RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 2

Pag. 10

La seduta comincia alle 16,25.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Discussione generale sui progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.


PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione generale sui progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
Colleghi, diamo inizio ai lavori. Innanzitutto buonasera e buon lavoro.
Comunico che l'ufficio di presidenza ha deciso di avviare l'attività della Commissione con una discussione di carattere generale avente lo scopo di individuare le linee di riforma della parte seconda della Costituzione che emergono dal complesso delle numerose proposte che sono state trasmesse e che sono all'esame della Commissione. Ricordo che si tratta di 185 proposte di riforma costituzionale; naturalmente, questo grande numero di testi consiglia di procedere, già a partire dalla discussione generale, più che all'esame dei singoli testi, ad un dibattito che affronti le questioni, i temi, i nodi costituzionali che sono all'esame della Commissione, ovviamente con particolare riguardo a quelli individuati dalla legge istitutiva. E' bene che, intorno a ciascuno di essi - forma di Stato, forma di governo, riforma del Parlamento, questione delle garanzie - si mettano in evidenza, come io cercherò di fare (chiedo scusa in anticipo per le lacune, che non mancheranno), le diverse risposte e soluzioni che emergono dal complesso delle proposte presentate. Proporrò che su di esse la Commissione venga prima chiamata a svolgere un approfondito confronto al suo interno e con le rappresentanze della società italiana e delle altre istituzioni. Successivamente, vi sarà la fase delle decisioni.
Noi dovremo studiare un percorso decisionale che renda possibile fare ciò che è assolutamente obbligatorio fare: cioè completare il nostro lavoro entro il 30 giugno; un percorso decisionale che dovrà prevedere inevitabilmente voti di indirizzo. Noi dovremo affrontare alcune dicotomie, decidere in determinati momenti quale strada percorrere. Ad esempio, per quanto attiene alla riforma della forma di governo, ci troviamo di fronte a tre tipi di ipotesi: ipotesi presidenzialista classica, sul modello americano, ipotesi semipresidenziale e ipotesi di governo del primo ministro. È evidente che ad un certo punto la Commissione con un voto di indirizzo - questo vale anche per altre questioni - dovrà decidere in quale direzione muoversi. Tuttavia, ritengo giusto che, prima di arrivare a queste decisioni attraverso un lavoro approfondito, si sviluppi un confronto fra i testi che sono all'esame della Commissione, così da individuare soluzioni comuni, punti di distinzione, in modo che successivamente, una volta scelta una strada, si possa arrivare a decidere sulle questioni controverse con rapidità e trasparenza. Se, per esempio, la scelta cadrà sul semipresidenzialismo, si dovrà discutere di quali poteri dovrà avere il presidente eletto dai cittadini, in quale rapporto dovrà essere con il Parlamento e con il governo. Punti sui quali le varie proposte che sono all'esame della Commissione e che si rifanno a questo modello prevedono soluzioni diverse.
Insomma, io ritengo che innanzitutto dobbiamo impostare un lavoro complesso


Pag. 11

che ci consenta di arare il campo, di predisporre la trama delle decisioni secondo un ordine che non può essere quello meccanico dell'esame di ciascun progetto di legge, in modo che l'opinione pubblica sia messa di fronte in modo limpido e trasparente alle grandi scelte che la Commissione dovrà compiere, alle diverse motivazioni che si confronteranno, alle ragioni dei voti che dovranno essere deliberati.
Lo spirito di questo lavoro è duplice. Innanzitutto, quello di una revisione di una riforma costituzionale che avvenga in un rapporto aperto con la società italiana. Noi abbiamo adottato un metodo, quello della riforma parlamentare attraverso la Commissione bicamerale, che certamente presenta il rischio di una chiusura del processo delle riforme costituzionali all'interno del Palazzo. Dobbiamo contrastare questo rischio con un metodo di lavoro che sia estremamente aperto, non soltanto a tutte le forme di conoscenza da parte dei cittadini. L'ufficio di presidenza si è orientato oltre che, ovviamente, a garantire la pubblicità delle sedute plenarie, anche a fornire, nel caso che poi si decida di dare vita a comitati, un'informazione, sia pure più sommaria, sul lavoro degli stessi. Tutti i lavori della Commissione circolano su Internet; in questo modo siamo leggibili, e poi raggiungibili, da parte dei cittadini che vogliano trasmettere osservazioni e proposte. Come presidente ho già ricevuto molte lettere, suggerimenti, richieste di incontro, che dimostrano l'interesse diffuso che c'è in tanta parte della società italiana verso l'opera lungamente attesa di riforma costituzionale. Bisognerà che insieme, innanzitutto l'ufficio di presidenza, ma anche i gruppi, ai quali forniremo questo materiale, ci impegniamo a mantenere vivo questo dialogo, questo scambio di informazioni, questa raccolta di indicazioni e di proposte. Nello stesso tempo, credo che, terminata la discussione generale, la Commissione debba decidere un calendario di audizioni. In parte ci rivolgeremo ad esperti, a gruppi, ad associazioni, anche attraverso il metodo della sottoposizione di quesiti e risposte scritte (per ovvie ragioni di tempo); ma in parte credo sia giusto prevedere un calendario di audizioni per realizzare un dialogo diretto innanzitutto con quelli che a me sembrano gli interlocutori fondamentali, ossia i rappresentanti elettivi delle istituzioni democratiche, delle regioni, delle province e dei comuni italiani. Il presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni ha avanzato alla Commissione l'ipotesi della partecipazione permanente di una rappresentanza, in qualità di osservatori, ai nostri lavori. Al riguardo, nell'ufficio di presidenza è prevalso l'indirizzo di considerare come preclusiva la prassi secondo cui ai lavori parlamentari non partecipano soggetti non parlamentari, anche perché se avessimo ammesso osservatori della Conferenza dei presidenti delle regioni, legittimamente altre istituzioni (per esempio, i sindaci) avrebbero potuto avanzare analoga richiesta e sarebbe stato difficile definire un criterio. Tuttavia, questa non deve essere e non è affatto una risposta di chiusura. Ritengo che i presidenti delle regioni debbano essere consultati nella fase di impostazione del nostro lavoro ed anche nel momento in cui arriveremo a predisporre un'ipotesi di testo sulla riforma della forma di Stato. Dobbiamo cioè considerarli come interlocutori in qualche modo permanenti della Commissione.
Ho fatto questo esempio non solo perché esso ha evidentemente una particolare rilevanza, dal momento che le regioni rappresentano istituzioni elettive dotate di un potere legislativo importante e che noi vogliamo accrescere, ma anche per indicare un metodo generale che a me sembra opportuno adottare, cioè quello di un dialogo intenso con la società, con le sue rappresentanze, per coinvolgere ed anche per raccogliere indicazioni, proposte, suggestioni.
L'obiettivo del nostro lavoro è quello di rafforzare il sistema democratico nel nostro paese, di dare all'Italia istituzioni più

Pag. 12

moderne in grado innanzitutto di consolidare, ma per certi aspetti dovremmo dire onestamente di ricostruire, un rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni dello Stato democratico.
Una democrazia più forte è una democrazia più aperta e più legata ai cittadini, ma nello stesso tempo in grado di decidere, in un mondo sempre più strettamente integrato, nel vivo di processi di integrazione sovranazionale. Processi che rappresentano per il nostro paese non soltanto una sfida di carattere economico, ma anche politico e culturale.
Mi sembra di poter dire, sulla base di un esame certamente generale delle proposte sottoposte alla nostra attenzione, che l'ispirazione comune guarda ai modelli delle grandi democrazie europee e comunque del mondo occidentale. Ciò in particolare per quanto attiene alla necessità di dare un fondamento istituzionale più robusto ad una democrazia dell'alternanza e aperta al ricambio delle classi dirigenti. Questo tema si è imposto al centro della vita politica ed anche dei grandi movimenti della società civile nel corso degli ultimi anni come una profonda esigenza di ammodernamento, di rottura, di superamento di una lunga fase di stagnazione, che secondo non pochi commentatori è stata anche all'origine dei fenomeni di corruzione e di crisi dei partiti politici che hanno investito il nostro paese all'inizio degli anni novanta.
La spinta che è venuta dalla società è stata innanzitutto quella di un rapporto più diretto fra i cittadini e gli eletti, è stata ed è quella di una volontà accresciuta da parte dei cittadini di indicare o scegliere direttamente chi deve governare il paese. Si tratta, quindi, di una spinta che indubbiamente va nel senso di un rinnovamento della democrazia italiana che si ispiri ai grandi modelli delle democrazie dell'occidente, aperti - da sempre - ad un ricambio delle classi dirigenti.
Naturalmente sappiamo che questo obiettivo può essere perseguito in modi diversi ed abbiamo diverse proposte: ma non c'è dubbio che tutte queste proposte guardano all'obiettivo di una democrazia più efficace ed aperta al ricambio delle classi dirigenti.
Il limite che si è riscontrato nel processo politico di questi anni - e che è apparso via via più evidente - è stato rappresentato dal fatto che un simile cambiamento non poteva poggiare esclusivamente su una riforma della legge elettorale. Riprenderò questo tema più avanti, perché credo che noi non dobbiamo avere tabù su questo terreno.
La legge elettorale, come materia, non ci compete; e credo che la Commissione debba limitarsi a ciò che le compete. In proposito preannuncio che - a conclusione di questa discussione generale - presenteremo una proposta di stralcio delle parti dei progetti di legge inviati alla Commissione che riteniamo non competano alla Commissione: in primo luogo, tutto ciò che attiene, in modo diretto o anche indiretto, alla riforma della parte I della Costituzione; in secondo luogo, le leggi costituzionali che certamente, poi, nel loro iter dovranno tenere conto di eventuali riforme che intervengano in questa sede ma che non competono direttamente ad un nostro esame. Credo, cioè, che noi dobbiamo autolimitarci e considerare che i disegni di legge che ci sono stati trasmessi debbono essere da noi recepiti nelle parti relative alle competenze della Commissione.
Detto questo, però, ritengo che sarebbe sbagliato ed ipocrita, che nel corso del nostro lavoro e nel momento in cui affronteremo il nodo della forma di governo ed anche della riforma del Parlamento non possa tenersi anche in questa sede un confronto generale sui temi di una eventuale, ed a mio giudizio necessaria, riforma della legge elettorale. Perché è chiaro che il nesso tra riforma della legge elettorale e nuova forma di governo non può essere nascosto, quand'anche - evidentemente - in questa Commissione nessuno può pensare che si possa fare la riforma elettorale. Ma in questa Commissione, alla quale il paese guarda, sono

Pag. 13

presenti le principali forze parlamentari ed i principali esponenti politici; credo, quindi, che su questo punto possa legittimamente delinearsi un indirizzo, tale da rendere più significativo e chiaro anche l'indirizzo di riforma della forma di governo al quale giungeremo.
Non nascondo - né intendo nascondere in una cortina di comuni intenzioni - l'esistenza di contrasti e di differenze, anche rilevanti, che richiederanno di essere discusse e sulle quali ci pronunceremo con il voto.
Non ho abbandonato la speranza che poi, nel momento delle decisioni e dei voti, la Commissione possa ritrovarsi nel pieno della sua composizione con un ritorno tra noi dei colleghi della lega nord. L'ufficio di presidenza ha espresso unanimemente l'auspicio che ciò possa avvenire e ho avuto l'incarico di prendere contatto con i leader della lega nord, innanzitutto con l'onorevole Bossi, per invitarli, a nome di tutti, a consentire che i parlamentari della lega riprendano il loro lavoro in Commissione. Debbo confessare, ahimè, che non è stato possibile ottenere questo risultato. Nei prossimi giorni la lega terrà il suo congresso ed anche per questa ragione nei giorni di quel congresso non terremmo riunioni della Commissione: speriamo che in quella sede maturi l'orientamento di tornare ad impegnarsi nel lavoro comune di riforma costituzionale.
Arriveremo, dunque, al momento delle decisioni ma, nello stesso tempo, credo che dobbiamo lavorare per ridurre le divergenze, per ricercare i punti d'intesa, per individuare e circoscrivere le questioni sulle quali inevitabilmente si dovrà procedere attraverso il voto, perché lo spirito di un proposito costituente è quello di fare in modo che emerga un quadro di regole e di valori condivisi, il più largamente condivisi possibile, come condizione per delineare la cornice entro la quale il conflitto politico e programmatico possa dispiegarsi nel modo più chiaro. Sono sempre stato convinto che la nettezza del conflitto sia tanto più agevole in condizioni di sicurezza democratica quanto più si converge nel definire le regole comuni all'interno delle quali in conflitto poi si svolge.
Alle nostre spalle c'è un lungo dibattito non soltanto sulla necessità di riformare radicalmente la seconda parte della Costituzione, ci sono anche l'esperienza, il lavoro, il materiale, per la verità assai pregevoli - voglio dirlo perché troppe volte si è avuto un atteggiamento sprezzante verso questo lavoro - prodotto da due Commissioni parlamentari, che non hanno raggiunto l'obiettivo ma hanno sviluppato un confronto di merito sulle riforme e sui problemi del nostro sistema istituzionale assai significativo. C'è quindi un bagaglio di proposte e di progetti, perché oramai da oltre dieci anni si discute della necessità di riformare la Costituzione.
Ho già detto che, al di là della diversità delle risposte, ci sono, come emerge con evidenza dall'esame delle proposte, dei punti di partenza e di analisi comuni. Vi è il riconoscimento di un complesso di esigenze del paese e del nostro sistema istituzionale su cui non vedo radicali divergenze di giudizio. Innanzitutto - e cominciamo così ad entrare nel merito - sull'esigenza di avvicinare lo Stato ai cittadini, cioè di decentrare funzioni sinora assolte quasi esclusivamente dallo Stato centrale, di far contare di più le regioni, come è giusto, ma anche - come è evidenziato nelle proposte che abbiamo all'esame - le città e le province italiane.
Naturalmente tale questione può essere posta in una prospettiva federalista o neoregionalista, ma questa esigenza è comune a tutte le proposte che riguardano la forma di Stato e nasce evidentemente dal seno della nostra società: è un problema reale a cui il Parlamento intende dare una risposta.
Aggiungo - e porrò questo problema a seconda delle diverse materie - che chiederemo un raccordo con il Governo. Vi è infatti un'esigenza di collegamento: nel momento in cui affronteremo queste questioni, chiederemo quindi di poter avere come interlocutore il ministro per la funzione pubblica ed il ministro dell'interno, anche perché il Governo ha chiesto ed ottenuto dal Parlamento deleghe per

