RELAZIONE SUL SISTEMA DELLE GARANZIE EL DEPUTATO MARCO BOATO

Premessa; 1. Le autorità di garanzia; 2. La Banca d'Italia; 3. Il difensore civico; 4. La Magistratura: 4.1 Unità funzionale della giurisdizione ; 4.2 L'ordinamento giurisdizionale: 4.2.1 Norme sull'ordinamento giurisdizionale; 4.2.2 Consiglio superiore della magistratura e pubblico ministero ; 4.2.3 Altre disposizioni in materia di ordinamento giurisdizionale ; 4.2.4 Norme sulla giurisdizione ; 5. La giustizia costituzionale: 5.1. Il quadro di riferimento; 5.1.1 Genesi ed evoluzione normativa; 5.1.2 L'evoluzione giurisprudenziale; 5.1.3 I precedenti progetti di riforma; 5.2 Il progetto di riforma della Commissione: 5.2.1 I criteri generali del disegno di riforma; 5.2.2 Composizione e funzionamento della Corte costituzionale: - Composizione della Corte ; - Titolarità della nomina dei giudici ;- Le garanzie di indipendenza dei giudici; 5.2.3 Competenze della Corte costituzionale ;- Il ricorso per la tutela dei diritti fondamentali ; - L'impugnazione diretta delle leggi da parte delle minoranze parlamentari - Le garanzie costituzionali del sistema delle autonomie ;- Giudizio di costituzionalità sui regolamenti del Governo - I ricorsi in materia elettorale; 5.2.4 Le pronunce della Corte costituzionale ; - Gli effetti delle pronunce ; - L'opinione dissenziente .


Premessa


Questa relazione dà conto del contenuto delle disposizioni del progetto approvato dalla Commissione in materia di: autorità di garanzia e di vigilanza, organi ausiliari del Governo, magistratura e giustizia costituzionale.
In riferimento alle norme approvate vengono anche ricostruiti i termini essenziali del dibattito, che ha caratterizzato il lavoro istruttorio del Comitato sul sistema delle garanzie e l'esame di tali materie svoltosi a più riprese in Commissione.
La relazione dà anche conto degli articoli in questa fase non approvati o accantonati, riguardanti nel primo caso il difensore civico e nel secondo caso la Banca d'Italia.
Per quanto riguarda gli articoli sulla magistratura, approvati dalla Commissione nel testo base proposto dal relatore, senza procedere all'esame degli emendamenti sia del relatore sia degli altri componenti della Commissione, la relazione dà doverosamente conto anche delle principali problematiche da questi segnalate e delle diverse soluzioni proposte, che sono quindi demandate all'esame della Commissione stessa nella successiva fase dei propri lavori.
Il relatore ringrazia il Servizio studi della Camera dei deputati per la preziosa collaborazione prestatagli in tutte le fasi del proprio lavoro, sottolineando d'altra parte la propria esclusiva ed intera responsabilità per gli articolati proposti e per i contenuti della relazione, che viene dedicata alla memoria di Michele Coiro.


1. Le autorità di garanzia


Con la disposizione riguardante le cosiddette «autorità indipendenti» si affronta una questione di grandissimo rilievo istituzionale.
Il nostro ordinamento ha conosciuto, a partire dagli anni '80, la nascita di un numero sempre maggiore di tali autorità: dal Garante per l'editoria e la radiodiffusione, all'ISVAP, alla CONSOB, alla Autorità garante della concorrenza e del mercato, ai recentissimi casi delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità e dell'Autorità per la tutela della riservatezza dei dati.
L'archetipo cui questi enti si riconducono è, com'è noto, quello delle Independent regulatory Agencies americane, i cui primi esempi risalgono alla seconda metà del secolo scorso. In quell'ordinamento le autorità indipendenti si qualificano come agenzie, in posizione di autonomia sia dal potere esecutivo che da quello legislativo, alle quali viene affidata la regolazione imparziale di determinati ambiti (telecomunicazioni, campagne elettorali , mercati azionari, eccetera): l'attività regolativa si esplica attraverso ampi poteri normativi, di controllo e sanzionatori nei confronti dei soggetti operanti nel settore di competenza.
L'esperienza americana delle Agenzie indipendenti è stata trapiantata in Europa nel secondo dopoguerra, soprattutto in Francia, ove l'istituzione di tali enti ha interessato, in particolare a partire dagli anni '70, un numero crescente di settori. Proprio in Francia, l'importazione di un modello mutuato da un paese contrassegnato da un diverso assetto nella distribuzione dei poteri non ha mancato di suscitare reazioni. In particolare un autore (Braibant) ha notato come le «autorità amministrative indipendenti» rappresentino un tipo di istituzione non «cartesiano», ma per così dire «hegeliano», in quanto la loro stessa denominazione sembra racchiudere in sé una polarità di istanze contraddittorie: ad enti che sono definiti «amministrativi» viene al contempo riconosciuto uno status di indipendenza dall'esecutivo, derogando in tal modo dal principio fondamentale stabilito dalla Costituzione di quel paese secondo cui «il Governo dispone dell'amministrazione».
Anche in Italia la diffusione del modello delle agenzie indipendenti non ha mancato di sollevare dubbi e perplessità. Da un lato ci si è posti il problema della compatibilità con la vigente Costituzione di tali istituzioni che, sfuggendo alla disponibilità dell'esecutivo, verrebbero al contempo a sottrarsi all'istanza di controllo politico espressa nel continuum Governo-Parlamento, configurando in tal modo una sorta di pouvoir administratif a se stante, non subordinato al potere politico ma soggetto solo alla legge. Dall'altro lato, proprio guardando alla carente copertura costituzionale di queste istituzioni, si è manifestata la tendenza a disconoscerne il peculiare status di indipendenza, riconducendole al genere indifferenziato degli enti amministrativi e negando ad esse il rango di poteri dello Stato (si veda in proposito la giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, e in particolare l'ordinanza 226 del 1995, con cui la Consulta ha ritenuto inammissibile un conflitto tra poteri dello Stato proposto nei confronti del Garante dell'editoria, appunto per la carenza della qualifica di potere dello Stato di quest'ultimo).
Rispetto a queste tendenze, la riflessione scientifica più avvertita ha tentato una ricostruzione dei fondamenti costituzionali delle autorità indipendenti atta a garantirne, al contempo, la specificità istituzionale e la compatibilità con l'ordinamento vigente. Si è così osservato come, accanto al modello della «amministrazione servente» nei confronti del Governo, già oggi le norme costituzionali vigenti offrano fondamento al diverso principio della separazione dell'amministrazione dal potere politico. Proprio questo secondo principio è venuto anzi improntando, com'è noto, in modo sempre più pervasivo l'evoluzione organizzativa dei nostri apparati pubblici, avviata con le grandi leggi di riforma amministrativa, dalla L. n. 142 del 1990 al decreto legislativo n. 29 del 1993. Si è così imposta la convinzione che un'effettiva applicazione dei principi costituzionali dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione richieda una netta distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo, affidate agli organi politici, e quelle di gestione ed esecuzione, riservate agli apparati amministrativi.
A fronte di tale evoluzione, la realtà istituzionale rappresentata dalle autorità indipendenti marca tuttavia un ulteriore elemento di sviluppo. Non siamo infatti, in questo caso, in presenza tanto di organi dotati di autonome e riservate competenze tecnico-amministrative, ma pur sempre subordinati al controllo e all'indirizzo espresso dagli organi politici, quanto di enti che paiono svincolati da qualsiasi riferimento al circuito di espressione dell'indirizzo politico.
Ora, la posizione di «indipendenza» di tali enti in tanto si giustifica (e ne ha suggerito la considerazione nell'ambito della revisione del sistema delle garanzie), in quanto l'attività amministrativa da essi svolta si presenta come qualitativamente diversa da quella degli ordinari apparati amministrativi. Questi ultimi sono chiamati ad attuare con la loro azione un interesse pubblico predeterminato (in sede appunto politica), il cui soddisfacimento va assicurato in composizione e ponderazione con gli interessi di cui si fanno portatori gli altri soggetti, in particolare quelli privati. In tale attività di composizione e ponderazione si esplica lo specifico carattere della discrezionalità propria degli organi amministrativi, in quanto diversa dalla attività di definizione dei fini dell'azione amministrativa, riservata all'istanza politica.
La specificità delle autorità amministrative indipendenti sembra consistere proprio nell'attenuazione del carattere discrezionale dell'attività da esse posta in essere, dal momento che tali enti non svolgono una funzione attiva finalizzata al perseguimento di particolari interessi pubblici, ma rappresentano piuttosto istanze di garanzia e di controllo del rispetto delle regole poste all'attività dei privati in un certo settore. L'osservanza di tali regole esprime di per sé la tutela di determinati valori di rilievo costituzionale (libertà di accesso al mercato da parte degli imprenditori, parità di condizioni nelle campagne elettorali, libertà di scelta per i consumatori, e così via). Il rispetto dei principi di comportamento dettati dalla legge, e specificati dalle agenzie indipendenti, è quindi considerato sufficiente ad offrire idonea garanzia dell'interesse pubblico alla realizzazione di quei valori.
Di qui la configurazione delle autorità indipendenti come «arbitri» e non come «giocatori» nel settore affidato alla loro regolazione. Di qui anche il limite che, secondo quanto emerso nel dibattito in seno alla Commissione, deve essere individuato per assicurare legittimità alla posizione di indipendenza e di affrancamento dall'indirizzo politico delle agenzie in questione. Tale limite va individuato nell'impossibilità, per questi enti, di porre in essere attività fortemente contrassegnata in senso discrezionale, la quale, nelle particolari condizioni di indipendenza riconosciute a tali autorità, finirebbe inevitabilmente per configurarsi come attività di indirizzo politico affrancata dalla necessaria legittimazione democratica.
La Commissione ha dunque ritenuto opportuna l'introduzione nel testo della Costituzione di una disposizione specificamente dedicata alle autorità di regolazione, che non si limita agnosticamente a registrarne la presenza nell'ordinamento, ma tenta di precisare competenze e limiti di questi organi nel sistema costituzionale. Si è inteso, in altri termini, definire alcuni grandi principi di orientamento per il fenomeno del diffondersi di autorità svincolate dal circuito di controllo espresso dagli organi cui viene affidata, nella concezione liberale classica, la funzione di indirizzo politico. Pur rinunciando, insomma, alla identificazione ideologica tra politicità e rappresentanza, che vuole concentrata l'intera funzione di regolamentazione degli interessi e dei conflitti nel continuum Parlamento-Governo, è sembrato compito ineludibile di un testo costituzionale la definizione dei criteri generali per assicurare forme di controllo democratico anche sui nuovi assetti di allocazione dei poteri pubblici.
Sulla base di questi presupposti, il nuovo articolo 82, collocato nella sezione III («Autorità di garanzia e organi ausiliari») del nuovo titolo III della seconda parte della Costituzione, determina in primo luogo la definizione costituzionale delle autorità indipendenti nei termini di «autorità di garanzia o di vigilanza», che meglio esprimono il carattere principale dell'attività svolta da queste istituzioni e, al contempo, la loro diversità rispetto agli organi cui può propriamente riconoscersi una posizione «indipendente» nell'ordinamento (in particolare gli organi costituzionali).
Le funzioni che potranno essere affidate a queste autorità sono individuate nello svolgimento di «attività di garanzia e di vigilanza» nelle materie di loro competenza. Il testo proposto è formulato in termini tali da rendere possibile, come già si verifica nell'esperienza attuale, sia la concentrazione in capo alle medesime autorità di entrambe queste funzioni (ad es. Garante per l'editoria), sia l'istituzione di enti esclusivamente preposti all'uno o all'altro di questi due possibili versanti di attività (es. Authorithies sui servizi pubblici, Collegi di garanzia elettorale).
Sulla base del testo approvato del nuovo articolo 82, il comune denominatore di queste autorità viene individuato nello svolgimento dell'attività di istituto in posizione di affrancamento da qualsiasi forma di ingerenza politica. Tali caratteri dovrebbero essere assicurati attraverso un'appropriata definizione delle modalità di nomina dei titolari delle autorità: il testo prevede in proposito la nomina sulla base di un quorum parlamentare particolarmente qualificato (tre quinti dei componenti del Senato).
Va segnalato infine che la Commissione ha scelto di licenziare una formulazione dell'articolo di contenuto più sintetico rispetto a quella prevista nel testo base. Quest'ultimo conteneva infatti anche una indicazione di principio sugli strumenti attribuiti alle autorità per svolgere i compiti loro assegnati. In sintonia con il ruolo già da tempo assunto, sia nel nostro paese sia in altri ordinamenti, da questi organi di «amministrazione giustiziale», si riconoscevano ad essi poteri di regolazione imparziale, di irrogazione di sanzioni amministrative e di proposta di risoluzione di controversie, demandando alla legge il compito di stabilire i termini di impugnazione, anche in unico grado, dei relativi atti.
La Commissione ha tuttavia scelto, in questa fase, di rinunciare all'inserimento nel testo costituzionale di tali indicazioni, preferendo una norma di carattere meno dettagliato, al fine di definire una disciplina costituzionale più elastica rispetto ad un fenomeno che appare tuttora in forte evoluzione.


2. La Banca d'Italia

La Commissione ha esaminato l'ipotesi di inserire nel testo costituzionale un articolo riguardante la Banca d'Italia, secondo l'indicazione contenuta in una serie di proposte e disegni di legge assegnati alla Commissione stessa.
Una prima formulazione in proposito era stata presentata da quel relatore nell'ambito del testo base proposto sulla partecipazione dell'Italia all'Unione europea. Nel corso della discussione di quel testo, la Commissione ha ritenuto tuttavia opportuno rinviare la considerazione della materia all'esame degli articoli riguardanti le autorità di vigilanza e di garanzia. Pur essendo la posizione e le funzioni della Banca d'Italia indubbiamente contrassegnate in senso assolutamente peculiare anche rispetto alle autorità indipendenti, alcune delle problematiche poste dall'eventuale inserimento in Costituzione di una disciplina riguardante questo istituto sono analoghe a quelle poste da questi enti, e si è pertanto deciso di affrontare in un quadro complessivo le questioni riguardanti la materia.
Avendo avuto l'incarico dalla Commissione di predisporre una nuova ipotesi di formulazione della disposizione costituzionale riguardante la Banca d'Italia, ho in primo luogo ritenuto inopportuno procedere nel senso di includere la Banca tra gli «organi ausiliari» previsti dall'articolo 100 della vigente Costituzione. Ciò contrasterebbe con il principio dell'autonomia delle Banche centrali nazionali, oltre che della Banca centrale europea, affermato esplicitamente all'articolo 7 del protocollo sul Sistema europeo di banche centrali (SEBC) allegato al trattato dell'Unione europea. Al riguardo, va sottolineato che tale sistema è composto dalla Banca centrale europea e dalle Banche centrali degli Stati membri.
Quanto alla eventuale indicazione in Costituzione delle competenze da affidare alla Banca d'Italia, si può rilevare che:


il riferimento alla tutela della moneta nazionale deve tenere conto del fatto che, a partire dal 1^ gennaio 1999, avrà comunque inizio la terza fase del processo di realizzazione dell'Unione monetaria (articolo 109 J del Trattato) il cui esito è costituito dalla sostituzione delle monete nazionali con l'Euro;


l'eventuale riferimento alla stabilità dei prezzi dovrebbe essere integrato alla luce delle disposizioni di cui all'articolo 105 del Trattato, secondo le quali la stabilità costituisce l'obiettivo principale del Sistema europeo delle banche centrali. Il medesimo articolo prevede inoltre che a tal fine il Sistema definisce ed attua la politica monetaria della Comunità; conseguentemente, tale funzione non potrà essere svolta in via esclusiva dalle singole Banche centrali dei paesi membri che, in base all'articolo 14 del citato protocollo, «agiscono secondo gli indirizzi e le istruzioni della Banca centrale europea»;


relativamente ai poteri di vigilanza sul sistema creditizio, va tenuto presente che l'attuale normativa vigente nel nostro paese (TU bancario, adottato con decreto del Presidente della Repubblica n. 385/93 e decreto del Presidente della Repubblica n. 415/96 cosiddetto «EUROSIM») affida alla Banca d'Italia poteri assai ampi anche nei confronti di altri soggetti finanziari. Peraltro, in materia di vigilanza prudenziale, l'articolo 25 del protocollo citato prevede che la Banca centrale europea possa «svolgere compiti specifici». Va infine considerato che, nell'ambito del dibattito in corso sul riassetto del settore creditizio, sulle problematiche relative ai poteri di vigilanza, alle modalità del loro esercizio e all'individuazione del soggetto cui affidarne la titolarità, sono emerse opinioni abbastanza differenziate.
In conclusione, la eventuale «costituzionalizzazione» della Banca d'Italia potrebbe tradursi in primo luogo nell'affermazione dell'autonomia della Banca, ed eventualmente nel recepimento di ulteriori disposizioni contenute nel trattato sull'Unione europea. Quanto alla ipotesi di includere la disciplina della Banca d'Italia tra le materie riservate alla potestà legislativa statale, è necessario comunque che ciò non avvenga in contrasto con il principio dell'autonomia.
Sulla base di queste premesse, ho proposto all'esame della Commissione due ipotesi di disposizione costituzionale riguardante la Banca d'Italia.
La prima ipotesi era del seguente tenore: «La Banca d'Italia svolge le sue funzioni in materia monetaria e di vigilanza sul sistema creditizio sulla base delle disposizioni stabilite con legge approvata da entrambe le Camere. La legge assicura l'autonomia dell'istituto e disciplina le modalità di nomina e la durata del mandato del Governatore».
La seconda versione era del seguente tenore: «La Banca d'Italia svolge le sue funzioni sulla base delle disposizioni stabilite con legge approvata da entrambe le Camere. La legge assicura l'autonomia dell'istituto e disciplina le modalità di nomina e la durata del mandato del Governatore».
Come si può constatare, la seconda versione si differenziava dalla prima per il suo carattere più sintetico, rinunciandosi in essa alla definizione direttamente nel testo costituzionale di un nucleo minimo di competenze della Banca, in materia monetaria e di vigilanza sul sistema creditizio. Entrambi gli articoli rinviavano invece alla legge il compito di assicurare l'autonomia dell'istituto e di stabilire le modalità di nomina e la durata in carica del Governatore.
Tale ultima indicazione era in particolare introdotta con l'intento non certo di comprimere l'autonomia della Banca in merito alle scelte riguardanti gli organi statutari, quanto di garantire con fonte di rango legislativo alcuni requisiti minimi attinenti le condizioni di indipendenza dei vertici dell'istituto (in proposito va ricordato, ad esempio, che l'articolo 14 del protocollo sul sistema europeo delle Banche centrali stabilisce che gli statuti delle Banche centrali debbano prevedere che il mandato del Governatore non abbia durata inferiore a cinque anni).
Nel corso del dibattito in Commissione si è tuttavia ritenuto ancora non sufficientemente maturato il raggiungimento di un soddisfacente equilibrio tra il riconoscimento dell'autonomia della Banca, avente a base la fonte statutaria, e il fondamento legislativo delle importanti funzioni riconosciute a questo istituto. Si è pertanto deciso di rinviare alla successiva fase dei lavori della Commissione la definizione dell'eventuale disposizione costituzionale riguardante la Banca d'Italia.
È importante infine segnalare che, nel corso del dibattito in Commissione, si è da più parti sottolineato come il mancato inserimento di un'espressa previsione costituzionale sulla Banca non comporti in alcun modo l'assimilazione della disciplina costituzionale dell'istituto a quella prevista dall'articolo 82 del progetto sulle autorità di vigilanza e garanzia, che prevede la nomina parlamentare dei componenti dei rispettivi organi. Tale modalità di nomina è ovviamente incompatibile con il ruolo e le caratteristiche degli organi direttivi della Banca d'Italia.


3. Il difensore civico

Il testo base sul sistema delle garanzie, adottato dalla Commissione nella seduta del 3 giugno, prevedeva anche un articolo finalizzato a stabilire i principi costituzionali riguardanti l'ufficio del difensore civico.
La disposizione era stata formulata guardando sia alla disciplina contenuta in materia in alcune costituzioni europee (e nel Trattato sull'Unione europea che definisce i compiti del mediatore europeo), sia alla concreta esperienza svolta nel nostro paese dai difensori civici in ambito regionale e locale.
L'introduzione di una norma costituzionale, da collocarsi nella sezione riguardante la pubblica amministrazione, riguardante questo istituto era parsa opportuna al fine di definire un ulteriore strumento di garanzia dei cittadini nei confronti della amministrazione, in un quadro che, soprattutto a livello locale, sembra destinato, sulla base delle innovazioni introdotte dal progetto proposto dalla Commissione, a subire profonde modificazioni.
Le disposizioni sulla nuova articolazione delle autonomie affrancano, infatti, le amministrazioni locali dal pervasivo vincolo alla legge che le ha sin qui caratterizzate e determinano la scomparsa del sistema dei controlli preventivi e successivi oggi esistente. Si tratta di innovazioni che non possono essere valutate che positivamente, ma che pongono oggettivamente il problema di un ripensamento degli istituti di tutela nei confronti dell'attività amministrativa. Significativamente, lo stesso testo base sulla forma di Stato, adottato dalla Commissione, prevedeva anch'esso l'istituzione del difensore civico, annoverandola addirittura quale principio generale di organizzazione in tutte le pubbliche amministrazioni.
Riprendendo queste indicazioni, l'articolo contenuto nel testo base sul sistema delle garanzie ipotizzava di definire il difensore civico quale organo provvisto della facoltà di proporre la risoluzione delle controversie tra i cittadini e l'amministrazione e del potere di segnalazione agli organi competenti dei casi di cattiva amministrazione riscontrati, anche ai fini dell'azione di responsabilità nei confronti dei funzionari e dei dipendenti pubblici.
La Commissione ha tuttavia ritenuto per il momento non opportuno inserire nel progetto l'articolo in questione. A parere del relatore, rimane aperta la necessità di individuare comunque , nella successiva elaborazione del progetto di riforma costituzionale, una risposta alle esigenze che erano alla base della disposizione proposta.


