rispetto alla vita dei cittadini abbiano le questioni attinenti alla forma di Stato. Sotto questo profilo, condivido molto il ragionamento sviluppato ieri dal senatore Villone ed anche alcune considerazioni del senatore D'Onofrio, rispetto a scelte molto nette che non consistono soltanto in una semplice inversione dei poteri (più poteri alle regioni o più poteri allo Stato), ma indicano anche in modo molto chiaro una strada, un percorso per disegnare in maniera diversa la fisionomia del nostro paese. Il senatore Villone ha usato la parola «federalismo», pur dimostrando attenzione e consapevolezza dell'ambiguità che in questo termine si è addensata come un grumo molto pesante. Io preferisco parlare di repubblica delle autonomie; so che alcuni colleghi, anche appartenenti al Polo, sono molto attenti ad una scelta che non soltanto restituisca poteri ma tenti anche di incidere soprattutto sulle libertà. Credo si tratti di un dato del quale tutti dobbiamo essere consapevoli. Quando parlo di repubblica delle autonomie, penso ad una democrazia partecipativa e non ad una democrazia competitiva.
Poiché credo sia utile in questa Commissione anche rifarsi ad esperienze, culture e saperi depositati nel tempo, vorrei citare il passaggio di uno scritto di un autorevole costituzionalista, il professor Ferrara, il quale nel 1990, contrastando la democrazia competitiva, scriveva in un suo saggio che la democrazia non può essere mai qualcosa «che diventi mercanzia da scambiare attraverso la concorrenza capitalistica». Non so se, nel momento in cui si propone il modello competitivo, si intenda ragionare in questi termini, ma sottolineo ancora la necessità di capire di più e meglio, anche collegandoci alla questione dell'Europa.
Mi scuso per quella che è stata solo apparentemente una digressione; dico «apparente» perché essa investe il senso e la sostanza di questioni che mi stanno molto a cuore. Credo che, in materia di forma di Stato, ci muoviamo su un terreno in larga parte già arato. Certo - ripeto - si tratterà di capire di più e meglio la soggettività politica ed istituzionale delle regioni e, soprattutto, delle autonomie locali, rifuggendo e contrastando i centralismi regionali. In tale ambito un capitolo molto importante è quello degli statuti. Altra cosa - a tale riguardo dissento dal senatore D'Onofrio - è una ricerca di ragionamento sugli statuti, che non è soltanto ricerca di autonomia, essendo legata ad una sovranità illimitata delle regioni. Su tale impostazione avrei da porre numerosi interrogativi.
Avviandomi rapidamente alla conclusione, vorrei affrontare altre due questioni. Ho già detto che è molto importante ritornare a riflettere ed a ragionare sulla democrazia diretta. Il dibattito che ci ha diviso ed appassionato in queste ultime settimane sull'uso strumentale del referendum deve renderci consapevoli della necessità di rivedere questa parte. Sono convinta da tempo che non si tratti soltanto di aumentare il numero degli elettori; anzi, in una fase di maggioritario, su questo punto avrei qualche perplessità. La questione vera è un'altra, è che il referendum abrogativo deve essere molto netto nell'indicare l'oggetto, la materia (abrogazione di una legge o di un articolo) e che non può essere consentito - questo lo si farà con legge ordinaria - che in una sola tornata elettorale ci sia un proliferare di materie referendarie. Ritengo che si tratti di uno strumento molto valido se viene riportato all'impostazione originaria.
Dobbiamo anche pensare a forme di referendum propositivi. Anch'io, come colleghi di altre parti politiche, credo che la strada da percorrere sia quella delle leggi di iniziativa popolare, che possono diventare materia di referendum propositivo

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se non convertite rapidamente dal Parlamento. Su questo punto potremo confrontarci e credo che anche su di esso troveremo materia per intenderci.
L'ultima questione è quella della giustizia. Signor presidente, ieri lei ha fatto un'affermazione molto netta - che condivido - avocando a sé un ruolo di garante di una libera discussione sul terreno della giustizia da fare in questa Commissione; un'affermazione che da qualche parte, con la solita malizia, non so se solo giornalistica, è stata letta ancora una volta come terreno di scambio e intesa. Allontano da me qualsiasi interpretazione di questa natura e sono fermamente convinta che bisognerà occuparsi di garanzie - mi piace più questo termine che quello di «giustizia» -, però credo che fin dall'inizio, nell'ambito dei comitati che istituiremo, dovremo capire bene da che cosa partiamo e dove vogliamo approdare, perché i mali che attraversano il difficile rapporto giustizia-politica, con una delega che la politica per troppo tempo, anche a sinistra, ha dato alla giustizia, rinunciando ad un esercizio forte rispetto al suo ruolo e a ragionare in termini seri di garanzie e libertà dei cittadini, non sono ascrivibili al dettato costituzionale. Cerchiamo di sgombrare il campo da equivoci e da paradossi che quando vengono fatti sedimentare nel senso comune possono portare soluzioni sbagliate.
Dobbiamo e possiamo rivedere la Costituzione, però su due questioni non vedo possibili deroghe: quella dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura e quella dell'obbligatorietà dell'azione penale. Certo, l'azione penale, come dicono tanti colleghi, oggi è discrezionale. Posso convenire con questo giudizio, che è molto pesante, e forse potrei, per la mia cultura, aggiungere altre parole altrettanto pesanti, però non facciamo del male la panacea: se l'azione penale oggi è discrezionale, non credo che per questo dobbiamo scriverlo in Costituzione, altrimenti il principio di uguaglianza dei cittadini viene leso e viene leso per sempre. Credo invece che altre strade si possano percorrere con più efficacia.
Queste sono le osservazioni che sommariamente ho voluto fare all'inizio dei nostri lavori dichiarando, signor presidente, che da parte nostra vi è la massima apertura al confronto e alla ricerca delle soluzioni più efficaci. Nessuno di noi ha le ricette in tasca: forse dobbiamo non soltanto affermare questo assunto ma tentare di praticarlo, però è indubbio che non tutte le soluzioni sono uguali e che non ci sono soluzioni neutre. Anche sul terreno delle riforme istituzionali si fanno scelte non ideologiche ma ideali, che attengono anche a quanto ognuno di noi vuole rispetto alla rappresentanza di interessi. Se siamo convinti - come io lo sono - della validità sostanziale della prima parte della Costituzione, credo che lo spirito costituente di cui dovremo dare atto sia proprio nello scrivere non soluzioni neutre ma soluzioni che finiranno anche col dividerci: meglio una divisione nella trasparenza piuttosto che pensare, in tema di riforme costituzionali, a qualcosa che possa essere letto indifferentemente da una parte e dall'altra. Ripeto che, sul terreno istituzionale, non ci sono soluzioni che possono essere lette con indifferenza. A mio avviso, su questo terreno l'indifferenza è foriera di quella che oggi è la spia più seria della crisi delle istituzioni e cioè il rischio, che spesso avverto, non solo di autoritarismo ma anche di un impoverimento della politica e della sua pratica nella ricerca di strade soltanto leaderistiche perché altre non ne sono state trovate e forse non sempre si sono volute trovare; è giunto il tempo di trovarle.


LEOPOLDO ELIA. Grazie per la pazienza che avrete nell'ascoltare alcune considerazioni di carattere generale, confermate - penso - da esemplificazioni che farò mano a mano durante l'intervento.
Giustamente il presidente nel suo discorso di ieri ha sottolineato i punti forti di convergenza che dovrebbero aiutare i lavori di questa Commissione per giungere a quell'accordo di cooperazione che sta


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alla base di gran parte delle esperienze sia costituenti sia di revisione costituzionale di questo periodo. Voi sapete che, accanto all'accordo di cooperazione come base di un lavoro improntato a spirito costituente, ci sono casi, come quello che si è verificato in Francia nel 1958, in cui più che un accordo di cooperazione c'è stato un portatore di una soluzione che si è poi imposta alle altre forze politiche. Qui questo accordo di cooperazione dovrebbe essere propiziato dalla consapevolezza che c'è bisogno di un di più di legittimazione democratica delle nostre istituzioni, nel quadro di una tendenza bipolare ormai sempre più accettata, anche se non mancano resistenze in proposito. Abbiamo la consapevolezza che possiamo e dobbiamo dare a questo paese, insieme, un di più di democrazia e di funzionalità delle istituzioni. I due obiettivi coincidono felicemente sulla base di un'esperienza che tocca indubbiamente non solo la prassi di questi cinquant'anni, ma anche un difetto iniziale di regole, perché i dispositivi per la stabilità del Governo e per la sua funzionalità contenuti nel famoso ordine del giorno Perassi, per un complesso di circostanze ormai anche troppo note, non sono stati adottati. Quindi, da una parte dobbiamo rimediare a questo difetto e dall'altra dobbiamo tenere conto di esperienze costituzionali che nel mese di settembre del 1946 - in cui sono state adottate nelle Commissioni le decisioni fondamentali che poi sono sopravvissute durante tutto l'iter costituente - non c'erano. Pensiamo al presidenzialismo: c'era solo quello americano; poteva essere richiamato quello di Weimar, ma non era un'esperienza felice.
In questo quadro, penso che l'accordo di cooperazione, che deve essere alla base del nostro progetto e del nostro lavoro, sia incentivato anche da minacce all'unità stessa dello Stato italiano e dalla minaccia di una disaffezione interna dell'opinione pubblica e dell'elettorato verso la politica, che può trasformarsi facilmente, come ci dimostra l'esperienza di questa transizione, in una disaffezione verso le istituzioni tout court: dalla disaffezione verso la politica a quella verso le istituzioni democratiche.
Se siamo consapevoli di questo, credo che oltre ai punti di convergenza di base che ci sospingono in questo lavoro, dobbiamo essere consapevoli delle difficoltà e dei pericoli che possono minacciarlo. A questo proposito, è sempre utile la lettura di scritti del professor Zagrebelsky degli anni 1985-1986 sui paradossi della riforma costituzionale; ne consiglio la lettura ai colleghi che non li abbiano ancora letti, perché sembrano dei caveat, delle messe in guardia superate, ma in realtà alcune di quelle definizioni e ammonimenti rimangono validi. Lasciamo stare il paradosso massimo della riforma costituzionale, per cui le decisioni più necessarie sono quelle che si rivelano indispensabili per superare la disaggregazione, la frammentazione italiana, ma poi queste decisioni sono quelle che richiedono il massimo di aggregazione, l'aggregazione più forte. Allora, questo divario tra situazione frammentata di partenza e richiesta del massimo di coesione e di aggregazione nel momento in cui si assume la decisione più politica, che è quella di riforma della Costituzione, rappresenta certamente una minaccia, un pericolo, che dobbiamo tenere sempre presente. Analogamente, occorre considerare la necessità di sdoppiamento che si ha per il paradosso del riformatore riformato: il riformatore che deve riformare se stesso, in qualche modo, con uno sdoppiamento abbastanza pirandelliano, è certamente un elemento da tenere presente.
Noi abbiamo superato il blocco che Zagrebelsky considerava insuperabile con una serie di eventi indubbiamente non riducibili soltanto al referendum del 1993, perché già il referendum del 1991 aveva messo sull'avviso circa la crisi del sistema politico; vi sono state poi le elezioni del 1992 nonché - elemento importantissimo - la Commissione bicamerale De Mita-Iotti, in cui prima del referendum si era già arrivati ad affermare che il 60 per cento dei seggi sarebbe stato assegnato con il sistema maggioritario uninominale

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ed il 40 per cento con il proporzionale. Il referendum, con il 75 per cento contro il 25, ha dunque coronato un processo che era in atto ed è stato poi agevolato o potenziato da eventi giudiziari che è inutile richiamare.
La prima lezione da trarre dalla riconsiderazione dei paradossi della riforma costituzionale è che non devono esserci questioni macigno che diventino pregiudiziali: non ci possono essere in questa sede questioni che, per sovraccarico ideologico oppure per un eccesso di dogmatismo o anche di mitizzazione di esperienze straniere, diventino veramente pregiudiziali; infatti, tutte le questioni che abbiamo di fronte sono difficili, per ragioni diverse ma tutte in qualche modo non semplificabili con soluzioni che possano essere proposte in toto a priori.
Quale federalismo? Tornerò in seguito sulla problematica sollevata ieri dal collega Villone, ma è sufficiente pensare alla differenza tra il federalismo austriaco e quello tedesco per constatare che ci troviamo di fronte a scelte molto difficili.
Quanto alla giustizia, alle garanzie, alle norme sulla giurisdizione, che cosa si può fare in sede di riforma costituzionale e che cosa, invece, è sicuramente destinato alla legislazione ordinaria e si può fare soltanto con quest'ultima? Nel momento in cui viene affermata l'esigenza della parità dei mezzi a disposizione di accusa e difesa, mi chiedo se tali affermazioni non debbano essere necessariamente in qualche modo contenute o circoscritte per non indurre qualcuno a ritenere che anche gli avvocati di parte privata possano avere a loro disposizione la polizia giudiziaria. C'è bisogno di tutta una serie di raccordi tra principi costituzionali, che vanno ben definiti per non sollevare un'infinità di questioni di fronte alla Corte costituzionale, e quella che non può non essere una disciplina ordinaria del codice di procedura penale, cui sono affidate gran parte delle garanzie concrete del cittadino imputato o indagato.
Analogamente, con riferimento al Parlamento, quanto e quale diritto parlamentare tratto dai regolamenti o dalle consuetudini deve diventare diritto costituzionale? La disciplina del numero legale, quella relativa alle garanzie delle minoranze, i poteri del Governo, il suo diritto ad attuare il proprio programma, in che misura devono diventare - in parte devono diventarlo sicuramente - norma costituzionale?
Un secondo pericolo, oltre che nelle questioni macigno, deve essere ravvisato negli slogan che hanno avuto troppo corso in questo periodo di dibattiti, soprattutto di carattere giornalistico. Quando vedo accoppiati presidenzialismo e federalismo, quasi come si trattasse di un collegamento indissolubile, mi devo domandare: quale presidenzialismo? Quale regime presidenziale? È evidente, a mio avviso, che solo il presidenzialismo di tipo americano è veramente compatibile con il federalismo; non lo è certamente il semipresidenzialismo francese, che rifugge dal dare alle regioni uno statuto che sia di rilievo costituzionale e che finora non è stato neanche in grado di varare una legge elettorale per i consigli regionali che dia consistenza, nei confronti dei dipartimenti, alla dimensione regionale. Allora, quale presidenzialismo per quale federalismo? Questo collegamento è estremamente problematico e presuppone una scelta che qualche volta vedo non operata: constato che vengono messi indifferenziatamente sullo stesso piano presidenzialismo americano e semipresidenzialismo francese, due realtà completamente diverse e certamente non assimilabili.
Un altro slogan è che in Italia vi sia stato il semipresidenzialismo di fatto; mi dispiace per il collega Panebianco che, sul Corriere della Sera insiste tanto su queste affermazioni, ma ciò significa dimenticare totalmente che anche le supplenze che si sono verificate in Italia nella transizione non hanno nulla a che vedere con i poteri esercitati dal presidente francese, soprattutto con l'avocazione di questioni che competerebbero normalmente all'autorità amministrativa o ministeriale; avocazione che avviene in Francia. Questo vale anche con riferimento alla coabitazione: nessuno può paragonare il potere tribunizio inventato