Pag. 14

ottenere una riorganizzazione in senso federalista - nel senso del decentramento - della pubblica amministrazione. Occorrerà evidentemente, a mio giudizio, che le misure di riforma amministrativa, quanto mai urgenti e necessarie, si raccordino agli indirizzi di riforma istituzionale che emergeranno in questa sede. È chiaro pertanto che, pur non essendovi un ministro per le riforme istituzionali, ossia un interlocutore, in qualche modo, istituzionale (scelta compiuta, a mio giudizio opportunamente, da parte del Governo, anche come atto di rispetto verso l'autonoma iniziativa parlamentare), il Governo sarà - almeno così ritengo e se voi sarete d'accordo nel chiederlo - interlocutore di questa Commissione su diverse questioni. Quella appena citata è certamente una delle più importanti ma, come vedremo in seguito, esiste il problema dell'Europa nonché l'insieme delle proposte di riforma costituzionale tendenti a costituzionalizzare il tema dell'unità europea. Anche su questo, evidentemente, il Governo, nell'ambito delle sue competenze, dovrà essere interlocutore di questa Commissione. Il problema si potrà porre, via via, con riferimento alle diverse materie che affronteremo.
Per quanto attiene alla forma di Stato, esiste quindi una base comune di riflessione. Anche nel caso della riforma del Parlamento, mi pare di poter dire, pur essendo indubbiamente più ampio l'arco delle risposte che abbiamo di fronte, che, in modo largamente prevalente, le proposte di riforma puntano ad un Parlamento più agile. Pressoché tutte le proposte, in particolare, prevedono una riduzione, anche cospicua, del numero dei parlamentari. Si tratta di una scelta assai rilevante, impegnativa e degna - se sarà compiuta -, perché una classe dirigente che fosse in grado di scegliere in questo senso di fronte al paese credo darebbe una prova di senso dell'interesse generale e di moralità.
La grande maggioranza delle proposte prevede un superamento del bicameralismo perfetto, così come esiste oggi nel nostro ordinamento, in forme più o meno drastiche, che vanno dall'ipotesi del monocameralismo fino a varie forme di differenziazione delle due Camere, e ciò dal punto di vista sia delle funzioni sia delle modalità di elezione, in qualche caso con proposta di elezioni di secondo grado.
Anche in questo caso, quindi, ci troviamo di fronte ad un complesso di esigenze che appaiono largamente comuni: Parlamento più agile, più efficiente, superamento delle complesse procedure del bicameralismo. Molte proposte, poi, guardano ad una seconda Camera non soltanto, ma essenzialmente, come luogo di raccordo istituzionale in relazione ad una riforma di tipo federalista.
Anche sulla questione della forma di governo è ben chiaro l'indirizzo generale. Si punta ad un governo più stabile; emerge l'esigenza evidente che il governo sia più direttamente legittimato - uso questa espressione - dal voto popolare, in qualche caso in modo diretto ed esclusivo, in qualche caso attraverso meccanismi che consentano ai cittadini di scegliere, nello stesso tempo, la maggioranza parlamentare e il governo o il primo ministro.
Vi è inoltre un complesso di proposte che riguardano il capitolo delle garanzie e che tende, in un modo che pare meno compatto, più sfrangiato, anche perché si tratta di un capitolo assai consistente, all'obiettivo di coniugare i diritti del singolo cittadino con la massima efficacia della macchina amministrativa e giudiziaria.
Questo problema delle garanzie e dei diritti, e nello stesso tempo dell'efficacia nella tutela della legalità, mi pare sia la duplice ispirazione da cui muovono gran parte delle proposte che, in misura notevolissima, affrontano, nel capitolo delle garanzie, il tema dell'ordinamento della magistratura.
Mi permetto di sottolineare un tema che può apparire minore ma che mi sembra abbia grande importanza: mi riferisco al rapporto tra l'Italia e l'Europa, sul quale intervengono alcune proposte. E' noto che in altri grandi paesi democratici del nostro continente, in particolare in Francia e in Germania, tale questione è

Pag. 15

stata affrontata con riforme costituzionali. Credo sia importante che anche la nostra Costituzione si apra al riconoscimento esplicito del processo di unità europea, unità politica, economica e sociale.
Ritengo esista il consenso perché si possa introdurre nella seconda parte della Costituzione l'impegno, la scelta dell'Italia di essere parte dell'Unione europea, per promuovere uno sviluppo secondo i principi di democrazia, di libertà e di tutela dei diritti fondamentali che ispirano la nostra Carta costituzionale. Naturalmente esiste un grande problema: poiché il processo dell'unità europea è anche, in modo particolare, un processo di cessione di sovranità, ritengo siano fondate la proposta di introdurre questo principio nella nostra Costituzione e, nello stesso tempo, le proposte - che pure non mancano - di condizionare la cessione di sovranità alla crescita di effettive garanzie democratiche delle istituzioni europee.
Esiste anche la proposta - è stata avanzata dal gruppo di rinnovamento italiano - di costituzionalizzare la conformità della politica economica e monetaria del nostro paese ai principi dell'ordinamento dell'Unione europea. Una scelta questa molto impegnativa; direi che si tratta della proposta più stringente dal punto di vista del rapporto tra il nostro sistema e l'Unione europea; proposta che dovremo certamente esaminare e discutere.
A proposito di questa delicata questione, il ministro degli affari esteri mi ha fatto pervenire, in forma ufficiale, una lettera nella quale sottolinea, non nella forma di una proposta di legge ma come indicazione di una serie di esigenze, la necessità di modifiche costituzionali derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea. Credo che questa lettera - che non vi leggerò ma che porremo a disposizione di tutti i membri della Commissione - indichi una traccia di lavoro interessante. Mi pare possa essere utile, nel momento in cui affronteremo tali questioni, avere nel ministro degli esteri un interlocutore fondamentale.
Dunque, la nostra funzione consiste nell'affrontare questo complesso di problemi e nel ricercare le soluzioni. Credo che svolgeremo questo lavoro in un rapporto vivo con l'opinione pubblica: abbiamo di fronte un'opinione pubblica esigente ed anche - non nascondiamocelo - in parte sospettosa nei confronti delle possibili intese che potranno essere raggiunte all'interno di questa Commissione. C'è uno strano spirito nel nostro paese: tutti vogliono le riforme, ma siccome esse comportano un'intesa tra le forze politiche e parlamentari, l'idea di tale intesa è sempre vista con sospetto da determinati settori e da una parte della pubblica opinione. Credo alle intese e credo che noi siamo in grado di dimostrare che esse possono essere raggiunte in un modo limpido, trasparente, nell'interesse generale del paese e senza secondi fini.
Tralascio qui un'indicazione che, d'altro canto, più opportunamente potrà essere fornita a tutti voi sulla base del lavoro predisposto dagli uffici sul complesso delle diverse proposte e soluzioni. Gli uffici, sollecitati in questo senso dall'ufficio di presidenza, hanno svolto un lavoro sicuramente apprezzabile, che verrà messo a disposizione di tutti voi, indicando su ciascuna questione, sia pure per ora in modo sommario, le principali risposte riformatrici che sono all'esame (intendendosi per «principali» le proposte che vengono dai gruppi) senza con ciò tralasciare, in un materiale più complessivo, anche le indicazioni dei singoli parlamentari, di modo che si possa abbastanza rapidamente avere sott'occhio il complesso delle soluzioni possibili. Ve ne risparmio la lettura perché sarebbe molto lunga ed anche perché vorrei invece dedicare alcuni minuti conclusivi a talune proposte relative al metodo di lavoro e di discussione.
Ho già detto che penso che si debba andare ad una discussione di carattere generale. A questo scopo, abbiamo previsto quattro sedute per le quali si è provveduto a predisporre, a scopo puramente orientativo, una distribuzione del tempo fra i gruppi. Però, personalmente

Pag. 16

ritengo, se non vi sono obiezioni, che questa distribuzione abbia uno scopo puramente orientativo: non abbiamo un tempo limitato; è quindi opportuno che chi ritiene di intervenire si iscriva a parlare; se non basteranno le quattro sedute, prolungheremo la discussione generale fino a quando essa non troverà la sua conclusione naturale. Da questo punto di vista, quindi, propongo che si adotti un sistema non formale.
Credo che, a conclusione di questa discussione generale, se ne dovrà trarre una sostanza, nel senso di costituire alcuni comitati. Al riguardo, in ufficio di presidenza vi sono stati diversi pareri, per cui non avanzo una proposta. Ci siamo riservati di tornare a ragionare sull'articolazione di questi comitati, i quali dovrebbero impegnare tutti i membri della Commissione e lavorare per approfondire le singole questioni al nostro esame, per individuare le soluzioni comuni ma anche per mettere in evidenza i punti di distinzione e per ordinare il lavoro della Commissione. Contemporaneamente, mentre si svolge questo lavoro intenso e, se mi permettete, anche informale di rapporti, di contatti, di discussioni e di stesura comune, la Commissione potrà impegnarsi in un ciclo di audizioni che arricchiranno il lavoro dei comitati con elementi, suggerimenti, proposte.
Credo che, al termine di questo lavoro, la Commissione dovrà tornare a riunirsi in seduta plenaria e con un ritmo intenso (penso agli ultimi due mesi), allo scopo di decidere, con il voto, in merito alle questioni controverse e alle diverse opzioni.
Questo momento delle decisioni sarà tanto più agevole e trasparente quanto migliore sarà stato il lavoro istruttorio. Un lavoro capace di individuare, di ridurre, di risolvere e, nello stesso tempo, di portare in evidenza, non nascondendoli, i punti di distinzione e le decisioni da assumere.
Questo metodo ci consentirà, a mio giudizio, di arrivare a decidere nel tempo che ci è stato assegnato; possiamo fallire perché non ci mettiamo d'accordo, ma fallire perché perdiamo il tempo non sarebbe degno del fatto di aver riunito qui forze così significative. Possiamo arrivare a decidere nel tempo che ci è stato assegnato, con una fase di lavoro conclusiva molto intensa e serrata. Su alcune questioni credo che potremo arrivare a decidere con una larga maggioranza, su altre forse no, ma sempre nello spirito della ricerca della massima intesa sulle questioni più importanti.
È evidente, a mio giudizio, che la proposta che io avanzo, di un metodo di lavoro per cui le opzioni e le votazioni arrivino soltanto nella fase conclusiva (in sostanza, propongo che non si voti fino agli ultimi due mesi di lavoro della Commissione), non è volta a nascondere le divisioni o a preparare sedi occulte. Le sedi saranno quelle comuni, che io propongo e che ci daremo (Commissione, comitati). Questa proposta è volta ad arrivare al momento del voto, quindi del confronto e forse anche delle divisioni, avendo approfondito, avendo arato il campo, avendo individuato i problemi ed avendo compiuto gli sforzi possibili per ridurre il campo delle divisioni e per individuare, nella misura del possibile, le soluzioni comuni. Credo, cioè, che questo metodo ci consenta meglio di rispettare lo spirito costituente di questa Commissione. Non avrebbe avuto senso dare vita ad una Commissione bicamerale, quindi ad una discussione complessiva, ad un confronto globale, in una visione generale della riforma costituzionale, se ci limitassimo semplicemente ad esaminare le proposte che ci sono state sottoposte cominciando a votarle da oggi una dopo l'altra, come si sarebbe potuto fare con la procedura ordinaria.
Il senso della Commissione bicamerale è appunto quello di muovere da una visione complessiva di questa grande riforma della seconda parte della Costituzione, di poterla esaminare nelle sue diverse parti, di poter avere una visione del bilanciamento dei poteri complessivo che si andrà costituendo, di poterne avere una visione generale (che probabilmente non era possibile procedendo diversamente dal momento

Pag. 17

che ognuno ha predisposto su ciascuna questione una singola proposta) e quindi, su questa base, di predisporre un iter decisionale più maturo. Tutto ciò - ripeto - non eliminerà distinzioni, che mi appaiono molto chiare, né scelte alternative, che sono molto nette, ma consentirà di collocare queste distinzioni e queste scelte alternative in un quadro generale che per molti aspetti mi sembra possa essere quello di esigenze condivise (credo di averlo detto in un modo abbastanza documentato) e di una visione complessiva che attraversa in maniera abbastanza ampia le diverse forze politiche e non le divide in modo netto e ideologico.
Questa è una mia profonda convinzione: credo che anche sulle questioni più complesse sia sbagliato caricare di un significato ideologico le scelte che abbiamo di fronte. Le scelte di fondo ed i valori sono quelli della democrazia. Poi, nelle grandi democrazie ci sono governi del primo ministro e democrazie nelle quali i cittadini eleggono direttamente il presidente della repubblica: sono ugualmente grandi democrazie, purché naturalmente all'elezione popolare del presidente della repubblica corrisponda un sistema di pesi e di contrappesi.
Ho la netta sensazione che affrontando tali questioni, senza nascondere diversità, anche motivate (chi ritiene che il presidenzialismo non sia un sistema adatto per il nostro paese ha ragioni profonde e motivate), ma senza caricare questo confronto di una reciproca accusa, e considerando le diverse soluzioni come tutte interne a una visione democratica, sarà agevolata l'adozione di decisioni che non saranno traumatiche, in un senso o nell'altro. Peserà un indirizzo prevalente, senza che ciò debba portare a lacerazioni drammatiche, senza che vi siano soluzioni che possano apparire eversive o, al contrario, che neghino ogni necessità di cambiamento.
Detto questo, perché ne sono profondamente convinto e anche perché a mio giudizio risulta da un esame delle proposte che sono in campo (che sono diverse, ma i cui confini appaiono molto più sfumati di quanto non possa apparire dalla propaganda), credo che la discussione generale dovrebbe servire - ma ciò naturalmente è rimesso a voi - innanzitutto all'illustrazione delle diverse proposte da parte di ciascun gruppo, ed anche, se possibile, ad intrecciare via via un dialogo, un confronto di merito più ravvicinato, cominciando a far emergere i nodi problematici. Spero infatti che dalla discussione generale emergano anche le questioni aperte, come ad esempio quelle relative al rapporto tra premier o governo del primo ministro e parlamento: è questo uno dei nodi problematici più complessi, per quanto attiene sia alle forme di legittimazione del primo ministro (vale a dire elezione diretta, indicazione indiretta, scelta popolare garantita dall'obbligo di apparentamento di ogni singolo candidato al parlamento con un candidato premier), sia ai poteri di questo premier scelto o eletto dai cittadini nel rapporto con il parlamento e con la sua maggioranza (potere di scioglimento, obbligo, facoltà).
È del tutto evidente, e a noi non sfugge, che è intorno a questi nodi che si misura il grado di innovazione, di soluzione neoparlamentare che si introduce; ed è intorno a questi nodi che mi piacerebbe si avviasse fin da ora la discussione.
Un altro nodo che indico è quello della riforma del bicameralismo: si va da una proposta drastica, coraggiosa e forte, in senso monocamerale, presentata dai colleghi di rifondazione, ad altre che invece ripropongono un bicameralismo imperfetto (alcune nel senso di una seconda camera delle regioni e delle autonomie, con elezione di secondo grado, altre invece con meccanismi misti di elezione diretta o di secondo grado e con funzioni multiple di garanzia, oltre che di raccordo fra le istituzioni nello Stato federale). Si tratta in questo caso di una questione che attraversa più trasversalmente le forze politiche e parlamentari, con ogni evidenza, come emerge dalla lettura delle