4. La Magistratura

4.1. Unità funzionale della giurisdizione

Venendo ora all'illustrazione delle problematiche relative alle disposizioni sulla magistratura, recate dal Titolo IV della parte seconda della Costituzione vigente, che nel testo approvato dalla Commissione sono previste nel nuovo Titolo VI (articoli da 119 a 133), va ricordato che il Comitato istituito per l'esame istruttorio delle norme in materia di «sistema delle garanzie» aveva iniziato i propri lavori affrontando i problemi relativi all'unità o pluralità della giurisdizione. Si era infatti giustamente ritenuto che la soluzione di tale questione fosse preliminare alla complessiva impostazione delle disposizioni relative alla giustizia.
Come tutti sanno, la giurisdizione è l'affermazione dell'ordinamento nel caso concreto e rappresenta, quindi, un momento indefettibile della società organizzata e una condizione di esistenza dell'ordinamento giuridico.
Della giurisdizione (prescindendo da quella costituzionale, sulla quale ci si soffermerà più diffusamente nella parte conclusiva di questa relazione) si riconoscono vari tipi, in ragione della natura degli interessi tutelati. La giurisdizione civile (distinta in contenziosa e volontaria), che regola le controversie tra i privati e, in certi - eccezionali - casi, tra i privati e la pubblica amministrazione; quella penale, diretta a tutelare l'interesse della collettività rispetto a taluni valori fondamentali mediante l'irrogazione di una pena a coloro che li abbiano violati e, infine, la giurisdizione amministrativa, che, nel sistema vigente, tutela gli interessi legittimi, e in alcuni casi eccezionali i diritti soggettivi, dei cittadini lesi da un atto della pubblica amministrazione. I giudici cosiddetti ordinari (ossia quelli indicati all'articolo 1 dell'ordinamento giudiziario) amministrano la giurisdizione civile e quella penale (tranne che la giurisdizione penale militare, riservata alla competenza di appositi tribunali).
La Costituzione vigente vieta peraltro l'istituzione di giudici straordinari o speciali (articolo 102, secondo comma) e la VI disposizione transitoria prevedeva la revisione entro un quinquennio degli organi di giurisdizione speciale, facendo peraltro salva quella del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dei tribunali militari.
Al riguardo si deve tuttavia far presente sin d'ora che, fermo restando il divieto di istituzione di giudici straordinari, nell'ambito dei lavori del Comitato sul sistema delle garanzie si era da più parti ritenuto di grande interesse - e corrispondente all'attuale evoluzione degli ordinamenti giuridici in relazione a quella delle società moderne - l'ipotesi di abolire il divieto di istituzione dei giudici speciali in materia diversa da quella penale, al fine di dare una risposta efficace al concreto bisogno di giustizia sempre più avvertito nella società. Su tale questione, tuttavia, ci si soffermerà più diffusamente in seguito.
Nel corso dei lavori del Comitato, in un primo momento, come peraltro accadde anche all'Assemblea costituente (le cui vicende, almeno su questo punto specifico, sono state ripercorse, per alcuni aspetti, con singolare coincidenza), era peraltro emersa la prevalenza di un'ipotesi favorevole all'unità sostanziale della giurisdizione. Si tratta di quella complessiva impostazione per effetto della quale tutte le attuali giurisdizioni sarebbero state ricondotte ad unità, da realizzarsi in capo ad un'unica magistratura, che, quindi, non sarebbe più stata a quel punto «ordinaria». Di conseguenza il cittadino, con una semplificazione da non sottovalutare, avrebbe potuto rivolgersi ad un solo giudice - che sarebbe stato ovviamente organizzato mediante un'articolazione in sezioni specializzate - per la decisione di qualsiasi tipo di controversia, indipendentemente dalla natura delle posizioni soggettive che avesse inteso far valere.
In sede di Assemblea costituente, com'è noto, Piero Calamandrei si era espresso in favore del giudice unico, con la conseguente soppressione delle giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti: l'unità della giurisdizione, in quest'ottica, era vista come scelta strumentale al raggiungimento degli obiettivi dell'indipendenza del giudice, della certezza del diritto, della semplificazione dell'ordinamento giudiziario e alla riduzione della giurisdizione ad un ordine unico. Invece, la tendenza favorevole alla conservazione delle giurisdizioni speciali di giustizia amministrativa sosteneva la scelta in favore del principio della pluralità delle giurisdizioni, considerandolo un correttivo alle insufficienti risorse ed attitudini della giurisdizione ordinaria a far fronte agli aspetti eterogenei di una società moderna. Tale posizione era rappresentata principalmente dalle posizioni di Costantino Mortati ed ebbe alla fine sostanzialmente il sopravvento.
La dottrina dominante, con tesi peraltro condivisa dalla Corte costituzionale (v. le sentenze n. 41 del 1957, n. 48 del 1959, n. 117 del 1963), ritiene tuttavia che la Costituzione abbia operato una scelta in favore dell'unità della giurisdizione, nel senso che eventuali deroghe a tale principio sono comunque ammissibili solo nei casi ammessi dal Costituente. La rilevanza di tali deroghe ha, tuttavia, indotto altra parte della dottrina a ritenere che il principio dell'unità della giurisdizione sia stato comunque sostanzialmente svuotato di contenuto e non costituirebbe altro se non una formula vuota, dietro la quale si cela la vera scelta sostanziale, improntata al criterio del pluralismo giurisdizionale.
Comunque sia, il vigente sistema costituzionale si impernia: sull'adozione di un principio unitario di massima, con i temperamenti e le eccezioni prima illustrati; sulla previsione del criterio della specializzazione; sulla previsione specifica di giudici speciali amministrativi e sulla revisione del giudici speciali istituiti prima dell'entrata in vigore della Costituzione. Questo impianto istituzionale, in ultima analisi, ha dato origine ad una sorta di sistema intermedio, in cui il principio unitario coesiste con rilevanti e frequenti applicazioni di quello pluralistico.
Da un più ampio punto di vista, si può forse ritenere al riguardo che la persistenza di organi di giurisdizione amministrativa rappresenti le tracce ancora visibili dello Stato amministrativo nel tessuto dello Stato di diritto, dello Stato parlamentare e dello Stato democratico Come sempre accade quando un'entità subentra ad un'altra e le nuove strutture si sostituiscono alle precedenti adattandole alla nuova realtà, dopo anni le antiche presenze assumono nuove forme che ne rendono riconoscibile solo a fatica l'origine.
Nel corso dei lavori del Comitato, successivamente alla presentazione della prima ipotesi di articolato il 3 aprile 1997 e a seguito della conseguente nuova fase di dibattito, era tuttavia prevalsa un'ulteriore ipotesi, che è stata denominata di unità funzionale della giurisdizione. Si tratta di una differente impostazione, per effetto della quale continua a sussistere la distinzione tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa, le quali vengono in ogni caso ricondotte ad un più ampio grado di coordinamento e di unitarietà nei termini che meglio verranno illustrati di seguito.
Prendendo doverosamente atto di tale orientamento divenuto prevalente, a partire dal 15 aprile sono stati conseguentemente predisposti diversi articolati improntati a tale principio dell'unità funzionale della giurisdizione, che caratterizza quindi anche il testo approvato dalla Commissione.
Non posso, tuttavia, sottacere che il relatore avrebbe continuato a preferire l'ipotesi dell'unità sostanziale della giurisdizione, la cui approvazione avrebbe potuto determinare una più compiuta svolta storica e istituzionale nel mondo della giurisdizione e avrebbe forse facilitato i suoi rapporti con i cittadini.
Venendo all'illustrazione dell'articolato, si deve preliminarmente rammentare e sottolineare che l'opinione del Comitato era stata unanime nel ritenere che un qualsivoglia giudice non può (e non deve) comunque svolgere sia funzioni consultive (o funzioni di controllo), sia funzioni giurisdizionali. Tale opinione, peraltro, è stata condivisa dalla Commissione, che ha approvato un testo di revisione dell'articolo 100 della Costituzione vigente (ora corrispondente all'articolo 83 del progetto di legge costituzionale approvato nella seduta del 30 giugno) coerente con il principio esposto, respingendo emendamenti diretti a mantenere in capo ad un unico organo istituzionale (rispettivamente Consiglio di Stato e Corte dei conti) funzioni consultive o di controllo accanto a funzioni giurisdizionali.
Coerentemente con questa scelta, il nuovo articolo 83 (già articolo 100), attribuisce al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti solo funzioni rispettivamente consultive e di controllo, collocando tali istituti esclusivamente nell'ambito della nuova sezione III («Autorità di garanzia e organi ausiliari») del nuovo Titolo III («Il Governo») della seconda parte della Costituzione. Tale sezione ha mutato titolo in quanto ricomprende anche le autorità di garanzia e di vigilanza, previste all'articolo 82.
Il rilievo della funzione di consulenza giuridico-amministrativa affidata al Consiglio di Stato si dimostra, peraltro, sempre più significativo anche in relazione alla complessità dell'attività normativa svolta dal Governo e dalle pubbliche amministrazioni. Del resto, tale funzione, in prospettiva, ed anche alla luce del complessivo impianto di riforma della forma di Stato e della forma di governo previsto dal progetto di legge approvato dalla Commissione, acquisterà un'importanza sempre maggiore. In questo contesto devono quindi essere ancor più valorizzate le competenze in grado di rendere tali attività coordinate ed efficaci; si tratta, infatti, di un nodo istituzionale di grande importanza, dal quale dipende in definitiva l'efficacia stessa della macchina amministrativa.
L'articolato approvato dalla Commissione prevede, quindi, all'articolo 121, comma 1 (corrispondente all'articolo 103, comma 1 della Costituzione vigente) l'istituzione della Corte di giustizia amministrativa, alla quale sono affidate esclusivamente funzioni giurisdizionali. Il sistema di giustizia amministrativa è completato dalla previsione espressa, sempre al citato articolo 121, comma 1, dei tribunali amministrativi regionali (scelta coerente anche con la soppressione dell'articolo 125 della Costituzione vigente, che al secondo comma prevede l'istituzione nelle Regioni di organi di giustizia amministrativa di primo grado). Peraltro il relatore ha presentato un emendamento che prevede di meglio denominare tali organi giurisdizionali definendoli «Tribunali di giustizia amministrativa», in coerenza con l'istituzione della Corte di giustizia amministrativa, scelta che potrà comunque essere fatta nella seconda fase dei lavori referenti della Commissione.
Nella stessa direzione si pongono le disposizioni previste dal secondo comma dell'articolo 83 del testo approvato dalla Commissione (anch'esso approvato dalla Commissione dopo aver respinto una serie di emendamenti modificativi), relative alle nuove funzioni attribuite alla Corte dei conti, chiamata ad una profonda ed incisiva trasformazione delle sue funzioni di controllo. Tale scelta si colloca in una linea evolutiva coerente sia con la più recente normativa in materia di bilancio, sia con la ormai indifferibile esigenza di passare da ipotesi basate su un mero riscontro di legittimità formale ad una nuova e più moderna prospettiva volta, invece, al controllo successivo dell'efficienza e dell'economicità dell'azione amministrativa. Si deve d'altra parte sottolineare che il testo approvato non fa riferimento al parametro di controllo dell'efficacia, previsto da alcuni emendamenti non accolti, in quanto tale parametro avrebbe presupposto in capo alla Corte dei conti lo svolgimento di valutazioni di merito tali da coinvolgere responsabilità di natura politica.
La Corte dei conti è quindi chiamata ad una grande sfida per contribuire alla crescita del Paese, ed è certo che un istituto di così grandi tradizioni saprà raccoglierla e affrontare nel migliore dei modi le difficoltà che un cambiamento di tali dimensioni richiede, non solo in ordine alle strutture ma anche alla mentalità ed alla professionalità dei suoi componenti. In questa rinnovata prospettiva sarà sicuramente superata la comprensibile tentazione della difesa di posizioni e competenze (quali il controllo di legittimità formale del singolo atto), che riflettono esigenze non più primarie per uno Stato moderno, il quale deve affrontare la sfida della complessità e funzionalità dell'apparato pubblico nella prospettiva europea e della globalizzazione.
Per concludere la trattazione relativa agli organi ausiliari del Governo, è necessario infine rilevare che la Commissione ha approvato un emendamento con il quale si introduce un quarto comma all'articolo 83 (già articolo 100). Tale disposizione prevede la costituzionalizzazione delle funzioni di rappresentanza, patrocinio ed assistenza svolte dalla Avvocatura dello Stato in favore delle amministrazioni dello Stato, rinviando peraltro alla legge per la definizione degli altri compiti assegnati a tale istituto. Peraltro, di fronte ad emendamenti, respinti, che tendevano ad introdurre formulazioni più ampie rispetto a quella approvata, si deve far presente che quest'ultima, da un lato, individua le funzioni più propriamente relative agli aspetti di difesa tecnica svolte dall'Avvocatura dello Stato e, dall'altro, consente il rispetto sia delle autonomie regionali e locali, sia delle altre funzioni svolte dalla stessa Avvocatura dello Stato.
Secondo l'impianto sistematico approvato dalla Commissione, sulla base della complessiva riorganizzazione della giurisdizione alla stregua del criterio della sua unità funzionale, è stata conseguentemente prevista l'attribuzione delle funzioni giurisdizionali relative alla responsabilità patrimoniale dei pubblici funzionari nelle materie di contabilità pubblica agli organi della giustizia amministrativa, come previsto dal secondo comma del citato articolo 121.
Sempre in ordine a tale disposizione, va sottolineato che questa ulteriore attribuzione di competenza al giudice amministrativo non si pone in contrasto con la natura di tale organo giurisdizionale, specie se si ha riguardo alla evoluzione - in gran parte già in atto sia nella giurisprudenza sia, principalmente, nella più recente legislazione - delle funzioni svolte dal giudice amministrativo. Questo giudice è destinato, infatti, ad assumere in futuro competenze di merito di livello tale da rendere presto obsoleta la tradizionale formula secondo la quale sarebbe il giudice degli atti. Al riguardo va nuovamente ribadito che una riforma di livello costituzionale non deve tanto limitarsi a registrare l'esistente, quanto, essendo per sua natura destinata a durare nel tempo, assecondare ed anche stimolare le linee di sviluppo della società e delle sue istituzioni.
In via generale, e sempre nel rispetto del principio adottato dell'unità funzionale della giurisdizione, il testo approvato opera una conseguente e piena equiparazione dei giudici amministrativi a quelli ordinari quanto a status, funzioni e disciplina (punto che verrà affrontato diffusamente più avanti, in ordine alla disciplina delle incompatibilità, dell'autogoverno e della nomina dei magistrati).
Una rilevante novità introdotta in materia con lo stesso primo comma dell'articolo 121 (già articolo 103 della Costituzione vigente), e sulla quale era stata amplissimamente convergente l'orientamento del Comitato sul sistema delle garanzie, è invece quella relativa al diverso criterio di riparto della giurisdizione tra giudici ordinari ed amministrativi.
Il riparto di giurisdizione viene, infatti, oggi effettuato sulla base della posizione soggettiva che si intende far valere di fronte alle diverse giurisdizioni e, pertanto, ci si rivolge al giudice ordinario quando si verte in materia di diritti soggettivi e a quello amministrativo se si tratta, invece, di interessi legittimi (e, in alcuni casi specifici, in verità, anche di diritti soggettivi).
La dottrina si è lungamente affannata per elaborare validi criteri distintivi fra diritti soggettivi e interessi legittimi. Volendo dar conto solo delle più note ed autorevoli teorie in materia, basti ricordare che, secondo la teoria tradizionale, tale distinzione avviene in base alla natura dell'interesse (il diritto soggettivo sarebbe una posizione perfetta, mentre l'interesse legittimo avrebbe minore consistenza) ovvero secondo il criterio della tutela dell'interesse (il diritto soggettivo sarebbe tutelato in modo diretto dall'ordinamento, mentre l'interesse legittimo sarebbe protetto solo di riflesso ed in connessione con un interesse pubblico). Altri autori riferiscono invece la distinzione in questione alla natura della norma, sostenendo che la violazione di norme di relazione (da individuarsi in quelle che regolano i rapporti tra la pubblica amministrazione ed i cittadini) determina la lesione di un diritto soggettivo, mentre la violazione delle norme di azione (ossia di quelle poste per regolare l'esercizio dei poteri della pubblica amministrazione, imponendole un certo comportamento) comporterebbe, invece, la lesione di un interesse (legittimo o singolo) del cittadino. Altri autori ancora basano la distinzione sulla natura dell'attività esercitata, sicché il privato potrà vantare nei confronti della pubblica amministrazione un interesse legittimo se è leso da un atto discrezionale, un diritto soggettivo se è leso, invece, da un atto vincolato.
Le più recenti teorie in materia incentrano invece il criterio di distinzione sulla scorta della considerazione dell'interesse materiale protetto dall'ordinamento, sicché la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi andrebbe effettuata in base al grado e alle forme di protezione previste in relazione alla partecipazione del privato alla funzione amministrativa attiva ovvero in base al cattivo uso del potere, che determinerebbe la lesione di un interesse legittimo, o alla carenza del potere stesso, che comporterebbe, invece, la lesione di un diritto soggettivo.
Si tratta di teorie elaborate nel corso di una storia ormai secolare, che ha visto un cambiamento radicale dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, storia tutt'altro che conclusa, ma che, ai giorni nostri, vede un'evoluzione pressoché quotidiana e, soprattutto, vede cambiamenti qualitativi del rapporto stesso, i quali inducono a ritenere sorpassate e non più adeguate alla realtà tali gloriose ma ormai vecchie categorie giuridiche, il cui utilizzo mostra sempre più i segni dell'obsolescenza.
Il fin qui previsto criterio di riparto della giurisdizione sulla base della posizione soggettiva vantata dal privato nei confronti della pubblica amministrazione riflette, quindi, una situazione ormai non più rispondente all'evoluzione della realtà sociale in termini di maggiore complessità, necessariamente registrata dall'ordinamento giuridico nelle norme che costituiscono posizioni soggettive in capo ai destinatari delle stesse, e crea non pochi problemi.
Si è pertanto imposta la necessità di superare la dicotomia tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, per ancorare il riparto di giurisdizione a precisi criteri individuati dalla legge sulla base di materie omogenee. Conseguentemente a tale principio sono stati modificati gli articoli 103 e 113 della Costituzione vigente (rispettivamente 121 e 133 del testo approvato dalla Commissione). Al riguardo si deve infine segnalare che resta affidato alla Corte di Cassazione il compito di giudice del riparto della giurisdizione (vedi articolo 131, ultimo comma, corrispondente all'articolo 111, ultimo comma, della Costituzione vigente).
In materia di giurisdizione, oltre al più volte ricordato principio della unitarietà della funzione (v. articolo 120, comma 1, corrispondente all'articolo 102, comma 1, della Costituzione vigente), fermo restando il divieto di istituzione di giudici straordinari, è stata prevista, invece, come già accennato in precedenza, la possibilità di istituire giudici speciali in materia diversa da quella penale e per il solo giudizio di primo grado (essendo prevista la possibilità di un secondo grado solo per la giustizia tributaria), recependo con ciò indicazioni emerse nel corso dei lavori del Comitato sul sistema delle garanzie. È stato inoltre previsto che la legge stabilisca materie per le quali possono essere nominati giudici non professionali, anche al fine di giudizi di sola equità.
Tali disposizioni, come è auspicabile, consentiranno al legislatore ordinario di disporre di strumenti dotati di una maggiore elasticità per far fronte al bisogno di giustizia emergente nella società, che non sempre viene soddisfatto dagli uffici e dai servizi giudiziari ordinari, i quali, per una serie complessa di ragioni, non forniscono una risposta adeguata alla crescente domanda di giustizia.
Si tratta, quindi, di disposizioni di grande importanza, anche queste fortemente innovative nel nostro ordinamento e suscettibili di contribuire in larga misura al decongestionamento degli uffici giudiziari nonchè ad avvicinare la giustizia ai cittadini. Del resto, in alcune esperienze straniere, come in quella francese e, principalmente, inglese, i giudici speciali sono parte integrante della giurisdizione ed hanno dato esiti assai positivi.
Al riguardo, sembra che talune perplessità avanzate nei confronti dell'introduzione dei giudici speciali, beninteso tranne che in materia penale e per il solo giudizio di primo grado, siano determinate dallo stesso nomen iuris dell'organo, che richiama esperienze non felici nella storia della giustizia italiana. Forse altre resistenze sono determinate anche da una certa diffidenza nei confronti di organi che, per la loro stessa natura, adotteranno verosimilmente procedure più agili. Non si deve, tuttavia, dimenticare che si tratta comunque di organi giurisdizionali, soggetti ai principi processuali di cui si dirà più ampiamente nel seguito.
Il testo approvato dalla Commissione, inoltre, propone, all'ultimo comma del citato articolo 121 (già articolo 103), la soppressione della giurisdizione militare in tempo di pace, prevedendo tuttavia che i tribunali militari siano istituiti non solo per il tempo di guerra, ma anche in adempimento di obblighi internazionali. All'articolo 131, comma 2 (già articolo 111, comma 2, della Costituzione vigente), tuttavia, è stato previsto che si può derogare alla possibilità di ricorrere in Cassazione solo per le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale emessi dai tribunali militari in tempo di guerra (e non già per quelle emesse in occasione dell'adempimento dei citati obblighi internazionali).
In merito va ricordato che la competenza dei tribunali militari (che, per inciso, costituiscono un giudice speciale, come anche affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 48 del 1958) non può che essere considerata del tutto eccezionale. Nella prima parte della Costituzione, infatti, è solennemente affermato il principio secondo il quale l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (articolo 11) e l'impiego delle Forze armate è finalizzato alla difesa della Patria (articolo 52). In quest'ottica le modifiche proposte all'articolo 103, terzo comma, della Costituzione vigente (corrispondente all'articolo 121, terzo comma, del testo approvato dalla Commissione) rendono maggiormente coerente tale disposizione con i principi appena richiamati, contenuti nella prima parte della Costituzione stessa.