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da Mitterrand durante la prima coabitazione con i discorsi, gli ammonimenti che ritroviamo negli interventi dei Presidenti italiani. Se dimentichiamo quanto è avvenuto in Francia, anche in occasione delle coabitazioni (per esempio, le ordinanze deliberate dal governo Chirac e bloccate dal presidente Mitterrand), la confusione è destinata ad imperversare. Lo stesso vale allorché si confonde il sindaco italiano con il sistema di elezione diretta del presidente israeliano. Evidentemente si tratta di situazioni del tutto diverse per il solo fatto che non si può confondere un governo locale con un governo che investe a tutto tondo la politica estera e la politica interna. Quindi, rifiuto di accedere a questioni macigno, o a slogan di propaganda, altrimenti rischieremmo di rientrare in quel castello dei veti incrociati, che è poi quello dei paradossi della riforma costituzionale di Zagrebelsky, da cui siamo usciti con quella serie di eventi negli anni 1992-1993 di cui già ho fatto parola.
L'altro pericolo che sovrasta i nostri lavori è considerare l'esperienza sempre più vicina degli altri paesi democratici con uno spirito male orientato, portato a prendere in considerazione più le eccezioni che i comportamenti di regola. Se prendiamo in considerazione le eccezioni, certamente la nostra attenzione è richiamata soprattutto da Francia e Israele, ma se invece vogliamo tenerci alla regola ed alle medie europee di governi che stanno a metà strada fra il parlamentarismo maggioritario e, diciamo, il neoparlamentarismo, dobbiamo rifarci alle esperienze tedesca e spagnola, ed in parte anche a quella inglese. Dobbiamo allora mantenere questo equilibrio, non tanto per l'esigenza di un'analisi di diritto comparato ben documentata quanto per non cadere in equivoci gravi avvicinandoci alle esperienze straniere, e soprattutto alla nostra esperienza di questo cinquantennio, che deve essere la prima di cui tenere conto; possiamo così, per esempio nel caso della forma di governo e della forma di Stato, orientarci indubbiamente meglio nei nostri lavori.
Nel caso del sistema francese, per esempio, mi sembra innegabile che vi sia stata una sorta di idealizzazione, di visione tutta ottimistica, direi acritica, sollecitata da alcune esemplificazioni in cui, nella sua propaganda finale, non tanto nella sua elaborazione precedente, a mio avviso è caduto anche Duverger. Se ci si avvicina al sistema francese senza pregiudizi troppo ottimistici, si deve osservare che il problema della doppia legittimazione (del Presidente con l'elezione diretta, del Parlamento con l'elezione dei membri dell'Assemblea nazionale) si traduce in una grave difficoltà di conciliazione delle due maggioranze, che sono portate a non coincidere, non solo nei due casi di coabitazione, ma anche nei casi in cui il Presidente della Repubblica non sia il capo del partito più forte della coalizione di maggioranza (caso classico come quello di Giscard d'Estaing). In queste situazioni, la non coincidenza delle due maggioranze dà luogo a sistemi che sono profondamente dissociati fra loro. Quando il Presidente della Repubblica è leader del maggior partito della coalizione vittoriosa, abbiamo una concentrazione estrema di poteri nella sua persona che mortifica tutte le diarchie valorizzate da Sartori; infatti, quando il Presidente comanda per davvero (non solo come De Gaulle ma anche come per certi periodi ha comandato Pompidou, o come ora, all'inizio della Presidenza, comanda Chirac), la diarchia si dissolve, il Presidente interviene in tutti gli affari, preannuncia la riforma della leva militare, dirige (come ha fatto Mitterrand) i grandi lavori pubblici di Parigi, dalle torri della difesa alla piramide del Louvre. Abbiamo quindi una concentrazione assoluta di poteri, che dà luogo ad un fenomeno di autentica monarchia elettiva, o monarchia repubblicana.
Quando invece c'è la coabitazione (badate bene, se vincesse Jospin nelle future elezioni, avremmo quattro anni di coabitazione nel settennato di Chirac) la diarchia diventa vera; per esempio, nella seconda coabitazione di Mitterrand, indubbiamente abbiamo avuto una vera diarchia

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fra Balladour ed il Presidente decadente e malato della sua ultima esperienza. Ma allora abbiamo anche le incertezze della coabitazione non trasferibili in un'altra Costituzione: in nessun testo scritto è indicata la regola che si situa fra il potere residuo del Presidente della Repubblica ed il potere del Primo ministro investito da una maggioranza parlamentare diversa da quella presidenziale. Come non considerare, allora, questi problemi di fronte al paradosso dell'irresponsabilità del Presidente della Repubblica francese, che ha in sé la massima concentrazione di potere quando è leader della maggioranza e che non è responsabile di fronte al Parlamento, perché responsabile è solo il Primo ministro? Questa dislocazione di responsabilità è un punto fondamentale del sistema francese di cui dobbiamo prendere atto, per essere disponibili ad una valutazione critica: faccio queste osservazioni perché mi sembra che vi sia stata un'enfasi, un trasporto non meditato per una democrazia che è certamente governante, ma che in certi momenti, anche per la mortificazione del Parlamento, sembra non essere deliberante.
Per quanto riguarda Israele, evidentemente si tratta di un'esperienza troppo peculiare (un regime proporzionale; i gravi problemi di quel paese) per essere presa in considerazione; anche in questo caso, però, la dissociazione fra Presidente e maggioranza è veramente impressionante. Sin dai primi passi del primo Presidente israeliano eletto abbiamo dovuto notare un distacco dalla sua maggioranza, perché altrimenti egli non avrebbe potuto concludere gli accordi di Hebron; allora, il pericolo che l'elezione diretta faccia partire per la tangente, un po' troppo per conto suo, il Presidente eletto distaccandolo dalla maggioranza che è stata eletta con lui (poco dopo di lui nel semipresidenzialismo francese, insieme a lui nel premierato israeliano) deve farci riflettere.
Al collega Soda, che mi ha fatto l'onore di una citazione, ricordando come io stesso abbia sostenuto che più vi è stato multipartitismo estremo, più vi deve essere una reazione forte per concentrare e responsabilizzare il potere, debbo dire che vi sono dei gradi per questa reazione: non è detto che essa debba per forza finire nell'elezione diretta del vertice dell'esecutivo; può bastare il superamento, che è in atto, per esempio facendo riferimento al cancellierato tedesco. Quest'ultimo si fonda su un sistema elettorale proporzionale, sia pure con lo sbarramento del 5 per cento; ebbene, noi siamo andati oltre con il 75 per cento di seggi assegnati con il sistema uninominale. Non è detto che, con altri congegni di cui ci occuperemo nei comitati, non possiamo andare anche più in là dei tedeschi in una serie di altri aspetti. Ma non dimenticherei il monito di Sartori, questo sì veramente giustificato, per ciò che riguarda le soluzioni di tipo israeliano concernenti l'automatismo sfiducia-scioglimento, che ci invita ad un certo grado di flessibilità: mantenere, insieme con uno sforzo serio di conquista della stabilità normale della legislatura, anche qualche soluzione che consenta un margine di flessibilità.
Un altro esempio riguarda la forma di Stato, il federalismo. Ho ascoltato con grande attenzione l'intervento di ieri del collega Villone, così lineare e determinato, sul federalismo competitivo. Ma mi devo chiedere: è una scelta? Abbiamo veramente la possibilità di scegliere tra federalismo competitivo e federalismo di concertazione, o è la realtà a ridurre enormemente la nostra possibilità di scegliere tra queste due soluzioni? Se consideriamo l'esperienza italiana del regionalismo, da valutare piuttosto negativamente, sul piano del potere legislativo, vediamo che si fonda sulla seguente distinzione: nelle materie di competenza regionale, il Parlamento fissa i principi fondamentali e le regioni stabiliscono la legislazione di attuazione, i dettagli. Ebbene, questa esperienza è fallita, perché questa distinzione è stata più volte scavalcata dal legislatore nazionale. E anche le riserve, che sembravano blindate, di legislazione esclusiva delle regioni a statuto speciale sono state tutte «indubbiate», tutte in qualche modo

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scavalcate da concetti come l'interesse nazionale e le grandi riforme economico-sociali.
Quando eravamo più giovani (o meno anziani) eravamo portati ad accusare il centralismo della Corte costituzionale, il centralismo della burocrazia di Roma. Certamente c'era anche questo, ma quando abbiamo cominciato a guardarci intorno (alla Germania, agli Stati Uniti d'America), abbiamo dovuto prendere atto che il processo di dissolvimento dei confini tra il potere legislativo nazionale e il potere legislativo regionale è un fenomeno diffuso in tutto il mondo federale; negli Stati Uniti, dove la spinta roosveltiana ha fatto entrare a fondo lo Stato federale e le leggi federali nell'economia e nei diritti sociali (perché non ci sono vere difese), e in Germania, dove, nonostante le possibilità di contrattazione nel Bundesrat, la legislazione federale concorrente (del tutto diversa da quella italiana) ha invaso territori che sembravano intangibili: perfino quelli della sovranità culturale dei laender sono stati toccati.
Di fronte a questa realtà di diritto comparato, di esperienza mondiale, come facciamo a dire che possiamo garantire alle regioni un forte potere legislativo? Credo che gli stessi progetti distribuiti in questa Commissione smentiscano questa possibilità. Prendiamo quello della sinistra democratica. Dopo l'elenco dei poteri assegnati allo Stato, al di fuori dei quali dovrebbe esistere un potere regionale esclusivo, si esprime un precetto di questo genere: la legge statale prevale sulla legge delle regioni o delle province autonome per garantire a tutti l'eguale godimento dei diritti e delle libertà costituzionalmente protetti e per tutelare preminenti interessi nazionali. Voi vedete che il confine si labilizza irresistibilmente. Ma è così in quasi tutti i progetti, che sono tutti ispirati, influenzati dall'articolo 72 della legge fondamentale tedesca. Nel progetto di forza Italia trovo, fra le materie riservate allo Stato, i diritti fondamentali dei lavoratori: voi capite che si tratta di una clausola estremamente ampia e che ci può portare molto lontano nell'intervento da parte del legislatore federale.
Mi avvio alla conclusione, scusandomi per la lunghezza dell'intervento, osservando che l'elasticità dei rapporti è determinata anche dall'interpretazione del principio di sussidiarietà. Giustamente il collega D'Onofrio ha detto ieri che questo principio, in qualche caso, gioca a favore delle regioni (sempre meno nel caso dei laender tedeschi), mentre rischia di giocare sempre più a favore del potere legislativo centrale. Aggiungiamo l'Europa, aggiungiamo tutte le norme provenienti da Bruxelles e che intaccano i poteri delle regioni oltre a quelli dello Stato, ed ecco che siamo ricondotti alla considerazione per cui il federalismo non si può risolvere - mi occupo solo del livello legislativo - in un riparto di competenze attribuito una volta per tutte. Il federalismo è un processo, come ci dimostra l'esperienza storica, un processo che deve essere continuamente riequilibrato e garantito per non espropriare totalmente una delle due parti, la più debole.
Allora, mi rendo conto dei problemi del rapporto nord-sud, mi rendo conto dell'esistenza di regioni forti e regioni deboli; ma mi rendo anche conto delle garanzie che dobbiamo dare alle regioni che si sentono più vicine per confini, per territorio, e anche per contiguità psicologica alle regioni della media Europa. Per questa considerazione dobbiamo certamente riprendere criticamente in esame il presupposto del federalismo competitivo, per valutare se il federalismo in larga misura di concertazione non è una necessità, in qualche misura, dello Stato contemporaneo e del federalismo contemporaneo.
Concludo davvero dicendo che gioverà ai nostri lavori, anche quando fosse finita la luna di miele di questa discussione generale, rifiutare le classificazioni dotate, se non nella forma nella sostanza, di un'intolleranza che voglio considerare involontaria. Chi non la pensa come noi non è un conservatore incallito né uno sprovveduto eversivo o sovversivo: teniamo

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conto dei dati della realtà e raggiungeremo, sia pure con fatica, i nostri obiettivi.