Pag. 18

proposte, ma è un nodo che è opportuno cominciare ad approfondire.
Vi è infine il tema complesso della magistratura - tema che tocca molto intimamente l'opinione pubblica, la passione civile del paese - e del rapporto fra magistratura e potere politico. Io considero che questo sarà uno dei temi che più seriamente dovranno impegnare questa Commissione. Vorrei approfittare del fatto che la seduta è pubblica per rassicurare i cittadini, i magistrati: non c'è nessuna volontà da parte della cosiddetta classe politica di consumare una vendetta o di ristabilire un potere; vi è una preoccupazione, indubbiamente, che è quella di conciliare l'indipendenza della magistratura con il rispetto delle garanzie dei cittadini, per i cittadini. Io credo che anche questo tema possa essere affrontato con serenità. Non tutte le proposte sono eguali, anzi, sono tra di loro profondamente diverse, e ciascuno di noi poi liberamente si esprimerà, anche con il voto; ma anche tale questione può essere affrontata con serenità e soprattutto con trasparenza. Le proposte sono lì, possono essere esaminate, considerate, alla luce del sole: non ci sono - e nessuno vuole farli - accordi segreti. Penso che noi discuteremo con i rappresentanti dei magistrati italiani, con i rappresentanti dell'avvocatura. Penso che su questo tema dovremo discutere con il ministro di grazia e giustizia, anche per l'evidente connessione fra alcune delle proposte che sono all'esame del Parlamento (molte per iniziativa del ministro di grazia e giustizia) e alcune delle proposte di riforma costituzionale che sono all'esame di questa Commissione. Ma io mi rendo garante, da questo punto di vista, della possibilità di discutere serenamente anche di questo delicato e complesso problema, in modo aperto, perché è del tutto evidente che così come vogliamo discutere con i rappresentanti delle regioni, delle grandi forze sociali, anche i rappresentanti del mondo della magistratura e dell'avvocatura italiana saranno nostri interlocutori.
È quindi evidente che questo spirito dovrà guidare il nostro lavoro, perché se così sarà noi potremo sciogliere anche le questioni più complesse, e potremo dividerci, come è inevitabile, senza che questo abbia degli effetti laceranti sulla continuità del lavoro della Commissione e sulla necessità di ricercare un approdo.
Questo è, conclusivamente, l'auspicio che io faccio nel momento in cui si avvia la discussione generale. Penso che nel corso della discussione generale (cioè nelle more della stessa) potremo riunire l'ufficio di presidenza per arrivare, al termine della discussione, anche a formulare una precisa proposta di organizzazione del lavoro per comitati . Si è registrato infatti un dissenso nell'ufficio di presidenza e abbiamo concordemente deciso di tornare a valutare tale questione successivamente, anche sulla base dell'indirizzo che emergerà dalla discussione generale su questo tema, pur essendo, mi pare chiaro, l'orientamento generale ad articolare nel prosieguo il nostro lavoro per comitati, perché questo consentirà di approfondire, di coinvolgere e di andare più direttamente al merito di questioni che altrimenti, nell'esame plenario, sarebbe difficile approfondire nel modo più opportuno.
Vi ringrazio, chiedo scusa per la lunghezza della mia esposizione e lascio la parola ai colleghi.
Dichiaro aperta la discussione generale sui progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione. Alcuni colleghi già si sono iscritti a parlare. I primi sono l'onorevole Soda, l'onorevole Rebuffa, l'onorevole Nania, il senatore D'Onofrio. L'onorevole Rebuffa è tornato fra noi dopo essere stato in aula per occuparsi della legge ben nota che porta il suo nome: per prepararsi ha a disposizione il tempo dell'intervento dell'onorevole Soda, ma se ritiene di far slittare il suo intervento, non c'è alcun problema.


ANTONIO SODA. Gradivo alzarmi, presidente, ma vedo che il microfono non lo consente.
Accogliendo il suo invito ad una discussione libera ed aperta, mi accingo,


Pag. 19

signor presidente, ad illustrare, con la consapevolezza critica sulla definitività della scelta, la proposta della sinistra democratica sulla forma di governo.
Onorevoli colleghi, la sinistra democratica ha scelto di presentare, nella sua unitaria ed organica riforma della seconda parte della Costituzione, la forma di governo del primo ministro. La scelta rappresenta, nella volontà di sancire la funzione di indirizzo politico affidata al corpo elettorale, innanzitutto il rispetto e l'attuazione del nostro programma, che abbiamo discusso pubblicamente con gli italiani. Essa è peraltro il frutto di un dibattito ampio, libero da pregiudizi e da dogmatiche chiusure, nel tentativo di saldare insieme esigenze di governabilità e ricchezza del pluralismo democratico, di contemperare cioè in un equilibrio possibile principio di rappresentanza e vincolo di responsabilità.
Il solo limite, che più volte abbiamo sottolineato, è il rifiuto di un modello di verticalizzazione del potere, di personalizzazione presidenzialistica, di dissolvimento della rappresentanza in una forma di delega plebiscitaria. Questa strada, a nostro avviso, si è dimostrata incapace e insufficiente a governare le società complesse. Essa, mentre accarezza da una parte, ma solo in superficie, le spinte e il desiderio popolare di scelta diretta del governo e della sua maggioranza, dall'altra non coglie nel profondo i complessi mutamenti intervenuti nella società italiana, il suo policentrismo, la moltiplicazione dei soggetti intermedi, il suo fecondo dinamismo, il suo articolarsi in una molteplicità di interessi diffusi che chiedono di comporsi in una sintesi che non annulli e semplifichi autoritariamente le diversità.
Il governo del primo ministro, delineato negli articoli 94-98, novellati, coordinati con gli articoli 56 (sulla disciplina dell'Assemblea nazionale), 61 (sulla nuova regolamentazione delle deliberazioni dell'Assemblea), 71 (sui procedimenti abbreviati per i disegni di legge dichiarati d'urgenza, sulla priorità nel calendario dei lavori per i provvedimenti governativi ed infine sulla disciplina dei tempi definiti per l'approvazione o il rigetto di progetti di legge dichiarati urgenti), coordinati ancora con gli articoli 78 (sulla nuova regolamentazione della sessione di bilancio) e 90 (sulla disciplina del potere di scioglimento della Camera politica) è ispirato ad un sistema neoparlamentare.
Gli stessi costituenti, nel richiamare, seppure con riserva, in relazione al diverso contesto sociopolitico italiano, il riferimento al governo del primo ministro, pensavano di orientare il nostro sistema verso il modello britannico, per realizzare un governo forte, con preminenza della figura del Presidente del Consiglio. La linea recessiva poi seguita nell'Assemblea costituente rispetto alle originarie proposte, l'abbandono delle innovazioni elaborate in funzione stabilizzatrice, la mancata introduzione dei dispositivi costituzionali idonei a tutelare l'esigenza di durata dell'azione di governo per evitare le degenerazioni del parlamentarismo e, infine, le prassi sui reali rapporti fra gli organi costituzionali hanno, come sappiamo, determinato uno scarto profondo fra modello astratto e modello reale concretamente e storicamente definito.
Quest'ultimo, al di là dei limiti iniziali, ha presentato nel tempo alterazioni strutturali e funzionali rispetto persino alle stesse prescrizioni costituzionali, già deboli all'origine per l'assenza dei dispositivi di salvaguardia invocati. Come è noto, la dizione «forma di governo neoparlamentare» è stata coniata da uno dei maggiori studiosi europei della materia, Maurice Duverger. Nei grandi paesi europei, a cominciare dall'Inghilterra, negli anni sessanta si rilevò l'evoluzione della forma di governo verso un modello in cui, accanto al rapporto fiduciario tra la maggioranza parlamentare e il governo, si inserisce previamente anche un raccordo con le preferenze espresse dal corpo elettorale. In tale tipo di forma di governo il corpo elettorale esprime l'indirizzo politico fondamentale, sceglie le linee di fondo tra le proposte alternative in campo, determinanti e per la maggioranza e per il governo. Il passaggio parlamentare suc

Pag. 20

cessivo non ha per obiettivo quello di ridiscutere tali orientamenti ma di precisarli, come è possibile ed opportuno grazie al carattere più mediato della sede parlamentare. Al veteroparlamentarismo corrispondente alla fase oligarchica del liberalismo subentra quindi una nuova realtà in cui il mandato a governare dipende dalle scelte di fondo dei cittadini elettori. Vi è certo, all'inizio, un'ostilità psicologica di partenza della sinistra ad accettare pienamente tale evoluzione, giacché essa - come pure le forze più aperte del liberalismo - si è sviluppata contro il potere arbitrario dei monarchi e contro la dipendenza dei governi rispetto ad essi, mirando ad affermare l'origine parlamentare democratica degli esecutivi. Ma la situazione è certamente cambiata. Le grandi necessità di garanzie e di giustizia, cui le forze popolari vogliono dare una risposta istituzionale con lo Stato sociale riformato, impongono un rafforzamento, questa volta in chiave democratica, dell'esecutivo, per evitare le secche oligarchiche e trasformistiche di una debole democrazia assembleare. Solo governi di legislatura, cioè, legittimati direttamente dal corpo elettorale, hanno infatti la capacità di opporsi ai poteri di veto sia di tipo politico sia di natura privata, quelli palesi o occulti non derivanti dal suffragio universale; solo questo tipo di governo può realizzare innovazioni non episodiche.
Questa è la matrice teorica del neoparlamentarismo rispetto alla quale ci sentiamo in perfetta continuità ideale. Si pone, però, il problema di come trapiantare un funzionamento neoparlamentare delle istituzioni - ovvero di come riprodurre la logica del rapporto fiduciario che parte dal corpo elettorale per passare attraverso la maggioranza parlamentare e raggiungere il governo - in un contesto come il nostro, che non è bipartitico come quello inglese o, comunque, di bipartitismo sostanziale come quello tedesco. Qui sta il cuore anche del nostro problema. E già nel 1970 il nostro collega Leopoldo Elia, nella sua voce chiarificatrice sulle forme di governo, ci segnalava che non è casuale che le proposte più drastiche di razionalizzazione siano state avanzate proprio in presenza del multipartitismo estremo e che è innegabile che le formule neoparlamentari rappresentino una delle tendenze immanenti alla vita costituzionale contemporanea e non soltanto una trovata di professori francesi in vena di ingegneria costituzionale.
Ci troviamo pertanto di fronte a due esigenze diverse da coniugare. Per un verso, stante la frammentazione del sistema dei partiti tra le coalizioni e dentro le coalizioni, siamo spinti ad un di più di regolamentazione costituzionale rispetto ad altre esperienze, dove il traghettamento al neoparlamentarismo è avvenuto più naturalmente, più fisiologicamente; per altro verso, occorre evitare di irrigidire eccessivamente il sistema sia perché potrebbero insorgere situazioni non prevedibili, nelle quali alcuni margini di manovra lasciati aperti dal testo potrebbero rivelarsi preziosi, sia perché abbiamo in qualche modo la pretesa di scrivere un testo che accompagni la transizione, ma che serva anche oltre di essa, senza appiattirsi sulla pura contingenza. Tracce di una esplicita regolazione di logiche neoparlamentari, per indirizzare in tal senso l'evoluzione della forma di governo, sono del resto previste, con alcuni gradi di flessibilità in altre recenti costituzioni, come è ricordato nelle motivazioni della nostra proposta.
E quindi, nel testo presentato, vogliamo affermare, in primo luogo, in sintonia con la relazione di responsabilità fra corpo elettorale ed esecutivo, la sottrazione alla discrezionalità del Presidente della Repubblica e alla dialettica delle forze politiche, nel gioco della composizione e scomposizione dei gruppi parlamentari, la nascita del governo, la sua attitudine all'attuazione del programma, con la finale restituzione al corpo elettorale della soluzione del conflitto governo-maggioranza-assemblea elettiva.
In secondo luogo, vogliamo ridefinire nei termini e nelle dinamiche delle grandi democrazie europee il principio della separazione

Pag. 21

dei poteri, rimuovendo l'apparente centralità del parlamento dei regimi assembleari.
Il sistema che proponiamo individua direttamente nel corpo elettorale la legittimazione del primo ministro, alla cui esclusiva autonomia decisionale spetta poi la nomina e la revoca dei ministri e alla cui responsabilità è affidata l'unità dell'indirizzo di governo.
In tal senso la costituzionalizzazione, come già in altre costituzioni democratiche, di un segmento del sistema elettorale, contenuta nel secondo comma dell'articolo 94 da noi proposto, risponde, a fondamento della costruzione del modello di governo che vogliamo, alla finalità di favorire, senza distruzioni desertificanti, il processo bipolare del nostro sistema politico.
La nomina a primo ministro dunque del candidato al quale è collegata la maggioranza dei deputati eletti (e solo di questi nel delineato sistema di bicameralismo ineguale) è passaggio automatico e vincolato (così è previsto nel comma 3 dello stesso articolo 94). Il rifiuto di un modello presidenzialista che consenta al premier di governare anche contro la volontà degli altri eletti dal popolo, con le negative conseguenze in termini di stallo delle decisioni e di pericoli di conflittualità, risolventesi, nelle ipotesi di dissonanza delle maggioranze, in una perenne oscillazione del potere esecutivo tra prevaricazioni presidenzialiste e negazione della sua responsabilità verso il corpo elettorale, impone la conservazione del rapporto fiduciario tra primo ministro, governo e assemblea politica, come essenza del modello neoparlamentare.
La fiducia è però presupposta e implicita per il primo ministro indicato direttamente dal corpo elettorale ed il passaggio parlamentare assolve di regola alla funzione di presentazione del programma e dei ministri (articolo 95, comma 3).
Analogamente alle costituzioni parlamentari più recenti il potere della assemblea di mettere in questione il rapporto fiduciario attraverso la mozione di sfiducia è rigorosamente delimitato. Infatti un sistema che si fonda su un rapporto di fiducia che coinvolge anche il corpo elettorale deve poter prevedere come ipotesi normale quella di una prosecuzione per l'intera legislatura dell'indirizzo fissato o, comunque, prevedere limitazioni tali per cui al termine del mandato il corpo elettorale possa chiaramente pronunciarsi sui cambiamenti intervenuti senza degenerazioni oligarchiche del sistema. Tra i vari meccanismi possibili in tal senso (tutti fortemente opinabili) ci è sembrato opportuno quello dell'ammissibilità della sfiducia costruttiva (senza automatismo dello scioglimento) una volta sola per legislatura. Al termine del mandato gli elettori potranno comunque esprimersi comparativamente sull'unico cambio intercorso, come nell'esperienza tedesca tra 1982 e 1983, che vide il cambio delle alleanze dei liberali dal centro-sinistra al centro-destra. Una tale soluzione era già stata adombrata da Costantino Mortati nel suo famoso intervento del 1972 su «Gli Stati» ed una variante da considerare è suggerita nella proposta Boato, che prevede il ritorno obbligato alle urne entro un anno dall'approvazione della sfiducia. Sappiamo anche che la bozza Fisichella - a suo tempo meritoriamente elaborata dai professori Fisichella, Urbani, Salvi e Bassanini - aveva proposto un meccanismo più rigido all'insegna dell'automatismo tra sfiducia e scioglimento; tale logica è oggi riproposta in progetti di varie parti politiche. Mi riferisco in particolare alla proposta dell'onorevole Nania del gruppo parlamentare di alleanza nazionale ed a quella dell'onorevole Pisanu di forza Italia. Tuttavia segnalo un problema aperto: mentre nella bozza Fisichella si restava nella logica dell'indicazione e, quindi, del voto unico per la maggioranza ed il premier, (ed in tal caso l'automatismo sfiducia-scioglimento può avere una sua coerenza), il voto su scheda separata, come è fatto proprio dalle altre proposte in questione, è difficilmente associabile all'automatismo. Il rischio di coabitazione iniziale tra un premier ed una maggioranza opposta non è infatti risolto dalla contestualità delle elezioni, come gli abitanti