4.2 L'ordinamento giurisdizionale

4.2.1 Norme sull'ordinamento giurisdizionale
Il sistema giudiziario esistente in Italia, al momento in cui l'Assemblea costituente svolgeva i propri lavori, derivava in gran parte dall'organizzazione giudiziaria già istituita nel Regno di Sardegna, sul modello della legislazione francese, e incentrata sulla figura del giudice-funzionario.
Lo Statuto del 1848 sanciva la diretta emanazione della giustizia dal Re e, in generale, le disposizioni previste in materia dagli articoli 68-73 non davano alla magistratura un ordinamento autonomo ed indipendente. Nel 1859 il decreto Rattazzi strutturava la magistratura come un corpo sottoposto all'esecutivo, ponendo il Guardasigilli al vertice di tutti i funzionari giudiziari, alla carriera dei quali presiedeva, e configurando il pubblico ministero come rappresentante del potere esecutivo presso ogni autorità giudiziaria.
La legge n. 6878 del 1890 (cosiddetta «legge Zanardelli») cominciò ad aprire taluni spiragli per accentuare le garanzie di indipendenza dei giudici, garanzie che furono rafforzate dalla legge n. 1511 del 1907 (cosiddetta «legge Orlando»), la quale istituì un Consiglio superiore della magistratura con funzioni consultive-deliberative in materia di promozioni, che erano tuttavia sempre adottate con decreto del ministro, dalla legge n. 438 del 1908 che assicurò l'inamovibilità di sede e con il decreto n. 1978 del 1921 (cosiddetto «decreto Rodinò»), che previde l'elettività del Consiglio superiore della magistratura ed estese l'inamovibilità ai pretori.
In epoca fascista la legislazione fu, invece, caratterizzata da una inversione di tendenza, a partire dall'ordinamento giudiziario del 1923 che eliminò l'elettività del Consiglio, accentuando la struttura gerarchica degli uffici giudiziari. L'ordinamento giudiziario del 1941 (ancora per gran parte in vigore) disciplinò in maniera organica la dislocazione, le funzioni e la composizione degli organi giudizari, la carriera e lo status giuridico dei magistrati ordinari.
Subito dopo la fine della guerra, con il regio decreto legislativo n. 511 del 31 maggio 1946, furono ripristinate le garanzie di indipendenza dei giudici, in parte estese ai pubblici ministeri.
In sede di Assemblea costituente emersero vari orientamenti in ordine all'autogoverno della magistratura, al collegamento del pubblico ministero con l'esecutivo, alla sorte da riservare all'ufficio del Ministro della giustizia, alla realizzazione dell'unità della giurisdizione, mentre su altre questioni, quali il superamento della configurazione delegata della giurisdizione, l'accoglimento del principio di legalità dell'azione penale e l'eliminazione di ingerenze dell'esecutivo sui provvedimenti concernenti lo status dei magistrati, si registrò un sostanziale accordo sin dall'inizio della discussione
Il testo vigente della Costituzione, agli articoli 101-113, sostanzialmente si basa sui principi della differenziazione solo funzionale dei magistrati, della previsione delle garanzie del giudice, della collocazione del pubblico ministero nell'ordinamento giudiziario, della previsione del Consiglio superiore della magistratura come organo a composizione mista, nonchè sulla precisazione dei rapporti tra magistratura ed esecutivo.
Si deve peraltro notare che la dottrina ha rilevato taluni problemi di conciliabilità, ad esempio, tra la riconducibilità della funzione giudiziaria alla sovranità popolare, prevista dall'articolo 101, primo comma, ed il sistema di nomina per concorso, previsto dall'articolo 106; tra la distinzione dei magistrati solo per funzioni, prevista dal terzo comma dell'articolo 107, e il sistema di promozioni come sarebbe presupposto dall'articolo 105; tra la differenziazione del pubblico ministero dalla magistratura giudicante, previsto dal quarto comma dell'articolo 107, e la riconduzione dello stesso all'ordine giudiziario, prevista dal terzo comma del medesimo articolo 107.
Le disposizioni costituzionali vigenti si aprono con le affermazioni secondo le quali la giustizia è amministrata in nome del popolo (articolo 101, comma 1) e i giudici sono soggetti soltanto alla legge (comma 2).
La Costituzione afferma quindi, in limine, l'indipendenza e l'autonomia del giudice (come singolo), anticipando in tal modo quella dell'ordine giudiziario nel suo complesso (affermata dagli articoli 104-107), indipendenza ed autonomia che rappresentano un valore strumentale rispetto a quello della legalità e obiettività dell'amministrazione della giustizia.
L'articolo 101 (e, in particolare, il citato comma 2 di tale articolo) è stato oggetto di ampio ed approfondito dibattito nel Comitato sul sistema delle garanzie. Su tale materia, in verità, si sono registrate posizioni alquanto divergenti, riconducibili ad unità solo con una certa difficoltà e con uno sforzo capace di tener conto dell'approfondimento critico delle diverse posizioni a confronto.
Il testo approvato dell'articolo 119, comma 2 (corrispondente al comma 2 dell'articolo 101 della Costituzione vigente), modifica la disposizione costituzionale in esame, nel senso di rendere soggetti soltanto alla legge non solo i giudici ma anche i magistrati del pubblico ministero. Per far fronte agli eventuali problemi che potrebbero sorgere da una effettiva frantumazione delle attribuzioni in materia inquirente e per assicurare un certo grado di unitarietà nello svolgimento delle relative funzioni, il testo prevede anche che le norme sull'ordinamento giudiziario assicurano il coordinamento e l'unità di azione degli uffici del pubblico ministero.
La formulazione descritta, tuttavia, può prestare il fianco alla critica, che ha un qualche fondamento, secondo la quale mentre la soggezione alla legge è concetto che si riferisce agevolmente al giudice inteso come singolo (tenuto presente quanto prima esposto circa le relazioni tra tale principio e le norme di cui agli articoli 104 e 107 della vigente Costituzione), essa potrebbe invece dar luogo a difficoltà in riferimento alla sua applicazione al pubblico ministero che, come è noto, è un ufficio e non un giudice.
Tenendo conto di queste considerazioni critiche, il relatore aveva predisposto un emendamento che, prendendo in considerazione iniziative emendative assunte da più gruppi, era probabilmente suscettibile di far fronte ai rilievi critici evidenziati, confermando al tempo stesso l'indipendenza del pubblico ministero di fronte ad ogni potere. Tale emendamento, infatti, era del seguente tenore: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge. I magistrati del pubblico ministero sono indipendenti da ogni potere e godono delle garanzie stabilite nei loro riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Tali norme assicurano altresì il coordinamento interno dell'ufficio del pubblico ministero ed il coordinamento, ove necessario, delle attività investigative tra gli uffici del pubblico ministero». Trattandosi di una delle questioni su cui più a lungo si era concentrata l'attenzione del Comitato sul sistema delle garanzie e il dibattito della Commissione, ho ritenuto opportuno riportare integralmente tale emendamento, che la Commissione non ha potuto prendere in esame, in modo che esso possa costituire un punto di riferimento critico nella fase successiva dei lavori, insieme all'esame degli emendamenti che al riguardo saranno presentati dai deputati e dai senatori.
Sempre all'articolo 119 (corrispondente all'articolo 101 del testo della Costituzione vigente) sono stati introdotti principi di grande rilievo, già previsti nei disegni e nelle proposte di legge all'esame della Commissione e già largamente condivisi dal Comitato sul sistema delle garanzie.
Si tratta del principio del giusto processo, della ragionevole durata dello stesso, della necessità che il procedimento si svolga nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità davanti a un giudice imparziale e che sia informato al principio dell'oralità. Peraltro gli unici punti sui quali è emersa una differenziazione critica riguardano il riferimento al «procedimento» anzichè al «processo» e l'eventuale previsione del principio dell'oralità riferito soltanto al processo penale.
È stato inoltre approvato un ulteriore comma finalizzato, in relazione a quanto previsto dal comma 3 dell'articolo 24 della Costituzione, a rendere effettiva la possibilità di difendersi anche da parte dei non abbienti in ogni fase del procedimento. Al riguardo, per meglio precisare la natura ordinamentale della norma finalizzata alla esigenza sopra indicata, sia da parte del relatore che da parte di taluni gruppi era stato presentato un emendamento con la previsione dell'istituzione, per questa finalità, di «pubblici uffici di assistenza legale», e quindi la questione potrà essere riesaminata ed eventualmente meglio risolta nella fase successiva dei lavori della Commissione.
In relazione al terzo, quarto e quinto comma approvati nel testo di tale articolo 119, sono state formulate osservazioni riferite ad una loro migliore collocazione sistematica nell'ambito della sezione II, anzichè nella I, del Titolo della Costituzione riguardante la magistratura.
Ritenendo fondata tale esigenza di migliore collocazione sistematica, il relatore aveva presentato due emendamenti rivolti ad introdurre nella sezione II, subito prima dell'articolo 111 della Costituzione vigente (corrispondente all'articolo 131 del testo approvato dalla Commissione) due nuovi articoli.
Il primo di tali articoli era del seguente tenore: «Le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale. Non sono punibili fatti previsti come reato nei casi in cui non determinano una concreta offensività. Le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o estensivo. Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l'intera materia cui esse si riferiscono» (le ultime due disposizioni sono comunque contenute nei commi quarto e quinto del testo dell'articolo 131 approvato dalla Commissione). Il secondo articolo conteneva, collocati in modo sistematicamente più adeguato, il terzo, quarto e quinto comma (quest'ultimo riformulato con la previsione dei pubblici uffici di assistenza legale per la difesa dei non abbienti) dell'articolo 119 del testo approvato dalla Commissione, insieme alla costituzionalizzazione dei diritti della difesa (che nel testo approvato dalla Commissione sono recati dall'articolo 131, terzo comma). Tutta questa materia, sia sotto il profilo del contenuto sia sotto il profilo della collocazione sistematica, potrà quindi essere meglio affrontata, anche in questo caso, nella successiva fase dei lavori della Commissione.

4.2.2 Consiglio superiore della magistratura e pubblico ministero

Le tematiche relative al Consiglio superiore della magistratura, al pubblico ministero, all'azione penale sono state oggetto di approfonditi e ripetuti dibattiti nel Comitato sul sistema delle garanzie e nella Commissione.
Per quanto riguarda in particolare il Consiglio superiore della magistratura, le disposizioni previste dagli articoli 104 e 105 della Costituzione vigente, accanto alla garanzia di indipendenza funzionale del singolo giudice (prevista dall'articolo 101, secondo comma), pongono istituti volti a garantire l'indipendenza della magistratura nel suo complesso. Il Consiglio superiore della magistratura è appunto l'organo cui è affidato il compito di assicurare l'autonomia e l'indipendenza dell'ordine della magistratura.
Tale organo è non solo previsto, ma anche disciplinato in molteplici aspetti dall'articolo 104 della Costituzione vigente ed è stato istituito con la legge n. 195 del 1958, successivamente più volte modificata.
Il Consiglio è attualmente composto da 33 membri, dei quali 3 di diritto (il Presidente della Repubblica, che lo presiede ai sensi degli articoli 87 e 104 della Costituzione vigente, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione), 20 eletti da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie e 10 dal Parlamento in seduta comune tra professori di università in materie giuridiche ed avvocati dopo 15 anni di esercizio. I membri elettivi durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili.
I componenti di nomina parlamentare sono eletti dai due rami del Parlamento in seduta comune, a scrutinio segreto con la maggioranza dei tre quinti dell'Assemblea, che si riduce, nelle successive votazioni, a tre quinti dei votanti, mentre all'elezione dei componenti togati partecipano tutti i magistrati con voto personale, segreto e diretto; i togati sono eletti in collegi circoscrizionali, in ognuno dei quali sono presentate liste di candidati; il riparto dei seggi è disposto secondo il sistema proporzionale e sussiste una clausola di sbarramento del 9 per cento sul piano nazionale. Da più parti è stato rilevato che tale sistema elettorale rischia di favorire ed incentivare la «correntocrazia», brutta copia della partitocrazia, all'interno della magistratura, auspicando di conseguenza a tale riguardo una riforma elettorale, che non comporta revisione costituzionale.
Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura è eletto fra i componenti designati dal Parlamento, ha poteri propri e poteri delegati dal Presidente della Repubblica e, con il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione, compone il Comitato di presidenza, organo previsto dalla legislazione ordinaria. Per la validità delle deliberazioni del Consiglio è necessaria la presenza di almeno 14 magistrati e di almeno 7 componenti eletti dal Parlamento.
Per quanto riguarda i rapporti tra il Consiglio ed il Ministro della giustizia, prescindendosi ora dalla problematica relativa alla facoltà a questi attribuita di promuovere l'azione disciplinare, va ricordato che il Ministro, ai sensi dell'articolo 110 della Costituzione vigente, ha competenza in materia di predisposizione delle strutture materiali necessarie alla amministrazione della giustizia ma, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (v. la sentenza n. 168 del 1963), ha anche poteri che riguardano sia l'organizzazione degli uffici nella loro efficienza numerica, con l'assegnazione dei magistrati in base alle piante organiche, sia il funzionamento dei medesimi in relazione all'attività e al comportamento dei magistrati che vi sono addetti.
Peraltro, la legge n. 1198 del 1967 ha svincolato le deliberazioni consiliari in materia dalla richiesta dell'esecutivo, mentre rimane la necessità di un atto di proposta formulato da una commissione del Consiglio, di concerto con il Ministro della giustizia, per il conferimento degli incarichi direttivi. Tale disposizione ha dato tuttavia origine ad un conflitto di attribuzione, deciso dalla Corte costituzionale (v. la sentenza n. 379 del 1992) nel senso che il Consiglio ed il Ministro hanno un dovere di collaborazione leale e costruttiva per ricercare una concertazione, e solo se questa non viene raggiunta il Consiglio può disattendere l'avviso del Ministro.
Il Consiglio superiore della magistratura ha quindi funzioni amministrative, che attuano nel loro complesso l'organizzazione della giurisdizione e sono relative, da un lato, al funzionamento e all'organizzazione dello stesso Consiglio e, dall'altro, allo status dei magistrati (sia ordinari che onorari), e funzioni giurisdizionali, che svolge nell'ambito del procedimento disciplinare, volto ad accertare la responsabilità disciplinare dei magistrati. Nello svolgimento di tale ultima funzione, il Consiglio provvede a tutelare l'interesse oggettivo all'attuazione dell'ordinamento generale e si trova in una posizione di estraneità per effetto della quale opera dunque come un giudice (speciale) e le relative deliberazioni hanno quindi natura giurisdizionale.
La cognizione delle questioni disciplinari è devoluta ad una apposita sezione disciplinare, composta da 9 membri effettivi; il vicepresidente del Consiglio è membro di diritto della sezione, che è altresì formata da due componenti eletti tra quelli disegnati dal Parlamento e da sei componenti eletti tra quelli togati.
Le deliberazioni del Consiglio aventi natura amministrativa (adottate in conformità, a seconda dei casi, con decreto del Presidente della Repubblica ovvero con decreto del Ministro della giustizia) sono impugnabili di fronte al giudice amministrativo, il cui sindacato, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (v. la sentenza n. 44 del 1968) si estende ai vizi degli atti costituiti dalle statuizioni del Consiglio superiore, mentre le deliberazioni assunte in materia disciplinare, che hanno, come si è visto, natura giurisdizionale, sono ricorribili in Cassazione.
Accanto alle competenze in materia di status dei magistrati e disciplinare, espressamente attribuite dalla Costituzione vigente al Consiglio, si è tuttavia venuta configurando nella prassi una nuova ed ulteriore funzione, che è stata generalmente definita «paranormativa» e che consiste nella adozione ed emanazione di atti di varia tipologia (sostanzialmente riconducibili a regolamenti, determinazioni e circolari) di contenuto generale ed astratto.
La legittimità dello svolgimento di tale funzione ha suscitato più di una perplessità nel corso dei lavori del Comitato e della Commissione, ed in effetti essa sembra suscettibile in alcuni casi di determinare un effettivo spostamento di competenze dal potere legislativo in favore dell'organo di governo autonomo della magistratura. Questa questione, comunque, verrà affrontata più diffusamente in seguito, con particolare riferimento agli articoli 124 e 128 del testo approvato dalla Commissione (corrispondente agli articoli 105 e 108 della Costituzione vigente).
Le proposte e i disegni di legge assegnati alla Commissione, per le parti relative alle iniziative di riforma del Consiglio superiore della magistratura, erano quant'altre mai distanti tra loro, frutto di impostazioni ontologicamente differenti e difficilmente riconducibili ad unità. Mentre alcuni gruppi e singoli parlamentari proponevano distinti Consigli superiori per la magistratura requirente e quella giudicante (in coerenza peraltro con un'impostazione complessiva dei rapporti tra le varie funzioni), altri ritenevano invece valida l'attuale normativa costituzionale ed altri ancora prevedevano dovesse farsi espressa menzione del metodo elettorale e variamente diversificare le quote degli eletti dal Parlamento e dalla magistratura.
Il testo approvato dalla Commissione, relativamente alla tematica del Consiglio superiore della magistratura, rappresenta una proposta finalizzata ad individuare un possibile punto di equilibrio e di convergenza fra posizioni, come si è detto, originariamente assai diverse e distanti, senza rinunciare a nessuno dei principi affermati e garantiti dal vigente testo costituzionale.
Venendo all'illustrazione dell'articolato in questa materia, il testo approvato prevede due Consigli superiori della magistratura, uno per quella ordinaria ed uno per quella amministrativa (articoli 122, già articolo 104 della Costituzione vigente, e nuovo articolo 123). Per il Consiglio superiore della magistratura ordinaria è prevista una suddivisione in due sezioni (una per i magistrati giudicanti ed una per quelli del pubblico ministero), è previsto che sia eletto per tre quinti dai magistrati e per due quinti dal Senato della Repubblica, e che il Ministro della giustizia possa partecipare alle relative sedute senza diritto di voto e con facoltà di avanzare proposte e richieste.
Al riguardo va osservato che la disposizione relativa alla partecipazione alle sedute dei Consigli da parte del Ministro della giustizia si limita a costituzionalizzare quanto già previsto dalla legislazione ordinaria. La diversa proporzione tra i componenti «togati» e «laici», da una parte, rappresenta un punto di equilibrio tra le diverse e contrapposte proposte dei vari gruppi sulla questione della composizione dei Consigli e, dall'altra, consente una più efficace dialettica tra esponenti di istanze istituzionali comunque coinvolte nella vita della giustizia, anche tenendo conto della provenienza professionale (docenti universitari in materie giuridiche ed avvocati con almeno quindici anni di esercizio) dei componenti di nomina da parte del Parlamento, che è espressione della sovranità popolare. Va rilevato che il testo approvato mantiene comunque una netta prevalenza dei componenti eletti da parte della magistratura e che i paventati rischi di una eccessiva «politicizzazione» dei Consigli non dipendono tanto da un modesto incremento della componente «laica» di nomina parlamentare quanto piuttosto, e nella maggior parte dei casi, dalla esa-sperata politicizzazione interna e nei reciproci rapporti tra le varie correnti della magistratura, favorita anche dal particolare sistema elettorale attualmente vigente.
Per quanto riguarda, in modo specifico, la questione dell'organo cui affidare le competenze in materia disciplinare nei confronti dei magistrati, il testo approvato dalla Commissione prevede l'istituzione della Corte di giustizia della magistratura, con l'inserimento in Costituzione del nuovo articolo 125.
L'istituzione di tale organo, che trae la sua legittimazione dagli stessi organi di governo autonomo della magistratura (in quanto i componenti sono designati con elezione di secondo grado e non possono partecipare ad altra attività dei rispettivi Consiglio di provenienza), assicura una più ampia coerenza al sistema già delineato dalla Costituzione vigente e fornisce maggiori garanzie circa il corretto esercizio di questa particolare e delicatissima giurisdizione. L'istituzione della Corte di giustizia della magistratura consente inoltre di individuare una valida soluzione all'altro problema relativo alla impugnazione dei provvedimenti amministrativi assunti dai Consigli della magistratura ordinaria e amministrativa.
Peraltro talune iniziative emendative, presentate alla Commissione ma non esaminate, erano dirette a completare il quadro di riferimento delle disposizioni costituzionali in materia di azione disciplinare obbligatoria, attribuendo la relativa competenza non più al Ministro della giustizia ma ad un istituendo Procuratore generale. Tale organo, secondo i citati emendamenti, sarebbe nominato dal Presidente della Repubblica tra coloro che hanno i requisiti per la nomina a giudice della Corte costituzionale e godrebbe della garanzia dell'indipendenza da ogni potere. Coerentemente, allo stesso Procuratore generale sarebbe anche attribuita la funzione ispettiva sul corretto funzionamento degli uffici giudiziari, attualmente posta in capo al Ministro della giustizia. Per il rafforzamento dell'indipendenza del ruolo di tale Procuratore generale sarebbero infine previste non solo una norma di rigorosa incompatibilità con altre cariche ed uffici, ma una ulteriore norma per stabilire un congruo periodo di incompatibilità con l'assunzione di qualunque carica pubblica successivamente alla cessazione delle funzioni. Anche questa materia sarà presumibilmente esaminata dalla Commissione nella fase successiva dei propri lavori.
Nel sistema costituzionale, dopo le disposizioni sulla composizione dei Consigli superiori della magistratura ordinaria e amministrativa, sono previste quelle sulle competenze di tali organi.
Il Comitato sul sistema delle garanzie ha lungamente discusso, con riferimento all'articolo 124 dell'articolato approvato dalla Commissione, corrispondente all'articolo 105 del testo della Costituzione vigente, sul modo più efficace per assicurare che le funzioni amministrative affidate ai Consigli superiori mantengano tale natura. Per assicurare tale esigenza, il testo approvato precisa che spettano ai Consigli «esclusivamente le funzioni amministrative» riguardanti le materie già oggi puntualmente indicate dall'articolo 105 della Costituzione vigente. D'altra parte il relatore aveva presentato alla Commissione un emendamento finalizzato ad aggiungere esplicitamente, tra tali competenze, anche quella relativa alla «formazione» dei magistrati, questione che anche in questo caso potrà essere affrontata nella fase successiva dei lavori della Commissione.
Un'altra tematica su cui sia il Comitato sul sistema delle garanzie sia la Commissione si sono particolarmente soffermati è quella relativa alla distinzione delle funzioni tra magistrati giudicanti e magistrati del pubblico ministero.
Si tratta di una questione che ha lontane origini storiche e che ha accompagnato per secoli la dialettica istituzionale in relazione all'evoluzione degli ordinamenti giuridici moderni e contemporanei, principalmente con riferimento al bilanciamento dei poteri ed alla definizione delle competenze tra gli organi dello Stato.
Prescindendo dalle prime origini dell'istituto del pubblico ministero, che possono essere individuate in alcuni istituti del diritto romano, l'organo in esame, ossia un complesso di uffici pubblici cui viene demandato il compito di proporre azioni o intervenire in giudizi promossi da privati, comincia a delinearsi in termini moderni negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione francese, mostrando peraltro immediatamente quei caratteri di ambiguità che hanno sempre accompagnato la storia dell'istituto, tanto che il decreto dell'Assemblea nazionale sull'organizzazione giudiziaria del 16-24 agosto 1790 (che avrebbe poi ispirato tutte le legislazioni europee in materia) da un lato confermava l'appartenenza degli uffici del pubblico ministero all'ordine giudiziario, mentre dall'altro li definiva agenti del potere esecutivo presso i tribunali.
Questi riferimenti sono sufficienti a chiarire come i problemi, che ancor oggi vengono dibattuti, affondino le loro radici nella storia. Si tratta di tematiche intimamente connesse alla nascita della stessa democrazia e, comunque, investono imprescindibili aspetti di bilanciamento dei poteri, la cui struttura determina la forma di governo di un ordinamento. Con ciò non si intende certo affermare che il problema della definizione della natura dell'organo pubblico ministero - e dei suoi rapporti con le altre istituzioni, segnatamente con l'esecutivo - sia determinante ai fini della qualificazione di un certo ordinamento come democratico o meno. Ben si sa, infatti, che, in ordinamenti di Stati che hanno rappresentato e rappresentano un esempio di democrazia, il pubblico ministero è posto alle dipendenze dell'esecutivo, mentre in altre, non meno democratiche, quest'organo è variamente sottratto alle ingerenze governative. Non siamo di fronte ad un dogma della democrazia, e sul punto non devono quindi scatenarsi guerre di religione. La risposta, per ciascun Paese, nasce dalla sua storia, dalle sue tradizioni, dalla particolare struttura della società civile e di quella politica, dal delicato meccanismo di pesi e contrappesi istituzionali, di cui esso è o non è dotato.
Per quanto riguarda la storia italiana, dalla legge del 1865, per la quale i magistrati del pubblico ministero costituivano un ruolo a se stante, si è passati, attraverso alterne vicende, all'unificazione dei ruoli, per poi porre, con l'articolo 69 dell'ordinamento giudiziario del 1941, il pubblico ministero alle dipendenze del Ministro della giustizia e, successivamente, ad individuarne talune garanzie di indipendenza, pur non coincidenti con quelle dei giudici, con il regio decreto legislativo n. 511 del 1946.
In sede di Assemblea costituente il problema della natura promiscua delle funzioni del pubblico ministero (ossia dell'attribuzione a tale organo di funzioni giurisdizionali - nel rito penale dell'epoca, ad esempio, ordini di cattura e concessione della libertà provvisoria - ed esecutive) fu ampiamente sottolineato e dibattuto e, com'è ben noto, si scontrarono due opposte tendenze, rispettivamente riconducibili ai progetti Calamandrei e Leone, la prima delle quali favorevole all'indipendenza dell'organo e la seconda, invece, a configurarlo come organo del potere esecutivo. Prevalse una tesi intermedia, la cui approvazione ha dato origine al testo del comma 4 dell'articolo 107 della Costituzione vigente, secondo il quale il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario.
Tale disposizione, da leggersi anche in relazione all'articolo 101, secondo comma, della Costituzione vigente («I giudici sono soggetti soltanto alla legge»), evidenzia il livello non costituzionale delle garanzie riconosciute al pubblico ministero. Si deve però osservare che comunque la Costituzione riconosce la necessità di tali garanzie, che il primo comma dello stesso articolo 107 estende anche al pubblico ministero la garanzia di inamovibilità prevista per i giudici, che le stesse garanzie oggettive assicurate all'intero ordine giudiziario dall'esistenza del Consiglio superiore della magistratura sono evidentemente riconosciute anche ai magistrati inquirenti e che lo stesso obbligo di esercitare l'azione penale per più versi sottintende e presuppone l'indipendenza del pubblico ministero. In ogni caso si deve rilevare che la legislazione post-costituzionale è stata caratterizzata da un progressivo avvicinamento ed assimilazione del regime giuridico dei magistrati inquirenti a quello dei giudici.
Uno degli elementi che accomunano giudici e pubblici ministeri nel vigente testo costituzionale è costituito dal sistema di nomina, che, secondo quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 106 vigente, ha luogo per concorso, il che, come è stato sostenuto in dottrina e riconosciuto dalla Corte costituzionale (v. la sentenza n. 49 del 1968), costituirebbe una ulteriore garanzia di indipendenza posta in favore dei magistrati inquirenti.
Prima di passare all'illustrazione del testo dell'articolo 126 approvato dalla Commissione (corrispondente all'articolo 106 della Costituzione vigente), occorre ricordare che le norme in questione sono state oggetto di ampio ed approfondito dibattito nel Comitato sul sistema delle garanzie e successivamente nella Commissione: si tratta, infatti, di una questione rispetto alla quale le posizioni originarie dei vari gruppi erano assai lontane.
Il testo approvato all'articolo 126, comma 1, del testo approvato dalla Commissione, dispone anzitutto che anche i magistrati amministrativi non possono essere nominati se non per concorso e prevede che la nomina è condizionata al positivo esperimento di un periodo di tirocinio.
Nel nuovo sistema dell'unità funzionale della giurisdizione, nel quale i magistrati ordinari ed amministrativi sono totalmente equiparati quanto a status e garanzie, sarebbe infatti una grave incongruenza ipotizzare che i magistrati amministrativi possano, sia pur parzialmente, essere nominati dal Governo. Ci sarebbe da chiedersi, infatti, quale terzietà potrebbe vantare chi è chiamato ad esercitare la giurisdizione, e poi proprio quella amministrativa, in base ad una nomina effettuata dall'esecutivo.
Va quindi ribadito che il testo approvato equipara in tutto e per tutto, nelle garanzie come nelle responsabilità, nel sistema di nomina come nelle incompatibilità, i giudici ordinari a quelli amministrativi, ed in effetti parrebbe assai strano, oltre che pericoloso, che la giurisdizione venisse svolta da organi i cui componenti non fornissero assolute garanzie di terzietà. Posizioni culturali secondo le quali i giudici amministrativi potrebbero in sostanza continuare ad essere funzionalmente collegati all'esecutivo e, più in generale, i giudici potrebbero essere chiamati a svolgere compiti estranei alla giurisdizione, e, segnatamente, a ricoprire incarichi di ogni sorta nelle pubbliche amministrazioni, si giustificherebbero, sia pure a fatica e con qualche sospetto di incostituzionalità, soltanto in un quadro costituzionale diverso da quello approvato dalla Commissione.
Il comma 3 dello stesso articolo 126 stabilisce che, ferma restando l'unicità delle modalità di ingresso in magistratura e delle carriere, sia previsto una sorta di filtro per il passaggio tra le funzioni giudicanti e quelle del pubblico ministero, e viceversa, filtro rappresentato da un concorso riservato (riservato, ovviamente, ai soli magistrati, onde evitare equivoci di sorta) che dovrà svolgersi secondo modalità stabilite dalla legge. È peraltro previsto, al comma 4 dello stesso articolo 126, che in nessun caso le funzioni inquirenti e quelle giudicanti penali possono essere svolte nel medesimo distretto giudiziario.
La ratio di tali disposizioni è del tutto evidente. Si tratta, da un lato, di evitare facili e possibili commistioni tra le varie funzioni, nonché i pericoli che ciò comporta per una ordinata amministrazione della giustizia e, dall'altro, di favorire le reali aspirazioni personali al fine di una più efficace azione giudiziaria. È infatti senz'altro vero che per svolgere le funzioni di giudice occorrono qualità, interessi e motivazioni differenti da quelle necessarie all'adempimento delle funzioni affidate ai magistrati inquirenti, pur nella comune cultura della giurisdizione, o, come meglio dovrebbe dirsi, nella comune cultura della legalità e delle garanzie, la quale dovrebbe essere patrimonio inalienabile di tutti i magistrati. D'altro canto è innegabile che lo svolgimento delle funzioni di pubblico ministero richiede una formazione, non solo culturale ma anche di tecnica investigativa, del tutto particolare, che è obiettivamente assai diversa da quella richiesta per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali.
Il relatore deve peraltro dar conto del fatto che in Commissione erano stati presentati, da alcuni gruppi, emendamenti indirizzati a realizzare una piena separazione delle carriere tra giudici e magistrati del pubblico ministero, prevedendo di conseguenza un accesso alla magistratura attraverso concorsi separati. Si tratta ovviamente di una impostazione profondamente diversa da quella approvata dalla Commissione, rispetto alla quale è comunque prevedibile un ulteriore esame nella fase successiva dei lavori della Commissione.
Nel testo approvato dall'articolo 126 è stato comunque previsto che tutti i magistrati debbono svolgere inizialmente funzioni giudicanti, onde perseguire quella unitarietà iniziale della cultura della legalità e della giurisdizione cui prima si accennava, per il conseguimento della quale è stato anche previsto, all'articolo 130 del testo approvato dalla Commissione (corrispondente all'articolo 110 della Costituzione vigente), che il Ministro della giustizia debba promuovere la comune formazione propedeutica all'esercizio delle professioni giudiziarie e forensi (formazione propedeutica per i futuri magistrati ed i futuri avvocati, che è altra cosa dalla formazione e dall'aggiornamento dei magistrati, che restano evidentemente affidati ai Consigli superiori). Al riguardo, va ricordato che in dottrina è stata più volte lamentata l'assenza di una scuola della magistratura, sull'esempio dell'Ecole nationale de la magistrature in Francia, della Referendarszeit in Germania e dell'Escuela judicial in Spagna; sulla questione, peraltro, ci si soffermerà in termini più generali in occasione dell'illustrazione dell'articolo 130, riguardanti le competenze del Ministro della giustizia.
L'articolo 107 della Costituzione vigente, al primo comma, assicura ai magistrati (quindi sia ai giudici sia ai magistrati del pubblico ministero) la garanzia dell'inamovibilità, da intendersi nel senso che qualsiasi provvedimento destinato ad incidere sull'esercizio della funzione del singolo magistrato deve essere assunto dal Consiglio superiore della magistratura alle condizioni indicate nel primo comma citato.
La garanzia in esame era già prevista dallo Statuto del 1848, che tuttavia la limitava al grado, senza estenderla a tutti i magistrati (erano infatti esclusi quelli con meno di tre anni di anzianità, i pretori e i pubblici ministeri). La norma della vigente Costituzione, come accennato, si applica, invece, a tutti i magistrati, senza distinzione di categorie e, dal punto di vista oggettivo, concerne sia la sede che la funzione cui il magistrato sia stato assegnato e costituisce la più rilevante guarentigia dello status del singolo magistrato. Tale norma riguarda, del resto, il profilo di garanzia anche all'interno dello stesso ordine giudiziario, con ciò rafforzando ulteriormente i principi di indipendenza e di autonomia già previsti dall'articolo 104 vigente con riferimento all'intero ordine.
Il diritto alla conservazione delle funzioni e della sede, d'altra parte, non è svincolato dai limiti che esso può incontrare a causa della esigenza di tutelare altri interessi costituzionalmente garantiti, come si ricava dalla lettura dello stesso primo comma dell'articolo 107, dalla quale emerge che il Costituente non ha attribuito alla garanzia valore assoluto ed incondizionato, ma strumentale, nel senso che la inamovibilità è garantita per assicurare l'autonomia e l'indipendenza dell'ordine giudiziario nonchè quelle del singolo magistrato. D'altro canto, la previsione di un intervento in materia, comunque possibile solo da parte dell'organo di governo autonomo della magistratura, aggravato da una espressa ed ulteriore garanzia procedimentale, rafforza ulteriormente tale guarentigia. A tali preminenti esigenze, si è ritenuto di poter fare ugualmente fronte con una modifica del comma 2 dell'articolo 107 della Costituzione vigente (corrispondente al comma 2 dell'articolo 127 approvato dalla Commissione), con la quale si prevede la sostituzione delle previste garanzie di difesa con quelle di garanzia del contraddittorio.
Allo stesso articolo 127, al comma 1, il testo approvato ribadisce ed estende ai magistrati amministrativi il principio della inamovibilità, prevedendosi inoltre al comma 3 che la legge disciplina i periodi di permanenza nell'ufficio e nella sede dei giudici (ordinari e amministrativi) e dei magistrati del pubblico ministero.
Sempre all'articolo 127 il testo approvato prevede inoltre, all'ultimo comma, un rigoroso regime delle incompatibilità per tutti i magistrati, che troppo spesso svolgono funzioni eccessivamente distanti da quelle giurisdizionali, talvolta a scapito delle stesse e spesso alle dipendenze dell'esecutivo, con l'evidente rischio di ricadute negative sulla stessa autonomia della magistratura e anche sul suo prestigio, a tutela del quale, nel comma 5, si è prevista anche la costituzionalizzazione dei principi di responsabilità, correttezza e riservatezza.
L'articolo 108, comma 1, della Costituzione vigente riserva alla legge la disciplina dell'ordinamento giudiziario e di ogni magistratura.
La Costituzione vigente fa più volte espresso riferimento all'ordinamento giudiziario, in particolare agli articoli 102, primo comma, 105, primo comma, 106, secondo comma, 107, quarto comma, e alla VII disposizione transitoria. In sede di Assemblea costituente, peraltro, furono avanzate proposte per attribuire valore costituzionale alle leggi che regolano l'ordinamento degli uffici giudiziari e lo stato giuridico dei magistrati e degli altri addetti all'ordine giudiziario (Calamandrei), per qualificare come norma costituzionale la legge di ordinamento giudiziario (Leone) e per prevedere che le leggi in materia avrebbero dovuto essere approvate a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere (Uberti-Bozzi).
Il complesso delle citate disposizioni costituzionali ha posto una serie di problemi, sostanzialmente riconducibili sia alla posizione nel sistema delle fonti della legge sull'ordinamento giudiziario, sia alla latitudine della riserva di legge prevista dall'articolo 108, primo comma, e inoltre, con riferimento alla VII disposizione transitoria, alla possibilità di ultrattività dell'ordinamento giudiziario previgente (problema, quest'ultimo, di non poco momento con riferimento alle tematiche relative alla unità funzionale della giurisdizione).
Al riguardo è necessario ricordare che già il termine di ordinamento giudiziario ha, nel nostro ordinamento, una genesi storicamente ben definita, in quanto con tale titolo sono state successivamente denominate le leggi che, nel corso del tempo, hanno sistematicamente disciplinato, strutturandola di volta in volta secondo un modello ben preciso, l'organizzazione giudiziaria. Si tratta, del regio decreto 6 dicembre 1865, n. 2626, del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2786, e, infine, del regio decreto 30 gennaio 1941, n.12, il quale, sia pure più volte significativamente modificato, costituisce tuttora la vigente normativa in tema di ordinamento giudiziario.
D'altra parte, tutto ciò, con riguardo al sistema delle fonti, e quindi alla prima delle problematiche accennate, non implica che alla legge sull'ordinamento giudiziario debba essere attribuita una posizione particolare, come ha anche precisato la Corte costituzionale, in specie con la sentenza n. 184 del 1974. Secondo tale sentenza, infatti, i richiami testuali all'ordinamento giudiziario contenuti nella Costituzione non determinano una posizione differenziata delle relative norme, le quali, pertanto, sono modificabili in tutto o in parte, direttamente o indirettamente, con legge ordinaria.
Per quanto riguarda, invece, la questione relativa alla portata della riserva di legge prevista dall'articolo 108, primo comma, della Costituzione vigente, occorre anzitutto sottolineare che si tratta di una riserva di legge statale, come già affermato da una delle prime sentenze della Corte costituzionale, la n.4 del 1956. Secondo questa sentenza, tale esclusione si desume dal sistema adottato dal Costituente di procedere per materie determinate ad un decentramento istituzionale nel campo legislativo ed amministrativo in favore dell'ente Regione, escludendo tuttavia dal decentramento tutto il settore giudiziario. Veniva così dettato uno di quei principi dell'ordinamento giuridico dello Stato che costituiscono limiti insuperabili all'esercizio della potestà legislativa delle Regioni, orientamento peraltro successivamente confermato dalla più recente sentenza n. 43 del 1982. Questi princìpi sono stati esplicitamente confermati anche nel testo approvato dalla Commissione in materia di forma di Stato (articolo 59, comma 1, lettera b) e in materia di Parlamento e fonti normative (articolo 98, comma 2, lettera f).
In materia, tuttavia, i lavori svolti dal Comitato sul sistema delle garanzie si sono incentrati su un altro aspetto, ben più problematico, connesso alla riserva di legge in argomento, e già affrontato dalle precedenti Commissioni per le riforme istituzionali (in particolare dal quella presieduta dall'onorevole Bozzi).
Si tratta del problema della coerenza tra la prevista riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario e una prassi, alla quale si è già accennato in precedenza, attraverso la quale il Consiglio superiore della magistratura, per effetto dell'emanazione di una serie di atti atipici, ha in sostanza strutturato un vero e proprio corpus iuris, sovente non solo interpretativo, ma addirittura integrativo della vigente legislazione in materia.
È necessario quindi definire una prospettiva di riforma dei rapporti istituzionali, nell'ambito della quale ogni soggetto svolga i propri compiti in un quadro di competenze ben definite, il cui corretto esercizio contribuisca alla funzionalità complessiva del sistema. Un assetto istituzionale garantisce la tenuta reale della democrazia solo nel momento in cui gli attori delle vicende politico-istituzionali interpretano i rispettivi ruoli - certo, con il grado di elasticità necessario per adeguarli alle varie e mutevoli situazioni e contingenze, anche storiche - con piena coscienza non solo del significato della propria funzione, ma anche delle relazioni che il corrispettivo esercizio implica. In caso contrario, infatti, nasce la pericolosa tendenza a legittimare, e, talvolta, ad autolegittimare, funzioni di supplenza, che poi indebitamente si cristallizzano, provocando in ultima analisi la definizione per via surrettizia di un nuovo quadro istituzionale, privo tuttavia di qualunque legittimazione costituzionale.
Le problematiche connesse all'articolo 108 (corrispondente all'articolo 128 del testo approvato dalla Commissione), come del resto anche le altre, vanno affrontate alla luce di tali princìpi, prevedendo che la riserva di legge in materia di ordinamenti giudiziari debba essere intesa nel senso più stringente, senza lasciar spazio ad interpretazioni che, in sostanza, si risolvono nello svuotamento della riserva stessa e in uno spostamento surrettizio di competenze, il quale si rifletterebbe anche sulla reale forma di governo.
Di conseguenza, nel testo approvato del comma 1 dell'articolo 128, viene introdotta una modifica al comma 1 dell'articolo 108 vigente, anzitutto nel senso di effettuare anche in tema di ordinamento giudiziario una assoluta equiparazione tra magistratura ordinaria ed amministrativa, ma anche disponendo che le norme sugli ordinamenti giudiziari sono stabilite «esclusivamente» con legge, con una formulazione già proposta dalla Commissione Bozzi nella IX Legislatura.