TIZIANA PARENTI. Signor presidente, il tema delle garanzie e in particolare dell'organizzazione costituzionale della giustizia che abbiamo presentato come gruppo di forza Italia, e che io presento in questo momento, non vuole essere oggetto di polemiche né di controversie interindividuali con alcuno, né tanto meno far credere che si tratti di argomenti eversivi, argomenti di rottura o, ancor peggio, argomenti per imbrigliare l'indipendenza della magistratura. È questa una riflessione riassuntiva di una meditazione avvenuta a tappe in cinquant'anni della nostra storia e che prende l'avvio dalla prima Carta costituzionale. I medesimi problemi che solleviamo adesso si erano posti all'epoca; allora ebbero una soluzione che costituiva una reazione come avviene in tutti in paesi che escono da un regime autoritario: si tratta di formazioni costituzionali più contro un modello da cui si esce che non volte ad uno sviluppo più democratico, più liberale della società. Nella stesura della precedente Costituzione, ripeto, i costituenti si posero gli identici problemi che ci poniamo noi; né avrebbe potuto essere diversamente, come dimostra anche la storia di altri paesi a democrazia occidentale anche più antica della nostra, nei quali quei problemi sono stati risolti, ovviamente senza mai pretendere di essere arrivati alla perfezione, cioè ad un perfetto equilibrio fra il sistema della giustizia e quello politico, ma tentando - e ciò soprattutto si rileva dalla Costituzione degli Stati Uniti - di creare pesi e contrappesi, affinché nessun potere politico o giudiziario sia assolutamente irresponsabile ma la responsabilità sia riportata nel circuito democratico.
Mi auguro che la proposta - la quale non vuole essere un dogma di verità o una soluzione per tutti i problemi - sia affrontata con serenità, anche nella consapevolezza che non siamo l'unico paese al mondo ad aver preso in esame questioni della stessa natura, cui è stata data soluzione. Dico ciò in particolare perché proprio nell'attuale periodo - nel quale le democrazie occidentali, segnatamente quelle europee, hanno effettivamente grandi problemi di equilibri politici e di rappresentatività politica e, di conseguenza, di instabilità politica - si pone ancora di più la questione della cosiddetta giudizializzazione della politica. È infatti sempre più difficile, per la politica, rispondere a tutte le domande che provengono da una società organizzata secondo le regole della democrazia costituzionale, in maggior misura perché tutte le democrazie occidentali europee escono da una lunga fase di welfare state che ha ampliato enormemente la domanda degli individui. Naturalmente, il sistema politico è più inaccessibile di quello giudiziario alle possibili risposte, mentre la magistratura, che è un potere diffuso, diventa molto più accessibile alle istanze più diversificate che attengono ai diritti civili, istanze che il welfare state, il quale attualmente mostra grandi lacune, ha fatto crescere nel corso del secolo. È chiaro, allora, che il potere giudiziario (credo che nessuno di noi insista più nel definirlo «ordine», perché nella trasformazione di una società complessa come la nostra ha acquisito tutti i caratteri del potere), chiamato ad una crescente risposta a domande individuali, ha acquisito un forte potere politico. Nessuno se lo nasconde più, oggi, negli Stati occidentali; nessuno si scandalizza più che il fenomeno sia avvenuto ed avvenga e che, probabilmente, aumenti anche per la diversificazione, la segmentazione della società. E, ovviamente, ciascuno si pone il grande quesito: chi custodisce i custodi? Vale a dire, quali sono i contrappesi ad un potere che effettivamente potrebbe porre in crisi stabilmente il potere politico? E quali limiti si pone quest'ultimo rispetto al potere giudiziario affinché i diritti dei cittadini siano garantiti anche contro lo strapotere dello Stato e, in particolare, delle maggioranze? Anche questo è un grande problema di equilibrio fra pesi e contrappesi, dal momento che noi in questa sede discutiamo di uno Stato che finisce con


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l'essere sempre più centralizzato, sempre più in mano alle maggioranze. Da ciò deriva, naturalmente, la necessità di una magistratura indipendente che garantisca le minoranze e i diritti civili di ciascuno.
In tale scenario, che non deve assolutamente - come ho detto - meravigliare e scandalizzare, perché ci poniamo il problema della separazione delle carriere? Io temo che questa dizione finisca per essere un pessimo slogan, tale da annullare la vera problematica, cioè il rapporto fra l'indipendenza della magistratura ed il potere politico in una situazione di pesi e contrappesi nel quale ciascun potere abbia la propria responsabilità: nei confronti dei cittadini quello politico e nei confronti della istituzione che rappresenta quello giudiziario. In Italia si è creata effettivamente - ci poniamo la domanda e dovremo darci la risposta più saggia e possibilmente più obiettiva possibile - una magistratura che abbia un potere politico, che eserciti un potere politico? Dobbiamo rispondere affermativamente, perché la trasformazione che si è avuta nel nostro Stato, sia pure con rallentamenti o ritardi notevoli, non è dissimile da quella che ha interessato i paesi a più antica democrazia occidentale, a più antica democrazia costituzionale: la magistratura ha assunto un potere politico. Esso si estrinseca oggi in forme anche obiettivamente preoccupanti e che esigono, a mio avviso, una riflessione, in quanto stiamo enormemente enfatizzando il problema dell'autonomia e della indipendenza del magistrato. Come ho detto, se questa è necessaria ed indispensabile soprattutto in uno Stato più centralizzato, in uno Stato a formazione maggioritaria, per garantire i diritti di tutti in modo paritario, d'altra parte essa può finire con il porsi - e probabilmente finisce col porsi - contro lo Stato. La magistratura si sta sempre più ponendo come un potere autonomo ed indipendente staccato dallo Stato stesso, che afferma valori etici ancor prima che perseguire reati, che individua i valori etici dello Stato, i soggetti portatori o meno di tali valori etici, che in qualche misura crea il suo distacco per assumere il ruolo di controllore totale dello Stato e degli individui. Certamente si tratta di una funzione politica rispetto alla quale dobbiamo chiederci se, effettivamente, non vi sia una deviazione, se non siano necessari controbilanciamenti e quindi una vera e propria ristrutturazione organica della magistratura, diretta ad assicurare il cittadino: se è, infatti, indispensabile perseguire i reati nei confronti di chiunque, possibilmente in modo paritario, è altresì indispensabile che l'organo in questione sia riportato dentro lo Stato, sia indipendente, autonomo, dentro lo Stato e non costituisca una monade di potere che controlla lo Stato stesso e inevitabilmente renda deboli i soggetti pubblici. Tale forma di autonomia ed indipendenza della magistratura (parlo dei pubblici ministeri e dei giudici) si è risolta esclusivamente nell'organo più politico della magistratura stessa, vale a dire nel pubblico ministero. Non deve meravigliare o scandalizzare che si parli di organo politico; in fondo è il pubblico ministero che raccoglie l'istanza punitiva dello Stato o del cittadino (a seconda che il reato sia perseguibile d'ufficio o su querela di parte) e che naturalmente ha una propria discrezionalità nel decidere se intraprendere l'azione penale, se archiviare, se compiere una certa indagine od un'altra. Egli ha un potere discrezionale che oggi, in virtù dell'enfatizzazione dell'indipendenza e dell'autonomia, tende addirittura a porsi al di là della norma. Negli ultimi anni, infatti, si è verificata una trasformazione nella funzione del pubblico ministero che rappresenta la ragione per la quale non si può più provvedere unicamente con leggi ordinarie, certamente molto importanti ma che non possono ritenersi esaustive del problema strutturale dello Stato che andiamo riformando, perché i problemi di fondo che qui affrontiamo sono fondamentali in uno Stato effettivamente democratico, in uno Stato di diritto.
I magistrati nel loro complesso, ma più che altro attraverso il filtro politico rappresentato dal pubblico ministero, tendono oggi addirittura a contrapporsi -

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come ho detto - alla norma, soprattutto a quella formale (lo abbiamo visto numerose volte), e ad andare diretti alla forma sostanziale. Diceva Fassone: «Svincolare il processo dal regno sterile delle forme fini a se stesse e collocare legalità e garanzia nell'etica della responsabilità anziché in quella delle forme». Mi pare evidente, che di fronte a queste affermazioni di un illuminato giurista, noi tutti abbiamo l'obbligo di riflettere. Ciò infatti si è verificato negli anni e continua a verificarsi: così il pubblico ministero, filtro alla domanda sociale e quindi per questo un organo politico, si pone spesso al di là e contro le regole formali e applica un tipo di giustizia sostanziale. Nell'applicazione di questo tipo di giustizia sostanziale, la prova processuale si si sostanzia nella prova sociale, e ciò in virtù dell'essenza politica che ha assunto il pubblico ministero, senza per contro che a ciò corrisponda una uguale responsabilità ed un efficace contrappeso, neppure quello che può essere costituito dal giudice, coinvolto anch'egli nel processo. Il pubblico ministero finisce appunto per ritenere che possa esistere una prova sociale, una prova storico-politica e come tale la rappresenta in un processo, dopo che il consenso pubblico ormai è stato attratto. È questa l'altra forte connotazione politica del pubblico ministero, il quale oggi si rivolge sempre più al consenso popolare, ancora prima di verificare se il modo in cui egli formalmente - non solo sostanzialmente - procede abbia effettivamente una legittimazione nella Costituzione e nelle leggi ordinarie. Il rivolgersi al consenso popolare è emblematico della affermazione di giustizia sostanziale assunta nel processo dal pubblico ministero, con una caratterizzazione perciò fondamentalmente politica.
Quando si rappresenta al giudice una situazione in cui ormai la storia è stata processualizzata e i fenomeni politici sono stati giurisdizionalizzati, a quel punto il giudice è in una posizione assolutamente secondaria, è schiacciato da un'opinione pubblica che lo rende in qualche modo succube o quanto meno influenzato, e la società ottiene risposte che, come vediamo costantemente, sono sempre più di carattere politico, non sono più risposte di giustizia. Così che accade che i cittadini oggi discutano la credibilità finanche delle sentenze passate in giudicato, perché si rendono conto - talvolta o spesso - che si tratta di sentenze basate non sul rispetto delle procedure per l'affermazione di diritti sostanziali, ma sempre di più sio rivelano atti politici. Laddove alcuni anni addietro la magistratura, tramite alcuni suoi eminenti esponenti, ha parlato soprattutto di prevalenza del diritto sostanziale, non ha fatto altro che riprendere quelle che Robespierre chiamava le operationes sublimes: laddove infatti si vogliono affermare i principi sostanziali al di là delle forme, con una portata essenzialmente politica, si compiono non atti di giustizia ma atti eversivi politici, anche se questi possono sembrare adeguati per una società che il sistema politico non riesce a disciplinare e che io credo debba trovare proprio una risposta di governo, di disciplina, in questa Commissione. Ritengo infatti necessario evitare che il nostro lavoro sia lasciato alla futura memoria con la speranza che la memoria, abbia un futuro.
In questa necessità, che avvertiamo, di governare la società e non di esserne governati nei modi emotivi che conosciamo, ci poniamo il problema, mai risolto definitivamente - né può esserlo, data la complessità e l'evoluzione di ogni società - del rapporto tra indipendenza e responsabilità del pubblico ministero. Parlo del pubblico ministero più che del giudice perché quest'ultimo ha una funzione completamente diversa, seppure abbia avuto un ruolo fondamentalmente incisivo nella nostra società. Il giudice è colui che ha interpretato le leggi, che ha creato il diritto e talvolta la legge; e questo è stato l'altro processo - evolutivo ed involutivo, se vogliamo - che ci ha accompagnato dalla fine degli anni sessanta.
La problematica concernente il rapporto tra indipendenza e responsabilità, come ho detto, non è mai completamente

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compiuta e spesso trova sostenitori che, mentre teorizzano l'intangibilità di questo tipo di indipendenza, non si pongono il problema di quale sia il suo controbilanciamento ed il suo contrappeso. Nei paesi diversi dal nostro, in cui è stata possibile un'alternanza che noi non abbiamo obiettivamente mai avuto, se non in epoca recentissima, questo problema è stato posto con molta minore drammaticità e anche con soluzioni molto più appaganti, che nel tempo si sono sempre più affinate. Ogni sistema prende l'avvio da una controreazione a ciò che si è verificato. Noi affermiamo che in Francia i magistrati stanno molto male, ma questo lo diciamo perché vogliamo interpretare le cose degli altri con il nostro metro; infatti, non è così, perché da un lato è garantita l'indipendenza ma, dall'altro, vi è anche una strutturazione gerarchica dell'ufficio dell'ufficio del pubblico ministero che oggi non si trova da noi.
In questa proposta non si è parlato del ministro di grazia e giustizia, non si è parlato di alcun tipo di controllo individuale o su singoli fascicoli, perché si ritiene necessario che ciò non avvenga. Si è però affrontato un reale problema, quello della attuale forte connotazione politica della magistratura. Si è detto che tutte le democrazie costituzionali in cui a lungo si è espanso, il welfare state ha creato una società diversificata, di bisogni diversificati, di domande crescenti all'infinito e quindi, inevitabilmente, un controllo del magistrato, nella figura del pubblico ministero, sulla risposta dello Stato rispetto a tali bisogni. Se questo è vero, come è vero, dobbiamo anche rilevare ciò che si è verificato in Italia nella scelta delle politiche criminali, che è una scelta di politica pubblica, in cui lo Stato si impegna nella difesa della collettività con una razionalizzazione di mezzi, di forze, di strumenti e di persone perché la società abbia una sua sicurezza e viva in un certo modo, in una convivenza civile.
Negli anni settanta, si è ritenuto che addirittura la gerarchia dell'ufficio del pubblico ministero fosse negativa sull'indipendenza del sostituto procuratore; si è fatto allora in modo che ogni sostituto procuratore fosse praticamente una repubblica, come ormai si dice, anziché un soggetto delegato dal titolare dell'ufficio all'esercizio dell'azione penale. In questo modo si è creato un potere frammentato e diffusissimo su tutto il territorio, in cui ogni singolo sostituto, indipendentemente da qualsiasi scelta dello stesso ufficio - e poi vedremo che ci sono uffici che hanno cercato di ridurre ad unum questa problematica - sceglie non solo il tipo di reato ma anche il soggetto da perseguire. Questo problema - che quando viene oggi sottolineato provoca delle reazioni come se fosse un fatto indifferente per una democrazia - della scelta dei reati e, peggio ancora, dei singoli soggetti veniva affrontato tanti anni fa in un paese che sicuramente era all'epoca, ed è tutt'oggi, una democrazia molto più forte e molto più solida della nostra. Veniva affrontato - a rileggerlo oggi - in modo assolutamente moderno. Diceva nel 1940 Robert Jackson, all'epoca attorney general nell'amministrazione di Roosvelt: «Una delle più grandi difficoltà implicite nella posizione del procuratore è che egli deve scegliere i casi. Se il procuratore è comunque costretto a scegliere tra i casi, ne segue che sceglie anche gli imputati. Ed è qui che risiede il più pericoloso dei poteri del procuratore: quello che egli scelga le persone che ritiene di voler perseguire, piuttosto che i casi. E' in questo ambito discrezionale che risiede il più grande pericolo di abuso di potere del procuratore, quello in cui il procuratore può scegliere alcune persone che non gli piacciono o che desidera mettere in difficoltà, o selezionare gruppi di persone che sono impopolari e quindi mettersi alla ricerca dei reati da attribuire loro». Vedete quanto è moderna questa riflessione, sviluppata già nel 1940 nell'ambito di uno Stato profondamente democratico. Quando oggi se ne parla, invece, sembra che venga posto un problema eversivo: in realtà è di grandissima attualità.
Proprio per i problemi inerenti ad una società che si evolve sempre di più nella direzione della complessità, questo aspetto