Pag. 22

della Sicilia ben sanno a proposito della legge regionale sulla elezione del sindaco. E proprio in tale modello si giustificherebbe una qualche forma di flessibilità, ancor più che nella logica della nostra proposta.
Mi si consenta tuttavia di perorare ancora una volta la strada del voto unico per la maggioranza e per il primo ministro, che corrisponde molto più logicamente ad un'impostazione neoparlamentare, come puntualmente ricordato da Franco Bassanini nella relazione sulla forma di governo della precedente Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Non a caso Duverger, quando distingue all'interno delle varie possibilità di elezione diretta, polarizza da un lato la figura di Von Hindenburg e, quindi, dell'elezione diretta del presidente a Weimar sconnessa dalla scelta di una maggioranza parlamentare e, dall'altra, quella di Olof Palme, leader del partito socialdemocratico svedese: «Tutti e due hanno in comune il fatto di essere dei monarchi repubblicani. Il primo incarna perfettamente la monarchia personale, fondata unicamente sul prestigio di un uomo senza legami diretti con un'organizzazione politica, partito e coalizione». Una gloria acquisita fuori dalla politica è utilizzata contro l'influenza dei partiti, nella prospettiva di un rassemblement nazionale che nasconde una egemonia oligarchica e si risolve nella finale debolezza del sistema. Al contrario, la popolarità di Olof Palme è stata interamente acquisita grazie alla sua attività politica, tutta svoltasi nella socialdemocrazia svedese, in un radicato rapporto con il popolo.
Nella nostra proposta il circuito fiduciario è programmato con la possibilità della sfiducia costruttiva, come estrema uscita di sicurezza del sistema da errori e conflitti che non si risolvano in negoziazione della volontà del corpo elettorale, e per una sola volta nella legislatura, (articolo 95, commi 6 e 7). Sappiamo che questa disciplina offre il fianco alla critica di chi paventa il mutamento delle maggioranze. La scelta compiuta è diretta a garantire, come ho già sottolineato, una limitata ed unica flessibilità al sistema, affidando, come è in altre democrazie, alla responsabilità e alla maturità delle forze politiche, che sono pur sempre chiamate a rispondere dei loro atti davanti al popolo, il rispetto comunque della volontà del corpo elettorale.
In un sistema politico, tuttora frammentato e con la presenza di un movimento territorialmente insediato in aree limitate del paese, ma a grande e intensa concentrazione di voti, è ragionevole prevedere (e comunque come ipotesi a regime di una società politica che non si vuole costringere dall'alto all'autoritaria semplificazione), la mancanza di scelta maggioritaria da parte del corpo elettorale.
Di qui la disposizione di cui al comma 4, dell'articolo 94, che affida all'assemblea nazionale l'elezione del primo ministro, ove a nessuno dei candidati risulti collegata la maggioranza dei deputati eletti. La necessità di evitare, in questa ipotesi che pensiamo residuale rispetto alla fisiologia del processo bipolare, scioglimenti anticipati dell'assemblea con immediate e ripetute consultazioni nello stesso contesto socio-politico nel quale i cittadini si sono espressi, ha imposto la previsione della possibilità di formazione di governi di minoranza (articolo 94, terzo comma, secondo periodo).
Nella logica di un sistema parlamentare fondato sul primo ministro è poi previsto il potere di chiedere lo scioglimento della Camera in accordo con la propria maggioranza, potere che quindi si interrompe in presenza di una volontà maggioritaria negativa in Assemblea.
Proprio perché il governo è espressione della maggioranza del corpo elettorale, ratificata dalla maggioranza parlamentare, esso deve avere i mezzi per attuare il suo programma, approvato eventualmente nel passaggio fiduciario. Superate le degenerazioni dell'uso improprio dei decreti-legge, rigidamente ricondotti alle loro originarie caratteristiche eccezionali, nel contempo si impone la precisazione di una competenza normativa propria di tipo regolamentare e l'affidamento al governo dell'ordine del giorno della Camera con

Pag. 23

precisi limiti di tempo per i disegni dichiarati urgenti dal governo.
Sul punto mi si consenta di rilevare che il ruolo del Parlamento non risulta affatto compresso per il fatto di ridurre il suo intervento nel potere di sfiducia dei governi e per il rafforzamento dell'esecutivo nel processo di formazione delle leggi.
Infatti un potere di sfiducia esercitato ad libitum, senza un raccordo con le preferenze del corpo elettorale, è in realtà un segno di impotenza del Parlamento a seguire un indirizzo coerente. Esso finisce col colpirne fatalmente il prestigio tra i cittadini, i quali interiorizzano l'immagine di un'assemblea dedita solo a manovre trasformistiche. Nei sistemi neo parlamentari, l'assemblea perde sì la possibilità di utilizzare tale potere senza pagarne i prezzi, ma in cambio diviene il luogo dove le opposizioni, più chiaramente e nettamente distinte dalle forze di governo, presentano il loro indirizzo politico alternativo e dove la maggioranza ha sempre gli strumenti per definire i limiti entro cui l'esecutivo deve agire, a cominciare dal voto sulle leggi. Rispetto alla propria maggioranza, inoltre, il governo ha sì un chiaro ruolo direttivo e di impulso, ma nondimeno essa ha la possibilità di condizionarlo, di esprimere consensi e dissensi tali da indirizzarne anche la rotta complessiva. La scelta di un governo di legislatura non esenta mai dal ruolo di paziente costruzione di un consenso, senza il quale anche per il governo (come già rilevato per il Parlamento nel sistema odierno) vale il paradosso per cui la pretesa di onnipotenza conduce spesso all'impotenza.
Onorevoli colleghi, non pretendiamo di avere delineato una riforma perfetta, insuscettibile di modifiche, di correzioni, di miglioramenti. Pensiamo però di muoverci nell'ambito delle esperienze delle grandi democrazie europee, tentando, come ho già detto, di conciliare, anche con qualche originale innovazione, la ricchezza del pluralismo democratico con le esigenze di governabilità.
Su questo terreno ampia e libera è la nostra disponibilità a confrontarci con le proposte delle altre forze politiche, nello sforzo di adeguamento del nostro sistema istituzionale alla finalità di raggiungere le mete programmate nei valori affermati nella prima parte della Costituzione.


GIORGIO REBUFFA. Signor presidente, a nome del gruppo che ho l'onore di rappresentare affronterò soltanto uno dei punti della riforma costituzionale, quello considerato tradizionalmente la chiave di volta di ogni sistema costituzionale: la cosiddetta forma di governo. Lascerò poi ad altri colleghi - avendo noi presentato un progetto organico e completo di riforma della seconda parte della Costituzione - il compito di delineare gli aspetti relativi alla forma di Stato (sistema delle autonomie) ed alle garanzie per i cittadini.
Prendendo spunto dallo stile espositivo del nostro presidente, vorrei anch'io avvertire di un rischio che vedo per i nostri futuri lavori. Si tratta in realtà di un doppio rischio: da un lato quello di pensare che un'architettura costituzionale equilibrata, ben definita, ben scritta, grammaticalmente ben costruita, coerente sia la soluzione dei problemi del nostro sistema politico; dall'altro - all'opposto - quello di cadere nella mistica della cultura politica, pensando che soltanto una modifica dei costumi politici degli italiani o del Parlamento possa approdare alla riforma tanto auspicata. Non mi voglio chiudere dentro le citazioni, ma i massimi costituzionalisti francesi - da cui prendiamo l'ispirazione - avvertono sempre che la regola di diritto è l'unico, povero strumento che gli uomini hanno per dare razionalità ai loro problemi politici; dico questo per evitare i grandi miti di palingenesi e di purificazione, ma senza sottovalutare lo strumento che abbiamo.
Vorrei fare subito una constatazione. È ormai comune opinione, direi senso comune, che l'esigenza di porre mano alla seconda parte della Costituzione non è stata un'invenzione del dibattito accademico, né è una scorciatoia che il sistema politico italiano ad un certo punto della sua storia ha preso per evitare i problemi reali; qualche volta c'è stata la tentazione in taluni di pensare


Pag. 24

o di dire che quello delle riforme era un problema secondario; io, forse per distorsione professionale, non credo sia così.
In realtà il problema delle riforme viene fuori - da qui la soluzione che il mio gruppo ha proposto - da un particolare tipo di rapporto fra Parlamento e Governo che si è determinato nella storia repubblicana. L'amabilità del presidente mi consentirà di osservare a lui personalmente che l'espressione, anche oggi echeggiata, di riforma del Parlamento, pur essendo chiara e comprensibile potrebbe sottintendere l'equivoco che sarebbe sufficiente aggiustare alcuni meccanismi parlamentari, riformulare alcune norme costituzionali (ad esempio l'articolo 77), ridurre il numero dei parlamentari, differenziare i compiti delle due Assemblee per avere un sistema agile.
Credo che dobbiamo affrontare, con lo stesso coraggio con cui abbiamo costruito la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, il cuore del problema. Cuore che è, a mio giudizio, il distorto rapporto tra Parlamento e Governo che si è formato lungo tutta la storia repubblicana. Mi rendo conto che questo potrebbe essere un assunto personale, forse addirittura fazioso, ma non riesco a farne a meno. In sede storiografica, ritengo che, a partire dalla crisi del meccanismo politico dei governi centristi, il nostro sistema parlamentare e costituzionale sia entrato in una lunga e affannosa rincorsa che ci ha portato all'attuale situazione. Fino ad un certo punto (la fine degli anni ottanta) vi era un meccanismo che consentiva di governare la situazione, che è passato alla storia con un nome degenerato che io non voglio usare: quello della forza e della legittimazione dei partiti politici. Quando il sistema dei partiti politici nella cosiddetta prima Repubblica (espressione che non mi piace e che cercherò di usare il meno possibile) ha avuto una crisi di legittimità, il meccanismo si è inceppato e la situazione di crisi in cui siamo tutti precipitati è emersa.
I caratteri del distorto rapporto fra Parlamento e Governo erano molto semplici, o almeno io l'esprimerò semplicisticamente: vi era l'idea di un Parlamento considerato onnipotente continuamente umiliato; e la realtà di un Governo debole che era costretto continuamente a fare i conti con un Parlamento sostanzialmente ingovernabile. Questa è la storia sintetizzata e simbolizzata da vicende che non credo siano attribuibili alla cattiveria degli uomini - a cui personalmente non credo - come, per esempio, quella del diabolico meccanismo dei decreti-legge per il quale l'utilizzazione dell'articolo 77 della Costituzione è diventato l'unico modo per attuare ogni scelta legislativa. Vorrei richiamare questa vicenda, perchè è utile per avviare a soluzione i nostri problemi. È in questa storia, infatti, che è individuabile l'emblema della vita costituzionale della prima Repubblica: un esecutivo prigioniero e il mito della centralità del Parlamento (un Parlamento, in realtà, umiliato e senza poteri).
Cosa era accaduto? Era avvenuto che, per effetto di un meccanismo ingovernabile, si era determinato - e non credo fosse dovuto soltanto, come pure qualcuno ha pensato, al meccanismo elettorale - uno spropositato aumento e peso dei poteri di interdizione delle forze e dei soggetti marginali. Questa è l'analisi, forse faziosa, che sento di fare.
Si pensò che la soluzione ai nostri problemi fosse rappresentata dalla scorciatoia del meccanismo elettorale. Si è trattato di una specie di fata Morgana perchè, modificando il sistema elettorale (in un senso che non voglio giudicare sotto il profilo del se o del quanto maggioritario), il sistema è precipitato ulteriormente. Ci siamo trovati oggi, anno 1997, con un sistema maggioritario che noi stessi non riusciamo più a governare. Non credo sia definibile con precisione il perché di tutto questo, in particolare se la legge elettorale sia buona o cattiva. Sta di fatto che abbiamo avuto la miscela di un sistema costituzionale con un sistema elettorale, pur maggioritario, che non ci ha fornito la scorciatoia che cercavamo.
Questo è un quadro analitico che credo appartenga ormai al senso comune. Dal