4.2.3 Altre disposizioni in materia di ordinamento giurisdizionale.
Nel vigente sistema costituzionale, l'articolo 109 rappresenta una sorta di norma cerniera tra le disposizioni sull'ordinamento giurisdizionale e quelle sulle competenze del Ministro della giustizia. La collocazione sistematica di tale articolo, secondo il quale l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, è sintomatica dei problemi che esso sottintende, collocato com'è in una zona di confine tra giurisdizione ed amministrazione. La polizia giudiziaria (ossia l'attività di polizia, non preventiva, avente finalità specifiche di reintegrazione del diritto già violato, di regola preordinata all'esercizio della giurisdizione penale) è infatti funzionalmente dipendente dall'autorità giudiziaria, ma gerarchicamente dal potere esecutivo.
In materia l'Assemblea costituente non approvò un iniziale orientamento diretto a creare uno speciale corpo di polizia alle dirette dipendenze dell'autorità giudiziaria (soprattutto sulla scorta di difficoltà di carattere finanziario), limitandosi ad accentuare il profilo di dipendenza funzionale che, non considerato in alcun modo dallo Statuto del 1848, era stato adombrato dall'articolo 220 del codice di procedura penale del 1930, senza che tuttavia fosse instaurato alcun rapporto gerarchico o disciplinare tra magistratura ed organi di polizia.
Il Comitato sul sistema delle garanzie ha discusso a lungo dell'opportunità di modificare l'art 109, ritenendosi che si dovessero in qualche misura precisare i soggetti che possono disporre della polizia giudiziaria e le relative modalità, secondo quanto era previsto, peraltro, da alcuni dei progetti e disegni di legge assegnati alla Commissione. Su tale disposizione non si era tuttavia registrata una opinione concorde o prevalente, sicché si è ritenuto preferibile, da ultimo, lasciare inalterato il testo vigente. L'articolo 109 vigente (che nel testo approvato dalla Commissione corrisponde all'articolo 129), copre comunque tutte le ipotesi di possibile utilizzazione della polizia giudiziaria da parte della magistratura, e in definitiva, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 194 del 1963 e n. 114 del 1968, non determina alcuna collisione tra il rapporto di dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dalla magistratura e il rapporto di dipendenza burocratico e disciplinare in cui questa si trova, invece, con l'esecutivo. In relazione a questo articolo, d'altra parte, erano stati presentati da vari gruppi emendamenti di specificazione delle modalità dell'utilizzo della polizia giudiziaria da parte dei diversi organi componenti l'autorità giudiziaria, e anche in questo caso la materia sarà presumibilmente riesaminata nella fase successiva dei lavori della Commissione.
L'articolo 110 della Costituzione vigente prevede che, ferme restando le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Tale disposizione trova origine da un complesso dibattito, già in parte illustrato, svoltosi in Assemblea costituente sul ruolo, le competenze, il significato e la stessa sopravvivenza della figura del Ministro della giustizia nel nuovo quadro disegnato dalla Carta costituzionale, con particolare riferimento ai compiti affidati al Consiglio superiore della magistratura. In definitiva, tale norma configura l'attività di competenza dell'esecutivo nella materia in esame come attività strumentale all'esercizio di quella giudiziaria, ferme restando le competenze dell'amministrazione in materie connesse ma, per qualche verso, residuali.
Proprio in tale prospettiva, il testo dell'articolo 130 approvato dalla Commissione (corrispondente al testo dell'articolo 110 della Costituzione vigente) specifica più dettagliatamente le competenze spettanti al Ministro della giustizia. La norma approvata stabilisce che - oltre che alla organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia - il Ministro provvede, come già accennato, a promuovere la comune formazione propedeutica all'esercizio delle professioni giudiziarie e forensi, esercita la funzione ispettiva sul corretto funzionamento degli uffici giudiziari e promuove l'azione disciplinare.
Riguardo tale disposizione, va ricordato che una prima stesura della norma prevedeva che il Ministro «assicura» (e non «promuove») la comune formazione propedeutica all'esercizio delle professioni giudiziarie e forensi. La formulazione approvata della disposizione, che raccoglie indicazioni e obiezioni emerse nel corso dei lavori del Comitato sul sistema delle garanzie, è suscettibile di configurare e, per più versi prefigurare, la partecipazione di altre istituzioni, e, in particolare, delle Università, all'attività di formazione.
Inoltre, già il testo della vigente Costituzione, al quarto comma dell'articolo 107, attribuisce al Ministro della giustizia la facoltà di promuovere l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, con disposizione che si inserisce nella complessiva determinazione dei poteri del Ministro, ora più organicamente disciplinati all'articolo 130 del testo approvato. La legge ordinaria istitutiva del Consiglio superiore della magistratura ha tuttavia ripartito la competenza in materia di azione disciplinare tra Ministro e Procuratore generale presso la Corte di cassazione, stabilendo che questi è titolare degli atti anche quando l'azione è promossa dal Ministro e che quest'ultimo opera attraverso la Procura generale della Cassazione.
Tale disciplina, oltre che ad una commistione di funzioni e ad una certa confusione nella definizione dei ruoli e della natura degli organi che intervengono nel procedimento - si pensi, ad esempio, alla posizione della Procura generale, che per più versi potrebbe nei casi in esame essere considerata strumento del potere esecutivo - ha dato origine a più di una perplessità circa la stessa coerenza della normativa ordinaria vigente rispetto al dettato costituzionale. Anche a tacere del fatto che delle competenze del Procuratore generale presso la Corte di cassazione in materia di azione disciplinare non vi è traccia nella Costituzione, tale organo è comunque membro di diritto del Consiglio superiore della magistratura e concorre, quindi, alla definizione del governo autonomo dell'ordine giudiziario. Al contempo, tuttavia, la Procura generale viene chiamata ad assumere iniziative che determinano l'esercizio di quello stesso governo autonomo, configurando una possibile e conseguente carenza di terzietà, con tutto ciò che questo comporta. Va ricordato al riguardo, invece, che, in relazione agli articoli 122, 123 e 125 del testo approvato, il Ministro della giustizia non è membro di diritto dei Consigli superiori e neanche della Corte di giustizia della magistratura, alla quale ultima neppure partecipa.
In ogni caso, accogliendo istanze avanzate nel corso dei lavori del Comitato sul sistema delle garanzie, è stato approvato un secondo comma all'articolo 130, per effetto del quale la legge può individuare altri soggetti titolari in via sussidiaria dell'azione disciplinare.
Nell'ambito dei soggetti ai quali la legge può attribuire in via sussidiaria la titolarità dell'azione disciplinare, possono essere ricompresi organi, già esistenti (quali la Procura generale presso la Corte di cassazione) ovvero di nuova istituzione. In ogni caso, l'eventuale esercizio in via sussidiaria dell'azione disciplinare deve essere improntato ai principi di terzietà e indipendenza rispetto all'ordine giudiziario, ferma restando, beninteso, la competenza a decidere in materia disciplinare attribuita alla Corte di giustizia della magistratura. Sulle più radicali ipotesi emendative, che prevedono la sottrazione della titolarità dell'azione disciplinare obbligatoria al Ministro per trasferirla ad un istituendo Procuratore generale, si è già riferito in relazione all'articolo 125.