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non può essere più disciplinato attraverso un sistema di leggi ordinarie, ma deve essere regolamentato nell'ambito del sistema costituzionale.
Oggi ogni singolo sostituto procuratore ha il potere di scegliere i reati e le persone: e - come diceva Jackson - essendo tanti i reati, qualcuno da attribuire a certe persone si trova sempre. Tutto ciò avviene senza che la scelta di una politica pubblica in un settore così importante come quello criminale possa essere ricondotta ad un circuito democratico di determinazioni e di responsabilità: la scelta è lasciata ad un singolo organo autoritario (come inevitabilmente deve essere la pubblica accusa), che individua temi, soggetti, tempi e modi. Si tratta dei famosi jukebox, che non mi pare si addicano molto all'etica ed alla deontologia di un magistrato. Eppure, quando queste cose sono state dette non hanno fatto grande impressione. Credo che ormai siamo rimasti gli unici a pensare alla giustizia come ad un jukebox.
Questa serie di riflessioni non vuole avere alcun carattere di dogmaticità né di verità assoluta, ma se vogliamo tentare di governare una società che si avvii ad essere autenticamente democratica dobbiamo necessariamente sviluppare considerazioni del genere. Peraltro una qualche soluzione è stata tentata, anche se in modo molto occasionale e a livello di singoli uffici ordinari. Ha fatto storia, per esempio, la circolare del procuratore circondariale Zagrebelsky, che stabiliva - in maniera molto puntuale peraltro - la politica giudiziaria dell'ufficio. Si basava sul presupposto che l'obbligatorietà dell'azione penale è impossibile in uno Stato complesso e quindi è necessario che ciascun ufficio si organizzi per dare le risposte più urgenti per la società e più adeguate ai fini di una migliore convivenza civile. La circolare suscitò molte critiche, pur non trattandosi nemmeno di un'iniziativa originale; il problema viene infatti affrontato da tempo, periodicamente (possiamo constatare, per esempio, che tutte le Commissioni bicamerali sul tema delle riforme lo hanno trattato). Nella circolare, lo ripeto, si riteneva di individuare necessariamente una scala di priorità.
La stessa commissione tuttora in attività per lo studio della riorganizzazione dell'ordinamento giudiziario si è posta il problema dell'individuazione di priorità ed ha dato risposta affermativa. In sostanza - nella impossibilità di perseguire tutto e tutti, dai fenomeni di scarsissimo rilievo sociale a quelli di massima problematicità -, essa ha ritenuto necessaria l'identificazione di opzioni prioritarie. A chi ha assegnato, però, queste priorità? Agli uffici giudiziari, nella propria discrezionalità.
Se vogliamo creare un sistema funzionale in cui ciascun organo pure mantenga (e non sarebbe possibile diversamente) la sua connotazione politica e istituzionale, occorre operare quella separatezza di poteri fra chi rappresenta lo Stato come potere punitivo (il filtro delle domande sociali, un filtro intrinsecamente discrezionale) ed il giudice, che deve essere la parte passiva di questo processo di diatriba fra le parti (quella che afferma il suo diritto alla prova di non colpevolezza, l'altra che, invece, sostiene l'accusa). Il nuovo codice di procedura penale va in tal senso, anche se in una soluzione di compromesso ha fatto del pubblico ministero la Santa Trinità: dovrebbe cercare le prove a favore, quindi dovrebbe essere il difensore, dovrebbe fungere da pubblica accusa ed, in ultima istanza, dovrebbe essere anche il giudice, perché quando ha fatto da accusa e da difesa non gli resta altro che emettere la sentenza (per completare così il circuito in un'unica persona...).
Noi non possiamo affidare agli uffici giudiziari la scelta di una politica pubblica: dobbiamo far rientrare questa scelta nel circuito democratico, in capo ad un organismo che è controllato - mi auguro siamo tutti convinti che debba essere sempre più controllato con trasparenza - dagli elettori. Perché solamente se le scelte della politica pubblica criminale - di così fondamentale importanza per una nazione - saranno lasciate ad un organismo

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come il Parlamento (che dovrebbe impegnarsi negli indirizzi ed anche nella spesa), la società sarà sufficientemente tutelata dagli arbitri di singoli uffici e ancor più di singoli sostituti procuratori. D'altra parte questo era già stato detto nella prima scrittura della Costituzione. Ritengo che così si riporterebbe la decisione all'interno del circuito democratico, con una effettiva responsabilità immediata e diretta. Il Parlamento, infatti, non va in pensione a 72 anni, ma si presenta periodicamente alla scadenza elettorale, ad una verifica da parte dei cittadini. Si supererebbe allora quella situazione per cui tutti sono responsabili e, quindi, non è mai colpa di nessuno.
Si dice: se i pubblici ministeri, se i magistrati non fossero stati indipendenti, non sarebbe stata possibile Mani pulite. Mi domando, allora: perché ciò è avvenuto dopo decenni? Perché, se erano indipendenti, dicono di non aver potuto perseguire reati di corruzione e di finanziamento illecito perché il potere politico non lo consentiva? Allora esisteva un intreccio tra magistratura e potere politico, un rapporto che non permetteva di andare oltre piccole occasioni - per quanto esemplari e significative -, senza mai arrivare a quelle «autostrade» che poi sono state trovate, a quel degrado del sistema di fronte al quale ci siamo trovati. Sicuramente c'è stata una colpa del potere politico, ma d'altra parte è chiaro che non esisteva un'indipendenza dalla magistratura. E allora non si capisce perché, se prima non esisteva, ad un certo punto sia stata affermata; né si capirebbe per quale motivo dovrebbe esistere in futuro, in corrispondenza di un nuovo riassetto politico.
È necessario, dunque, che le scelte siano trasparenti, poiché si parla comunque di scelte (nell'organizzazione della propria vita, così come dell'ufficio). Occorre decidere verso quali settori di reato dirigere l'azione penale. E poiché ogni scelta è sempre politica (politica in senso migliore, voglio sperare, non nel senso di partitismo e di partigianeria), allora occorre che sia portata in un circuito trasparente.
Si dice: si potrebbe ovviare a questo con una forte depenalizzazione oppure riscrivendo il codice penale. Io mi auguro che il codice penale, che per la verità è molto anziano, sia riformato; d'altra parte ha resistito anche troppo a lungo. Mi auguro anche che si arrivi ad una forte depenalizzazione. Ma una cosa è la legge ordinaria, altra cosa è fissare i principi costituzionali ai quali la legge ordinaria si deve attenere.
Abbiamo approvato un codice di procedura penale che, da subito, è stato travolto e sconvolto, un codice che probabilmente nessuno mai si è preoccupato di leggere con attenzione e, comunque, di applicare con altrettanta attenzione. Al senatore Elia, grande luminare della scienza e del diritto, sembra cosa da poco la parità tra accusa e difesa. È pleonastico dire che in uno Stato civile l'accusa e la difesa dovrebbero essere sullo stesso piano, considerato che rappresentano due diritti uguali e contrari: la potestà punitiva dello Stato e il diritto alla libertà del cittadino. Ciascuno di questi due diritti ha necessità di trovare un arbitro terzo. Si tratta quindi di un dato che, nonostante le apparenze, non è pleonastico, proprio perché comporta che tutte le leggi e gli stessi interventi della Corte costituzionale, che obiettivamente hanno ucciso quello che era il sistema accusatorio, trovino una loro esaltazione nella legge ordinaria, che garantisca effettivamente l'esistenza di un giudice terzo nonché l'equilibrio paritario tra una contrapposizione di interessi. Non ci interessa poi la polemica relativa al fatto se della polizia giudiziaria possa disporre soltanto il pubblico ministero o anche le parti private. Si tratta di dettagli anche se, obiettivamente, nessuno di noi penserebbe mai di mettere un maresciallo dei carabinieri alle dipendenze di un avvocato...! Dovremmo invece preoccuparci - nonostante si tratti di un discorso che non riguarda questa sede - delle persone che non possono permettersi di sostenere le spese di giudizio ed anche di

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quelle che, pur potendoselo permettere, rischiano di diventare povere, in un sistema processuale come il nostro, che implica una spesa non indifferente, oltre che di vita, anche di denaro. Dovremmo preoccuparci di far sì che queste persone abbiano comunque gli strumenti e la medesima dignità ad essere rappresentati come difesa. Non c'è Stato democratico se non si capisce che l'accusa e la difesa hanno gli stessi diritti e la stessa dignità nel processo. Mi auguro che questo principio resti, anche perché se, in base alla pratica, verifichiamo quale sia la difesa offerta oggi al cittadino, soprattutto a quello meno abbiente, ci rendiamo conto che il nostro è uno Stato privo di garanzie di difesa, privo di garanzie dei diritti di libertà delle minoranze e, in definitiva, di tutti i cittadini. Si tratta di temi sui quali non è il caso di drammatizzare, anche se vanno presi in grande considerazione.
Perché si è pensato alla necessità di avere due consigli superiori e, soprattutto, di introdurre un nuovo sistema elettorale con riferimento ad essi? Dico subito che quanto è stato proposto non rappresenta una novità. Inizialmente, il sistema elettorale del consiglio superiore era maggioritario uninominale, sembrando quest'ultimo, da un lato, il sistema migliore per garantire una rappresentanza più vicina ai collegi elettorali e, dall'altro, il più idoneo a rendere il meccanismo meno clientelare, così come invece oggi si è andato trasformando. Vi fu poi il passaggio al metodo proporzionale, in corrispondenza ad una trasformazione del sistema politico. È inutile precisare che il sistema giudiziario ha, sì, una vita parallela, ma comunque in corrispondenza del sistema politico. Dobbiamo ricordare come negli anni settanta, dopo che nel decennio precedente la nostra società aveva conosciuto una dialettica assembleare che aveva prodotto la formazione di microparlamenti (nelle università, nelle fabbriche, nelle scuole, nella stessa magistratura), in concomitanza con l'inizio della fase del compromesso storico, si pensò di ricondurre lo spontaneismo dei gruppi all'ingessamento dei partiti. Non dico che si sia trattato di un fatto negativo o positivo, ma lo ricordo solo come un momento di trapasso storico.
Il confronto tra le persone, il grande dibattito sui diritti, sul penitenziario, sulla interpretazione evolutiva della legge, che ha prodotto vantaggi ma anche grandi problemi, venivano improvvisamente sedati, burocratizzati e assegnati referenti partitici. Il mondo politico tendeva a categorizzarsi tra cattolici e comunisti; anche la magistratura, adottato il sistema proporzionale dell'elezione del Consiglio superiore della magistratura, affidava il proprio sindacato, le proprie correnti, a questi precisi referenti. È chiaro, allora, che il consiglio superiore si è trasformato in un «Parlamento», referente di questa burocratizzazione della politica, scelto evidentemente come sistema migliore rispetto a quello movimentista, più spontaneista, più contestatore e talvolta - perché no? - più tragico. Se tutto ciò rassicurava, portava però anche all'ingessamento burocratico anche magistratura. Questo ha costituito il motivo della non indipendenza della magistratura.
Un ulteriore elemento di politicizzazione è quello proprio della socializzazione nel rispettivo ambiente istituzionale. Sappiamo che si entra in magistratura (generalmente in un'età compresa tra i 25 e i 27 anni) e che praticamente non se ne esce mai più, a meno che qualcuno non decida di andarsene. Da una certa epoca in poi, non vi sono state più verifiche ma soltanto una possibilità di osmosi tra le diverse funzioni (pubblico ministero e giudicante). In definitiva, tutto rimane un corpo chiuso. È evidente che ciascun corpo chiuso tende a creare un potere in se stesso, per proteggersi. Con linguaggio sociologico, è stato osservato come questo corpo chiuso non abbia «ventilazione», nel senso che rifiuta qualsiasi corpo estraneo. Per inciso, ricordo che abbiamo affrontato una discussione per vedere se fosse possibile che, almeno per le sezioni stralcio del processo civile, si prevedesse l'ingresso degli avvocati. Vi è stata una reazione fortissima: ogni corpo chiuso tende a mettere in moto meccanismi che espellono qualsiasi soggetto che possa

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ritenersi estraneo, fino all'estrema conseguenza di espellere addirittura anche la legge, ritenuta non più superiore, perché prodotto del sistema politico.
Questa trasformazione, unita a questo tipo di socializzazione, ha reso la categoria dei magistrati la più chiusa tra i paesi occidentali. Anche attraverso questa chiusura, la magistratura ha acquistato una forte politicità producendo al suo interno un corto circuito per tutti i dissidi e le lotte di vero e proprio potere che si verificano. Io credo che occorra «ventilare» la magistratura. Occorre creare le condizioni perché sia garantito che si tratti di un corpo autonomo non «contro» ma «con» lo Stato, non un corpo indipendente «da» e «contro», ma «dentro» lo Stato, al quale quest'ultimo garantisce l'indipendenza e l'autonomia.
Per realizzare tale obiettivo, è necessario prevedere una composizione che sia fortemente meno di categoria, così come invece è adesso, dove si decide all'interno chi debba essere punito e chi sottoposto oppure no a procedimento disciplinare, dove ogni volta ci si ricompatta politicamente su quello o contro quello, senza alcuna obiettiva garanzia di trasparenza verso l'esterno.
Credo che si debba incidere sul metodo elettorale del Consiglio superiore della magistratura per rompere un correntismo diventato più chiuso ed ingessante dei partiti di una volta e per riportare l'azione disciplinare nell'ambito previsto dalla Costituzione, ovvero sia riconducendola esclusivamente al ministro di grazia e giustizia.
Anche la nostra Costituzione riconosce una facoltà che a mio avviso deve essere abolita. Il ministro esercita l'azione disciplinare e, per evitare che si tratti di una scelta politica, la esercita nei casi e nei modi previsti dall'ordinamento giudiziario. Occorre soprattutto fare in modo che la magistratura non abbia al suo interno i propri circuiti di facoltatività ed in particolare di rappresentatività. Con legge ordinaria è stata praticamente tolta al ministro di grazia e giustizia l'azione disciplinare che è stata trasferita al procuratore generale con il pretesto che diversamente vi sarebbe stato un controllo da parte del ministro. Abbiamo così visto ministri di grazia e giustizia messi in croce, fatti dimissionare o dimissionati dal Parlamento solo perché avevano osato fare un'ispezione, o ministri assolutamente paralizzati, per cui anche se cade il mondo o se cadono i sassi dal cavalcavia non si muovono per verificare il funzionamento degli uffici giudiziari.
Credo che il ministro di grazia e giustizia, così come è stato previsto dalla Costituzione, debba tornare ad essere l'unico titolare dell'azione disciplinare e il procuratore generale presso la Cassazione - noi lo abbiamo previsto, ma dipende dalla forma costituzionale dello Stato - debba essere il presidente del consiglio superiore dei pubblici ministeri, considerata la necessità di creare una nuova organicità degli uffici giudiziari, in modo che sia garantita la trasparenza delle decisioni di politica pubblica nel settore criminale e sia assicurata l'uguaglianza di tutti nell'ambito delle scelte di politica generale.
Non credo che possiamo dire che abbiamo voluto porre sotto controllo il pubblico ministero, perché non sono previsti casi di controllo individuale, come in Francia dove esistono con alcuni correttivi di maggiore trasparenza. E' stato depurato anche da questo e da ogni altra possibile interferenza. C'è, a mio avviso, solamente la necessità che ciascuno giochi sul proprio tavolo e che ciascuno faccia il proprio mestiere. Non possiamo continuare a ritenere la politica commissariata dalle procure; non possiamo pensare costantemente di affidare le scelte politiche all'interno delle stanze, di affidare i singoli cittadini alle scelte individuali di ciascuno secondo le proprie istanze e le proprie divisazioni. Occorre che queste scelte abbiano una trasparenza e trovino una verifica nel circuito democratico di decisioni che certamente non può essere quello degli uffici giudiziari. Credo che la politica farebbe un grande errore se continuasse a delegare le sue responsabilità e i suoi diritti a quelli che questi problemi non possono avere.