Pag. 25

quadro analitico dobbiamo passare a quello propositivo. A tale riguardo credo di poter concordare con l'affermazione del presidente, secondo la quale il lavoro svolto dalle precedenti Commissioni bicamerali è pregevole. Si tratta di un dato che credo vada sottolineato. Nel momento dell'istituzione della Commissione bicamerale abbiamo subìto una sorta di leggenda sulfurea sul nome stesso di "bicamerale". Voglio ricordare, molto semplicemente, che la precedente Commissione bicamerale aveva concluso i suoi lavori e che solo una crisi politica esterna impedì che le risoluzioni di quella Commissione fossero adottate. Dico questo perché non ho mai creduto al demonio e ai diavoli, ma ho sempre preferito riportare i fatti alla loro oggettività. Si tratta di un dato che sottolineo non solo perché è qui presente il presidente De Mita, il quale di quella esperienza fu protagonista. Può darsi - anzi, è sicuro - che rispetto ai risultati conseguiti io abbia molte critiche da rivolgere ed osservazioni da formulare sul piano sia dottrinale sia politico, ma non è questo il punto del quale discutere.
Noi abbiamo presentato un progetto che rappresenta una franca scelta di un sistema presidenziale, detto nell'espressione della vulgata sistema "semipresidenziale". Approfitto per ricordare che l'espressione «semipresidenzialismo» non ha mai voluto significare - se non nella mente di alcuni divulgatori nostri connazionali - un po' di parlamentarismo ed un po' di presidenzialismo. Ha invece voluto semplicemente significare un sistema presidenziale con una doppia figura al vertice dell'esecutivo. Questa espressione - vi prego di scusarmi per la pedanteria - fu coniata da Maurice Duverger - per esprimere la situazione del sistema francese.
Dico incidentalmente, prima di avviare un altro binario di discussione al quale ci dedicheremo nelle settimane future, che l'idea di Duverger di costruire un meccanismo di elezione diretta del premier, veniva proprio dalla constatazione del problema del sistema francese, che però - ripeto - si configura con caratteristiche ed esperienze irripetibili; non sto ad indicarne le ragioni perché rischierei di annoiare moltissimo e, forse, non sarei neanche in grado di farlo.
Del modello semipresidenziale ormai si discute come della formazione della nazionale di calcio, per cui mi esimerei di una descrizione di quanto in proposito è contenuto nel nostro progetto. Mi limiterò solo a fare un'avvertenza. Ho letto, con l'attenzione che meritano, anche altri progetti di meccanismo semipresidenziale: parlo del progetto Targetti e di quello il cui primo firmatario è l'onorevole Spini. Leggendoli con attenzione ho visto qualcosa che ho sempre temuto e cioè che basta pochissimo, lo spostamento di una virgola, l'aggiunta di un aggettivo, la sostituzione di un comma con un altro per trovare il diavolo nei dettagli che tanto vogliamo evitare. Mi spiego: nel progetto Targetti, per esempio, viene detto che la controfirma, in una specifica occasione, per lo scioglimento dell'Assemblea spetta al primo ministro. Nel progetto Spini ed altri vengono delineate in modo tassativo, cioè elencate con precisione, le situazioni in cui può darsi luogo allo scioglimento dell'Assemblea da parte del Presidente della Repubblica. Bastano queste variazioni per trasformare un sistema, che ha una sua coerenza ed una sua capacità di funzionamento, in un altro per provocare una virata del sistema e il suo naufragio.
Aggiungo - visto che il centro del nostro discorso è sulla forma di governo - che il potere di scioglimento da parte del vertice dell'esecutivo, sia esso il primo ministro nel modello francese o il premier nel modello che, secondo me un po' ottimisticamente, il collega Soda ha chiamato «neoparlamentare» - non so perché -, è un potere "politico". Ciò vuol dire che si tratta dell'affidamento di una discrezionalità "politica" al vertice dell'esecutivo, che ne gode perché legittimamente investito dagli elettori del potere di governare e quindi anche di sciogliere l'Assemblea.
Insisterei su questo punto: il potere di scioglimento dell'Assemblea è una (uso l'espressione classica) valvola del meccanismo parlamentare. Se

Pag. 26

parliamo di meccanismo parlamentare, onorevole Soda, dobbiamo sapere che non stiamo parlando di un meccanismo assembleare: il meccanismo parlamentare è il governo dell'esecutivo voluto dai cittadini, che ha un sistema particolare e può avere o meno il meccanismo fiduciario.
Vengo ora a delineare molto sinteticamente la nostra proposta. Innanzitutto abbiamo indicato una forma di governo presidenziale non soltanto perché ci piace, ma perché riteniamo che il meccanismo di investitura diretta del vertice dell'esecutivo sia quello in grado di consentire un allargamento della tutela dei diritti dei singoli cittadini e dei diritti dell'opposizione nelle Assemblee parlamentari.
Esistono due norme specifiche nel nostro progetto: la prima - che ho letto anche in altri progetti - costituzionalizza il ruolo dell'opposizione attraverso la definizione dei compiti e delle prerogative del capo dell'opposizione; la seconda - alla quale personalmente tengo molto - amplia le competenze della Corte costituzionale. Non sono fra coloro che lanciano anatemi contro le istituzioni, che trovo impersonali, fumose ed astratte e quindi non degne di essere anatemizzate, ma certamente vi è un problema nel nostro meccanismo di organizzazione costituzionale, di cui si discusse molto in Assemblea costituente e successivamente fino al varo della legge costituzionale che istituì e fece decollare la Corte. Abbiamo pensato, nel proporre una riformulazione dell'articolo 135 alla Costituzione vigente, ad un ampliamento degli accessi alla Corte costituzionale, facendo del giudice costituzionale non solo un giudice di modello austro-tedesco, cioè con compiti limitati all'interno delle istituzioni ma un giudice dei diritti ed anche un tutore delle garanzie dell'opposizione.
Questo elemento che sembra collaterale, in realtà è centrale in una forma di governo, quella del meccanismo semipresidenziale, fondata su tre assi. Il primo è quello della fiducia presunta, che è tale, come è noto nel meccanismo francese, poiché la designazione del primo ministro avviene da parte di un capo dello Stato eletto direttamente dai cittadini. Il secondo è il meccanismo di scioglimento, il terzo la sfiducia a maggioranza assoluta. Questi sono i meccanismi. Noi abbiamo introdotto alcune variazioni che credo siano compatibili - anzi, sono convinto che lo siano - rispetto al modello originario. Anzitutto, la prima variazione è relativa ai tempi: abbiamo ritenuto che i sette anni di durata dell'attuale Presidente della Repubblica francese siano eccessivi, per cui li abbiamo ridotti a cinque, così come il periodo di durata dell'Assemblea nazionale a quattro. Abbiamo poi toccato, credo in modo davvero incisivo, il numero dei membri delle due Assemblee.
Questa non è, come potrebbe avvenire, una proposta soltanto di semplificazione: in realtà, a veder bene, è un meccanismo di srazionalizzazione del lavoro parlamentare, delle procedure parlamentari. Abbiamo creduto poi di eliminare quell'elemento tipico della Costituzione francese della quinta repubblica, ritagliato sulla misura di un generale vincitore, che era il potere - questo sì forse un po' plebiscitario - di indire egli stesso referendum. Abbiamo ritenuto che ciò non sia adatto al nostro politico e neanche agli obiettivi che ci vogliamo prefiggere. Quindi, su questo crediamo di poter lavorare.
Vorrei anche spendere le ultime parole conclusive per eliminare quei rischi, quei pericoli, quei fastidi che sono, puramente, retaggi di tutte le nostre culture, di tutti i nostri tic - per usare un termine non protocollare, se il presidente me lo consente - e i nostri modi pigri di pensare. Recentemente, ho letto un bel libro in cui si dice come gli sciabolatori tra presidenzialismo e parlamentarismo sciabolano sul nulla. In realtà, tutto ciò di cui abbiamo discusso sulla deriva plebiscitaria e sui pericoli di rompere - come si è discusso anche adesso, recentemente, a proposito di altro argomento - con il sistema della democrazia dei partiti, credo che siano proprio nostri tic e nostre manie; o forse solo nostre paure.

Pag. 27


Credo che siamo tutti di fronte ad un'esigenza profonda: quella di uscire dall'impasse della nostra attuale vita parlamentare. Il meccanismo elettorale non ci ha salvati. Noi siamo qui, facciamo la nostra vita di «meccanici» del Parlamento, come qualcuno di noi ama dire, in una situazione parossistica che, però, non è dovuta alla cattiveria di qualcuno, ma al fatto che le regole che abbiamo costruito funzionano come stelle morte. Credo - ma questa è una perorazione retorica di cui mi scuso - che se non usciremo da qui con un risultato davvero riformatore, avremo giocato forse la nostra ultima partita.


DOMENICO NANIA. Signor presidente, onorevoli colleghi, onorevoli senatori, alleanza nazionale ha presentato un pacchetto di proposte che ci piace definire aperte, proprio perché riteniamo che il confronto all'interno della Commissione debba essere approfondito e svolgersi senza pregiudizi, anche se evidentemente ognuno di noi deve fare la propria parte e soprattutto difendere quelli che considera punti caratterizzanti e fondamentali nella ricostruzione del sistema Italia.
L'insieme delle nostre proposte, ma anche i ragionamenti che faremo, puntano soprattutto, accogliendo quello che lei stesso, signor presidente, ha detto oggi nel suo intervento, a contribuire a sciogliere i nodi che abbiamo di fronte: non abbiamo, infatti, alcun interesse a complicare i nodi che sono sul tappeto, ma abbiamo invece tutta la volontà e l'interesse a fare del nostro meglio per cercare di sciogliere questi nodi.
Una prima cosa di cui siamo consapevoli - vogliamo dirlo anche e soprattutto a scanso di equivoci - è che non è intervenendo in un settore principale della questione istituzionale (tanto per intenderci, sulla forma di governo) che si risolvono d'un colpo tutti i problemi della governabilità in Italia e del funzionamento delle nostre istituzioni. Siamo consapevoli, appunto, delle interferenze, che valutiamo con grande attenzione e che anzi hanno rappresentato il presupposto delle nostre stesse proposte, tra il sistema elettorale, il sistema dei partiti (abbiamo apprezzato anche oggi il riferimento che è stato fatto al sistema elettorale ed alla sua importanza), il sistema politico nel suo complesso, la forma di governo e la democrazia diretta. Quest'ultima rappresenta certamente uno dei punti irrinunciabili della posizione programmatica ed istituzionale di alleanza nazionale.
Ci rendiamo conto che il processo legislativo deve essere semplificato, salvaguardando però la tradizione parlamentare italiana; siamo consapevoli che in questi anni è andato costruendosi nel tempo un sistema che ha dislocato nella sua periferia molti poteri e molte funzioni e che contemporaneamente sono state introdotte, per così dire, figure neutre di garanzia che hanno un loro rilievo in settori importanti e strategici della vita del paese. Ci rendiamo altresì conto che la costruzione di una nuova forma di Stato è uno dei problemi più urgenti, ma siamo anche consapevoli che l'importanza dell'unitarietà della forma di Stato e lo stesso concetto della sovranità non devono essere, a nostro avviso, messi in discussione.
Nelle nostre proposte appare di tutta evidenza una preoccupazione con riferimento ai problemi che riguardano l'opposizione, le garanzie; l'onorevole Armaroli ha presentato una proposta articolata che introduce lo statuto dell'opposizione e ne fa uno degli elementi qualificanti da questo punto di vista, perché in un sistema che vuole costruirsi sul serio come maggioritario bisogna guardare con molta attenzione a chi perde.
Vi sono poi i processi di partecipazione: occorre alzare la soglia del livello di partecipazione, non restringendo l'ambito dei referendum, ma semmai allargandolo, attraverso forme di partecipazione referendaria che nel tempo sono state sostenute dalle più diverse formazioni politiche, per esempio anche da rifondazione comunista, per non parlare della stessa democrazia cristiana, per bocca dell'onorevole De Mita e del senatore Ruffilli, che sostenne con forza, per esempio, l'introduzione del referendum propositivo.


Pag. 28

Occorre quindi un arricchimento dei processi di partecipazione e non un restringimento dei loro ambiti.
Vi è poi la necessità, attraverso questo sistema Italia che dobbiamo concepire così equilibrato in tutti questi settori (le interferenze di cui parlavo), di pensare ad una nuova classe dirigente che possa emergere dal clima che noi dovremmo ingenerare nel paese, che a nostro avviso dovrebbe essere di grande entusiasmo e di grande attenzione.
Se comunque, come ho cercato di mettere in evidenza, siamo consapevoli che un nuovo equilibrio va trovato, e partendo da più punti di vista, come ho detto prima però per noi vi sono dei dati irrinunciabili: il primo, che può sembrare un dato tecnico, ma che tecnico non è, è quello della direzione di marcia. A me pare che quello della direzione di marcia sia un punto che dovrebbe appartenere a tutti noi. La direzione di marcia dovrebbe essere quella di spostarci più avanti; non dovremmo restare fermi o tornare indietro: lo abbiamo più volte indicato nella necessità di costruire un sistema - come quasi tutti ritengono - bipolare, maggioritario, ad alternanza - come ha detto oggi il presidente - garantita.
Più volte abbiamo chiesto, anche con una mozione di indirizzo, di fissare questo obiettivo, che ci dovrebbe riguardare tutti. Dovrebbe trattarsi di un sistema maggioritario: non l'abbiamo deciso noi o comunque, indipendentemente dai nostri pareri, l'hanno deciso i cittadini con un referendum nel quale, con una percentuale altissima, hanno indicato al paese questa strada. Auspichiamo che sia bipolare, proprio perché siamo consapevoli che un sistema bipolare garantisce l'alternanza. Su questo potremmo impegnarci tutti: potremmo essere tutti consapevoli della circostanza che dobbiamo lavorare qui, in questa Commissione bicamerale, per costruire un sistema maggioritario (perché così hanno indicato i cittadini), bipolare (perché consente alle forze in campo di confrontarsi con un programma chiaro e come tale percepibile dall'elettorato) e che, al tempo stesso, garantisca l'alternanza.
Si tratta - con un termine utilizzato dal presidente - della cosiddetta europeizzazione del quadro politico, della modernizzazione del sistema: se noi dobbiamo perseguirla, se dobbiamo allinearci ai sistemi europei dobbiamo lavorare in questa direzione. Come arrivarci? I riferimenti che noi teniamo presenti sono a tutti noti: il presidenzialismo americano e quello francese, i sistemi inglese, tedesco e, ultimo arrivato (ma che comunque suscita molto interesse) quello israeliano. Sono questi gli attuali sistemi europei (o continentali, comprendendo il presidenzialismo americano) attraverso i quali si gestisce la complessità della società moderna o comunque si cerca di ridurre tale complessità adottando processi decisionali che in qualche modo consentano a chi governa di gestire e di risolvere i problemi.
Vorremmo porre l'attenzione su questo, mettendo in evidenza un dato che molto spesso a nostro avviso viene poco valutato: in tutti questi sistemi europei un punto fondamentale è che in larga parte, tranne in quello francese, ci si muove nel quadro di una società politicamente omogenea. Noi non nutriamo alcuna avversione di fondo o di principio verso il sistema elettorale, e quindi politico e partitico, inglese: se in Italia avessimo una struttura bipartitica ed una società politicamente omogenea, se avessimo da una parte i conservatori e dall'altra i laburisti, non avremmo il problema di invocare l'elezione diretta di chi governa per ristrutturare il sistema in senso bipolare; infatti, tutti saprebbero che, vincendo i laburisti, a governare sarebbe Tizio, vincendo i conservatori a governare sarebbe Caio. Non esisterebbe il problema della ristrutturazione del sistema in una direzione o nell'altra, perché sarebbe implicito nella natura di quella società. Lo stesso accade in Germania. Ricordo un dibattito molto interessante svoltosi presso l'ambasciata francese, durante il quale il collega Elia intervenne pesantemente a sostegno