4.2.4 Norme sulla giurisdizione
Passando ora all'esame delle disposizioni contenute nella sezione II del nuovo Titolo VI riguardante la magistratura, è necessario soffermarsi sul testo approvato dell'articolo 131, corrispondente all'articolo 111 della Costituzione vigente. Sulla disposizione, confermata al comma 1 di tale articolo, secondo la quale tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, non si sono registrate proposte di modifica. Tale norma, come è ben noto, è stata letta come l'affermazione di un principio democratico di controllo generalizzato sull'amministrazione della giustizia (sebbene oggi si tenda a ritenere tale controllo assicurato anche con la pubblicità dei processi) e di applicazione del principio di legalità, ed è stata, inoltre, ritenuta strumentalmente diretta all'esercizio della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, della quale si occupa il medesimo articolo.
Il testo del comma 2 dell'articolo 111 della Costituzione vigente (corrispondente all'articolo 131, comma 2 del testo approvato) unifica le distinte ipotesi di impugnabilità in Cassazione di tutte le sentenze dei giudici ordinari e speciali, nonché quella di tutti i provvedimenti restrittivi della libertà personale, costituzionalizzando, quindi, due garanzie differenti. La prima, per usare le parole di Calamandrei (che non a caso era anche contrario al decentramento della Corte di cassazione), si richiama all'unità del diritto nazionale attraverso l'uniformità della interpretazione giurisprudenziale (ed in ciò consiste la funzione nomofilattica della Cassazione). La seconda di tali garanzie, invece, intende realizzare una sorta di habeas corpus continentale, cioè una delle più grandi garanzie conquistate da un regime democratico, come fu detto proprio all'Assemblea costituente.
Tuttavia, va dato atto che è stata più volte riproposta, sia nel Comitato che nella Commissione, l'esigenza di una limitazione della ricorribilità in Cassazione contro le sentenze, in maniera tale da deflazionare l'attività di quest'organo in relazione a fattispecie di minor rilievo, ferma restando la ricorribilità contro tutti i provvedimenti sulla libertà personale. Si tratta di una materia di grande complessità e delicatezza, rispetto alla quale il relatore aveva a sua volta presentato un emendamento teso a demandare alla legge la previsione dei casi di ricorribilità in Cassazione contro le sentenze, essendo però necessario garantire comunque almeno un doppio grado di giudizio. È evidente che anche questa materia dovrà essere esaminata dalla Commissione nella fase successiva dei propri lavori.
Sempre all'articolo 131, al comma 3, il testo approvato recepisce le proposte di costituzionalizzazione dei diritti della difesa, secondo quanto previsto dall'articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Il comma 4 di tale articolo 131 inserisce inoltre nella Costituzione una «riserva di codice» per quanto riguarda le norme penali, mentre il comma 5 prevede che tali norme non possono essere interpretate né analogicamente né estensivamente.
Si tratta di disposizioni che non solo investono differenti aspetti della giustizia penale e, in particolare, il rapporto tra il cittadino e la magistratura, ma sono anche intimamente connesse tra loro.
Per quanto riguarda in maniera specifica il comma 3 dell'articolo 131 del testo approvato, occorre ricordare che le relative disposizioni sono già vigenti nel nostro ordinamento per effetto del recepimento della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Tuttavia è chiaro il significato che assume non solo in termini simbolici, ma anche come ricaduta sull'attività legislativa ordinaria e come parametro per il vaglio di costituzionalità delle disposizioni oggi vigenti, la costituzionalizzazione dei princìpi espressi dalla norma in esame.
Ugualmente evidenti sono la portata e le implicazioni, anche relative alla tecnica legislativa, determinate dalla introduzione del principio della riserva di codice nel testo della Costituzione.
Tale introduzione si propone di porre rimedio all'effetto perverso determinato dall'inflazione legislativa in materia penale, a causa della quale, di fatto, l'obbligo di conoscenza di tali disposizioni posto in capo a tutti i cittadini dall'articolo 5 del codice penale (secondo il quale nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale) è obbligo del quale non si può ragionevolmente pretendere l'adempimento. La razionalizzazione della tecnica legislativa, in forza dell'imposizione di un vincolo costituzionale al legislatore, facilitando la conoscibilità delle disposizioni penali, costituirà quindi una garanzia per il cittadino e, al contempo e conseguentemente, meglio assicurerà l'applicazione della stessa legge penale, senza che ne possa essere invocata in alcun caso l'ignoranza.
Per quanto riguarda il nuovo comma 5 dell'articolo 131, il divieto di interpretazione analogica ed estensiva in materia penale non è oggi (quantomeno) espressamente previsto dalla Costituzione, sebbene l'opinione prevalente, ma non unanime, in dottrina - con riferimento, in verità, alla sola interpretazione analogica - lo ritenga compreso nel principio di legalità previsto al comma secondo dell'articolo 25, per effetto del quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
È noto peraltro che il divieto di analogia è già previsto dall'articolo 14 delle disposizioni sulla legge in generale, premesse al codice civile, secondo il quale le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.
Tale divieto oggi può tuttavia essere violato da comportamenti interpretativi dei singoli giudici. Una violazione da parte del legislatore può avere luogo solo nell'ipotesi, invero non molto credibile, di leggi ordinarie che volessero ammettere l'analogia in relazione all'applicazione di particolari norme penali. Queste considerazioni valgono, a maggior ragione, in ordine all'eventuale divieto di interpretazione estensiva.
Riguardo quest'ultima questione, tuttavia, si deve far presente che, in alcune sentenze della Corte costituzionale, mentre da un lato sembra confermata in via interpretativa la asserita costituzionalizzazione del divieto di analogia, dall'altro sembra però consentito il ricorso all'interpretazione estensiva nella parte in cui con tali sentenze è stata ritenuta la costituzionalità di disposizioni recanti indicazioni estensive, ossia di indicazioni con le quali si assegna all'interprete il compito di attuare il procedimento ordinario di interpretazione, anche se diretto ad operare l'inserzione di un caso in una fattispecie. La Corte ha infatti argomentato che in questi casi si tratterebbe di operazione diversa dall'applicazione analogica e che quindi non sarebbe ricompresa nell'ambito del divieto di analogia di cui al secondo comma dell'articolo 25 (v. le sentenze n.79 del 1982 e, meno recenti, n.120 del 1965 e n.27 del 1961).
Considerata tale situazione, è sembrato davvero opportuno che, nella sede delle disposizioni dedicate alla giurisdizione, si chiariscano le implicazioni connesse alla applicazione delle norme penali, sempre nell'ottica di semplificazione della legislazione penale e di chiarezza nei rapporti tra magistratura e cittadino, il quale deve ben conoscere a quali comportamenti la legge, e solo la legge, attribuisce un disvalore tale da ritenerli meritevoli di sanzione penale.
Peraltro, non sembra potersi sostenere che l'espressa previsione in Costituzione del divieto di interpretazione estensiva vieti anche tale modalità di interpretazione in ordine alle norme cosiddette di favore, in quanto, seguendo l'insegnamento della miglior dottrina, già il divieto di analogia è circoscritto alle norme che operano in malam partem (ossia aggravando la posizione dell'imputato), e non si estende a quelle di favore, in quanto tale divieto è posto in funzione di garanzia dell'individuo e non in funzione di certezza dell'ordinamento. Si deve quindi ritenere che tale ragionamento valga a maggior ragione in ordine all'interpretazione estensiva e che, conseguentemente, il relativo divieto non si applica alle norme di favore.
Il dibattito nel Comitato sul sistema delle garanzie e nella Commissione si è a lungo soffermato sulla disposizione recata dall'articolo 112 della Costituzione vigente (corrispondente all'articolo 132, comma 1, del testo approvato), secondo il quale il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale.
Si tratta di una tematica di grande complessità, nella quale si intrecciano problematiche di equilibrio costituzionale, di garanzia dell'effettività dell'ordinamento giuridico, di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, di diritto processuale ed ordinamentale e, ancora, molteplici ed evidenti elementi di interconnessione con le problematiche relative all'indipendenza del pubblico ministero. La stessa genesi della disposizione, nei lavori della Costituente, si è intrecciata con il problema dei rapporti del pubblico ministero con il Ministro della giustizia. In effetti, sul principio dell'obbligatorietà dell'azione penale alla Costituente si registrò un accordo unanime, e discordanza vi fu piuttosto tra chi riteneva, come Calamandrei, che ciò comportasse necessariamente l'istituzione di un pubblico ministero indipendente ed inamovibile e chi, invece, come Leone, sosteneva la non inconciliabilità del principio dell'obbligatorietà con la dipendenza dell'accusa pubblica dall'esecutivo.
D'altra parte, già in sede di Assemblea costituente si pose il problema di considerare o meno l'azione penale come di esclusiva titolarità del pubblico ministero. Si tratta del noto problema del monopolio dell'azione penale, che i Costituenti intesero escludere respingendo la formulazione che prevedeva espressamente la pubblicità dell'azione penale, proprio per dare la possibilità al legislatore ordinario di eventualmente introdurre anche forme di azione penale sussidiaria, dando così spazio nel processo alle istanze dei soggetti privati del rapporto giuridico penale.
Sul punto si è anche espressa la Corte costituzionale, secondo la quale l'ordinamento può ben prevedere azioni penali sussidiarie o concorrenti rispetto a quella obbligatoriamente esercitata dal pubblico ministero (v. le sentenze n. 84 del 1979, n. 114 del 1982 e n. 61 del 1987). Va rilevato, tuttavia, che l'articolo 231 delle norme di attuazione del codice di procedura penale ha abrogato tutte le disposizioni che prevedevano l'esercizio dell'azione penale da parte di organi diversi dal pubblico ministero. Al riguardo va ricordato che, comunque, alla Commissione era stato presentato un emendamento, sottoscritto da vari gruppi, tendente a costituzionalizzare il principio della attribuzione per legge ad altri soggetti dell'esercizio dell'azione penale in via sussidiaria e concorrente, materia quindi che sarà sottoposta all'esame della Commissione nella fase successiva dei suoi lavori.
In materia di obbligatorietà dell'azione penale le posizioni dei diversi gruppi parlamentari, espresse nelle proposte e nei disegni di legge all'esame della Commissione ed emerse durante il lavoro del Comitato sul sistema delle garanzie, erano in origine particolarmente differenziate.
Unanime è stato comunque il rilievo secondo il quale l'affermato principio dell'obbligatorietà dell'azione penale in concreto, ossia, nella pratica degli uffici giudiziari, subisce una serie di eccezioni, attenuazioni e differenziazioni tali da potersi affermare senza esagerazioni che, di fatto, la discrezionalità è ormai la regola, sebbene, come affermato anche dalla Corte costituzionale (v. la sentenza n. 22 del 1959) l'obbligatorietà dell'azione penale comporti l'esclusione di qualsiasi discrezionalità in ordine all'opportunità o meno del promuovimento dell'azione stessa.
È evidente, peraltro, che talune deviazioni dal principio dipendono anche da fattori fisiologici, in quanto in molti casi, direttamente ricollegabili all'attività del pubblico ministero ovvero di altri organi (come, ad esempio, la polizia giudiziaria), il principio dell'obbligatorietà subisce interferenze che, in concreto, determinano deroghe più o meno incisive. Resta tuttavia fermo l'affermato principio che, di fronte ad un reato, l'atteggiamento del pubblico ministero non può essere determinato se non dalla legge che gli impone di procedere, ossia di richiedere al giudice di decidere sulla fondatezza di una certa notizia di reato e sulla conseguente applicazione della legge penale.
La gravità della situazione attuale è stata tuttavia resa manifesta anche dalle audizioni svolte di fronte alla Commissione ed è confermata, nei fatti, da talune iniziative, peraltro in gran parte necessitate, assunte da alcuni Procuratori della Repubblica.
Si è quindi imposta l'esigenza di individuare un meccanismo che, evitando mere petizioni di principio, consenta di porre rimedio a tale situazione, definendo un circuito suscettibile di coinvolgere in modo pieno ed efficace tutti i livelli di responsabilità istituzionale e di rendere effettiva la dichiarata obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale.
Le disposizioni approvate al comma 1 dell'articolo 132 rappresentano una formula che, nella necessaria stringatezza tipica delle norme costituzionali, consente di conciliare l'esigenza di mantenere la previsione dell'obbligatorietà con quella di permettere al legislatore ordinario di porre in essere interventi tali da assicurare che il principio non resti privo di contenuto e che, nella migliore delle ipotesi, la sua realizzazione sia affidata alle sole capacità e al senso di responsabilità dei magistrati del pubblico ministero.
È anche in quest'ottica che deve leggersi la disposizione approvata al secondo comma dell'articolo 132, per effetto della quale il Ministro della giustizia deve riferire annualmente al Parlamento sullo stato della giustizia, sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine. Tale norma esclude che il Parlamento possa interferire direttamente sull'esercizio dell'azione penale, mentre rafforza l'esigenza di un raccordo istituzionale tra Governo e Parlamento su tematiche di grande rilievo, che in quella circostanza verrebbero affrontate in maniera organica e non frammentaria. Peraltro il relatore, facendo proprio un rilievo di carattere sistematico, aveva presentato un emendamento volto ad inserire tale previsione all'articolo 130, in modo tale da riunire in tale articolo le funzioni e le competenze del Ministro della giustizia.
Per quanto riguarda l'articolo 133 approvato (corrispondente all'articolo 113 del testo vigente) è necessario anzitutto richiamare le considerazioni già svolte in via generale con riferimento all'unità funzionale della giurisdizione e al conseguente criterio di riparto della giurisdizione tra giudici ordinari ed amministrativi sulla base di materie omogenee indicate dalla legge. Al riguardo si deve sottolineare che, mentre l'articolo 121 del testo approvato caratterizza la tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione dal punto di vista degli organi giurisdizionali cui essa è affidata, l'articolo 133 definisce il medesimo ambito da un punto di vista meramente oggettivo, garantendo la giurisdizione amministrativa con riferimento non più alla dicotomia tra diritti soggettivi e interessi legittimi, ma, dopo aver soppresso il richiamo a tali posizioni soggettive, rinvia alla legge per la definizione delle modalità per l'esercizio della tutela giurisdizionale «nei confronti della pubblica amministrazione», e non più solo contro i suoi atti.
È peraltro evidente che tale soppressione, unitamente a quella analoga operata all'articolo 121, non implica alcuna interferenza rispetto al primo comma dell'articolo 24 della prima parte della Costituzione, che si limita ad assicurare che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, senza ovviamente indicare nè criteri di riparto della giurisdizione nè, conseguentemente, gli organi giurisdizionali cui adire. In altri termini, l'articolo 24, primo comma, costituisce una norma volta a garantire la possibilità di azione in giudizio escludendo ogni eccezione alla tutela delle posizioni soggettive, mentre quelle recate al riguardo dal nuovo Titolo VI sulla magistratura hanno lo scopo di precisare le concrete modalità con cui realizzare tale possibilità.
Si deve ricordare, da ultimo, che, in relazione all'articolo 133 del testo approvato, il relatore, facendosi carico di una diversa iniziativa emendativa, ha presentato un proprio emendamento volto a prevedere esplicitamente la possibilità di esercitare la tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione anche in forma cautelare e a prevedere, inoltre, la possibilità di altri strumenti di reintegrazione, oltre a quella di annullamento, degli atti della stessa pubblica amministrazione. In verità, già il testo approvato dell'articolo 133 sembra in grado di far fronte a tali esigenze, che comunque potranno essere adeguatamente valutate nella fase successiva dei lavori della Commissione.

***


Come si è illustrato, numerose disposizioni recate dal Titolo VI sulla magistratura approvato dalla Commissione intervengono su organi esistenti, ne istituiscono di nuovi ovvero attribuiscono ulteriori competenze, mentre altre incidono in materia diretta sulla legislazione vigente. È evidente che per l'applicazione di tali disposizioni è necessario prevedere un complesso di norme volte a regolare, entro termini precisi e con modalità ben definite, il passaggio dall'assetto vigente a quello definito dal Titolo VI in questione. D'altro canto, è altrettanto evidente che una puntuale precisazione in termini normativi delle necessarie disposizioni transitorie non potrà che avvenire in un successivo momento, a seguito dell'ulteriore esame che sarà svolto nella successiva fase dei lavori della Commissione.
È necessario, tuttavia, tenere presente tale questione, di grande importanza per rendere effettivo il nuovo disegno costituzionale nella fase di attuazione, e rammentare sin d'ora che tali disposizioni transitorie dovranno essere mirate anzitutto alla revisione del complesso di organi di cui agli articoli 83 e 121 del testo approvato (corrispondente agli articoli. 100 e 103 della Costituzione vigente) ed alla definizione delle relative competenze, anche attraverso una necessaria fase di transizione dal precedente al nuovo assetto istituzionale e costituzionale. Si potrà, inoltre, stabilire un regime transitorio per il passaggio dall'attuale struttura del Consiglio superiore della magistratura ordinaria a quella definita nel testo approvato dalla Commissione, nonchè termini precisi, coordinati con la fase di transizione sopra ricordata, per l'istituzione del Consiglio della magistratura amministrativa. Infine sarà necessario, in riferimento alla riserva di codice prevista all'articolo 131 del testo approvato (corrispondente all'articolo 111 della Costituzione vigente), individuare precise modalità, che verosimilmente non potranno che consistere in una delega al Governo, per la rielaborazione tecnico-sistematica della normativa penale, al fine di rendere effettiva e concretamente operante tale previsione.