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Quando si parla di inamovibilità, vorrei che la questione fosse chiara. La civiltà è nata col giudice naturale precostituito per legge, che abbia e dia massima garanzia di imparzialità e terzietà, come oggi a me non sembra che sia. La potestà punitiva dello Stato è impersonale, proprio perché appartiene allo Stato. Il pubblico ministero, già oggi, nel processo è indifferente rispetto alle indagini ed anche al dibattimento; può esserci l'uno, l'altro o entrambi, non ha alcuna importanza. Ciò significa che la potestà punitiva e autoritativa dello Stato viene prima dell'individuazione della persona. Poiché non possiamo continuare a far finta che le garanzie sopravanzino le necessità della collettività, l'ordinamento giudiziario - d'altra parte come oggi - stabilità tutte le possibilità di trasferimento. Occorre però che laddove venga e debba essere esercitata la potestà punitiva dello Stato non vi sia alcuna possibilità di ostacolo perché ciascuno vuol godere del privilegio - come pubblico ministero e non come giudice - di restare a casa propria. Credo che la società moderna non lo sopporti più. Abbiamo la necessità che l'azione punitiva dello Stato, secondo le scelte che avvengono in un circuito trasperente e democratico, riguardi tutto il territorio nazionale. Non possiamo più permetterci di lasciare scoperti territori esclusivamente perché si devono garantire privilegi di categoria. Quindi, con il massimo delle garanzie che vogliamo siano stabilite per evitare strumentalizzazioni nei trasferimenti, occorre che si facciano delle scelte e che ciascuno si adegui e dia il massimo impegno controllabile (non nel merito ma come impegno).
Scusatemi per aver occupato troppo tempo, ma il problema di cui tratto non deve diventare una bandiera, né uno slogan, né una personalizzazione.
Ogni Stato si è formato - lo abbiamo visto nelle grandi tragedie che hanno sconvolto l'Europa di questo secolo - attraverso il sistema penale ed il sistema costituzionale che si è dato. La funzione politica di un organo quale il pubblico ministero è stata determinante fra democrazia e autoritarismo. Non credo che possiamo lasciare questo tema alla legge ordinaria, ma ritengo che una democrazia costituzionale e liberale debba trovare il suo necessario incasellamento nella Costituzione e debba soprattutto garantire al cittadino uno stato di diritto. Quello che noi andiamo disegnando, uno Stato maggioritario e più accentrato, è pericoloso se non abbiamo la garanzia di uno Stato di diritto comune a tutti, dove tutti siano effettivamente garantiti, dove siano rispettate le indipendenze, ma dove si è sicuri che il filtro politico esercitato dal pubblico ministero trovi le sue massime garanzie nella difesa e ancora di più nel sistema giudicante.
Mi auguro che si svolga una seria analisi comparata con altre costituzioni, perché sono rimasta molto perplessa quando un luminare del diritto ha detto che questa è una proposta da medio evo, dove forse noi viviamo, perché questa non è certo una proposta che porta al medio evo! Non mi pare che siamo il faro della modernità, visto che la nostra politicizzazione della magistratura ormai è diventata un caso europeo, visto che il nostro tasso di criminalità è il più alto in Europa e che la nostra percentuale di reati non puniti è la più elevata in Europa. Non possiamo continuare a credere che viviamo nel mondo migliore; dobbiamo scrivere le regole e chiedere a tutti, con senso di responsabilità democratica, di attenervisi.


PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, faccio presente di non aver fissato alcun limite di durata degli interventi: mi è sembrato giusto, per questa discussione generale. I colleghi hanno potuto e potranno parlare per il tempo che riterranno necessario, naturalmente affidandosi all'autoregolamentazione.
A conclusione della seduta odierna, nella quale non credo potranno prendere la parola tutti gli iscritti, faremo un quadro generale che ci consentirà di stabilire quando questa discussione potrà concludersi.


DOMENICO FISICHELLA. Signor presidente, onorevoli colleghi, vorrei iniziare


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questo mio intervento, che spero e credo non sarà di proporzioni cosmiche, affermando in primo luogo che tutti noi stiamo ragionando all'interno dei confini e della cornice della democrazia rappresentativa, ossia della democrazia dei moderni. Personalmente, non indulgo all'uso dell'espressione democrazia diretta perché riferisco la nozione di democrazia diretta essenzialmente all'esperienza degli antichi; preferisco parlare talvolta di istituti di democrazia immediata, perché mi pare che lo specifico del nostro tempo sia comunque la democrazia rappresentativa, che è il grande genus al cui interno si collocano una molteplicità di specie: il cosiddetto presidenzialismo, il cosiddetto semipresidenzialismo, il cosiddetto sistema del premierato, il cosiddetto cancellierato, il cosiddetto parlamentarismo, tutte specie del genus democrazia rappresentativa. Quindi, la nostra cornice, l'ambito nel quale ci muoviamo è questo; naturalmente, vi sono anche ipotetiche forme miste.
Dico questo perché quello al quale ci accingiamo attraverso questa Commissione bicamerale (un canale per la cui istituzione ho cercato di dare il mio contributo) è un lavoro nel segno dell'autocorrezione: la democrazia italiana ha dei problemi e cerca di intervenire essa stessa attraverso un processo di autocorrezione; se essa cerca di intervenire attraverso un simile processo, è evidente che tutti noi vogliamo rimanere all'interno della democrazia rappresentativa e nessuno si pone un problema che non sia collocato entro questa cornice, la quale non è dettata necessariamente e soltanto da premesse di valore, che pure contano, ma anche da ragioni condizionali di natura sia spaziale sia demografica sia di divisione del lavoro sociale. Si tratta anche - lo ripeto - di una scelta valoriale.
Se parliamo di autocorrezione, dobbiamo avere anche la consapevolezza che vi sono soglie disfunzionali oltre le quali l'autocorrezione diventa sempre più difficile. Dobbiamo quindi sapere che, in relazione alla gravità della patologia che intendiamo affrontare, occorre mettere in campo strumenti correttivi che siano adeguati alla serietà della situazione critica. Ove questo non avvenisse, correremmo il rischio di non porre la democrazia italiana nelle condizioni di affrontare le sfide che certamente sono in vista su una molteplicità di terreni; quindi, il processo autocorrettivo fallirebbe ed il fallimento del processo autocorrettivo della democrazia italiana aprirebbe ovviamente spazi ad ipotesi e soluzioni che nessuno di noi desidera si prospettino.
Dico questo perché, senza che nessuno acceda a formule, modelli o parole magiche, dobbiamo essere coscienti della necessità di lavorare con coraggio sul terreno delle riforme istituzionali. Nessuno ritiene che in assoluto un modello sia privilegiato rispetto all'altro; tutti sappiamo, per esempio, che in Gran Bretagna è in corso da ben oltre un secolo (almeno dai tempi di John Stuart Mill) un dibattito per la revisione in senso proporzionale di quel sistema elettorale; vi è una grandissima tradizione in questo senso e tale elemento è di per sé sufficiente per evidenziare che non c'è un modello che presenti elementi di magia, in virtù del quale si risolvono automaticamente situazioni e questioni. Ci muoviamo all'interno di determinate condizioni e cerchiamo, una volta effettuata un'analisi adeguata delle condizioni, di intervenire con il giusto grado di approccio empirico su una realtà nella quale vogliamo introdurre elementi migliorativi.
Da questo punto di vista, ieri ho riascoltato una considerazione del collega D'Onofrio che è certamente vera in teoria, ma temo possa essere meno vera in pratica: il collega D'Onofrio ha affermato che vi è una grande insistenza sul tema della forma di governo ed una ben minore consapevolezza circa le questioni relative alla forma di Stato; lo stesso D'Onofrio aggiungeva sostanzialmente che sarebbe opportuno partire dalla forma di Stato, perché è questo il modello più ampio al cui interno si inserisce il discorso della forma di governo.

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Credo che questa considerazione sia vera in teoria, ma temo che sia un po' meno vera in pratica, perché sembra non tenere conto della questione della pubblica amministrazione e della sua riforma, che a mio avviso è pregiudiziale rispetto ad ogni effettiva riforma della forma di Stato. Possiamo fare certamente, sulla carta, un discorso di rara bellezza teorica per quanto riguarda la forma di Stato, ma la mia sia pur modesta esperienza di pochi mesi da ministro e più in generale quella di studioso e poi di parlamentare mi suggerisce che senza la capacità di incidere, e di incidere lungamente, sulla pubblica amministrazione, resta molto serio il rischio che la forma di Stato non riesca a trovare modificazioni incisive.
Si badi bene che non sto esprimendo una preferenza verso l'una o l'altra forma di Stato; non intendo anzi entrare nel merito di questo argomento, anche se non ho difficoltà a dire con grande chiarezza e serenità che per la mia tradizione culturale non sono un federalista (voglio dirlo in premessa) e quindi vedo anche la questione della forma di Stato all'interno di questa mia premessa storico-culturale, se così posso dire.
Al di là di questo aspetto, ritengo che quello della pubblica amministrazione sia un tema assolutamente cruciale per la riuscita effettiva di ogni riforma che investa la forma di Stato. Allora, il problema della priorità in qualche modo si ribalta.
Abbiamo una serie di questioni sul tappeto che spingono verso una riforma delle istituzioni ed una serie di rischi che dobbiamo evitare nel procedere a tale riforma. È stato detto ieri molto correttamente, anche dal presidente della Commissione, che la riforma del sistema elettorale, pur necessaria, si è rivelata insufficiente: così è stato in effetti, come abbiamo potuto constatare, considerati i tempi in cui è intervenuta. Forse, in un altro momento sarebbe stata sufficiente: forse, se la classe politica avesse avvertito che bisognava intervenire sul sistema elettorale 10-20 anni fa, quando esisteva un sistema partitico strutturato, la riforma del sistema elettorale sarebbe stata sufficiente. Oggi, in un quadro in cui il sistema partitico è ampiamente destrutturato e le forme della sua ristrutturazione non sono ancora emerse, la riforma elettorale, pure necessaria, si è rivelata insufficiente.
Allora, anche la ristrutturazione del sistema partitico è un aspetto centrale sul quale, credo, dobbiamo richiamare l'attenzione, perché i vuoti che si creano nel ruolo dei partiti sono poi riempiti altrimenti; anche ai fini della ristrutturazione del sistema partitico, quindi, dobbiamo porci il problema di una riforma istituzionale che vada oltre la pure necessaria riforma del sistema elettorale. Attenzione, non voglio sostenere che i partiti, oltre ad organizzare il consenso (e certamente in questo ambito essi svolgono un ruolo cruciale), siano anche sempre capaci di darci prestazioni adeguate in termini di perseguimento dell'interesse generale: sia ben chiaro, questo è un altro ordine di questioni, che ha molto meno a che vedere con la riforma istituzionale e molto più con una riforma intellettuale e morale, che si pone e si conferma come la grande cornice culturale al cui interno anche la riforma istituzionale si deve collocare.
Tuttavia, è evidente che i partiti garantiscono un'organizzazione del consenso e quindi, sotto questo profilo, la loro presenza rinnovata - sia ben chiaro: presenza rinnovata -, che eviti i rischi e le distorsioni che si sono verificati soprattutto negli ultimi decenni, è una finalità che deve essere perseguita. Vi è quindi l'esigenza di una riforma istituzionale per ristrutturare il sistema partitico dopo la sua decomposizione, per reistituzionalizzare la politica. In questa fase di transizione, abbiamo vissuto un passaggio nel quale, in relazione alla crisi del sistema dei partiti ma non solo ad essa (anche in relazione alle trasformazioni tecnologiche e alle concentrazioni economiche, oltre che, ripeto, al quadro partitico), è emerso un rischio di personalizzazione della politica. Dobbiamo depotenziare questo rischio e quindi ricondurre la politica dentro le istituzioni, il che esige e comporta