Pag. 29

dell'applicazione anche in Italia del sistema tedesco. Il professor Sartori, altrettanto brillantemente, disse che se in Italia avessimo avuto due soli partiti e poi dei partitini con il ruolo di porta-acqua dei due partiti centrali, non avremmo avuto alcuna difficoltà ad adottare anche in Italia il sistema tedesco e ad inserire una clausola di sbarramento al 5, al 6, al 7 per cento. In quel caso si saprebbe infatti che in caso di vittoria dei cristiano-democratici a governare sarebbe il leader dei cristiano-democratici, mentre in caso di vittoria dei socialdemocratici a governare sarebbe il leader dei socialdemocratici. In Germania non sarebbe mai capitato che un Prodi, rappresentante di un partito minore, potesse guidare una coalizione di governo, perché lì vi è una società politicamente strutturata, perché lì vi è una realtà che risolve i problemi, prima ancora che attraverso il sistema elettorale o il sistema politico, con riferimento ai valori, al tessuto sociale, ai principi nei quali si crede, agli interessi che comunque connotano i cittadini di quella nazione indipendentemente dallo schieramento al quale appartengono.
Su questo aspetto noi vogliamo concentrare la nostra attenzione e richiamiamo quella dei colleghi e la sua in particolare, signor presidente, dal momento che lei stesso, qualche tempo fa, ha avuto la bontà di dichiarare che potrà fare il Presidente del Consiglio soltanto se saranno gli elettori a deciderlo, a sceglierlo. In questa frase sta il nodo del problema politico italiano. In questa frase sta il cuore della crisi e il problema che questa Commissione bicamerale a nostro avviso deve risolvere. Perché? Perché in nessun paese al mondo, dove esistono sistemi di avanguardia, sistemi cosiddetti europeo-continentali di avanguardia, come dicevo prima, può avvenire che il leader di un partito marginale, di un partito minore, l'ultimo arrivato, quello che porta il pacchetto del 3, 4, 5 per cento dei voti, diventi premier o leader di governo: in nessun paese al mondo! Per quale ragione questo non avviene? Perché in tutti i sistemi in questione, o perché il quesito lo risolve la natura stessa della società, in quanto ci si trova in presenza di una società politicamente omogenea, o perché il problema lo risolve il sistema politico-elettorale o il sistema dei partiti, è il corpo elettorale - questo è il dato centrale - a scegliere, prima ancora del premier, il candidato a premier. È un passaggio che sfugge anche alla proposta del PDS o sul quale comunque non si attardano in maniera particolarmente attenta né quella proposta né tutte le altre costruite sulla designazione, sul collegamento e via dicendo. In tutte queste proposte, a scegliere il candidato non è il corpo elettorale ma la coalizione. In un sistema siffatto, e in un sistema come il nostro che opera in una società frammentata e politicamente disomogenea, è ben evidente che il candidato che bisogna scegliere è quello che porta il 2, 3 per cento dei voti da una parte all'altra delle coalizioni. Sicché la coalizione che si presenta indicando come candidato il rappresentante del partito maggiore è destinata a perdere; la coalizione in cui invece il partito maggiore rinuncia a vincere in nome e per conto proprio ma delega questa funzione al Dini o al Prodi di turno, che porta il 4, il 5, il 6 per cento dei voti, alla fine vince le elezioni. È un meccanismo che in sostanza penalizza i leader degli schieramenti maggiori e dei partiti che prendono più voti e che di fatto ristruttura il sistema - ecco il nodo del ragionamento - non in maniera bipolare.
L'impostazione di tutte le nostre proposte di legge è semipresidenziale o comunque basata sul governo del premier e punta la sua attenzione su questo passaggio. Nelle nostre proposte, il dato qualificante è che il candidato viene scelto dagli elettori. Sono questi (sia nel sistema a doppio turno che in quello a turno unico) che scelgono il premier: nel momento in cui votano, scelgono il candidato che poi in un secondo turno, nel caso francese, ma con alcuni accorgimenti che si possono studiare anche nel caso del premierato, va a confrontarsi con l'avversario.

Pag. 30


Ebbene, se noi avessimo un sistema del genere è ben evidente che l'elettore sceglierebbe il candidato del partito che ha più voti, sia se si trattasse di scegliere il primo ministro sia se si trattasse di scegliere il Presidente della Repubblica. Se noi (lo dico per capirci in maniera chiara) avessimo un sistema in cui si potesse scegliere al primo turno tra D'Alema e Prodi, è evidente che passerebbe il turno D'Alema, che al secondo andrebbe D'Alema e che Prodi, così come gli altri componenti della maggioranza, dovrebbe riconoscersi su D'Alema al secondo turno. In questo caso abbiamo una ristrutturazione bipolare del sistema; abbiamo raggiunto la completa legittimazione delle forze in campo. Ma se invece il leader è scelto dalla coalizione, quest'ultima si siede a tavolino, fa i conti e dice: «Su quel versante, se scegliamo il leader del partito più caratterizzato e più forte non vinceremo mai, perché il sistema funziona per far perdere l'avversario e non per far vincere il leader di una coalizione. Scegliamo l'uomo di centro, o che tendenzialmente si colloca al centro, capace di spostare piccole percentuali di voto da uno schieramento all'altro, e così vinciamo». Se il Polo avesse offerto la leadership a Dini, forse avrebbe vinto le elezioni.
Questo è il dato di fatto di un sistema, onorevole presidente, che consente alle coalizioni e non all'elettore di scegliere il candidato. Consegniamo a lei questa riflessione, dato che ha sostenuto con forza che vuole costruire un sistema bipolare. Quando ascolto Elia (o De Mita) lo capisco sempre e mi rendo conto della ragione per cui vuole un sistema con il collegamento e l'indicazione del leader, perché è fin troppo ovvio che quel sistema lavora, spinge per far sì che, essendo la coalizione che effettua la scelta, il candidato - e poi premier, se vince - sia un candidato delle forze di centro. Vi è una ragione in questo, ma tale ragione non la rinveniamo noi che lavoriamo per la costruzione di un sistema bipolare in cui sia il corpo elettorale a scegliere.
Pertanto, come si vede, si comprendono anche le affermazioni dell'onorevole Fini quando dice che sulla scelta del candidato si gioca la qualità di una proposta di riforma, perché questo è un punto irrinunciabile. Se sono gli elettori, con il loro voto, a scegliere il candidato che poi può diventare premier, allora noi lavoriamo attraverso un sistema maggioritario per garantire il bipolarismo e l'alternanza. Diversamente, ci muoviamo in un altro contesto coalizionale, che può piacere o può non piacere ma che tutti quanti abbiamo il dovere di chiamare con il suo nome.
Mi avvio alla conclusione, perché il passaggio centrale del ragionamento che volevamo fare era questo. Abbiamo piena contezza di ciò che significa scelta, di ciò che significa indicazione, di ciò che significa collegamento, di ciò che significa designazione. Significa che la coalizione sceglie il candidato e che quindi il meccanismo, il sistema politico non lavora verso la realizzazione del bipolarismo, ma addirittura lavora tendenzialmente e nel tempo verso un ritorno al proporzionale, perché è fin troppo ovvio che il candidato del centro che diventa premier alla fine penserà ad espandere la propria posizione ed il ruolo della propria forza politica con conseguenze sistemiche che nel tempo è facile immaginare.
Diverso è il caso in cui il candidato appartiene invece al partito dell'una o dell'altra coalizione che prende più voti. Camminiamo verso il bipolarismo. Lo possiamo realizzare con l'elezione diretta del premier? Ci sta bene. Vogliamo invece un semipresidenzialismo alla francese, che forse è più consono alla tradizione parlamentare italiana? E allora realizziamo la bipolarizzazione del sistema scegliendo il capo dello Stato. Da questo punto di vista non abbiamo alcuna pregiudiziale da far valere in maniera forte; siamo apertissimi. Il senatore Fisichella, con dovizia di particolari, spiegherà, per esempio, per quale ragione forse è preferibile scegliere l'elezione diretta del premier (chiaramente purché sia elezione).
La nostra preoccupazione di lavorare per la realizzazione di un sistema bipolare è molto intensa. Ci auguriamo che durante

Pag. 31

i lavori della Commissione bicamerale, attraverso il confronto, i nostri dubbi possano essere sciolti e che, se avremo argomenti, sia possibile avvicinare altri alle nostre posizioni.


FRANCESCO D'ONOFRIO. Cercherò di essere, nella ragionevole rapidità, in sintonia con l'insieme delle questioni che lei, presidente, ha posto all'inizio dei nostri lavori. Il gruppo del CCD è un po' preoccupato perché, con riferimento alla Commissione bicamerale, si sono svolte quasi esclusivamente riflessioni sulla forma di governo, quasi che quest'ultima risolva l'intero arco dei problemi di fronte al quale il paese si trova. Ciò vale anche per i colleghi che mi hanno preceduto, certamente per il fatto che la consistenza dei rispettivi gruppi consente più interventi, mentre il nostro gruppo potrà esprimere la propria posizione solo tramite il segretario Casini ed il capogruppo Loiero. Quindi, nel mio intervento cercherò di affrontare l'intero arco dei problemi. Ribadisco che siamo preoccupati per il fatto che si parli di forme di governo, mentre a noi sembra molto più importante affrontare il problema della forma di Stato che, nonostante le affermazioni ripetutamente colte sui giornali da parte dei leader politici, riteniamo non sia così convergente, come il presidente ha detto. Infatti, sebbene siamo orientati verso un decentramento di poteri, la questione di fondo che avremo dinanzi sarà se restare dentro lo Stato regionale o passare allo Stato federale. La proposta che il gruppo del CCD presenta come proposta organica relativa all'intera parte seconda della Costituzione muove da una considerazione politica e da una indicazione di metodo. Verrò poi alle questioni di contenuto.
La considerazione politica nasce dalle ragioni che ci hanno portato, alla fine del 1993, a scegliere l'alternanza di governo come grande novità istituzionale per il nostro paese. Eravamo tutti nella democrazia cristiana; non rinneghiamo di quell'appartenenza nulla, soprattutto la cultura costituzionale che fu espressa nell'Assemblea costituente e successivamente: affermiamo, però, di aver colto la discontinuità nel passaggio da un sistema sostanzialmente privo di alternanza di governo ad un sistema di alternanza di governo, consapevoli come eravamo e come siamo che vi può essere alternanza di centrodestra e di centrosinistra o alternanza di centro e di sinistra: ma ciò attiene alla libertà del fluire delle azioni politiche e non al modello istituzionale. Quindi, noi ci muoviamo nel senso di una democrazia caratterizzata da alternanza di governo.
Quanto al metodo, abbiamo detto ripetutamente - e lo ribadiamo in questo momento - che a nostro avviso la definizione delle nuove regole costituzionali non può prefigurare vincoli di schieramento politico di appartenenza. Riteniamo che tutte le forze politiche presenti in questa costituente - che noi riteniamo sostanzialmente dovuta alla scelta parlamentare, ma di fatto consideriamo costituente: non assemblea costituente, ma una Commissione bicamerale costituente - non siano tenute a vincoli di maggioranza o di schieramento o di opposizione o ideologici o di polo ma siano libere nella definizione dei progetti costituzionali. Per questa ragione abbiamo presentato una nostra proposta che, sotto alcuni profili, risulta convergente su aspetti di fondo con le indicazioni provenienti dai gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale; tuttavia, nell'insieme delle questioni costituzionali che poniamo, rivendichiamo il merito di una sua originale autonomia. Ed è questa la ragione per la quale vorremmo partire dalla forma di Stato, perché molti dei problemi relativi alla forma di governo verrebbero in qualche misura ragionevolmente considerati in modo diverso da quello, molto ideologico, con il quale sono stati considerati in questi mesi.
La Costituzione oggi vigente è il frutto di tre patti: fra popolo e partiti, fra centro e periferia, fra magistratura e politica; e non è casuale che oggi il presidente D'Alema ci dica che essi sono l'oggetto della revisione costituzionale. Il primo, fra popolo e partiti, portò alla Costituzione


Pag. 32

vigente, nella quale la sovranità popolare è affermata con l'articolo 1 e viene dimenticata nell'organizzazione costituzionale; il secondo, fra centro e periferia, portò alle autonomie locali e ad un modello di regionalismo molto contenuto, tranne che nelle regioni ad autonomia speciale; il terzo, tra magistratura e politica, risentiva molto del passaggio dal fascismo alla democrazia e in esso il primato della politica sulla magistratura si realizzava in vari modi. Noi riteniamo che tali tre patti vadano sottoposti a revisione: tutti e tre. La nostra proposta indica un nuovo patto tra popolo e partiti per quanto riguarda il governo del paese, un nuovo patto fra Stato e autonomie per quanto concerne la forma di Stato, un nuovo patto tra magistratura e politica per quanto riguarda la magistratura.
In che cosa consistono le nostre proposte? Lo dico in termini sintetici perché questa parte del lavoro della Commissione bicamerale dovrebbe tendere da un lato a rilevare le posizioni specifiche dei singoli partiti, dall'altro ad effettuare una prima valutazione dei margini di avvicinamento - se questi margini esistono - non necessariamente su tutto, ma sulla struttura di fondo.
Cerchiamo di porre a fondamento dell'ordinamento della Repubblica quella sovranità popolare che nella Costituzione vigente è stata posta soltanto nell'articolo 1, ribadendo che noi ci muoviamo nella logica di andare oltre, non contro tale Costituzione. Ciò significa considerare i tre punti nodali indicati quelli su cui esercitare il potere di revisione, non attuare un rovesciamento, il quale comporterebbe il passaggio ad un'altra carta costituzionale. Riteniamo si debba andare su quei tre punti fondamentali oltre la Costituzione vigente, non ad un'altra costituzione.
Per quanto riguarda questa ribadita sovranità popolare posta a fondamento dell'ordinamento repubblicano, individuiamo nel desiderio di portare a sedici anni l'età per votare alle elezioni locali amministrative una indicazione di favore per l'evoluzione della coscienza dei più giovani; non possiamo modificare l'età prevista per votare nelle elezioni politiche perché questa materia è trattata nella prima parte della Costituzione.
Vediamo realizzata questa sovranità popolare in una pluralità di referendum, non soltanto quello abrogativo e confermativo attualmente previsti. Riteniamo che questo sia lo strumento migliore per ricondurre il referendum abrogativo alla sua natura originaria di opposizione popolare ad una legge non gradita, senza farne - così come è avvenuto nel corso degli anni, deviando - una forma indiretta di legislazione popolare per via di abrogazione. Viviamo in un sistema nel quale ciascuno dei poteri è uscito dai confini nei quali la Costituzione lo aveva posto: quello popolare, quello parlamentare, quello partitico, quello magistratuale. Non abbiamo un sistema in cui i poteri rimangano quelli che erano previsti.
Posta questa premessa sulla sovranità popolare, consideriamo la forma federalista dello Stato una scelta di grande novità e, poiché di federalismo si parlerà molto, vorrei fare chiarezza su che cosa intendiamo per scelta federalista. Partiamo da una cultura di ispirazione cristiana, quella della sussidiarietà, che come tale non consente di attribuire in via stabile e definitiva i poteri ai comuni, alle province, alle regioni, allo Stato o all'Europa secondo un principio rigido di ripartizione di funzioni; il principio di sussidiarietà per sua natura richiede l'elasticità nella distribuzione delle funzioni.
Lo diciamo anzitutto in riferimento ai poteri degli enti locali, che consideriamo prioritari rispetto alla regione, allo Stato e all'Europa. Riteniamo che gli enti locali siano titolari dei poteri di chiusura in ordine alla funzione amministrativa; intendo dire che tale funzione nasce in capo alla comunità locale e va progressivamente ai livelli superiori quando è necessario.
Questo principio di sussidiarietà istituzionale è da noi vissuto insieme a quello di sussidiarietà sociale; è questa la ragione per cui non vediamo solo la pluralità delle istituzioni, né solo la pluralità nelle istituzioni,