5. La giustizia costituzionale

5.1. Il quadro di riferimento

5.1.1 Genesi ed evoluzione normativa

L'introduzione nel sistema costituzionale di un organo di giustizia costituzionale rappresentò il necessario corollario della scelta operata dai costituenti in favore di una Costituzione rigida. Si intendeva in tal modo operare una netta innovazione rispetto all'ordinamento precedente, fondato su una carta fondamentale, lo Statuto albertino del 1848, sprovvista di un chiaro regime di prevalenza rispetto alla legislazione ordinaria e pertanto liberamente derogabile da questa. Il carattere «flessibile» dello Statuto era del resto testimoniato dal fatto di essersi prestato a fare da sfondo, senza modificazioni formali, ai diversi regimi politici succedutisi dal 1848 (Monarchia costituzionale sabauda, il sistema parlamentare liberale, il regime fascista).
Gli estensori della nuova Costituzione vollero fare di questa un atto di permanente garanzia del nuovo ordinamento democratico: di qui la necessità di introdurre meccanismi per il controllo sull'osservanza da parte delle leggi dei principi costituzionali. Questo profilo rappresentava, del resto, solo una delle componenti della più generale volontà di costruzione di un sistema che coniugasse il riferimento fondativo alla sovranità popolare con l'altrettanto irrinunciabile esigenza della tutela dei diritti fondamentali degli individui e delle formazioni sociali. Di qui il disegno di attribuire in capo all'organo di garanzia costituzionale, oltre al controllo sulla costituzionalità delle leggi, altre funzioni finalizzate ad assicurare controlli e limiti all'azione degli organi costituzionali, l'effettività degli ambiti riservati agli enti ad autonomia garantita, nonché la «giustiziabilità» anche degli atti di carattere politico.
Tali istituti avrebbero contrassegnato il deciso passaggio dallo Stato di diritto liberale, improntato al rispetto del principio di legalità da parte dei pubblici poteri, al nuovo Stato costituzionale in cui le stesse massime istanze di formazione della volontà politica e legislativa sono sottoposte alla necessità di rispettare i principi fondamentali posti alla base del sistema. Ciò in sintonia con il grande movimento del costituzionalismo europeo del dopoguerra, ispirato alla esigenza di individuare, dopo la fine del secondo conflitto mondiale e della «guerra civile europea», una serie di principi di giustizia, di aspirazioni collettive, di garanzie indisponibili, che rappresentassero un terreno comune, affrancato dalle oscillazioni potenzialmente distruttive della contingenza politica.
Per l'individuazione dei caratteri del nuovo organo di garanzia, i costituenti avevano di fronte a sé principalmente due modelli. Il primo era incentrato sull'esempio del sindacato di costituzionalità avviatosi sulla base delle elaborazioni giurisprudenziali della Corte suprema americana, a partire dagli inizi del XIX secolo. Si trattava di un sistema che affidava il controllo di costituzionalità sulle leggi alle corti ordinarie, aventi il proprio vertice nella Corte suprema: un sistema pertanto contrassegnato da un carattere diffuso, dall'incidenza sui casi concreti, dalla natura prevalentemente giurisdizionale dell'attività di controllo esercitata. L'altro modello era invece rappresentato dalle corti di giustizia costituzionali istituite tra le due guerre in Austria e Cecoslovacchia, che configuravano un sistema di giustizia costituzionale a carattere accentrato, imperniato su una verifica di costituzionalità posta in essere da organi specializzati di nomina prevalentemente politica e svolgenti un'attività di controllo con valenza erga omnes e di carattere astratto (tanto da indurre Kelsen - in un saggio dedicato alla comparazione tra la giustizia costituzionale americana e quella austriaca - a definire la Corte costituzionale austriaca un «legislatore negativo»).
Per l'individuazione del sistema di giustizia costituzionale da adottare per il nostro paese si tentò di definire una soluzione che contemperasse elementi tratti da entrambi questi modelli.
Si scelse, infatti, di affidare i compiti rientranti nella sfera della giustizia costituzionale ad un organo accentrato, composto da un numero ristretto di membri (15) nominati prevalentemente da soggetti politici (1/3 dal Presidente della Repubblica, 1/3 dal Parlamento in seduta comune, 1/3 dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative). A questi caratteri, che contrassegnavano fortemente il nuovo organo nel senso della politicità, si accompagnò tuttavia la previsione concernente i requisiti per la nomina a giudice, incentrati sul principio della competenza giuridica, la fissazione di un termine di mandato (12 anni) assai più lungo del normale ciclo politico, la rinnovazione parziale dei componenti, l'elezione del Presidente all'interno dei membri della stessa Corte, un rigido regime delle incompatibilità. Tutti elementi che accentuavano il carattere di specializzazione, neutralità e indipendenza del nuovo organo, attribuendo pertanto ad esso elementi di analogia con la posizione degli organi giurisdizionali.
Al modello «europeo» di giustizia costituzionale si rifaceva l'individuazione delle competenze e degli effetti delle pronunce della Corte: il giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle regioni; la risoluzione dei conflitti tra i poteri dello Stato, tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni; i giudizi sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica e i ministri. Per quanto riguarda in particolare il sindacato di costituzionalità delle leggi, si precisò il carattere caducatorio ed erga omnes delle sentenze aventi per oggetto disposizioni ritenute incostituzionali. Allo stesso tempo si precisò con forza, nel corso dei lavori alla Costituente, il carattere di riscontro oggettivo e imparziale del sindacato di costituzionalità: di qui la sostituzione dell'espressione approvata dalla Commissione («la Corte giudica della costituzionalità di tutte le leggi») con quella proposta dall'on. Perassi («La Corte costituzionale giudica delle controversie relative alla legittimità costituzionale»), al fine di escludere, come ebbe a rilevare l'on. Ruini, qualsiasi coinvolgimento da parte della Corte in valutazioni di merito riservate al Parlamento, pur consentendo alla successiva attività giurisprudenziale della Corte un'attività di valutazione abbastanza elastica, in relazione alle esigenze concrete che si sarebbero di volta in volta presentate.
Per quanto riguarda le modalità di instaurazione del giudizio di costituzionalità sulle leggi, si registrò in seno ai Costituenti (e in particolare all'interno della seconda sottocommissione) un atteggiamento aperto ad una pluralità di possibili soluzioni.
Il relatore Piero Calamandrei pose fin dall'inizio la questione se il controllo sulla costituzionalità delle leggi si dovesse istituire: a) soltanto in via incidentale (cioè nel giudizio in cui si tratti di applicare la legge a un caso concreto); b) soltanto in via principale (cioè in un apposito giudizio, in cui si tratti di decidere come unico oggetto se una legge è o non è in contrasto con la Costituzione); c) oppure insieme, in via incidentale e in via principale. Nella soluzione proposta dall'on. Calamandrei erano previsti entrambi i tipi di controllo. La sottocommissione approvò, oltre a quella in via incidentale, anche l'impugnazione in via principale, da «chiunque» esercitabile, entro il termine di un anno dall'entrata in vigore della singola legge, direttamente avanti la Corte costituzionale. Ma il Comitato di redazione sostituì questa norma con il secondo comma dell'articolo 128 del progetto, in cui si prevedeva di riservare l'impugnazione in via principale al Governo, a 50 deputati, a un Consiglio regionale, o a non meno di 10.000 elettori. In Assemblea l'on. Mortati propose il ritorno alla norma approvata dalla sottocommissione, pur con una diversa e più dettagliata formulazione. La proposta, cui l'onorevole Ruini dichiarò di aderire a solo titolo personale, incontrò tuttavia notevole resistenza. L'Assemblea approvò quindi un emendamento proposto dall'on. Arata, con cui l'intera questione della definizione delle «condizioni, le forme e i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale» veniva demandata - congiuntamente all'individuazione delle garanzie di indipendenza dei giudici costituzionali - ad una successiva legge costituzionale (tale rinvio è contenuto nel testo dell'articolo 137 della Costituzione vigente).
La definizione con legge costituzionale delle modalità di instaurazione del giudizio costituzionale fu operata in tempi rapidissimi: fu infatti la stessa Assemblea costituente, in regime di prorogatio, ad approvare un disegno di legge governativo con cui si dettava la disciplina della materia. Il provvedimento (legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1) optava per la individuazione di un'unica modalità di accesso ai giudizi di legittimità costituzionale: la rimessione alla Corte da parte dei giudici delle questioni di legittimità rilevate d'ufficio o sollevate dalle parti nel corso del giudizio, e non ritenute dalla stessa autorità giudiziaria manifestamente infondate.
Il sistema così definito operava una scelta in direzione di una ulteriore «giurisdizionalizzazione» del sindacato di costituzionalità, in quanto quest'ultimo avrebbe potuto avere luogo solo in relazione a concrete controversie riguardanti l'applicazione delle norme da sottoporre alla verifica di costituzionalità. Il filtro per accedere a quest'ultima veniva individuato nell'autorità giudiziaria, che avrebbe dovuto apprezzare la «non manifesta infondatezza» e la «rilevanza» per il giudizio delle questioni sollevate. Si dava così vita ad un sindacato di costituzionalità sulle leggi che escludeva in via ordinaria un controllo di tipo astratto e preventivo sugli atti legislativi, prevedendo al contrario che la costituzionalità di tali atti andasse verificata nel loro impatto sociale, cioè nella loro concreta incidenza sugli interessi reali, impedendo al contempo che «gli atti stessi, se sospetti di incostituzionalità, trovassero applicazione in sede giurisdizionale con irrimediabile pregiudizio per l'attuazione dei valori costituzionali nell'assetto dei rapporti giuridici» (sent. 406/89).
Va comunque ricordato che la legge costituzionale del 1948 introdusse anche due nuove forme di impugnazione diretta delle leggi, che si aggiungevano a quella prevista dall'articolo 127 della Costituzione con riferimento alla facoltà riservata al Governo di promuovere la questione di legittimità costituzionale delle leggi regionali davanti alla Corte costituzionale o quella di merito per contrasto di interessi davanti alle Camere. Venne infatti prevista la possibilità per le Regioni di promuovere il giudizio della Corte sulle leggi statali o sulle leggi delle altre Regioni ritenute invasive delle proprie competenze: in questo caso il ricorso era previsto tuttavia in via successiva (entro 30 giorni dalla pubblicazione della legge) e non in via preventiva, come nell'articolo 127 della Costituzione.
Definite, con la Costituzione e la legge costituzionale n. 1 del 1948, le competenze e le modalità operative del nuovo organo di giustizia costituzionale, l'avvio del funzionamento della Corte non fu, com'è noto, reso possibile che otto anni più tardi, nel 1956.
Nel frattempo vennero emanate ulteriori norme legislative, di rango costituzionale ed ordinario, che definivano aspetti importanti dell'attività della Corte. Con la leggecostituzionale 11 marzo 1953, n. 1 venne attribuita alla Consulta una nuova competenza, quella concernente il giudizio di ammissibilità sulle richieste di referendum abrogativo presentate ai sensi dell'articolo 75 della Costituzione, e furono stabilite ulteriori norme di garanzia concernenti lo status dei giudici costituzionali. Con la legge 11 marzo 1953, n. 87 furono invece dettate importanti norme in materia di costituzione e funzionamento della Corte, di disciplina della proposizione delle questioni di legittimità costituzionale, di esame dei conflitti di attribuzione. Va a quest'ultimo proposito rilevato che l'inserimento di talune di tali disposizioni in una legge di rango ordinario come la L. 87 ha destato e continua a destare non poche perplessità in relazione al carattere «materialmente» costituzionale delle norme da essa dettate: basti pensare alle previsioni concernenti il limite del sindacato di costituzionalità della Corte (che esplicitamente esclude «ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento») o alle impegnative proposizioni normative riguardanti la definizione degli istituti del conflitto di attribuzione e di «potere dello Stato».
Per completare la storia legislativa della Corte costituzionale, occorre citare due ulteriori interventi operati con legge costituzionale.
Con la legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2, fu modificato l'articolo 135 della Costituzione, introducendo sostanziali modifiche alle modalità di composizione della Corte: il mandato dei giudici fu ridotto da dodici a nove anni, venne esclusa qualsiasi forma di prorogatio, la durata in carica del Presidente fu limitata a tre anni e fu introdotto il principio della sostituzione di ciascun singolo giudice alla scadenza del mandato. Venne inoltre stabilita la maggioranza necessaria per l'elezione dei giudici da parte delle supreme magistrature e del Parlamento in seduta comune, fissando per l'elezione parlamentare un quorum piuttosto elevato (2/3 dei componenti per i primi tre scrutini, 3/5 per le successive votazioni).
La legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, in connessione con la riforma della disciplina dei reati ministeriali, ha infine soppresso, tra le competenze della Corte, quella concernente appunto i giudizi sui ministri.
5.1.2 L'evoluzione giurisprudenziale
Ma a definire la posizione della Corte costituzionale ha contribuito certamente in misura rilevantissima anche la stessa giurisprudenza della Consulta che ha avuto modo, nelle circa 12 mila decisioni sino ad oggi adottate, di definire in termini sempre più precisi il proprio ruolo nel sistema.
Per articolare la storia dell'evoluzione della giurisprudenza costituzionale sono state utilizzate dagli studiosi periodizzazioni diverse. Quella proposta ad esempio da Enzo Cheli in un recente saggio individua tre fasi: la prima (dalla fine degli anni '50 all'inizio degli anni '70) vede la Corte impegnata a consolidare la propria posizione nel sistema e proporsi quale istanza di promozione delle riforme, in primo luogo attraverso lo svecchiamento dell'ordinamento normativo vigente di derivazione pre-repubblicana; una seconda fase (protrattasi sino alla metà degli anni '80) chiama invece maggiormente in causa la Corte nel ruolo schmittiano di arbitro e mediatore dei conflitti sociali e politici, in un delicato confronto diretto con l'attività del Parlamento e della magistratura; la fase tuttora aperta si caratterizza, invece, per la rapidità e puntualità delle decisioni della Corte, in un contesto istituzionale in rapido movimento e contrassegnato da un elevato tasso di conflittualità interistituzionale.
L'attività di definizione del ruolo nel sistema dell'organo di giustizia costituzionale ebbe avvio già con la prima sentenza emanata dalla Consulta, la n. 1 del 1956, con cui la Corte riconobbe la propria competenza a giudicare della legittimità costituzionale anche delle leggi precedenti all'entrata in vigore della Costituzione, ponendo così le premesse per una verifica alla luce dei nuovi principi costituzionali dell'intero ordinamento normativo vigente.
Nel corso di questo sviluppo, la Corte ha avuto modo di affinare e diversificare gli strumenti a propria disposizione nell'esercizio del sindacato di legittimità degli atti legislativi . Rispetto alla scelta «secca» se caducare o meno le disposizioni sottoposte al suo esame, la Consulta ha sviluppato un complesso arsenale di pronunce, operanti interventi di differente natura sui testi normativi scrutinati: dalle sentenze «interpretative» (di rigetto e di accoglimento) a quelle «monitorie», alla discussa categoria delle sentenze «additive», con le quali la Corte ha subordinato la permanenza nell'ordinamento di una determinata disposizione alla sua integrazione da parte di proposizioni normative di varia natura, individuate dalla stessa Corte. È questa certamente la frontiera più controversa del sindacato di legittimità sulle leggi e che ha maggiormente esposto la Consulta a potenziali conflitti con gli organi legislativi anche per i riflessi che in numerosi casi tali sentenze hanno comportato per le finanze pubbliche. Assumendo come parametro il principio di eguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione, la Corte ha talvolta esteso determinati benefici o trattamenti a categorie di soggetti che ne erano stati illegittimamente esclusi dalle leggi impugnate, determinando in tal modo aumenti di spesa non provvisti della necessaria copertura finanziaria. Va peraltro rilevato che in tempi recenti è venuto emergendo, nel comportamento della Corte su tale profilo, un atteggiamento di sempre più accentuato self-restraint espresso, da un lato, dal ricorso alle sentenze additive solo nei casi in cui l'individuazione della norma mancante da integrare sia univoca e non dia adito alla scelta tra più soluzioni (cosiddette sentenze «a rime obbligate»), dall'altro dalla limitazione in taluni casi dell'intervento della Corte alla formulazione non di una vera e propria integrazione al testo legislativo, ma di un «principio» il cui svolgimento viene demandato al legislatore (queste decisioni sono state definite «sentenze additive di principio»).
Anche al di là di tali punte estreme, la Corte ha comunque interpretato con sempre maggiore consapevolezza il sindacato di costituzionalità sugli atti legislativi come attività che si discosta sensibilmente dal modello, ipotizzato come si è visto dal Costituente, di un confronto puntuale di tipo giuridico-formale tra le norme costituzionali e quelle sottoposte al sindacato di legittimità. Quest'ultimo si è invece sempre più qualificato in termini di valutazione delle discipline legislative alla luce dei «valori» e dei principi espressi dal testo costituzionale, anche se tale riscontro viene comunque tradotto nelle decisioni della Corte in termini di effetti sul tenore testuale delle normative esaminate: la stessa Consulta (sent. 84 del 1996) ha a tal proposito rilevato come il giudice delle leggi giudichi su norme ma pronunci su disposizioni .
Su questa linea, uno strumento assai penetrante, per l'effettuazione del controllo di costituzionalità sulle leggi, è rappresentato dall'utilizzazione in termini assai ampi del principio di eguaglianza, di cui la Corte si è avvalsa come parametro per valutare la «congruità» e la «ragionevolezza» delle misure contenute nei provvedimenti legislativi. Sulla base di tali presupposti la Consulta si è potuta spingere sino a valutare il «buon uso» da parte del legislatore del potere discrezionale ad esso assegnato anche in termini di effettivo conseguimento di un soddisfacente equilibrio tra i diversi valori costituzionali in gioco in un determinato ambito. Non occorre sottolineare la delicatezza anche di questo profilo della giurisprudenza della Consulta, per il diretto riferimento alle scelte e valutazioni spettanti al potere legislativo.
Parametri analoghi, fondati sul criterio di ragionevolezza, sono stati peraltro utilizzati dalla Corte anche per valutare l'uso da parte di organi costituzionali di poteri politici diversi da quelli di carattere normativo: con la sentenza 1150 del 1988 la Corte ha rivendicato ad esempio a sé la possibilità di valutare sotto questo profilo le decisioni delle Camere afferenti la sussistenza della prerogativa della insindacabilità parlamentare.
Un'ultima considerazione va svolta con riferimento alla giurisprudenza della Corte in materia di accesso al sindacato di legittimità. A questo proposito va rilevato lo sforzo posto in essere dalla Consulta per ampliare gli ambiti sottoposti al controllo della Corte, attraverso l'arricchimento dei soggetti abilitati a proporre le questioni di costituzionalità. Ciò è avvenuto, da un lato, riconoscendo la qualifica di «giudice» e «giudizio» anche a soggetti e sedi ulteriori rispetto a quelli compresi nell'ordinario ambito giurisdizionale (tale riconoscimento è stato ad esempio attribuito alla sezione disciplinare del CSM, alla Corte dei conti in sede di controllo sugli atti del Governo e, non ultimo, alla stessa Corte costituzionale, che si è riconosciuta la legittimazione a sollevare di fronte a se medesima questioni incidentali); dall'altro, allargando l'universo dei soggetti da qualificare come «poteri dello Stato», ai fini del riconoscimento della facoltà di sollevare i conflitti di attribuzione.
A questo ultimo proposito, è noto il riconoscimento da parte della Corte di tale qualifica al comitato promotore dei referendum e ad un quinto dei componenti di una Camera (sent. 69/78): tale orientamento è stato recentemente ribadito con la sentenza 161 del 1995, con cui la Consulta si è spinta sino ad annullare una norma di un decreto legge impugnata dai promotori di un referendum in sede di conflitto di attribuzioni in relazione alle limitazioni comportate dal provvedimento alle libertà costituzionali di tali soggetti.
Secondo un orientamento dottrinario, tali sviluppi avrebbero posto le premesse logiche per l'accoglimento anche nel nostro ordinamento di forme di ricorso diretto alla Corte avverso gli atti legislativi da parte di soggetti qualificati, come le minoranze parlamentari (in analogia con l'istituto della saisine parlamentaire francese, che prevede appunto la possibilità per 60 deputati o 60 senatori di impugnare dinanzi al Conseil constitutionnel le leggi approvate dalle camere prima della loro promulgazione) o degli individui che ritengano la sfera dei propri diritti fondamentali direttamente lesa dall'intervento legislativo (come nella Verfassungsbeschwerde tedesca). Sono evidenti le connessioni tra lo sviluppo di tali nuovi strumenti di accesso alla Corte e le possibili innovazioni in tema di forma di Stato e di forma di governo, in particolare per quanto riguarda la definizione di uno «statuto della opposizione» (per una considerazione comparata di tali problemi nei diversi ordinamenti, si può rinviare ad una pubblicazione recentemente edita dal Servizio studi del Senato).
A questo riguardo, va rilevato come nella legislazione costituzionale vigente già sia presente un limitato caso di «ricorso diretto» alla Corte a favore di minoranze politiche: l'articolo 56 dello Statuto della Regione Trentino-Alto Adige prevede infatti, a favore dei gruppi etnico-linguistici del Consiglio regionale e del consiglio della Provincia autonoma di Bolzano, la possibilità di adire la Corte avverso le leggi regionali o provinciali ritenute lesive del principio della parità tra i gruppi linguistici. D'altro canto, la stessa Corte costituzionale ha avuto modo (sent. 406 del 1989) di riconoscere come il sistema di controllo di costituzionalità incentrato sul sindacato in via incidentale permetta la formazione di «zone franche» di incostituzionalità, in conseguenza delle scarse occasioni di controversia offerte da leggi che concernano direttamente competenze di organi pubblici o che non influiscano restrittivamente su situazioni soggettive.

5.1.3 I precedenti progetti di riforma
La riflessione politica e scientifica sulle prospettive di riforma della Corte costituzionale ha dato luogo alla prime ipotesi di modifica dell'attuale disciplina già a partire dall'inizio degli anni '80.
In sede parlamentare, la Commissione Bozzi non ritenne opportuno proporre modifiche alle disposizioni della Costituzione direttamente concernenti le garanzie costituzionali, ma si limitò a prospettare, nell'ambito di una nuova ipotesi di stesura dell'articolo 81 della Costituzione, una innovazione di rilievo per quanto concerne le modalità di accesso alla Corte: l'attribuzione alla Corte dei conti, in sede di esame del rendiconto dello Stato, della facoltà di investire la Corte costituzionale dei giudizi nei confronti delle leggi per violazione appunto dell'articolo 81 della Costituzione. La proposta introduceva una forma di accesso diretto ai giudizi della Corte che era già stata prospettata dalla Consulta in una sua famosa sentenza (n. 226 del 1976). Con questa innovazione si intendeva porre rimedio alla già ricordata insufficienza emersa sulla base dell'esperienza applicativa a carico del sistema incentrato sul sindacato costituzionale in via incidentale, in relazione alla non completa tutela di determinati valori costituzionali (come quello della copertura delle leggi di spesa).
Le esigenze di rafforzare la funzione della Corte costituzionale di tutela obiettiva dell'ordinamento su impulso di un organo neutrale quale la Corte dei conti ritornano nella X legislatura, con l'approvazione, da parte del Senato e quindi della Commissione affari costituzionali della Camera, della proposta di introdurre - nell'ambito di un più complessivo disegno di revisione costituzionale che interessava il sistema del bicameralismo e il riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni - l'articolo 95-bis della Costituzione, nel quale, in connessione con la previsione di un chiaro riparto di competenze tra la funzione legislativa delle Camere e quella regolamentare del Governo, si ipotizzava di attribuire alla Corte dei conti la facoltà di sottoporre al giudizio della Corte costituzionale gli schemi di regolamento inviati dal Governo per il visto, in caso di riscontro di una violazione da parte di questi della riserva di legge.
Le ipotesi di riforma complessiva della giustizia costituzionale furono quindi espressamente affrontate nell'ambito del Comitato «garanzie» costituito in seno alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita nella XI legislatura. Gli esiti del dibattito svolto nel comitato furono raccolti dal relatore sen. Acquarone in un documento che esprimeva in proposito una serie di «principi direttivi», di cui il Comitato prese atto. I punti salienti del documento si possono così sintetizzare:


a) esigenza di ricondurre nell'ambito del testo della Costituzione tutte le discipline di carattere costituzionale riguardanti la Corte costituzionale e l'accesso ai suoi giudizi, attualmente contenute in una serie di singole leggi costituzionali;


b) opportunità di ampliare le possibilità di accesso al giudizio di legittimità sulle leggi da parte della Corte prevedendo, accanto al ricorso in via incidentale, nuove forme di accesso diretto. Tale ampliamento avrebbe comunque dovuto tenere conto dell'esigenza di garantire la funzionalità della Corte e la tempestività delle sue decisioni. Una prima ipotesi di ampliamento fu formulata a favore del Governo, di una consistente quota di parlamentari (1/5 dei componenti di una Camera), cinquecentomila elettori, cinque consigli regionali. L'apertura ad ulteriori soggetti avrebbe comportato comunque il problema di definire opportune istanze di filtro sulla ammissibilità dei ricorsi (funzione da attribuire ad un organo monocratico, quale il procuratore della Costituzione ipotizzato dallo stesso Calamandrei in sede di Assemblea costituente, o collegiale, ad es. una Commissione ristretta composta da tre giudici costituzionali);


c) definizione degli effetti temporali delle sentenze della Corte aventi conseguenze finanziarie. Si ipotizzò in proposito che l'effetto «caducatorio» di tali sentenze fosse sospeso, per dare modo agli organi legislativi e al Governo di intervenire, prevedendo anche la possibilità per la Corte di sospendere l'efficacia della legge colpita da incostituzionalità;


d) modificazione dell'attuale sistema di elezione dei giudici costituzionali, prevedendo l'integrazione del Parlamento in seduta comune con i rappresentati regionali ed elevando il quorum richiesto per l'elezione (in funzione di maggiore garanzia in conseguenza dell'adozione di sistemi maggioritari per l'elezione del Parlamento).


Il Comitato non giunse tuttavia ad approvare in via definitiva una proposta di revisione costituzionale da sottoporre al plenum della Commissione. Nel testo di revisione complessiva della Costituzione, che quest'ultima licenziò per le assemblee delle due Camere, non erano pertanto contenute espresse proposte di modifica degli articoli concernenti le garanzie costituzionali. In altre parti del testo approvato dalla Commissione si riproponeva peraltro l'ipotesi, nell'ambito di un nuovo articolo 95-bis della Costituzione, di attribuire alla Corte costituzionale il giudizio sul rispetto della riserva di legge da parte dei regolamenti governativi. Rispetto al testo già esaminato nella X legislatura, il giudizio della Corte poteva essere provocato, oltre che su ricorso della Corte dei conti, anche su richiesta di un quinto dei parlamentari di ciascuna Camera. L'accesso diretto al giudizio di legittimità della Corte veniva infine previsto anche a favore delle Regioni avverso le leggi organiche entro 30 giorni dalla pubblicazione.
Nella scorsa legislatura si segnalano, infine, i lavori svolti dal Comitato di studio per le riforme istituzionali costituito dal Governo Berlusconi. Nel testo complessivo di revisione costituzionale predisposto dal Comitato si ipotizzava di rafforzare le funzioni di garanzia della Corte principalmente attraverso un diverso strumento: l'introduzione di forme di accesso diretto alla Corte da parte dei singoli per la tutela dei diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione avverso gli atti lesivi posti in essere dai pubblici poteri. I ricorsi in questione venivano ammessi solo dopo i vari gradi di giudizio previsti per la tutela giurisdizionale ordinaria ed amministrativa, salva la possibilità per la Corte di intervenire anche immediatamente nel caso di ricorsi ritenuti di rilevante interesse generale o nell'ipotesi di presenza di rischio di danni gravi e irreparabili per il ricorrente. In relazione ai nuovi compiti assegnati alla Corte, si prevedeva infine di elevare il numero dei giudici costituzionali a 21 e di introdurre la facoltà per la Corte di esercitare le proprie funzioni anche a mezzo di sezioni.