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ancora una volta una riforma seria ed incisiva, non atteggiamenti minimalistici che potrebbero lasciare la realtà immutata.
Un altro aspetto sul quale voglio richiamare l'attenzione è quello della pubblica amministrazione, nella quale le interferenze clientelari, assistenziali, partitocratiche, sindacatocratiche che si sono sviluppate nei decenni più recenti hanno introdotto elementi di rigidità, di distorsione funzionale, di resistenza nei confronti degli input provenienti dalle istituzioni a ciò legittimate; si rende quindi assolutamente necessario un quadro nel quale qualche settore del sistema politico deve riuscire a riportare la pubblica amministrazione entro i suoi confini e, attenzione, entro le sue competenze e prerogative. Credo infatti che nessun atteggiamento di disprezzo immotivato nei confronti della pubblica amministrazione sia giustificato: lo Stato passa anche per il rispetto che si deve alla pubblica amministrazione, finché essa sta «in suo ordine», per dirla con San Tommaso; e la pubblica amministrazione sta «in suo ordine» in primo luogo se la classe politica sa autolimitare il proprio ruolo, le proprie competenze e le proprie capacità di intervento.
Un'ulteriore questione su cui mi voglio soffermare è quella della capacità, che il sistema politico deve avere, di mantenere all'interno degli spazi e degli ambiti fisiologici il ruolo dei soggetti extrapolitici: uso questa espressione che può apparire generale e generica, ma che rinvia in senso ampio a tutta l'area che possiamo definire del sistema economico e del sistema culturale nel loro complesso. Considerando il sistema sociale composto dai sistemi politico, economico e culturale (queste sono le tre grandi dimensioni in cui si articola la vita collettiva), dobbiamo notare che oggi le nuove opportunità tecnologiche, oltre che le grandi risorse economico-finanziarie, mettono soggetti non politici nelle condizioni di interferire in maniera significativa e sistematica con le determinazioni che viceversa sono di competenza dei soggetti politici.
Ci dobbiamo porre nelle condizioni di riportare il sistema politico alla sua capacità di primato regolativo. In proposito, va operata una distinzione a mio avviso importante, perché non possiamo limitarci a rivendicare il primato della politica: dobbiamo distinguere fra un primato regolativo della politica ed un primato interventivo della politica. Nei decenni passati, abbiamo esasperato il primato interventivo, che ha dato luogo a fenomeni partitocratici di invadenza nel sistema politico, nel mercato, nella cultura, nel mondo scientifico, tecnologico, intellettuale e viceversa siamo stati carenti nella capacità di esprimere il primato regolativo della politica. Dobbiamo riaffermare la distinzione, dobbiamo rivalutare l'autonomia di quella che è definita la società civile, e che forse potremmo definire, in maniera più neutrale, il sistema sociale nella sua dimensione economica e culturale. Ma, nello stesso tempo, dobbiamo riaffermare il principio del primato regolativo della politica.
Vi è poi il tema della produzione legislativa, tema non nuovo, se già nella fase della rivoluzione francese vi era chi sottolineava come il nuovo sistema politico che dalla stessa rivoluzione stava emergendo si caratterizzasse per la sua torrentizia tendenza a invadere tutti i campi della vita attraverso una miriade di leggi, di norme e di regolamenti. Oggi viviamo, forse più che in altri paesi, certamente insieme ad altri paesi, ma probabilmente con un'incisività maggiore dal punto di vista quantitativo, una situazione di elefantiasi legislativa che è diventata soffocante a due livelli. È diventata soffocante a livello della pubblica amministrazione, e persino a livello della magistratura, perché crescono le incertezze applicative di volta in volta e cresce la contraddittorietà di una molteplicità di leggi; è diventata paralizzante e soffocante per il sistema economico e per il sistema culturale la spaventosa congerie di leggi sotto le quali sprofonda e dalle quali è schiacciata la società italiana. Ciò rende assolutamente indispensabile un processo di codificazione, un processo di delegificazione,

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e comunque di grande snellimento sotto questo profilo e in questa dimensione.
Infine vi è il quadro più generale, e nello stesso tempo più particolare, della stabilità, della capacità e della coerenza interna delle compagini governative. Non voglio assolutamente affermare la centralità dell'esecutivo, quasi che questa si possa contrapporre alla centralità del Parlamento. Ho premesso che ci muoviamo comunque all'interno della democrazia rappresentativa; quindi, muovendoci all'interno della democrazia rappresentativa, giudico assolutamente cruciale il ruolo del controllo politico e il ruolo dell'opposizione, che è il vero soggetto del controllo politico, perché la funzione di potere esiste in tutti i regimi, mentre quella di opposizione esiste solo nel regime democratico rappresentativo, come funzione istituzionalizzata capace di esprimersi lungo tutto l'arco della vita politica di una comunità. Dunque, non si vuole affermare alcuna centralità dell'esecutivo che possa suonare riduttiva del ruolo delle istituzioni rappresentative; ma, detto questo, non si può non notare che la questione del governo è diventata, per unanime valutazione (credo di poter dire) di tutte le forze politiche, in questo momento, nel nostro contesto, la funzione sulla quale dobbiamo appuntare la nostra attenzione.
E appuntando la nostra attenzione, dopo le esigenze che in qualche modo dobbiamo soddisfare attraverso un processo riformatore e riformistico, dobbiamo anche porci i problemi dei rischi da evitare in questo campo. Credo che i rischi, così come emergono dalle esperienze dei vari modelli istituzionali sui quali in questa fase è stata richiamata l'attenzione e dell'opinione pubblica e di tutti i parlamentari, siano sostanzialmente, nel momento in cui affrontiamo la questione del governo, il rischio di quella che, nell'esperienza francese, è definita coabitazione (cioè che emergano maggioranze parlamentari di colore politico diverso rispetto al governo e al vertice che il governo stesso guida) e il rischio del cosiddetto potere diviso, che fa riferimento all'esperienza degli Stati Uniti, dove sappiamo che, in virtù della rigida divisione dei poteri, ma anche delle modalità elettive e dei tempi elettivi, si verificano realtà in cui esiste una situazione di frizione costante fra esecutivo e Congresso, con fasi di prevalenza dell'esecutivo sul Congresso ed altre di prevalenza del Congresso sull'esecutivo, e con fasi di stallo decisionale che rendono straordinariamente difficile e defatigante il processo delle responsabilità politiche che devono essere assunte.
Un altro problema certamente significativo è quello della doppia legittimazione, della doppia legittimità, quindi. Vediamo il problema della doppia legittimità nell'esperienza americana ed anche in altre esperienze: è connesso al fatto che sia l'assemblea o le assemblee rappresentative sia il vertice dell'esecutivo sono espressi su base immediata da parte dei cittadini. Vi è il problema della personalizzazione della politica, sul quale ho già richiamato prima l'attenzione. Questa è una questione che può emergere allorché ci poniamo nell'ottica dell'elezione popolare a suffragio universale del vertice dell'esecutivo. Bisogna allora individuare i meccanismi che depotenzino questo rischio. Vi è, infine, la questione sempre immanente dei cambiamenti di fronte da parte di segmenti di coalizioni che si sono presentati alle elezioni, e quindi ai cittadini, con un certo tipo di sistema di alleanza e poi, in corso di legislatura, hanno cambiato fronte.
Tutte queste questioni, tutti questi problemi prima e tutti questi rischi dopo, sono presenti alla nostra attenzione. Si cerca di trovare qualche formula che in qualche modo, empiricamente, quindi con criterio scientifico, possa minimizzare o attenuare questi rischi, avendo la consapevolezza che mai nessun pericolo si elimina completamente. Il problema è sempre, se vogliamo, di percentuali, ma sapendo che la differenza quantitativa, oltre certi limiti, diventa differenza qualitativa. Come direbbero i canonisti, se non ricordo male la formula, differentia

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quantitatis redundans in differentiam qualitatis
: oltre certi limiti la differenza quantitativa diventa una differenza qualitativa. E allora, se riusciamo a ridurre dell'80 o del 90 per cento i rischi, è evidente che può rimanere un 5-10 per cento di pericolosità. Ma la differenza qualitativa è data dalla differenza quantitativa che siamo riusciti a realizzare.
Tutte queste premesse date, tutte queste consapevolezze assunte, tutti questi rischi messi nel conto, per quel che mi riguarda, ed anche per quanto concerne i colleghi autorevolissimi che hanno avuto la cortesia di sottoscrivere questa proposta di legge costituzionale, il discorso è di lunga portata temporale. Ricordavo a me stesso un mio saggio di ormai quindici anni fa nel quale riprendevo questo tipo di modello, quindi per me la questione non nasce ora: ritengo che l'elezione diretta del primo ministro nel contesto di un governo di legislatura sia strumento idoneo ad andare incontro alle esigenze derivanti dalla situazione di disfunzione del sistema politico istituzionale italiano ed a ridimensionare drasticamente i rischi che io stesso ho segnalato anche con riferimento ad altri modelli costituzionali.
Naturalmente non ignoro - anche il presidente Elia vi ha fatto riferimento in precedenza - che l'esperienza israeliana, che vede l'applicazione di un modello di elezione del primo ministro, può sollevare, e solleva, alcuni problemi; ma, naturalmente, tutti noi sappiamo che l'elezione con il sistema proporzionale di quell'assemblea rappresentativa, per di più in un unico collegio territoriale che include l'intero Stato di Israele, è un fattore fortemente distorsivo della funzionalità complessiva del sistema in quel contesto. E' viceversa evidente che noi abbiamo già un sistema ampiamente maggioritario e che è aperto l'interrogativo circa l'opportunità e la necessità di estendere il criterio maggioritario anche al residuo 25 per cento di sistema proporzionale. Il problema è complesso e di esso comunque in qualche modo dovremo farci carico, valutando con estrema accortezza analitica i pro ed i contro di un'operazione del genere, mettendo in conto anche il tipo di sistema maggioritario sul quale appuntare le nostre valutazioni comparate: ad esempio, considerando che un primo ministro eletto a suffragio universale non può non essere espresso da una maggioranza assoluta dei cittadini, se la sua legittimazione vuole essere robusta. Ciò pone un problema di individuazione della formula elettorale con la quale questa figura deve essere espressa e questo può accadere con varie modalità: o attraverso il doppio turno tout court o attraverso un turno unico che tuttavia realizzi anche gli effetti del secondo turno (vi sono formule elettorali in grado di operare sotto tale profilo). Quindi, la questione va analizzata, così come una serie di altre questioni. Deliberatamente, nella proposta di legge costituzionale, insieme con i colleghi che l'hanno sottoscritta ho lasciata aperta la questione. Infatti, nel punto in cui si parla della elezione del primo ministro, ci si limita a dire che essa avviene a maggioranza dei voti validi, senza precisare il tipo di maggioranza. E ciò non perché non avessimo consapevolezza del livello di maggioranza che si richiede se la legittimazione vuole essere popolare, incontestata ed incontestabile, ma perché deliberatamente, appunto, abbiamo ritenuto di lasciare aperta l'opzione alla riflessione ulteriore e collegiale della Commissione, se essa riterrà di intervenire, o del Parlamento se sarà quest'ultimo, nella sua compiuta collegialità, l'organo che dovrà occuparsi della fprmula elettorale.
Come dicevo, il meccanismo del governo di legislatura, sotto un'apparenza di rigidità - so che tale rigidità è stata contestata a questo modello -, consente tuttavia di evitare o di ridurre in maniera significativa i rischi ai quali abbiamo fatto riferimento. Se esiste infatti una contemporaneità di elezione per la figura del primo ministro e per il Parlamento, in primo luogo si riduce drasticamente il pericolo della coabitazione; correlativamente, si riduce drasticamente il pericolo del potere diviso; in terzo luogo, spostamenti di segmenti dall'una all'altra maggioranza vengono fortemente penalizzati;

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in quarto luogo, esiste la possibilità concreta di integrare il primo ministro nella sua maggioranza. Ho segnalato io stesso che un primo ministro dissociato da una coalizione può costituire un problema dal punto di vista di spinte, per così dire, populistico-plebiscitarie; un primo ministro che faccia riferimento alla sua maggioranza pone ovviamente il problema della preesistenza di un suo polo, poiché di questo parliamo, poiché al sistema bipolare tendiamo, poiché la democrazia dell'alternanza, della quale ha parlato anche il presidente D'Alema nel corso della sua riflessione introduttiva di ieri, aperta alla possibilità di sviluppo e di mutamento e di arricchimento delle classi dirigenti è la nostra prospettiva. Poiché, dicevo, a questo tendiamo, in tale contesto un candidato al ruolo di primo ministro, che sia eletto in contemporanea alla Camera o alle Camere politiche (svolgerò poi una breve considerazione sull'argomento) ha una sua tendenziale coerenza con il polo, o comunque con la maggioranza, che lo esprime.
Vengo ora ad alcune osservazioni sul tema relativo alla Camera o alle Camere politiche e, successivamente, sottoporrò all'attenzione dei colleghi, accingendomi a concludere, un'altra questione.
Nella proposta di legge costituzionale è prevista la possibilità del Parlamento di sfiduciare, come è giusto che sia, perché il circuito fiduciario va mantenuto - se si vuole conservare all'interno del controllo politico di un sistema rappresentativo il nostro modello - nel senso che può essere comminata la sfiducia. Ci siamo permessi di aggiungere che essa viene espressa dal Parlamento in seduta comune in quanto non abbiamo voluto preventivamente negare a nessuna delle due Camere quel ruolo politico essenziale che si concretizza nell'atto più alto del controllo politico, vale a dire l'espressione della sfiducia (a contrario rispetto alla fiducia) nei confronti del governo. A noi pare che il bicameralismo, che pure esige di essere rivisitato, non possa essere spinto in tale rivisitazione fino al punto di negare ad una delle camere un ruolo politico, perché il rischio di trasformare la cosiddetta seconda camera in un organo privo di reale ruolo nel contesto costituzionale del nostro paese sarebbe molto grave.
Avviandomi alla conclusione, vorrei spendere qualche parola sul modo in cui evitare la personalizzazione della politica all'interno di elezioni che avvengano contemporaneamente per il primo ministro e per le assemblee rappresentative. Uno degli strumenti è necessariamente relativo al meccanismo elettorale; non può non essere così. Debbo dire che noi autori della cosiddetta bozza Fisichella (che è stata riassuntivamente definita tale ma che rappresenta il risultato del lavoro istruttorio dei colleghi Bassanini, Salvi, Urbani e del sottoscritto) abbiamo avuto ben presente la questione e ci siamo posti il problema del tipo di scheda (se unica o doppia e, se all'interno della scheda unica, si dovessero iscrivere i nomi del candidato nei collegi uninominali e del candidato primo ministro per ciascuno dei due poli), per realizzare al meglio questa sorta di ostacolo rispetto ai rischi di personalizzazione della politica. Credo che il Parlamento avrà tempo e modo di soffermarsi sul tema; ciò che voglio dire è che anche attraverso questa opzione a suo tempo deliberatamente lasciata aperta era emersa la consapevolezza del problema.
Nel momento in cui il meccanismo complessivo dell'esecutivo si accentra sulla figura del primo ministro, si pone la questione del capo dello Stato. Vi dirò rapidamente due cose. In primo luogo, se il capo dello Stato, sostanzialmente e/o formalmente, viene privato dei poteri di nomina del presidente del consiglio e di scioglimento delle camere, è evidente che, oltre a quello di garante e di rappresentante dell'unità nazionale, deve assumere un ruolo significativo su qualche altro terreno. Per quanto riguarda la questione del capo dello Stato come figura al di sopra delle parti dal punto di vista politico, lo strumento più immediato è di prevederne l'elezione con una maggioranza che conservi il livello dei due terzi anche dopo il terzo scrutinio; in tal modo non si può non coinvolgere l'opposizione