Pag. 33

ma vediamo anche una pluralità di soggetti sociali autonomi dalle istituzioni. Questo è un principio di libertà.
Il federalismo che noi proponiamo, quindi, nasce da una cultura di libertà delle comunità locali, delle comunità regionali, di quella nazionale statuale in riferimento all'integrazione europea, che poniamo in modo visibile nella nostra proposta come innovativa rispetto alla Costituzione del 1947.
Prevediamo per questa ragione una doppia clausola di chiusura. Quella a favore della federazione, come quella americana, nasce dai poteri impliciti di cui la federazione può godere rispetto agli Stati quando emergono necessità nuove che richiedono l'intervento federale; la costituzione americana contiene una clausola di poteri impliciti della federazione che ho riportato nella proposta da noi presentata. Prevediamo inoltre che in via di principio poteri legislativi impliciti siano riservati alle regioni ogni volta che non siano espressamente previsti come poteri statuali.
Signor presidente, su questo punto si gioca, a nostro giudizio, la sostanziale differenza tra modello regionale e modello federale: non è una questione linguistica, ma di qualità e di quantità di potere ripartiti. Prevediamo statuti speciali per tutte le regioni, statuti nei quali ciascuna di esse, d'intesa con lo Stato, definisca non solo il suo modello di governo ma anche il sistema di poteri locali e persino il decentramento alle regioni stesse di poteri riservati in via principale allo Stato. Non vi sono, cioè, poteri non decentrabili in via di principio, così come non vi sono poteri necessariamente statuali rispetto all'Europa, che diventa da questo punto di vista destinataria di progressive cessioni di sovranità nazionale. Ecco perché, a nostro giudizio, portare l'attenzione della Commissione sul tema della riforma dello Stato è preliminare rispetto a tutte le discussioni sulla forma di governo.
Per quanto riguarda quest'ultima, il nuovo patto tra popolo e partiti tende a spostare sul popolo una parte rilevante del potere di investitura della funzione di governo. Anche noi tra i vari modelli cosiddetti presidenziali, scegliamo quello definitivo semipresidenziale francese. Lo facciamo depurando il modello francese dai due poteri che riteniamo più dichiaratamente gollisti di quella repubblica: il potere di indire referendum, che non affidiamo al capo dello Stato, ed il potere di dichiarare lo stato di eccezione, che è all'origine della costituzione della V repubblica francese. Riteniamo che l'elezione diretta del capo dello Stato con poteri di governo sia però legata alla natura parlamentare della forma di governo, perché il modello francese, anche quello scritto, prevede che il governo con la sfiducia parlamentare vada a casa e non una sola volta, come per altre ragioni è previsto nella proposta della sinistra democratica, ma anche più volte. In questo senso il modello francese è meno presidenziale del rigido modello del primo ministro ed è più neoparlamentare o neopresidenziale a seconda dei poteri attribuiti al capo dello Stato. Riteniamo dunque che sia preferibile un'evoluzione bipolare del sistema politico italiano attraverso la forma di governo semipresidenziale, mentre tendiamo a ritenere che la forma di governo del primo ministro non favorisca tale evoluzione, anche se ovviamente discuteremo nel merito le varie proposte avanzate sia dai partiti presenti nel polo, sia da altri partiti. Insisto peraltro nel sostenere che nella nostra proposta sulla forma di governo il nuovo patto tra popolo e partiti è a favore del primo, ma non è contro i partiti stessi. In questo riteniamo di non seguire le tentazioni di deriva plebiscitaria con le quali vengono coperte ragioni di non gradimento dei modelli presidenziali; mostriamo bensì di ritenere che l'organizzazione politica della nostra società per un tempo ancora lungo avrà bisogno di partiti politici, i quali potranno evolvere in termini di coalizioni (ed avremo un sistema bipolare di coalizione), oppure in termini bipartitici (ed avremo un sistema bipolare bipartitico). Questa è una questione che non possiamo esaminare in seno alla Commissione, ma è ovvio che

Pag. 34

possiamo favorire un'evoluzione anziché un'altra, adottando un modello di governo piuttosto che un altro.
La questione giustizia è stata definita dal presidente come un tema complesso. Anche in questo campo ci muoviamo nella logica di andare oltre e non contro la Costituzione vigente. Riteniamo che la magistratura nel suo complesso sia stata chiamata ad un insieme di funzioni di supplenza in conseguenza del venir meno dei filtri della responsabilità politica, civile, contabile, amministrativa e partitica, sicché sulle sue spalle ha finito con lo scaricarsi la sola possibilità di azionare la responsabilità per i comportamenti illegittimi ed illeciti. In proposito, vorremmo ripristinare, in un bilanciamento di poteri tra magistratura e politica, un principio di libertà per i cittadini. Abbiamo indicato la costituzione di un consiglio superiore composto di due sezioni nella logica della distinzione delle funzioni, e non della separazione delle carriere, ritenendo che l'azione penale resti obbligatoria in una logica che tende a sanzionare i diritti ed i doveri dei cittadini in modo diverso da come è avvenuto, avviene e può avvenire in altre parti del mondo, un modo talvolta più studiato sui testi legislativi che non tratto dall'esperienza concreta. È vero che nel modello statunitense l'attorney general è nominato dal presidente e gli avvocati generali sono subordinati al governo, ma in quel sistema non viene in mente a nessuno di subordinare a decisioni politiche del governo stesso l'esercizio dell'azione penale. È discrezionale perché di fatto non può essere obbligatoria nei confronti di tutti, ma non nel senso deteriore di una discrezionalità rimessa alla decisione della maggioranza di governo. Ecco perché il funzionamento del modello americano va visto in concreto e non solo nelle affermazioni di principio.
Siamo quindi favorevoli ad una revisione costituzionale seria sul rapporto magistratura-politica, non nel senso di una subordinazione della magistratura alla politica, ma neanche - come è avvenuto negli ultimi tempi - di una subordinazione della politica all'azione dei pubblici ministeri. Su questo punto va realizzato un nuovo equilibrio, non con intenti punitivi, ma per stabilire quello che ho chiamato il nuovo patto tra magistratura e politica, nel quale entrambe sentano in pieno la responsabilità dei propri poteri e - se è possibile - nessuno sia tentato di invadere il campo tipico dell'altro.
Per quanto riguarda il sistema bicamerale, una sola considerazione. Non è vero - come è stato detto ogni tanto - che al sistema federale corrisponda la camera delle regioni. Negli Stati Uniti, per esempio, non esiste alcuna camera delle regioni, mentre in Germania - viceversa - il sistema federale la prevede. Noi dobbiamo essere liberi di scegliere il modo in cui lo Stato - divenuto federale - si traduce nei poteri centrali, che non riguardano soltanto la struttura del parlamento, ma anche il governo, le funzioni costituzionali, la corte costituzionale, i rapporti internazionali, la vita europea. Se andiamo a un regime autenticamente federale, il molto da fare che daremmo ai presidenti di regione e di provincia ed ai sindaci rende - a nostro giudizio - assai poco credibile che per qualche giorno alla settimana essi trascorrano il loro tempo a Roma in una camera delle regioni.
Non lo dico perché sono senatore: fortunatamente ho vissuto l'esperienza di parlamentare sia alla Camera che al Senato. Il fatto è che non esiste alcuna ragione teorica al mondo per sostenere che a fronte di un sistema federale si debba prevedere conseguentemente un certo modello di sistema parlamentare. Questo andrà valutato.
Da parte nostra, abbiamo previsto il modello adottato dalla Commissione De Mita-Iotti dopo più di un anno di riflessione: dal punto di vista del nostro orientamento quel lavoro di riflessione non è irrilevante. Noi non manteniamo il bicameralismo perfetto, con conseguenti perdite di tempo; prevediamo che nel sistema semipresidenziale entrambe le camere accordino e tolgano la fiducia al governo,

Pag. 35

come oggi, ma poche sono le funzioni comuni, mentre nella maggior parte sono differenziate.
È ovvio che nel nostro intendimento i senatori non sarebbero più eletti (ma questa è materia di legge elettorale) sulla base della popolazione, come è nel caso della Camera: dovrebbero essere espressione della struttura federale dello Stato, come avviene negli Stati Uniti (due per Stato) o in altre parti del mondo (differenziati a seconda degli Stati, ma non in modo proporzionale alla popolazione). In questo modo sarebbe visibile il nuovo patto di unità nazionale tra regioni e Stato, con ogni regione presente nel parlamento nazionale per un verso sulla base della popolazione e per l'altro in base ad un criterio diverso da quello della popolazione. Credo che, in questo modo, la nostra proposta di sistema bicamerale tenga conto del disegno complessivo.
Un'ultima considerazione sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale. Noi proponiamo due modi diversi di adottare leggi costituzionali: le norme riguardanti la forma federalista dello Stato a nostro avviso dovrebbero essere sottoposte a revisione solo con il consenso del parlamento nazionale e di almeno due terzi delle assemblee regionali (la natura federalista dello Stato non può essere cambiata, cioè, se non con un'intesa tra lo Stato e le regioni); le norme costituzionali non federali potrebbero essere modificate rendendo sempre possibile - ma non necessario - il referendum popolare, come oggi avviene qualora la maggioranza sia inferiore ai due terzi.
Un insieme di poteri vengono poi previsti per l'opposizione (impugnare leggi appena approvate, decreti legislativi posti in violazione della delega, la stessa delega se contiene violazioni dei principi di delega), per i comuni e le province al fine di salvaguardare i loro poteri - anche nei confronti della regione - e per il Capo dello Stato per ragioni di costituzionalità. Si arricchiscono così le stesse funzioni della Corte costituzionale, che anche per noi può essere criticata - come accade molte volte - ma non può essere insultata (come è capitato di ascoltare anche negli ultimi tempi).


MASSIMO VILLONE. Credo che già questi primi interventi mostrino l'utilità di un confronto che, portato in termini pacati e di contenuto, ci offre interessanti elementi di riflessione.
Il collega Nania, per esempio, poneva l'importante problema della selezione del primo ministro, anzi quello della candidatura alla competizione. Vorrei dirgli, però, che la risposta fisiologia al problema da lui giustamente sottolineato è nel sistema a doppio turno, che fornirebbe risultati utili proprio nella direzione evidenziata; tale sistema però non è affatto condiviso da alleanza nazionale, anzi è fortemente avversato. Lo dico senza alcun intento polemico, ma solo per evidenziare come si apra un terreno di confronto molto pacato sul quale potremo svolgere il nostro lavoro nei prossimi mesi.
Colgo anche un'indicazione contenuta nell'intervento del collega D'Onofrio. Sono all'attenzione di questa Commissione, al di là della forma di governo, materie assai importanti, che forse più di questa incidono sulla questione della distribuzione del potere reale nel paese e nel sistema politico ed istituzionale.
Uno dei segmenti di grande rilievo, a tale proposito è certamente quello del federalismo. Uso il termine - essendo consapevole di tutto quanto si è detto circa la sua ambiguità e la sua improprietà - perché ormai è convenzionalmente assai utilizzato e con la convinzione che sarebbe un errore pensare ad un modello predeterminato di vero e genuino federalismo. Probabilmente il federalismo è una scala di grigi piuttosto che un bianco o un nero: anzi ,è un modello che si qualifica proprio per la sua grande flessibilità e adattabilità ad una ampia diversità di situazioni. Ci sono tanti federalismi, non c'è «il» federalismo: credo che qui abbiamo l'obiettivo di costruire il nostro originale federalismo.