5.2. Il progetto di riforma della Commissione

5.2.1 I criteri generali del disegno di riforma
Gli istituti di giustizia costituzionale rappresentano l'elemento di chiusura del sistema delle garanzie riferito all'intero ordinamento: è pertanto evidente che la definizione di tali istituti può essere effettuata solo avendo presenti le linee portanti del nuovo disegno istituzionale cui stiamo ponendo mano.
I progetti assegnati alla Commissione e i testi base elaborati dai relatori dei Comitati ipotizzavano di espandere le competenze della Corte in direzioni diverse, ma che si possono ricondurre alle due funzioni fondamentali dell'organo di giustizia costituzionale: quello di garanzia di ultima istanza dei diritti fondamentali e quello di arbitrato dei conflitti interistituzionali e tra i soggetti del sistema delle autonomie.
Come orientare la scelta tra le diverse ipotesi presentate? Si poteva optare per una espansione generalizzata delle competenze della Corte. Questa è tuttavia parsa una scelta solo apparentemente garantista: essa avrebbe potuto in realtà esprimere una agnostica rinuncia a definire i caratteri della Consulta nel nuovo sistema istituzionale, rischiando di farne una specie di «organo pigliatutto», disposto a rappresentare in alcuni contesti una sorta di terza (o quarta) camera, in altri un quarto grado di giurisdizione, e così via.
Si è tentato di individuare la soluzione più corretta utilizzando un duplice criterio, guardando da un lato al concreto ruolo storicamente svolto dalla Corte nel nostro sistema istituzionale, dall'altro alla posizione che potrà ad essa essere attribuita sulla base di una considerazione complessiva del nuovo disegno costituzionale.
Dal primo punto di vista, va rilevato che se tra i caratteri innovativi insiti nel patrimonio genetico di questo organo v'è certamente anche quello di rappresentare una istanza neutrale di composizione ed arbitrato dei conflitti politici, il vero punto di forza che ha permesso alla Corte di affermarsi nel nostro sistema, è stato tuttavia un altro: l'attività prevalente della Corte si è infatti incentrata sul giudizio di legittimità costituzionale delle leggi sulla base delle questioni sollevate in via incidentale. Ciò ha permesso alla Corte di giudicare della costituzionalità delle leggi sulla base della concreta incidenza di queste sui diritti dei singoli fatti valere nell'ambito di specifiche controversie. Il giudizio di costituzionalità si è quindi imposto non come astratta verifica di compatibilità normativa a tutela della coerenza dell'ordinamento, ma come strumento in primo luogo di garanzia di diritti dei singoli. Questo è sembrato un primo dato importante da acquisire per valutare le ipotesi di riforma.
Dal punto di vista invece del sistema che si sta costruendo, è prevalsa la convinzione che la valutazione del ruolo della Corte debba tenere conto di due elementi fondamentali del nuovo ordinamento.
Il primo è quello dell'aumento di complessità del sistema. Un ordinamento che vede la forte espansione del ruolo delle autonomie è evidentemente assai più complesso di quello attualmente vigente: il numero dei soggetti ad autonomia costituzionalmente garantita aumenta, e con essi si accrescono le sedi e le occasioni di potenziali conflitti istituzionali. È naturale che la Corte sia chiamata a svolgere un proprio ruolo nella risoluzione di tali conflitti. Ruolo non facile, vista la fortissima connotazione politica che simili conflitti potranno assumere, con le conseguenti pressioni sulla posizione di neutralità della Consulta.
È tuttavia altrettanto evidente che non potrà essere addossato alla sola Corte il ruolo di regolatore unico di tutte le tensioni del sistema delle autonomie, pena lo stravolgimento dei caratteri fondamentali dell'organo di giustizia costituzionale. Sembra allora fondamentale per garantire la tenuta complessiva del sistema individuare altre sedi di prevenzione e composizione dei conflitti, direttamente connotate in senso politico. In questa direzione si pone l'istituzione nell'ambito del Senato della Commissione della autonomie territoriali, provvista di considerevoli poteri nello svolgimento del procedimento legislativo. È indispensabile puntare sull'effettiva incisività istituzionale di sedi come questa, per garantire la conservazione in capo alla Corte costituzionale del ruolo di garante ultimo e di chiusura dei principi del sistema, anziché di quello di luogo di risoluzione in via ordinaria della microconflittualità interna all'ordinamento delle autonomie.
Il secondo elemento di innovazione che appare importante cogliere nel disegno costituzionale per ridefinire il ruolo della Consulta è rappresentato dalla volontà di individuare più immediati ed efficaci meccanismi per la attuazione degli indirizzi politici espressi dalla maggioranza di governo. Si tratta della traduzione sul piano costituzionale dell'evoluzione in senso maggioritario già operante nel nostro ordinamento per effetto delle nuove leggi elettorali. Nel momento in cui si predispongono le condizioni per porre in grado la maggioranza di governare in modo più efficace e meno mediato, si pone il problema di individuare gli istituti che assicurino la delimitazione di un'area sottratta agli indirizzi politici di maggioranza. Si tratta dell'area costituita, da un lato, dalle regole fondamentali del gioco che presiedono al confronto tra maggioranza e opposizione e, dall'altro, dall'insieme dei principi e diritti inviolabili che caratterizzano un patrimonio di valori comuni che si devono ritenere sottratti alla competizione politica. Il rafforzamento dei meccanismi maggioritari di governo rende pertanto indispensabile il potenziamento delle istituzioni di garanzia poste a tutela del rispetto di quelle regole e di quei principi. Si tratta di un ulteriore fattore che spinge potentemente nel senso dell'espansione degli spazi di intervento della Corte nella regolazione del sistema.
Anche qui è tuttavia necessario considerare il ruolo della Consulta nel disegno istituzionale complessivo che si va delineando.
A tal proposito va in primo luogo tenuto presente che si prospetta la specializzazione di una delle due Camere in un ruolo di garanzia dei diritti fondamentali che appare finalizzato a sottrarre agli indirizzi di maggioranza le scelte di merito riguardanti le libertà. Rispetto a tale opzione sarebbe incoerente riproporre la Corte quale ulteriore sede di risoluzione ed arbitrato dei conflitti riguardanti tali questioni, se non nelle ipotesi estreme. Per quanto riguarda invece il rispetto delle procedure, va osservato che gli articoli sul Parlamento approvati dalla Commissione ripropongono con forza il ruolo dei Presidenti delle due Camere come organi di garanzia del procedimento. Anche per questo aspetto, individuare nella Corte un organo di appello delle decisioni assunte in materia di procedimento legislativo (prevedendo la possibilità di impugnazione generalizzata delle leggi per vizi del procedimento) non sembra in linea con questa valorizzazione del ruolo delle presidenze.
Queste considerazioni hanno aiutato la Commissione ad individuare una soluzione dei nodi politici più rilevanti che riguardano le competenze della Corte nel nuovo sistema istituzionale e che si esprimono essenzialmente nelle questioni del ricorso individuale e dell'impugnazione diretta delle leggi ad opera delle minoranze parlamentari.
L'evoluzione in senso maggioritario della forma di governo impone il rafforzamento e la razionalizzazione del ruolo già attualmente svolto dalla Corte costituzionale, quale istanza di tutela dei diritti e valori fondamentali che si ritengono indisponibili da parte dell'indirizzo politico. In questa prospettiva, l'introduzione dell'accesso diretto alla Corte da parte dei singoli per la tutela dei diritti fondamentali è stato ritenuto un elemento di completamento e di chiusura coerente con il sistema, salvo demandare alla legge costituzionale l'individuazione degli indispensabili filtri per la valutazione di ammissibilità dei ricorsi.
Considerazioni diverse vanno invece fatte per le varie forme di impugnazione diretta delle leggi da parte delle minoranze parlamentari . In questo caso l'ammissione in via generalizzata dell'istituto avrebbe rischiato di espandere eccessivamente il ruolo di arbitrato politico della Corte, determinando un intervento sistematico della Consulta in immediata connessione con la lotta politico-parlamentare che ha condotto ad una certa decisione legislativa. È sembrato quindi opportuno limitare l'impugnabilità diretta delle leggi da parte delle minoranze parlamentari ai casi di violazione dei diritti fondamentali, in modo da determinare l'intervento preventivo ed astratto della Corte non su tutti i dubbi di legittimità costituzionale, ma solo in riferimento alle situazioni estreme in cui si ritiene che la maggioranza abbia voluto, prevaricando, varcare i limiti disponibili all'indirizzo politico.
Con deciso vantaggio in termini di semplicità ed omogeneità del sistema delle garanzie costituzionali, l'impugnazione in via principale delle leggi è pertanto ricondotta a due sole fattispecie: l'impugnazione da parte delle Regioni, delle Province e dei Comuni per violazione delle proprie competenze costituzionalmente garantite, e quella prevista in favore delle minoranze parlamentari per violazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.
Veniamo ora ad illustrare in maggiore dettaglio le singole innovazioni riguardanti la giustizia costituzionale contenute nel progetto approvato dalla Commissione.

5.2.2 Composizione e funzionamento della Corte costituzionale

Composizione della Corte
La Commissione ha in primo luogo esaminato se, in relazione alle nuove competenze attribuite alla Corte anche nella prospettiva di un maggiore intervento di questo organo nella regolazione del sistema delle autonomie, si renda necessario un incremento del numero dei giudici costituzionali. Ricordo in proposito che il problema del numero dei giudici della Corte è affrontato da numerose proposte assegnate alla Commissione: prevedono il mantenimento della attuale composizione di 15 membri le pdl presentate dai gruppi del CCD (pdl Giovanardi C. 3090 e D'Onofrio S. 2053), CDU (pdl Buttiglione C. 3029 e Folloni S. 2011), Forza Italia (pdl Berlusconi C. 3122 e La Loggia S. 2060, Pisanu C. 3121 e La Loggia S. 2059) e Cons. regionale Toscana (A.S. 1699). Propongono invece un aumento del numero dei giudici le pdl Mattarella C. 3088 (16 giudici), Crema C. 3035, D'Amico ed altri C. 3053, Cossiga S. 1934 (21 giudici), Mussi C. 3071 e Salvi S. 2047, (20 giudici), Cons. regionale Emilia-Romagna C. 2900, Piemonte C. 3026, Veneto C. 3028, Liguria C. 3034 e Lazio C. 3095, Rotelli S. 2030, (18 giudici), mentre le pdl Pisapia C. 3089 e C. 3002 Caveri e Pinggera e Thaler Ausserhofer S. 1978 e Zeller C. 2651, ne prevedono la riduzione, rispettivamente, a 12 e 10.
Nell'ambito della Commissione è risultato, allo stato, prevalente un orientamento restrittivo sulla questione, sulla base della convinzione che un eccessivo ampliamento della composizione della Consulta introdurrebbe seri rischi al mantenimento del principio della collegialità e della coerenza della giurisprudenza costituzionale. Per le medesime ragioni è risultata minoritaria la proposta del relatore di permettere un'articolazione per sezioni della Corte
Il testo approvato dalla Commissione conferma pertanto l'attuale composizione numerica della Consulta, fissata in quindici giudici. Va peraltro evidenziato che la scelta, operata dalla stessa Commissione, di portare da tre a quattro il numero dei titolari del potere di nomina dei giudici, comprendendo fra essi anche le Regioni, potrebbe in futuro suggerire l'opportunità di aumentare di una unità la composizione della Corte, in modo da rendere possibile la scelta di un eguale numero di giudici da parte dei quattro soggetti istituzionali cui spetta la nomina.

Titolarità della nomina dei giudici
Per quanto riguarda la titolarità della nomina dei giudici costituzionali, ci troviamo anche in questo caso di fonte ad una questione fortemente connessa alle scelte affettuate su altri elementi distintivi dell'ordinamento: in particolare, per quanto concerne la posizione del Presidente della Repubblica e l'assetto del sistema delle autonomie.
Ricordo in proposito che nelle proposte assegnate alla Commissione si registra una tendenza prevalente ad aumentare il numero dei soggetti titolari del potere di nomina, assegnando in particolare tale potere a soggetti esponenziali del sistema delle autonomie. Alcune proposte operano tale estensione sopprimendo la previsione della nomina di un terzo dei giudici da parte del Parlamento in seduta comune, ed introducendo la nomina di una quota di giudici da parte della Camera espressiva delle autonomie (pdl C. 3035 Crema; C. 3053 D'Amico; C. 3071 e S. 2047, Mussi e Salvi; C. 3088, Mattarella, C. 3121 e 3122 Pisanu e Berlusconi, S. 1975, Speroni, S. 2006, Folloni, S. 2030, Rotelli, S. 2031, La Loggia e tutte le proposte presentate dai Consigli regionali). In altre proposte la nomina di una parte dei giudici è effettuata direttamente dalle Regioni (pdl C. 3066 Neri, C. 3071 e S. 2047 di iniziativa Mussi e Salvi, C. 3121 Pisanu e C. 3122 Berlusconi, S. 2006 Folloni ed altri, S. 2030, Rotelli, S. 2031 e S. 2060 La Loggia).
Una parte minoritaria delle proposte prevede la sottrazione del potere di nomina ad alcuni soggetti per attribuirlo ad altri (pdl Giovanardi e Sanza C. 3090 e S. 2053 D'Onofrio ed altri, che prevedono l'elezione dei membri da parte del Parlamento in seduta comune, su proposta del Presidente della Repubblica; Caveri C. 3002 e Pinggera e Thaler Ausserhofer S. 1978, che prevede la nomina dei giudici da parte di metà ciascuno dei due rami del Parlamento; La Loggia S. 2060, che prevede la titolarità del potere di nomina per l'Assemblea nazionale, il Senato delle autonomie e le Regioni) ovvero la riduzione del numero dei soggetti titolari del potere di nomina (pdl Pisapia C. 3089, che attribuisce tale potere unicamente alla Assemblea nazionale e alle supreme magistrature). Da segnalare in proposito le proposte D'Onofrio S. 2053 e Giovanardi C. 3090 che prevedono di distinguere le modalità di nomina del presidente della Corte da quelle per gli altri giudici. I 14 giudici ordinari sono eletti dal Parlamento in seduta comune su proposta del Presidente della Repubblica, mentre il Presidente è eletto dai giudici al di fuori di essi per un mandato di 12 anni (mentre il mandato dei giudici ordinari è fissato in nove anni).
Il testo approvato dalla Commissione (articolo 135, primo comma) parte dal presupposto che l'ampliamento della riserva di autonomia a favore delle Regioni richieda una partecipazione di queste ultime nel procedimento di nomina dell'organo che sarà chiamato a dirimere i conflitti tra lo Stato e le autonomie.
Al Presidente della Repubblica, al Senato e ai vertici della magistratura ordinaria ed amministrativa il testo prevede pertanto di aggiungere le Regioni, che esprimerebbero tre giudici. Nel corso del dibattito in Commissione era peraltro stata avanzata anche la proposta di affidare l'espressione della quota dei giudici alle autonomie regionali attraverso un meccanismo che comunque assicuri un filtro in sede parlamentare, attribuendo alle Regioni la individuazione di una rosa di candidati nell'ambito dei quali dovrebbe essere effettuata la scelta da parte del Senato.
Come ho anticipato, la scelta definitiva della Commissione si è invece orientata a favore dell'assegnazione direttamente alle Regioni del potere di nomina. Per la disciplina del procedimento di nomina si è fatto il rinvio ad una successiva legge costituzionale, come già accaduto con la l. cost. n. 2 del 1967 per l'elezione dei giudici di nomina parlamentare e delle supreme magistrature.
L'altra rilevante questione attinente l'individuazione dei titolari della nomina dei giudici della Corte riguarda il ruolo del Presidente della Repubblica.
È stata in particolare sollevata la questione se l'introduzione della diretta elezione popolare del Presidente consenta di mantenere in capo a questi la scelta di una importante quota dei componenti del massimo organo di garanzia del sistema. In seno alla Commissione è emerso l'orientamento a dare una risposta positiva a tale quesito. Da una parte si è rilevato come i giudici di scelta presidenziale, una volta nominati, perdano qualsiasi contatto con l'organo titolare della nomina, risultando completamente sottratti alla sfera d'influenza di questo. Del resto in altri ordinamenti l'elezione diretta del Presidente non ha impedito di attribuire a quest'ultimo la nomina di una parte (come in Francia) o addirittura di tutti i componenti la Corte (come negli Stati Uniti, nel cui caso è tuttavia da ricordare che la nomina dei giudici della Corte suprema è a vita ed è subordinata all'advice and consent del Senato).
L'argomento decisivo per la conservazione al Presidente del potere di nomina dei giudici costituzionali fa tuttavia leva sulla considerazione del ruolo che il Capo dello Stato è destinato a mantenere nel nuovo sistema istituzionale, ruolo che appare contrassegnato anche da forti elementi di garanzia. Proprio ai fini della definizione del delicato equilibrio di poteri che individua la forma di governo nel disegno costituzionale che si va delineando, è sembrato che la sottrazione al Presidente di poteri, come la nomina dei giudici costituzionali, che ne denotano in senso di garanzia la posizione, finisse per rappresentare non una conseguenza del nuovo assetto istituzionale delineato, quanto un possibile fattore di sua alterazione.
Nel progetto approvato dalla Commissione (articolo 135) il Presidente della Repubblica rappresenta, anzi, il soggetto istituzionale titolare del più ampio numero di giudici costituzionali (cinque a fronte dei quattro di nomina delle magistrature e dei tre spettanti rispettivamente al Senato e alle Regioni). Va tuttavia nuovamente ricordato che nel corso del dibattito in Commissione ci si è espressamente riservati di rinviare ad una successiva fase l'esame dell'opportunità di procedere ad una complessiva rimodulazione del numero dei componenti la Corte e delle quota di essi scelta dai diversi titolari del potere di nomina.

Le garanzie di indipendenza dei giudici
Quanto allo status dei giudici, ricordo che, secondo quanto previsto dall'articolo 137 Cost., le «garanzie di indipendenza» dei giudici sono stabilite con norme di rango costituzionale: le leggi costituzionali n. 1 del 1948, n. 1 del 1953 e n. 2 del 1967 prevedono così a favore dei giudici le prerogative dell'inamovibilità, dell'immunità rispetto ai procedimenti penali, dell'insindacabilità, della verifica dei titoli di ammissione e della corresponsione di una retribuzione mensile determinata per legge.
La Commissione non ha ritenuto opportuno introdurre modifiche a tale regime. Segnalo in proposito che rimane aperto il problema della estensione dell'immunità penale dei giudici costituzionali: l'articolo 3 della l. cost. 1 del 1948 prevede che i giudici costituzionali, finché durano in carica, «godano della immunità accordata nel secondo comma dell'articolo 68 della Costituzione ai membri delle Camere». Dopo la recente revisione dell'articolo 68 Cost., è sorta questione se a tale disposizione sia da attribuire carattere di rinvio «fisso» o «recettizio», se, in altri termini, le modifiche introdotte all'articolo 68 Cost., con l'abolizione dell'autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari, sia riferibile anche ai giudici della Corte.
Per quanto riguarda il regime delle incompatibilità con l'ufficio di giudice costituzionale, la disciplina della materia è posta in parte dallo stesso articolo 135 Cost. che prevede l'incompatibilità con la carica di parlamentare, di consigliere regionale, con l'esercizio della professione di avvocato «e con ogni carica ed ufficio indicati dalla legge»: la normativa di rango ordinario è prevalentemente contenuta nell'articolo 7 della L. 87 del 1953 che prevede l'incompatibilità con una serie di altri uffici ed incarichi. La disciplina attualmente vigente non prevede invece alcuna forma di incompatibilità successiva alla fine del mandato di giudice, come invece ipotizzato dal alcune delle proposte di revisione dell'articolo 135 all'esame della Commissione e finalizzate a rafforzare anche per questo versante le garanzie di indipendenza dei componenti della Corte (vedi le proposte di legge Mussi, C. 3071 e Salvi, S. 2047; D'Amico, C. 3054; Pisanu, C. 3121, e Berlusconi, C. 3122; Rotelli, S. 2030). Ricordo in proposito che un regime delle incompatibilità con determinati incarichi successivi al mandato è attualmente previsto dalla L. 60 del 1953 per chi ha esercitato funzioni di Governo.
Il testo approvato dalla Commissione (articolo 135, quarto comma) introduce in proposito un regime delle incompatibilità successive per i giudici della Corte, prevedendo che questi, nei cinque anni successivi alla scadenza del mandato, non possano ricoprire incarichi di governo, cariche pubbliche elettive o di nomina governativa o presso autorità di garanzia o di vigilanza. La soluzione di indicare direttamente in Costituzione la cariche per le quali è previsto un regime di incompatibilità successive dei giudici costituzionali è stata preferita dalla Commissione alla opzione, proposta nel testo base, che rinviava invece alla legge ordinaria l'individuazione delle cariche in questione.
Una ulteriore innovazione (articolo 135, quinto comma) riguarda infine il mandato del Presidente della Corte. Il presidente della Consulta è, com'è noto, eletto dalla stessa Corte tra i propri componenti secondo le modalità stabilite dall'articolo 6 della L. 87 del 1953. Il Presidente attualmente è eletto per un triennio, ma il termine può essere più ridotto in quanto esso non può superare la scadenza del mandato di giudice. Va a questo proposito rilevata una recente tendenza da parte della Corte ad eleggere a questa carica giudici prossimi a lasciare la Consulta, dando così luogo a presidenze di breve e talvolta brevissima durata. La Commissione ha in proposito valutato l'opportunità di introdurre correttivi alla disciplina vigente, in modo da assicurare a questo alto incarico una durata minima, con il fine di garantire una maggiore continuità e coerenza di indirizzi nello svolgimento delle delicate competenze spettanti alla presidenza della Consulta. Il testo approvato (articolo 135, quinto comma) prevede in proposito che non possano essere eletti a Presidente (salvo in caso di riconferma dell'incarico) i giudici negli ultimi due anni del loro mandato.

5.2.3 Competenze della Corte costituzionale
Per quanto riguarda le competenze della Corte, anche in questo campo le ipotesi di riforma esaminate sono partite dalla premessa di un giudizio complessivamente positivo sul sistema su cui si è incentrata sino ad oggi l'attività prevalente della Corte. Il sindacato in via incidentale delle leggi e degli atti aventi forza di legge ha infatti rappresentato, come già sottolineato, una esperienza contrassegnata da grande originalità ed efficacia, che ha permesso alla Consulta di svolgere la propria funzione di controllo sugli atti legislativi non in astratto, ma nel loro concreto operare nell'ordinamento.
Il testo approvato dalla Commissione non intende pertanto alterare la logica del sindacato incidentale, quanto ampliare gli strumenti disponibili nel sistema per rendere possibile il controllo di costituzionalità su aree per la quali, sulla base dell'esperienza applicativa, è risultata difficile sino ad oggi la possibilità di intervento della Corte. La ricerca di più efficaci strumenti di garanzia è stata tuttavia condotta tenendo presenti le esigenze di compatibilità generali del sistema, cui si è fatto riferimento nella parte introduttiva di questa sezione della relazione.
Sono già stati anticipati i caratteri generali delle soluzioni individuate sulle due questioni più delicate per l'equilibrio del disegno riformatore riguardante la giustizia costituzionale: i ricorsi individuali e l'impugnazione diretta delle leggi da parte delle minoranze parlamentari. Pare opportuno avviare l'esposizione delle innovazioni introdotte nel campo delle competenze della Corte partendo da questi due istituti.