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- che ha un ruolo centrale per il mantenimento del sistema istituzionale nel quadro della democrazia rappresentativa - nel processo di espressione del presidente della repubblica.
Il secondo aspetto, mi pare altrettanto importante, è quello relativo alla possibilità di prevedere la titolarità del presidente per la nomina di autorità di garanzia in quei campi in cui il Parlamento ritenga di dover individuare questo tipo di figura. Sappiamo per esperienza corrente ma anche per esperienza scientifica che la competizione è il fondamento della democrazia, ma sappiamo anche che il «quanto» di capacità competitiva può essere vulnerato da numerosi interventi, meccanismi e processi di trasformazione a livello tecnologico, a livello della mobilitazione e manipolazione delle masse e via dicendo. Quindi, il «se» la competizione debba esserci non può che trovare una risposta affermativa, ma - attenzione - il «quanto» della competizione non ce lo garantisce a priori nessuno: dobbiamo trovare i modi ed i meccanismi per tenerlo ad un livello tale da evitare il rischio che la democrazia diventi un guscio vuoto dentro il quale operano altri soggetti che legittimazione democratica non hanno. Allora, in questo quadro è possibile che il Parlamento ritenga di individuare dei terreni e delle situazioni con riferimento alle quali si debbano istituire delle autorità garanti di un più compiuto processo competitivo. Nel progetto l'ipotesi è che la nomina di queste autorità di garanzia competa al presidente della repubblica, così come quest'ultimo continua a mantenere la presidenza del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio supremo di difesa, nell'assunzione che la difesa e la magistratura siano fondamenti dello Stato e che quindi, come tali, debbano essere garantiti anche nel vertice dall'autorità che, per definizione, rappresenta la statualità e l'unità della nazione nel suo complesso.
Altre cose si potrebbero dire (avremo modo di discutere nel dettaglio successivamente), ma sono queste le ragioni che hanno indotto ad una opzione come quella che è stata segnalata, nel tentativo di favorire un'autocorrezione del sistema che consenta anche al sistema stesso di non fare proprie alcune delle esperienze negative che, attraverso altri modelli, sono state registrate sul piano comparativo. Grazie, signor presidente.


PRESIDENTE. Prima di dare la parola all'onorevole Folena per l'ultimo intervento di questa seduta, mi scuso con i colleghi De Mita, Pieroni e D'Amico che avrebbero dovuto parlare oggi e che invece interverranno domani mattina. Sempre domani mattina mi riservo di prospettare, sulla base del quadro complessivo degli iscritti a parlare, un programma per la prosecuzione e la conclusione dei nostri lavori per quanto attiene alla discussione generale. Do ora la parola all'onorevole Folena.


PIETRO FOLENA. Grazie, presidente. Nell'illustrare le principali proposte di riforma del sistema delle garanzie contenute nella proposta di legge della sinistra democratica - mi concentrerò soprattutto sulla questione delle garanzie giurisdizionali -, intendo muovere da una prospettiva un po' diversa da quella da cui ha preso le mosse poco fa l'onorevole Parenti, vale a dire non tanto dal nesso tra politica e giustizia quanto da quello tra società e giustizia, dai diritti dei cittadini.
La recente relazione del procuratore generale della Cassazione all'inaugurazione dell'anno giudiziario rappresenta a mio avviso un'ammissione non nuova, ma forse mai fatta in modo così forte, di una crisi profonda, radicale e sistematica del rapporto tra i cittadini e la giustizia. Arriverei a dire che, insieme a quella fiscale, la questione giustizia costituisce forse una delle ragioni più importanti di questa crisi di fiducia dei cittadini nella democrazia. Riteniamo quindi del tutto legittimo, anzi necessario, domandarsi che cosa possiamo fare, per le nostre competenze, nella Commissione bicamerale per la riforma della seconda parte della Costituzione, non contrapponendo questa ricerca alla necessità di una riforma


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profonda, che può avvenire con legge ordinaria e che è all'attenzione del Parlamento. In avvio dei lavori il presidente ha posto una necessità - che condividiamo - di raccordo con il ministro.
La relazione del procuratore generale dà conto di un quadro che non possiamo definire che di denegata giustizia. Le diseguaglianze dei cittadini di fronte alla legge in molti casi sono giunte ad un livello insopportabile: pendono tre milioni di cause arretrate, i rinvii arrivano al 2005, se non oltre; la durata media di una causa è di 1.600 giorni; l'esecuzione civile rappresenta una parvenza e dilagano società private - dietro alle quali spesso si nascondono forme di criminalità - per la riscossione di crediti, l'esecuzione di sfratti e per il giudicato civile in genere. I non abbienti non hanno mezzi per agire e per difendersi; la riparazione degli errori giudiziari è molto limitata, se non inesistente, e tardiva. Tutto questo di fronte al crescere di fenomeni di insicurezza nella società, che trovano diverse ragioni.
Noi avvertiamo il rischio serio di un collasso che porti una parte della società e dei cittadini a cercare esclusivamente nella sfera del penale - e ancor più nella rappresentazione spettacolare della sfera del penale - la soddisfazione che altrimenti non si riesce ad ottenere. Questa spinta oggettiva, che qualcuno definisce giustizialistica, rischia - se dovesse proseguire e consolidarsi - di rimettere in discussione nel sentire comune, più ancora che nelle norme, la decisiva presunzione costituzionale di non colpevolezza. La sete di giustizia, combinata con il nuovo ruolo dei media, può provocare un effetto perverso.
C'è quindi, a nostro avviso, una distanza fra alcuni principi della prima parte della Costituzione e la Costituzione materiale del sistema giudiziario nel nostro paese. E, come già rilevava Costantino Mortati nel 1972, questa distanza ci pone il problema dell'insufficienza e dell'incapacità degli strumenti organizzativi ed ordinamentali della Costituzione a garantire l'attuazione delle finalità della prima parte della Costituzione stessa.
La forza ed il valore di quei principi della prima parte sono di straordinaria modernità - e non li voglio richiamare -, trattandosi di principi liberali, radicali, forti, scritti dai padri costituenti con un occhio indietro ed uno avanti: quello indietro sicuramente guardava al ventennio fascista, alla dittatura (non a qualche «stortura», onorevole Parenti); quello avanti guardava ad una società, un'economia, un paese da ricostruire. Dobbiamo dire che, anche se il cammino non è sempre stato lineare, i cinquant'anni di storia repubblicana ci dicono che quei principi si sono venuti lentamente affermando, perché le libertà fondamentali sono state garantite, a partire da quelle politiche, delle idee e delle opinioni. Perfino il cambiamento radicale, la transizione che il nostro paese sta vivendo, si sta verificando in modo tutto sommato sereno, secondo quei principi.
La sinistra democratica vede invece parzialmente inattuati o del tutto disattesi alcuni principi: quello dell'uguaglianza effettiva di tutti i cittadini di fronte alla legge, principalmente per il fatto che gli ostacoli economici e sociali (articolo 3) non sono stati rimossi; quello dell'accesso alla difesa da parte dei non abbienti e dei deboli di fatto (articolo 24), che non è certo garantito dall'attuale legge sul gratuito patrocinio; quello dell'effettiva riparazione degli errori giudiziari (articolo 24); quello della effettiva possibilità di accesso al giudizio per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, possibilità negata principalmente dai tempi e dalla lunghezza del giudizio; quello infine della presunzione costituzionale di non colpevolezza che, per i motivi a cui ho già accennato un attimo fa, non trova effettiva realizzazione.
Ragionare sul perché una parte di questi principi non sono stati attuati ci porterebbe lontano. Credo che non valga la pena dividerci qui sul passato: dobbiamo invece cercare un serio punto di convergenza sul futuro. Si può forse convenire semplicemente sul fatto che per

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un lungo periodo il sistema giudiziario ed il sistema politico nel nostro paese sono stati fortemente connessi; nel quadro delle grandi ragioni strategiche che hanno segnato l'epoca della guerra fredda anche le istituzioni giudiziarie hanno avuto, al di là della norma costituzionale, un ruolo di stabilizzazione politica (come del resto ci dice anche qualche vicenda della cronaca di questi giorni). Forse valeva, insomma, quella che in una piuttosto gustosa pièce teatrale di Leonardo Sciascia (L'Onorevole) il protagonista diceva con antica sapienza: che la giustizia non può, non vuole, non deve mettersi a fare i conti con tutti.
Negli anni più recenti, però, l'espansione della sfera della giurisdizione, soprattutto penale, corrisponde al venir meno di una pervasività della politica e del sistema dei partiti in ogni aspetto della vita sociale. Secondo noi non si può tornare a quel tipo di presenza della politica e del sistema dei partiti: questo è un primo punto. Al contrario, inoltre, si è determinata nell'ultimo periodo una nuova pervasività della giurisdizione, soprattutto di quella penale, che a qualcuno (mi riferisco ad un saggio, uscito in questi giorni, del professor Guarnieri e della professoressa Pederzoli) ha fatto parlare di «democrazia giudiziaria». Ma non si tratta di ragionare in modo provincialistico, come se fossero tendenze solo italiane, locali: in realtà sono comuni a tutti i paesi occidentali. Dobbiamo fare i conti con la nuova centralità dei sistemi di controllo.
Da questo contesto nasce la nostra riflessione, anche sulla materia costituzionale, che ci porta a proporre alcune modifiche costituzionali di grande rilievo. Per quanto riguarda gli strumenti organizzativi ed ordinamentali, si tratta di individuare quali indicazioni si debbano dare nella Costituzione per l'attività ordinaria del legislatore e dell'amministrazione per realizzare quei principi. Solo conoscendo la malattia si può indicare la terapia. Certo, se si dovesse sostenere che la malattia della giustizia consiste nella violazione della libertà politica, associativa e di espressione delle idee, la terapia dovrebbe essere adeguata. Ma non è così: la malattia è un'altra. Sta nell'assenza di un servizio giustizia accessibile a tutti, garantito nelle procedure, rapido, efficace nel giudicato.
Le riforme di cui il paese ha bisogno debbono poi arrivare a delineare nella seconda parte della Costituzione (ma questo non riguarda solo le garanzie: lo hanno già detto autorevolmente i colleghi Soda e Villone nella seduta di ieri) un'idea di Stato più leggero rispetto a quella di cinquant'anni fa, più liberale, meno soffocante. A questi principi è ispirata la nostra proposta.
Quali sono allora le indicazioni che la Costituzione può fornire al legislatore ordinario, al Governo, perché si risolva nel nostro paese la malattia giustizia? La prima indicazione strategica è il superamento della pluralità delle giurisdizioni.
L'esistenza di giurisdizioni diverse, spesso contraddittorie, e la relazione di alcune di esse con altri poteri ed organi costituzionali è uno dei fattori scatenanti i sentimenti di incertezza del diritto e del giudicato. La soluzione che noi indichiamo è quella di mettere le basi per la costruzione di una funzione giurisdizionale unitaria, esercitata tuttavia ancora per un periodo - a nostro avviso - da magistrature ordinarie ed amministrative regolate da diversi e distinti ordinamenti giudiziari, con un riparto di competenze compiuto per legge.
Nell'indicare questa strada non mi nascondo il fascino, la suggestione di soluzioni più radicali, che esamineremo in Commissione. Tuttavia, almeno al momento, ci appare più coerente e più realistico affidare alla legge una ripartizione delle competenze fra giudice ordinario ed amministrativo, decostituzionalizzando la dicotomia fra diritto soggettivo e interesse legittimo nonché affermando fino in fondo che la garanzia sta nella tutela delle situazioni giuridiche soggettive: un principio che costituisce, a nostro modo di vedere, una svolta liberale. Per questo prevediamo le stesse garanzie per la magistratura amministrativa e per quella ordinaria, un solo Consiglio superiore della magistratura - con due sezioni e due vicepresidenti -, una profonda