Pag. 36


Nella definizione della nostra proposta su questo argomento siamo partiti da un punto comune a tante proposte, cioè dalla necessità del superamento dello Stato centralista non per motivi astratti, ma sulla base della considerazione che lo Stato centralista non funziona più. Non c'è nessun motivo teorico per preferire un modello di Stato centralistico piuttosto che di uno Stato decentrato federale; in questo momento storico, nella nostra esperienza la via dello Stato centralistico sembra ormai esaurita. Da qui la necessità di sperimentare il nuovo, tenendo però conto di un altro elemento importante, cioè che nel nostro sistema abbiamo un'esperienza regionale negativa. Vi è quindi la necessità di un segnale di radicale innovazione, che non sia semplicemente la continuazione del pensiero regionalistico degli anni settanta-ottanta - è il primo punto che vorrei sottolineare - perché probabilmente questa impostazione condurrebbe a risultati non produttivi, non solo in termini di immagine, ma proprio iper il rendimento delle scelte adottate. Questo comporta, probabilmente, anche abbandonare posizioni consolidate, proprio perché maturate in quel contesto, in quel modo di ragionare, in quel pensiero. Bisogna evitare il rischio di essere conservatori nell'innovazione, rischio da non sottovalutare, ove si consideri che ciascuno si innamora delle tesi di cui un certo giorno è stato sostenitore.
Il problema che ci siamo posti è stato, anzitutto, se optare per un federalismo competitivo o un federalismo di concertazione. Si tratta di termini sicuramente noti per gli addetti ai lavori ma che dovrebbero risultare comprensibili anche per chi non abbia familiarità con queste tematiche. Un federalismo di tipo competitivo è quello caratterizzato da una tendenziale, rigorosa distinzione di competenze; da un ricorso limitato o nullo a potestà di tipo concorrente; da una distinzione dei circuiti politici tra i livelli istituzionali; dall'esclusione di commistioni o passaggi automatici dall'uno all'altro; dall'attribuzione di risorse proprie a ciascun livello; dal riconoscimento di garanzie costituzionali a ciascun livello, e dalla contemporanea esclusione di poteri ordinamentali dell'uno sull'altro; da un arbitro imparziale per i conflitti che possono insorgere. Il modello della concertazione prevede invece il ricorso a potestà di tipo concorrente, all'utilizzazione di organi a composizione mista, a modelli di trasferimento sotto il profilo delle risorse. In sintesi, possiamo dire che un federalismo di tipo competitivo è quello degli Stati Uniti, mentre un federalismo di concertazione è quello della Repubblica federale tedesca.
Abbiamo ritenuto di fare una scelta orientata per un modello competitivo piuttosto che per un modello di concertazione. Ciò anzitutto perché il federalismo di concertazione è un modello complesso; basta leggere la Costituzione tedesca, per rendersi conto di tale complessità, riscontrabile, per esempio, nel sistema delle fonti. Non si tratta quindi di una prospettiva di auspicabile efficienza in un sistema in crisi e frammentato qual è il nostro. Inoltre, non si tratta probabilmente della scelta migliore in una fase di risorse decrescenti, di risorse che in prospettiva saranno stabilmente limitate, visto che procediamo certamente verso una situazione nella quale non vi sarà una disponibilità di abbondanti risorse pubbliche, così come è stato nell'esperienza vissuta fino ad oggi, che ha ovviamente avuto riflessi a spese del debito pubblico. Ancora un federalismo di concertazione, proprio per le complessità intrinseche e per la molteplicità di poteri di veto reciproci che consente, può essere un elemento di conservazione e di immobilismo in una fase di cambiamento e di evoluzione. Infine, un federalismo di concertazione non tutela gli interessi deboli. Mi rendo conto che questa potrebbe sembrare un'affermazione paradossale. Basti pensare però a come il Bundesrat non abbia affatto difeso i laender

Pag. 37

dell'ex Germania dell'est da una situazione di subalternità. Basta anche guardare all'esperienza dei nostri istituti di concertazione (perché noi abbiamo adesso nel sistema momenti di concertazione che riguardano le regioni), nei quali gli interessi deboli non sono tutelati, rimanendo subalterni a quelli forti. Così funzionano - e gli addetti ai lavori lo sanno benissimo - le attuali sedi di concertazione nel rapporto Stato-autonomia.
In definitiva, quando ci si pone la domanda - come credo si debba fare - su quale federalismo vada scelto per le aree deboli del nostro paese - si tratta di uno dei punti nodali ai quali dobbiamo dare una risposta, se vogliamo una soluzione efficiente, efficace e, sulla quale si possa consolidare un consenso - dico che non è il federalismo di concertazione quello al quale ci si può affidare nell'idea che le aree deboli siano garantite, perché così non è. Si tratta di un'illusione e questo va senz'altro detto. Naturalmente, quando parlo di un federalismo tendenzialmente più competitivo non mi riferisco - lo dico per gli addetti ai lavori - al principio di leale cooperazione, che essendo puramente di metodo e procedimentale trova applicazione sia nel federalismo competitivo sia in quello di concertazione. Sgombriamo il campo da possibili equivoci su questo punto.
Abbiamo preferito un modello nel quale ci fosse più competitività, per la maggiore aderenza alla situazione del nostro paese, a questa fase storica e alle esigenze che vogliamo raggiungere, soprattutto la possibilità di dare alle aree deboli del paese un'opportunità di uscita dalla subalternità, la possibilità di far perno sulle proprie risorse. Penso al caso della Georgia che, partendo da una situazione di subalternità, ha prodotto - proprio perché attraverso i meccanismi di un federalismo competitivo è riuscita a ribaltare quella subalternità - un presidente degli Stati Uniti.
Come abbiamo dato attuazione a questa impostazione? Attraverso una definizione tendenzialmente rigorosa e distinta delle competenze: allo Stato poche potestà legislative enumerate - capovolgendo l'impostazione dell'articolo 117 della Costituzione, con una clausola di prevalenza del diritto statale per la tutela dei diritti fondamentali e dei preminenti interessi nazionali - e le politiche nazionali. Quindi allo Stato sono affidate non competenze, ma le politiche pubbliche di intervento statale per il riequilibrio territoriale.
Si garantiscono, invece, alle regioni, una vasta potestà legislativa, un'autonomia finanziaria e impositiva e una vasta autonomia statutaria, sulla quale tornerò tra breve. Si riconosce all'ente locale, in maniera non lontana da quanto diceva poc'anzi il collega D'Onofrio, una competenza generale ad amministrare, e si definiscono in modo netto le disponibilità di risorse a tutti i livelli, la possibilità di accesso alla Corte costituzionale per ciascuno degli attori, sia per lo Stato, sia per le regioni, sia per gli enti locali.
Abbiamo ritenuto in specie funzionali alla competitività sle scelte relative all'autonomia statutaria delle regioni. La scelta del modello istituzionale - intendo con questo la scelta della forma di governo e del sistema elettorale, che noi affidiamo allo statuto e alla legge regionale - è un elemento importante nel rendimento del sistema. Quindi, la capacità di definire il proprio modello è un punto fondamentale della competitività: quindi, piena autonomia legislativa e statutaria su questo punto. Ed è rilevante che il procedimento di formazione dello statuto si esaurisca nell'ambito regionale: non vi è alcuna partecipazione dello Stato. Tutto ciò che è forma di governo e sistema elettorale si decide in ambito regionale, esclusivamente nel circuito politico regionale, perché questo è il momento della definizione della competizione futura. Nessun controllo preventivo o successivo; piena autonomia finanziaria e impositiva, salvo il coordinamento posto in essere con legge dello Stato. Allo stesso modo abbiamo garantito costituzionalmente l'ente locale,

Pag. 38

una scelta questa che non poteva non essere considerata necessaria per la competitività dello stesso ente locale e per la garanzia di autonomia nel circuito politico locale e delle classi dirigenti nei confronti delle regioni. L'attribuzione alle regioni di poteri ordinamentali determinerebbe invece una condizione di subalternità. Questa è una scelta funzionale anche alla qualità della rappresentanza politica che poi viene selezionata nel circuito politico locale e nel circuito politico nazionale.
Quindi, un complesso di scelte che si inserisce in una logica di sistema che guarda alla coerenza del modello, sotto il profilo tecnico-formale, alla fase storica in cui ci troviamo e agli assetti concreti del nostro paese. Dicevo prima che è fondamentale interrogarci su quale federalismo, soprattutto per le parti deboli del nostro paese, perché il rischio che dobbiamo evitare credo sia quello di dare un messaggio per cui, in questa sede, il paese forte sta dicendo cosa fare del paese debole. Penso che questo sia il più grande rischio che corriamo quando parliamo di federalismo. Allora, bisogna sapere e dire che le parti deboli del nostro paese trovano una risposta più efficace nel modello che abbiamo ritenuto di definire. Per essere concreti, per far capire qual è il senso di queste scelte: la parte debole del paese ha interesse a che le politiche di riequilibrio territoriale non siano gestite in un luogo di concertazione in cui quella stessa parte è subalterna, ma da un livello che sia genuinamente nazionale e che quindi dia, in questo senso, maggiori garanzie a quella stessa parte debole del paese.
Dunque, un impianto articolato, molto forte, che però riteniamo assai efficace, anche nei termini di una definizione di tipo federale dello Stato. Noi diciamo che allo Stato vanno solo la potestà legislativa di rilievo effettivamente nazionale, il coordinamento della finanza pubblica e le politiche di riequilibrio; diciamo invece che alle regioni spettano un vasto potere legislativo, con l'esclusione di limiti e controlli, l'autonomia finanziaria impositiva, una ampia autonomia statuaria, una partecipazione - come vedremo fra un attimo - nel Senato alla legislazione rilevante per le stesse autonomie. Ancora le regioni partecipano all'elezione di un quarto dei giudici della Corte costituzionale, hanno accesso alla Corte, partecipano all'elezione del Capo dello Stato e alla funzione di revisione costituzionale, con l'approvazione delle leggi costituzionali rilevanti da parte della maggioranza dei consigli regionali, secondo uno schema tipicamente federale. Credo, quindi, che abbiamo davvero un impianto molto forte. Quando garantiamo gli enti locali ben oltre l'attuale articolo 128 della Costituzione e diamo agli stessi l'accesso alla Corte per rendere effettiva la tutela costituzionale, penso che abbiamo dato una risposta vera ad un federalismo che sia articolato sulle regioni e sulle città nel senso più proprio.
A questo punto, viene il Senato, che, come credo sia ora a tutti chiaro, è l'ultimo pezzo - forse nemmeno il più importante - del discorso del federalismo. Diceva il collega D'Onofrio, ed ha perfettamente ragione, che è sicuramente sbagliato identificare il federalismo con la camera delle regioni. Sul Senato dobbiamo chiederci come definirlo, in modo che sia funzionale al tipo di federalismo che scegliamo. Questa è la vera domanda da porre: non possiamo dire quale Senato senza specificare quale federalismo. Ma, come si è visto, il federalismo che si suggerisce nella nostra proposta non è di concertazione, e riteniamo che non lo sia per motivi seri e validi. Ecco perché non abbiamo un Senato-Camera delle regioni, che è strumento tipico del federalismo di concertazione. Quindi, voglio solo sorridere di certe polemiche che ho sentito sui motivi dei senatori di difendere il Senato. Possiamo anche prevedere un sistema monocamerale, cosa che, personalmente, non mi sconvolge affatto, ma è importante non attuare una scelta che non sia coerente con un federalismo che noi abbiamo ritenuto aderente alle necessità del paese.

Pag. 39


Non dobbiamo copiare modelli: quello che ho esposto è un modello molto diverso dal federalismo della Repubblica federale tedesca, in quanto è un federalismo che guarda più alla legislazione che all'amministrazione; si tratta di un impianto radicalmente distante, che tiene conto di necessità anch'esse radicalmente diverse da quelle cui risponde il modello tedesco. Ecco perché abbiamo scelto un Senato che veda una partecipazione delle autonomie, ma ad una singola funzione dello stesso Senato, quella legislativa di diretta rilevanza per le autonomie; tale partecipazione è prevista in modo incisivo, perché il rapporto è di 150 senatori eletti direttamente e 42 che sono i presidenti delle giunte regionali e delle province autonome nonché i sindaci dei comuni capoluogo di regione. Si ipotizza quindi un rapporto più favorevole a regioni ed enti locali rispetto a quando avviene, per esempio, nel Senato spagnolo, che prevede una composizione mista ma con un rapporto più basso di quello da noi proposto.
Abbiamo previsto - dicevo - una partecipazione a quella singola funzione, mentre abbiamo assegnato al Senato funzioni di tipo diverso, nell'ambito di un bicameralismo radicalmente rivisitato, che però risponde ad esigenze di sistema: si prevede la partecipazione a quella singola funzione per quanto riguarda le autonomie e la si prevede in un modo incisivo, che conta, affinché la stessa partecipazione abbia effettivamente un peso significativo. Per il resto, il modello risponde invece a funzioni diverse. Per questo, nell'insieme Camera-Senato abbiamo separato, da un lato, le funzioni attinenti al governo e alla dialettica tra maggioranza ed opposizione e, dall'altro, quelle che attengono all'equilibrio del sistema ed alle garanzie. Quindi, la fiducia e il bilancio sono di competenza della Camera (il Senato non partecipa né all'una né all'altro); la legislazione attuativa del programma di governo rientra anch'essa nella competenza della Camera ed in tale ambito il Senato ha soltanto una funzione di richiesta di riesame, sulla quale la Camera delibera poi in modo conclusivo. Soltanto per alcune limitate ipotesi attinenti al sistema delle autonomie o a casi specifici (per esempio, le leggi costituzionali ed elettorali), la funzione legislativa è pienamente bicamerale.
Per il resto, abbiamo concentrato nel Senato quello che fisiologicamente si può distinguere rispetto alla dialettica tra maggioranza e opposizione, come, per esempio, l'elezione dei giudici della Corte costituzionale, dei componenti il CSM, nonché una funzione di selezione delle candidature relative alle autorità indipendenti poi nominate formalmente dal Capo dello Stato.
Abbiamo altresì costruito una funzione ispettiva e conoscitiva molto forte, radicata nell'attività ordinaria del Senato e delle sue Commissioni, perché riteniamo che queste siano funzioni tendenzialmente bipartisan, che quindi si sottraggono alla logica di una contrapposizione tra maggioranza e opposizione; ci è sembrato quindi utile e fisiologico affidarle ad una Camera sottratta alla fiducia, che non segue la logica della contrapposizione politica tra maggioranza e opposizione e che quindi ha una sua separatezza rispetto a tale dialettica, tant'è vero che non può essere sciolta e non segue la vicenda governativa in senso stretto.
Questo ovviamente conferma l'incompatibilità delle scelte effettuate con il modello camera delle regioni. Tali funzioni sarebbero, infatti, incompatibili con quest'ultimo modello proprio per la loro natura, perché non sarebbero aderenti rispetto ad una camera così formata.
Sottolineo ancora una volta che si tratta di una proposta complessiva di forte impianto federale, naturalmente aperta, come tutte le proposte, ad ogni confronto, che abbiamo voluto avanzare tenendo conto dei molteplici elementi di cui una scelta in senso federale deve oggi necessariamente tenere conto, se vuole dare risposte che siano comprese ed accettate da tutto il paese.


PRESIDENTE. Con l'intervento del senatore Villone abbiamo esaurito il tempo


Pag. 40

della seduta odierna. Ci rivedremo domani alle 10 e poi, come sapete, la Commissione è convocata anche per giovedì 13 febbraio. Tuttavia, sulla base delle richieste, si prevede che la discussione generale prosegua anche martedì 18; probabilmente la riunione si terrà nel pomeriggio, in modo da consentire all'ufficio di presidenza di riunirsi nella mattinata anche per formulare le ipotesi conclusive del dibattito generale, relative alla costituzione dei comitati, che a quel punto potremmo deliberare in modo da gettare le basi della seconda parte del nostro lavoro.
Invito i colleghi che ancora non lo abbiano fatto ad iscriversi a parlare entro domani mattina (presumo infatti che altri commissari intendano intervenire). La seduta di domani dovrebbe occupare circa l'intera mattinata: sono iscritti a parlare il senatore Pieroni, la senatrice Salvato, l'onorevole Folena, il senatore Fisichella, il senatore Elia, l'onorevole De Mita e l'onorevole Parenti (valuteremo se sia il caso di dare la parola ai colleghi alternando i rappresentanti delle varie forze politiche). Può anche darsi - ma dipenderà dal tempo degli interventi - che possa parlare anche qualche altro collega.

(Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta).

La seduta termina alle 19,10.


indice indice bicamerale
Indice Resoconto
stenografico
Commissione parlamentare
Riforme costituzionali