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riforma del Consiglio di Stato, con due sezioni nettamente separate (superando la commistione fra le competenze giurisdizionali e le altre funzioni di consulenza). Per questo ipotizziamo il superamento della giustizia contabile, attribuendo al giudice amministrativo la competenza in materia di responsabilità patrimoniale dei pubblici funzionari ed al pubblico ministero l'esercizio dell'azione in questo campo. In tale contesto, la Corte dei conti dovrebbe assumere un ruolo più determinato, di controllo vero e sostanziale sull'efficienza e sull'efficacia dell'azione amministrativa. È così che si configura una rifondazione del circuito delle responsabilità ed un nuovo sistema di controllo sugli apparati pubblici, davvero decisivo se vogliamo impedire che si riproducano fenomeni come quelli emersi negli anni scorsi.
Unicità della giurisdizione, infine, vuol dire anche superamento, abolizione della giurisdizione militare in tempo di pace. Del resto, la cronaca ci «urla» di muoverci in questa direzione.
La seconda indicazione costituzionale riguarda la parità tra l'accusa e la difesa e la durata ragionevole del processo. Questi due aspetti, così come disciplinati dalle norme che proponiamo, acquisiscono una fondamentale importanza nell'impianto da noi prospettato. Non bastano le affermazioni sul diritto alla difesa così come contenute nei principi della prima parte della Costituzione. Negli anni scorsi è intervenuta una riforma molto importante, quella del codice di procedura penale, alla quale ha fatto riferimento anche l'onorevole Parenti, una riforma decisiva per la quale ci siamo fortemente battuti. Ci si è liberati, almeno nel testo originario di quella riforma, dall'eredità pesante di un rito inquisitorio ed illiberale, che aveva in sé elementi negativi ed autoritari. Tuttavia, a nove anni dall'introduzione della riforma, dobbiamo constatare come da un lato la stessa si sia inserita nell'inerzialità di una concezione inquisitoria che di fatto permane e, dall'altro, come sia stata contraddetta da alcune sentenze della Consulta, oltre che dal Parlamento, soprattutto in seguito alle novelle del 1992, che il Parlamento ha votato all'unanimità (ricordiamoci, quindi, su chi grava la responsabilità di quelle norme). Le novelle furono determinate da un'emergenza reale, l'emergenza mafia. Sta di fatto che non possiamo più intervenire con novelle o con politiche emergenzialistiche sui codici, perché questo crea un'incertezza intollerabile del diritto.
In tale contesto, una forte indicazione costituzionale è quella della parità tra le parti, che evidentemente dovrà poi impegnare il legislatore ordinario a costruire un processo effettivamente paritario. Il tema della terzietà del giudice e della parità tra accusa e difesa dovrà trovare risposta principalmente in aspetti di procedura e poi anche in aspetti attinenti all'ordinamento. Con questa norma dobbiamo invitare il legislatore a rivedere il sistema complessivo del processo e, per quanto riguarda la durata, ad intervenire perché quest'ultima sia ragionevole: un processo lungo, anche il più astrattamente giusto, non è mai giusto proprio perché lungo. Il processo, quindi, deve essere più garantito e più rapido.
Dobbiamo guardarci da un finto garantismo, da un barocchismo garantista che a mio avviso si sposa perfettamente con un sostanzialismo sommario, che nega le garanzie dei diritti. Noi siamo per un vero garantismo, in virtù del quale si intervenga sulla durata del processo e si evitino lungaggini e dispersioni che finiscono per negare il diritto alla giustizia.
La terza indicazione costituzionale muove da un problema sollevato dall'onorevole Parenti, che a nostro avviso ha un fondamento. Mi riferisco all'effettiva attuazione dell'articolo 112, in materia di obbligatorietà dell'azione penale. Si tratta di un principio largamente disatteso nella storia alle nostre spalle, non solo negli anni più recenti. La nostra è stata una storia caratterizzata da una giustizia debole con i forti e forte con i deboli, con una sostanziale impunità della quale ha goduto buona parte delle classi dirigenti del paese che si macchiava di colpe, che commetteva illeciti. Di fronte alla contraddittorietà riscontrabile nell'applicazione di

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questo principio, la strada da perseguire non è quella della cancellazione del principio stesso, cosa che del resto nessuno ha proposto in questa sede. Ciò, anche in considerazione dell'alto tasso di illecito riscontrabile nel nostro paese e, quindi, della necessità di dare un segnale anche nella ricostruzione di un'etica pubblica, di una religione civile della legalità. A questo proposito, Pietro Gobetti ha scritto pagine straordinarie. A nostro avviso, il punto di fondo consiste nella riduzione della sfera penale. Da questo punto di vista, possiamo essere considerati astrattamente illuministi? Ebbene, lo siamo. Ci riconosciamo una prospettiva radicalmente illuministica, da Cesare Beccaria in poi, che vede nel penale l'extrema ratio della sanzione giuridica e che quindi deve portare il legislatore ordinario a forti interventi di depenalizzazione e, in Costituzione, ad un'indicazione dirimente. Noi abbiamo proposto una norma che prevede una riserva di codice, per cui nuove norme penali sono ammesse soltanto se modificano il codice penale, ovvero se contenute in leggi che disciplinano organicamente l'intera materia cui esse si riferiscono. Si riscontra frequentemente la tendenza del politico, del Parlamento, della funzione politica a fornire risposte in termini emozionali, con piccole sanzioni penali, a problemi effettivi che emergono nella società. Si tratta quindi di dare un forte segnale in questa direzione.
Non intendo demonizzare la posizione di alcuno, né in particolare quella dell'onorevole Parenti, che tra l'altro l'ha sostenuta con argomenti anche molto motivati; tuttavia non ci convince assolutamente l'ipotesi istituzionale per cui possa essere il potere politico - tanto più il Parlamento - ad indicare le priorità di politica criminale. In altri paesi si segue il modello del potere dell'esecutivo, mentre nel nostro caso si sta accentuando una visione neoparlamentare, che non mi pare comunque trovi paragoni in altre realtà. Si tratta di un modello che, non a caso, è in crisi nei paesi di civil law. Chirac, che non è un uomo di sinistra, in due recenti interviste televisive ha annunciato una radicale riforma che mette in discussione principi secolari in Francia, in particolare la collocazione istituzionale della magistratura del parquet , della magistratura requirente. Troverei più limpida una posizione che tendesse, come nei paesi di common law , a configurare che il pubblico ministero e il procuratore distrettuale trovino la loro legittimazione nell'elezione popolare. Anche in quei paesi si sta ragionando su cosa ciò comporti in un'epoca di sistema televisivo e mediatico, di globalizzazione dell'informazione. Si tratta, tuttavia, di un sistema più limpido. In questi giorni ho provato ad immaginare cosa avrebbe potuto essere un dibattito parlamentare sulla politica criminale, una discussione su una sorta di legge finanziaria in materia di reati: una trattativa tra i partiti politici volta ad indicare i reati da perseguire e quelli da non perseguire. Per rispondere ad un problema che esiste e che è stato sollevato, credo che la prospettiva da seguire debba essere un'altra. La nostra convinzione è che, quanto più forte è la legittimazione del potere politico e si va verso riforme con una forte legittimazione, più forte debba essere la separazione tra giustizia e politica, più forte l'indipendenza di tutti i controlli di legalità, più forte la responsabilità di chi esercita i controlli. Come giustamente ha detto l'onorevole Parenti, esiste il problema di chi custodisce i custodi e di chi controlla i controllori. Ma un maggiore collegamento tra pubblico ministero e potere politico, a nostro avviso, anche per l'inerzia delle tradizioni inquisitorie del nostro paese, potrebbe arrivare paradossalmente a contraddire i principi per cui lo si propone, cioè a ledere libertà e garanzia dei cittadini.
Presupposto dell'indipendenza è la responsabilità delle proprie azioni. Sotto questo profilo è riscontrabile una inadempienza del legislatore ordinario. Per esempio, non è stata ancora tipicizzata la responsabilità disciplinare, sulla quale si sta discutendo. C'è certamente una responsabilità del Consiglio superiore della magistratura. Mi domando comunque se il male stia nel Consiglio o nel fatto che

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questo organismo è stato introdotto con più di venti anni di ritardo rispetto al dettato costituzionale, attraverso una difficilissima strada, non ancora completamente percorsa, che ne determina poteri e competenze.
A nostro modo di vedere, in questo campo le riforme possono essere di tipo ordinario, anzi così dovranno essere, nel senso che dovranno conferire certezza alla promozione dell'azione disciplinare, riformando il Consiglio superiore della magistratura, per rendere effettivo questo principio.
La novità che inseriamo in Costituzione riguarda il fatto che la legge stabilisce le misure idonee ad assicurare il coordinamento interno degli uffici del pubblico ministero. Fermi restando i presupposti costituzionali di indipendenza del singolo pubblico ministero e la sua inamovibilità, invitiamo il Parlamento a legiferare su un principio di responsabilità dell'ufficio del pubblico ministero, che dovrà rispondere delle proprie scelte. Tuttavia, continuo a ritenere che il pluralismo di uffici del pubblico ministero e di politiche criminali sia un fattore di garanzia liberal-democratica, perché un unico grande ufficio del pubblico ministero che si muova sulla base di indicazioni del Parlamento, a mio modo di vedere, darebbe meno garanzie di rispetto e di affermazione dei diritti e delle libertà dei singoli.
Noi prospettiamo nel nostro disegno di riforma un'accentuazione della distinzione, delle differenze tra il pubblico ministero e il giudice giudicante, senza giungere a soluzioni che altri colleghi hanno proposto. Mattarella e i colleghi del gruppo dei popolari, nella loro proposta, ipotizzano due diverse funzioni che portino anche ad un Consiglio superiore della magistratura articolato, a sua volta, per sezioni: ragioniamoci. Altri colleghi, tra cui l'onorevole Parenti, ipotizzano un pubblico ministero fuori dall'ordine giudiziario, con un nuovo ordine autonomo ed indipendente, che dovrebbe essere regolato nelle forme che abbiamo ascoltato poco fa.
Ho già detto che a mio modo di vedere la terzietà è soprattutto un problema di procedura, ma anche per quello che riguarda l'ordinamento credo che sia importante muoversi in una prospettiva in cui i tre grandi attori del processo (tre e non due: il pubblico ministero, l'avvocato e il giudice) nascono e crescono in una comune cultura della giurisdizione. Questa è una garanzia: diversi i tre, ma che crescono insieme. Evidentemente questo ci deve portare ad una serie di norme che stabiliscano che la legittimazione del pubblico ministero deve stare solo nella legge e non nella ricerca del consenso. Questo è un grandissimo problema che oggi esiste, ma che va affrontato con questa prospettiva.
Noi non tocchiamo la percentuale della composizione del Consiglio superiore della magistratura prevista nella Costituzione (c'è un problema di legge ordinaria per quello che riguarda la composizione della parte togata; anche la revisione della legge elettorale è un problema all'ordine del giorno), ma cambiamo la fonte di legittimazione della componente laica, nel senso che nel nostro disegno, se si va verso quel senato delle libertà, quella camera delle garanzie che non ha poteri politici, che non è luogo di scontro fra le due parti, questo senato delle garanzie potrebbe essere la fonte che elegge tanto i membri laici del Consiglio superiore quanto i giudici della Corte costituzionale.
Vorrei ora fare alcuni cenni conclusivi su altri aspetti del sistema della garanzie. Il primo è che noi prevediamo l'accesso diretto del cittadino alla Corte costituzionale e l'ampliamento di tale accesso a tutti i soggetti di autonomia garantiti in Costituzione. Quindi proponiamo di accentuare, in uno spirito effettivamente garantistico, le possibilità di affermazione delle libertà dei singoli cittadini. Questo evidentemente comporta anche una modifica della Consulta, con un aumento a 20 del numero dei giudici (5 verrebbero eletti dalle assemblee regionali, anche per formalizzare la svolta federalistica) organizzati, nella loro struttura interna, per sezioni.

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In secondo luogo riformiamo l'istituto referendario per cancellare quel referendum, non scritto nella legge ma di fatto vigente nella costituzione materiale del paese, di tipo manipolativo, per recuperare il senso pieno del referendum abrogativo e affiancare a questo l'ipotesi di una possibilità di legislazione affidata anche all'esercizio diretto da parte del popolo, con referendum di tipo deliberativo dirimente, laddove il Parlamento non risponda in termini ravvicinati a leggi di iniziativa popolare.
In terzo luogo, siamo per il pieno riconoscimento dei diritti dell'opposizione, attraverso una sorta di statuto dell'opposizione, che fornisca indicazioni per l'attività regolamentare delle Camere arrivando, per esempio, ad affermare e a dare alle opposizioni un potere stringente di inchiesta.
Per ciò che riguarda il ruolo del Capo dello Stato, coerentemente con le riflessioni che i colleghi Soda e Villone hanno fatto ieri sugli altri aspetti della riforma, se si imboccherà la strada della scelta del premier, lo vediamo come supremo garante al di sopra delle parti - eletto da una platea più larga di grandi elettori - che quindi dovrebbe accentuare la sua funzione rispetto al complessivo sistema delle garanzie.
In definitiva, per sintetizzare, è nostra convinzione che, imboccando la strada del bipolarismo, della democrazia e dell'alternanza, strada irrinunciabile e decisiva, abbiamo bisogno contestualmente di costruire un forte contrappeso in un sistema di controlli neutrali, indipendenti, forti e responsabili. Quindi, siamo per un equilibrio che si costruisca su questi due pilastri. Avanziamo in modo trasparente queste idee e la bicamerale è un modo trasparente per discuterne. Siamo pronti a ragionare di tutto con tutti, ma attorno a questi principi e a questa convinzione e cioè all'idea di uno Stato più leggero rispetto al passato, più giusto, con una giustizia più certa ed anche forte in quanto mite e mite in quanto forte, con una società più libera, meno costretta da istituzioni soffocanti e un sistema in cui davvero la giustizia faccia la giustizia e la politica faccia la politica.


PRESIDENTE. Cari colleghi, la discussione sta assumendo una ricchezza ed un rilievo tali da giustificare, a mio giudizio, il tempo impiegato. Questa mattina sono stati svolti cinque interventi e se dovessimo supporre di procedere con questo ritmo, la discussione generale occuperebbe quasi interamente il tempo che ci è stato dato dalla legge istitutiva della Commissione: si sono infatti iscritti a parlare circa 36 colleghi.
Nel corso del pomeriggio farò pervenire a ciascun gruppo sia il quadro del tempo già impiegato dai gruppi sia quello degli iscritti a parlare. Non intendo introdurre - perché ritengo che sarebbe assurdo - vincoli di tempo per i singoli interventi, né contingentamenti, confidando nella funzione autoregolativa. A questo punto, trattandosi dell'esposizione generale di posizioni che appartengono a gruppi più che a singoli parlamentari, credo possa intervenire, entro domani mattina, qualche valutazione o qualche ulteriore sforzo di autoregolamentazione che ci consenta di fare un quadro ragionevole dello sviluppo della discussione generale, perché - ripeto - gli interventi, considerato il loro numero e il tempo medio, richiederebbero altre sette-otto sedute, il che non è proibito ma forse è eccessivo rispetto alla funzione di presentazione delle posizioni di partenza.
Senza voler imporre alcuna ghigliottina, questi elementi conoscitivi saranno forniti allo scopo di consentire le valutazioni necessarie per poter formulare un quadro più realistico dello sviluppo dei nostri lavori.

(Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta)


La seduta termina alle 13.20.