Il ricorso per la tutela dei diritti fondamentali
Per quanto riguarda il ricorso diretto individuale alla Corte costituzionale per la tutela dei diritti fondamentali, ci troviamo di fronte ad uno strumento già in uso presso altri ordinamenti: l'Amparo spagnolo, la Verfassungsbeschwerde tedesca e l'analogo istituto previsto in Austria hanno quale comune denominatore il riconoscimento ai singoli soggetti (persone fisiche e in alcuni casi anche persone giuridiche) della facoltà di adire direttamente l'organo di giustizia costituzionale per la tutela di diritti costituzionalmente riconosciuti, che si ritengano violati da atti dei pubblici poteri. In tutti i paesi in cui è previsto, questo canale di accesso è configurato come uno strumento di «chiusura» del sistema delle garanzie e come una sorta di ultima ratio per la protezione dei diritti fondamentali, ove altri strumenti di tutela non siano disponibili o si siano rivelati inefficaci.
In considerazione della portata, potenzialmente illimitata, dell'ambito applicativo di uno strumento di questo tipo, i sistemi stranieri che lo prevedono ne limitano l'applicabilità sia con riferimento a particolari categorie di atti (ad esempio in Spagna sono escluse dalla possibilità di Amparo le leggi, mentre in Austria non sono impugnabili per questa via i provvedimenti giurisdizionali), sia in relazione alla presenza di altri mezzi di tutela. In Germania il ricorso è proponibile «dopo l'esaurimento delle vie legali», in altri termini, per gli atti amministrativi e giurisdizionali, dopo che siano stati percorsi tutti i possibili gradi di giudizio presso i tribunali amministrativi ed ordinari. La Corte costituzionale tedesca può tuttavia intervenire anche in una fase precedente, quando al ricorso sia riconosciuto un interesse generale o possa derivare al ricorrente un danno grave ed irrimediabile dal previo esperimento della via legale.
Per valutare pienamente l'opportunità di introdurre nel nostro ordinamento il ricorso diretto, è necessario inoltre tenere conto che, nei paesi che ammettono questa forma di tutela, essa impegna in modo assolutamente prevalente il lavoro degli organi di giustizia costituzionale, segnando un trend in continuo aumento, cui le Corti faticano a tenere dietro: in Austria, su 2.252 decisioni complessivamente assunte nel 1990 dalla Corte costituzionale, 1.417 hanno riguardato ricorsi individuali e solo 346 giudizi in via incidentale sulla legittimità delle leggi; in Spagna, nel 1994, su 337 decisioni della Corte costituzionale 292 hanno interessato ricorsi di Amparo, mentre le sentenze su questioni di costituzionalità sono state 16; in Germania i ricorsi individuali di costituzionalità sollevati sono stati 5.246 nel 1993 e 5.194 nel 1994, a fronte di 90 e 55 questioni di costituzionalità sollevate su leggi negli stessi anni. Sempre in Germania, sono stati dichiarati manifestamente fondati 253 ricorsi individuali nel 1993 e 133 nel 1994 rispetto a 4.605 e 4.680 Verfassungsbeschwerden dichiarate «irricevibili». L'ampiezza del numero dei ricorsi è alla base di un notevole arretrato nel lavoro del Corte costituzionale federale, determinando un forte aumento del numero dei ricorsi dichiarati inammissibili senza motivazione (4.013 nel 1994, cioè il 85,7% delle decisioni di non ricezione) e inducendo nel 1993 il legislatore tedesco a modificare in senso più restrittivo la normativa concernente l'ammissibilità dei ricorsi individuali.
Tenendo conto di queste premesse e delle proposte assegnate alla Commissione (p.d.l. Pisanu, C. 3031; Berlusconi, C. 3122; Pera, C. 3071; Mussi, C. 3071; Salvi, S. 2047), il testo base adottato dalla Commissione attribuiva alla Corte la competenza a giudicare sui ricorsi presentati da chiunque ritenga di essere stato leso in uno dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione «da un atto dei pubblici poteri avverso il quale non sia dato rimedio giurisdizionale». L'innovazione non configurava quindi una sorta di «azione popolare» presso la Corte (in quanto richiedeva non una generica violazione di costituzionalità da parte degli atti impugnati, ma una lesione diretta ed attuale di un diritto costituzionale del ricorrente), né una forma di ricorso ulteriore rispetto alla tutela giurisdizionale, che finirebbe per fare della Corte costituzionale una sorta di quarto grado di giurisdizione. L'assenza di mezzi di tutela, che abilita al ricorso costituzionale, doveva infatti intendersi come impossibilità di attivare contro determinati atti (si pensi alle leggi e agli atti con forza di legge o ad altre deliberazioni non legislative degli organi parlamentari) gli ordinari rimedi giurisdizionali.
Rispetto a tale ipotesi, è emersa nel corso del dibattito in Commissione, sulla base di una iniziativa emendativa predisposta dallo stesso relatore, una diversa soluzione. Si è infatti determinato di inserire, tra le competenze della Corte elencate nell'articolo 134, i giudizi sui ricorsi presentati per la tutela dei diritti fondamentali nei confronti dei pubblici poteri. Come già anticipato, si è quindi deciso di ammettere in via di principio questo tipo di tutela nella sua forma più ampia: con la dizione utilizzata la garanzia viene offerta non solo avverso gli «atti» dei pubblici poteri, ma in via generale contro qualsiasi condotta da essi posta in essere. Proprio l'accoglimento in forma ampia di questo nuovo strumento di garanzia ha, tuttavia, consigliato di rinviare ad una legge costituzionale la definizione delle condizioni, delle forme e dei termini di proponibilità dei ricorsi. Spetterà a questa legge individuare in primo luogo in quali situazioni e avverso quali atti siano ammissibili i ricorsi individuali, predisponendo in tal modo i filtri ritenuti più adeguati per selezionare i casi effettivamente meritevoli di tutela. Più difficile appare l'ipotesi - pur affacciata nel corso del dibattito in Commissione - che la legge costituzionale possa definire un elenco dei «diritti fondamentali» la cui violazione legittimerebbe l'azionabilità della nuova forma di tutela. È vero che la nostra Costituzione - a differenza, ad esempio, di quella tedesca - non definisce la categoria dei diritti fondamentali; mi sembra tuttavia coerente con la stessa finalità del ricorso costituzionale individuale che questa categoria rimanga una fattispecie «aperta», la cui elaborazione continui ad essere affidata, come sinora è avvenuto, alla giurisprudenza della Corte costituzionale.

L'impugnazione diretta delle leggi da parte delle minoranze parlamentari
Anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad un istituto che consentirebbe di sperimentare nel nostro ordinamento uno strumento già in uso in altri paesi: in Francia in primo luogo, ma anche nella Repubblica federale di Germania, in Spagna e in Portogallo.
A favore dell'introduzione di tale forma di accesso diretto alla Corte si possono addurre una serie di argomenti. Il primo di essi si connette ad uno degli aspetti problematici del controllo incidentale di costituzionalità prima ricordato: la valenza destabilizzante per i rapporti giuridici esistenti, derivante dalle pronunce che annullano disposizioni già vigenti nell'ordinamento e che quindi hanno ormai dispiegato in esso una complessa trama di effetti. Per prevenire le conseguenze, talvolta assai gravi, derivanti dalle pronunce di incostituzionalità su norme vigenti parrebbe opportuno introdurre una forma di sindacato di costituzionalità preventivo sulle disposizioni approvate dal Parlamento.
Tale forma di sindacato può essere concepita in forma «necessaria», cioè svolta dalla Corte d'ufficio in relazione alla natura della normativa approvata. La dottrina ha, ad esempio, da tempo rilevato che questa forma di sindacato di costituzionalità potrebbe essere particolarmente utile, da un lato, per quelle discipline che difficilmente danno luogo a controversie in sede giurisdizionale (sfuggendo quindi alla logica del controllo incidentale, come le norme afferenti l'organizzazione dei pubblici poteri), dall'altro, per le normative la cui caducazione successiva avrebbe effetti particolarmente gravi: si pensi alle leggi di spesa o alle leggi tributarie, la cui eliminazione a posteriori rende assai problematico ricostruire per il passato le posizioni soggettive violate. Il sindacato della Corte su tali atti potrebbe prendere avvio o automaticamente, semplicemente sulla base del «tipo» di legge approvata (come avviene in Francia per le leggi organiche), o su istanza di soggetti pubblici preposti alla tutela di interessi oggettivi dell'ordinamento (come la Corte dei conti per quanto riguarda la copertura finanziaria delle leggi).
L'altra possibile forma di accesso diretto al sindacato di costituzionalità è quella fatta propria dal testo approvato dalla Commissione, ed è rappresentata dalla facoltà di impugnazione delle deliberazioni legislative di qualsiasi contenuto da parte di minoranze parlamentari in relazione alla denuncia di particolari vizi di costituzionalità. Come già rilevato, si tratta di un istituto che viene ad integrare, per un aspetto importante, la formazione anche nel nostro ordinamento di uno «statuto dell'opposizione» che, dopo il passaggio al sistema elettorale maggioritario, appare tuttora in fieri. La scelta dell'accesso diretto alla Corte da parte delle minoranze appare in questo senso coerente con un mutamento, nella logica maggioritaria, dello stesso ruolo dell'opposizione, destinato a svolgersi sempre meno sotto forma di potere di interdizione interno al processo di decisione del Parlamento e sempre più come fattore di attivazione della dialettica interistituzionale, anche attraverso la chiamata in causa di istanze di controllo esterne al Parlamento.
Accanto a questi aspetti positivi, la Commissione ha tenuto in debito conto anche le possibili controindicazioni dell'innovazione che si è prospettata. In primo luogo si è richiamata la necessità di verificare in che termini l'introduzione di un forte canale di accesso diretto e preventivo al sindacato di legittimità della Corte sia destinata a ripercuotersi sulla funzionalità del sindacato in via incidentale. Le logiche che presiedono ai due giudizi sono infatti molto diverse e potrebbe rivelarsi difficile farle convivere: ci si è domandati in particolare in che modo un controllo di tipo «astratto» sulle norme legislative, come quello innescato dal ricorso diretto, potrà ripercuotersi sul controllo «concreto» prodotto dal sindacato in via incidentale, destinato a verificare la costituzionalità della norma nel suo effettivo operare e, soprattutto, nella sua incidenza sui diritti costituzionalmente tutelati dei cittadini.
A fronte di tali legittime perplessità, si è fatto osservare che il sindacato della Corte su ricorso delle minoranze parlamentari si concluderebbe pur sempre, in caso di insussistenza del vizio di costituzionalità dedotto, comunque con una decisione di rigetto per infondatezza della questione sollevata e non con la positiva declaratoria della costituzionalità della legge impugnata (come avviene in Francia): ciò lascia evidentemente perfettamente liberi i giudici a quo di sollevare nuovamente ulteriori questioni di costituzionalità sulla legge che già era stata fatta oggetto dell'impugnazione parlamentare.
L'altra controindicazione all'immissione di forme di accesso diretto su istanza di minoranze parlamentari è naturalmente rappresentata dalla forte pressione di natura politica che potrebbe scaricarsi per questa via sulle decisioni della Corte, un organo che è venuto ad acquisire una sua indubbia autorevolezza nel nostro sistema anche grazie all'avere sin qui mantenuto una posizione di distanza rispetto alle contingenze dello scontro politico.
Mentre il sindacato in via incidentale è stato concepito proprio per aver luogo una volta «raffreddato» il confronto politico che ha determinato la formazione parlamentare della norma scrutinata, l'accesso diretto rischierebbe di riportare l'intervento della Corte in immediata connessione con la vicenda politico-parlamentare, con la possibilità di configurare quest'ultimo come una sorta di «arbitraggio con gli strumenti del diritto costituzionale di una controversia politica» (G. Zagrebelsky).
Gli effetti di un istituto con questa valenza nei diversi ordinamenti sono stati del resto abbastanza diversificati: essi sono valutati in senso generalmente positivo in Francia (che tuttavia non conosce il sindacato di costituzionalità incidentale), ove gli studiosi hanno sottolineato la grande novità di uno strumento che vede la «politique saisie par le droit» (secondo l'espressione usata da L. Favoreu in un libro dedicato alla questione); in altri contesti, come quello spagnolo, la previsione della facoltà di recurso previo da parte delle minoranze parlamentari avverso le leggi organiche esaminate dal Parlamento non ha dato invece buona prova di sé, prestandosi ad una utilizzazione distorta come forma di ostruzionismo parlamentare, tanto da indurre ben presto all'espunzione di questo strumento da quell'ordinamento.
La Commissione ha valutato tutti questi elementi alla luce del nuovo disegno istituzionale che si va delineando. Come già sottolineato nella parte introduttiva di questa sezione, valide regioni sconsigliano di incoraggiare l'inserimento della Corte costituzionale nella veste di arbitro dello scontro politico nel corso stesso dei procedimenti, come quelli legislativi, che attengono alle definizione delle scelte di indirizzo.
L'intervento della Consulta può ritenersi giustificato solo laddove la scelta politica rischia di porre in pericolo regole e principi fondamentali del sistema: è questa la chiave di lettura che ha suggerito di prevedere (articolo 137, secondo comma, del testo approvato dalla Commissione) l'impugnazione diretta delle leggi ad opera delle minoranze parlamentari (un quinto dei componenti di una Camera) solo per i vizi attinenti alla violazione dei diritti fondamentali. Anche in questo caso la definizione della disciplina di dettaglio dell'istituto è stata demandata ad una apposita legge costituzionale, cui spetterà in particolare definire i termini e le procedure per questa nuova forma di accesso al sindacato di costituzionalità.

Le garanzie costituzionali del sistema delle autonomie
Il sistema delle autonomie disegnato dal progetto della Commissione, fondato sui principi che stanno alla base della nuova concezione della forma di Stato, propone l'introduzione di una serie di novità di grande rilievo. Il testo approvato contiene infatti un'esplicita previsione della natura autonoma di comuni, province e regioni, accompagnata dalla chiara indicazione dell'unità politica della Repubblica. Si è inoltre attribuita, in modo particolarmente articolato, un'ampia gamma di poteri a comuni e province: questi, infatti, sono costituiti in «comunità locali» ed hanno funzioni definite attorno al principio di sussidiarietà, individuato come criterio operativo che fa perno in prima istanza sulle stesse comunità locali, e solo in una successiva su Stato e Regioni.
Da queste scelte di carattere generale, pertanto, deriva la formulazione del primo comma dell'articolo 55, che statuisce che la «Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni e dallo Stato» (in ordine non casualmente invertito rispetto all'articolo 114 della Costituzione vigente), e del primo comma dell'articolo 56, che prevede che «le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dall'autonomia dei privati, sono ripartite tra le comunità locali, organizzate in Comuni e Province, le Regioni e lo Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione (...)».
In questo contesto di esplicito riconoscimento di poteri alle autonomie locali (si ricorda che l'articolo 56 stabilisce anche che la titolarità delle funzioni spetta «agli enti più vicini agli interessi dei cittadini»), la Commissione ha deciso di inserire anche una serie di garanzie a tutela dell'effettivo esercizio delle funzioni delle comunità locali, che poggia su due istituti-base: anzitutto, la possibilità di sollevare, anche da parte di Comuni e Province (oltre che della Regione), questione di legittimità costituzionale di fronte alla Corte costituzionale, nei confronti della legge o dell'atto avente valore di legge che si assume lesivo di una competenza assegnata a tali autonomie locali; in secondo luogo, la garanzia del giudizio della Corte sui conflitti di attribuzione tra Stato, Regioni, Comuni e Province. Il primo istituto, sebbene si tratti di un tipico «potere di garanzia», è stato inserito nel Titolo I sulla forma di Stato, all'articolo 60, comma 2, in ragione dello stretto legame esistente con l'impianto generale dei rapporti tra Stato e autonomie; il secondo, invece, è contenuto nel nuovo articolo 134, lettera c), all'interno della sezione sulla Corte costituzionale.
Sotto il primo profilo, è bene sottolineare che l'attribuzione di un potere di impugnazione diretta di atti normativi statali, non limitato agli enti territoriali intermedi, bensì esteso alle comunità locali, era già stato approvato in linea di principio nel corso della discussione sugli articoli in materia di forma di Stato, per esser poi riesaminato e approvato nel suo contenuto normativo nell'ambito del dibattito sul sistema delle garanzie costituzionali.
Tale innovativa facoltà, concessa alle autonomie, non ha mancato di sollevare un ampio dibattito in Commissione. In particolare, si è sostenuto che il principio in questione, mentre è coerente alla configurazione delle Regioni, alle quali è riconosciuto il potere legislativo esclusivo, non altrettanto lo sarebbe nei confronti di Comuni e Province, che si definirebbero come soggetti «passivi» e non «attivi» nel sistema legislativo complessivo: il ricorso diretto potrebbe pertanto portare alla presentazione di un eccessivo numero di ricorsi comunali e provinciali, non sempre di assoluto rilievo costituzionale e, soprattutto, tali da determinare un sovraccarico dei lavori della Corte.
Rispetto a tali rilievi è risultato prevalente l'orientamento secondo cui le comunità locali, pur non avendo potestà legislativa, sono comunque titolari di un potere amministrativo primario, la cui sfera di operatività è opportuno «difendere» attraverso meccanismi di garanzia. Appare pertanto conseguente alla scelta effettuata che tali soggetti possano sollevare di fronte alla Corte la questione di legittimità, qualora ritengano che le leggi dello Stato e delle Regioni invadano ambiti di competenze loro assegnati dalla Costituzione. D'altronde, l'idea che sta alla base della scelta operata dalla Commissione non è un'esperienza isolata nell'ambito delle costituzioni continentali, essendo in linea, ad esempio, con il modello tedesco, che affida alla Corte costituzionale il compito di essere garante della ripartizione dei poteri tra i vari livelli ordinamentali dello Stato.
Strettamente collegata a tale questione è, inoltre, quella attinente l'estensione di un altro strumento di garanzia a favore delle autonomie locali: il ricorso alla Corte per conflitto di attribuzioni. Si tratta, in questo caso, di un potere attivabile non per dichiarare l'illegittimità costituzionale di un atto normativo primario dello Stato, bensì per garantire il rispetto delle competenze costituzionalmente garantite dal Titolo I sulla forma di Stato, di fronte a qualsiasi atto che ne impedisca il legittimo esercizio. Sulla questione è emerso un generale assenso in sede di esame in Commissione, tale da far ritenere che il principio del ricorso intersoggettivo sia divenuto un elemento essenziale dell'intero sistema di garanzia legato al funzionamento della nuova forma di Stato.
Su tale argomento, dunque, è sufficiente sottolineare che il giudizio della Corte sui conflitti di attribuzione assume un carattere «bilaterale»: infatti, non soltanto le autonomie locali possono ricorrere nei confronti di atti statali e regionali, ma anche lo Stato può chiedere alla Corte di dichiarare che atti delle Regioni, delle Province e dei Comuni eccedono le competenze costituzionalmente loro attribuite.
In linea con la costante giurisprudenza costituzionale sui conflitti Stato-Regioni che, com'è noto, sono previsti già dalla Costituzione vigente, la norma suddetta dovrebbe pertanto costituire una disposizione di «chiusura», idonea a garantire l'intervento della Corte in tutti i casi in cui una «concreta controversia» tra soggetti istituzionali possa configurare lesioni di attribuzioni di rango costituzionale appartenenti ad un diverso soggetto del sistema.

Giudizio di costituzionalità sui regolamenti del Governo
Nel nuovo testo dell'articolo 134 della Costituzione, approvato dalla Commissione, si prevede che la Corte costituzionale giudichi «sulle controversie relative alla legittimità costituzionale dei regolamenti, nei casi stabiliti dalla Costituzione». Il rinvio è effettuato all'articolo 115 del testo approvato dalla Commissione, in cui è previsto che «i regolamenti di cui al primo e al secondo comma sono sottoposti a giudizio di legittimità costituzionale nelle stesse forme e con le stesse modalità previste per le leggi».
I regolamenti richiamati dai due commi citati sono quelli con cui il Governo disciplina l'ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri e il numero e le attribuzioni dei ministeri (primo comma) e l'organizzazione della amministrazione statale (secondo comma).
Con tali disposizioni si introduce, per la prima volta nel nostro ordinamento, il principio della riserva di regolamento: riserva assoluta per i regolamenti riguardanti l'organizzazione amministrativa statale, relativa (in quanto svolgentesi nell'ambito dei principi stabiliti dalla legge) per quanto riguarda i ministeri.
Al riguardo, la prima questione che si è posta, direttamente collegata alla possibilità di sottoporre tali atti al sindacato costituzionale, è quella del «valore normativo» dei regolamenti. Se, infatti, non appare dubbio che a tali fonti normative il testo costituzionale continui a conferire un valore di «normazione secondaria», bisogna altresì riconoscere che per le prime due categorie di regolamenti individuate dall'articolo 116 (segnalate in precedenza), per le quali il nuovo testo sembra fissare una vera e propria riserva di regolamento, la conclusione non viene ritenuta sempre altrettanto pacifica.
Per tali motivi, le ragioni di chi, in sede di esame, si è opposto all'introduzione del principio della sindacabilità dei regolamenti, si sono concentrate attorno alle considerazioni emergenti dai principi che stanno alla base della prevalente giurisprudenza costituzionale, che afferma che la competenza della Corte debba essere limitata agli atti normativi cossiddetti «primari», con esclusione, dunque, dei regolamenti governativi. D'altra parte, la ragione della limitazione del controllo di costituzionalità ai soli atti normativi primari, risiede nella vigente configurazione del sistema delle fonti: in tal senso, si ritiene che gli atti regolamentari, in quanto atti normativi secondari, siano «subordinati alla legge» e, pertanto, non possano porsi in contrasto diretto con la Costituzione, bensì in un rapporto mediato dalla legge stessa. Si ammette quindi che i regolamenti dell'esecutivo possano essere illegittimi dal punto di vista costituzionale, ma la loro incostituzionalità non è mai diretta, in quanto risulta «filtrata» da atti di normazione primaria.
Secondo tale impostazione, i regolamenti di cui all'articolo 115 non sarebbero mai, direttamente, incostituzionali. Essi infatti possono porsi in rapporto con le fonti primarie in due modi: anzitutto, possono essere in contrasto con tali fonti, ma in tal caso il loro sarà un vizio di illegittimità prima ancora che di incostituzionalità; al contrario, può accadere che essi siano conformi alla fonte normativa primaria e, tuttavia, il vizio di incostituzionalità sarà, in tale ipotesi, attribuito direttamente alla fonte primaria stessa (con conseguente caducazione indotta della norma regolamentare).
Tale impostazione, tuttavia, viene sempre più frequentemente revocata in dubbio dalla dottrina: in particolare, vi è chi rileva che una delle «zone d'ombra» del sindacato costituzionale risiede proprio nella scarsa garanzia di giustiziabilità dei regolamenti del Governo (Onida); mentre G. Zagrebelsky sottolinea come l'alternativa, prima descritta, tra potere di intermediazione delle fonti primarie e incostituzionalità diretta degli atti regolamentari sia «molto rigida e, in pratica, non sempre soddisfacente, dato il progressivo sgretolamento del principio della previa legge rispetto all'azione amministrativa». D'altra parte, si è fatto notare nel corso del dibattito svoltosi su tale argomento in Commissione, che le considerazioni generali sul tema perdono in parte la loro validità di fronte al testo dell'articolo 115.
In primo luogo, infatti, si deve segnalare che i primi due commi dell'articolo in questione operano un vero e proprio «trasferimento» della materia dell'organizzazione della pubblica amministrazione dalla riserva di legge alla riserva di regolamento: resta così attribuita al vasto potere regolamentare del Governo una materia sulla quale non esiste più, se non sui principi generali, il preventivo «filtro» della legge ordinaria. Il ricorso avverso tali atti per vizi di legittimità costituzionale, dunque, non si giustificherebbe come «sostitutivo» rispetto all'impugnazione ordinaria (di fronte al giudice amministrativo), ma avrebbe invece un significato di garanzia diretto ad assicurare che, anche nel corso dei giudizi di competenza del giudice amministrativo, sia possibile sollevare questioni di costituzionalità in merito a tali atti.
Proprio in quest'ottica, si ravvisa la differenza tra i regolamenti di organizzazione e gli altri tipi di regolamenti individuati dall'articolo 115, con particolare riguardo a quelli «autorizzati» (di delegificazione) e a quelli di esecuzione-attuazione. In tali casi, infatti, la sottoposizione dei regolamenti al sindacato della Corte non appare indispensabile. Anzitutto, i regolamenti autorizzati delegificano materie che, in quanto «ri-legificabili», possono in qualsiasi momento essere «riassorbite» da fonti di normazione primaria. Con riguardo agli altri regolamenti, poi, può esser fatto valere il principio dell'intermediazione della fonte primaria, che avrebbe una funzione di «mediazione» tra l'atto normativo secondario e la Costituzione.
Per tali motivi, la Commissione ha deliberato, dopo un lungo dibattito, di mantenere in vita il principio della giustiziabilità dei soli regolamenti «organizzativi».
Va segnalato che, nel corso dei lavori della Commissione era emersa l'ipotesi di formulare il principio della giustiziabilità costituzionale dei regolamenti affermando che tali atti possano «anche» essere impugnati davanti alla Corte costituzionale. Tale inserimento rischiava tuttavia di alterare il reale significato dell'intera disposizione. Sottoporre, infatti, tali regolamenti «anche» al giudizio di legittimità costituzionale, potrebbe apparire in linea con quanto esposto in precedenza in merito al ricorso incidentale alla Corte nel corso del giudizio ordinario, ma risulterebbe invece incoerente rispetto al sistema introdotto. L'aggiunta dell'«anche» determinerebbe infatti una confusione tra due tipi di sindacato (quello di legittimità riservato al giudice amministrativo) e quello di costituzionalità (riservato al giudice costituzionale), che appartengono a due ordini completamente diversi e che sono destinati nel nuovo sistema a convivere proprio sulla base di tale precisa distinzione. In ogni caso, sulla questione la Commissione potrà ritornare nella successiva fase dei propri lavori.

I ricorsi in materia elettorale.
La Commissione ha anche affrontato la questione se attribuire o meno alla Corte costituzionale la competenza a decidere in prima o seconda istanza sulle controversie relative ai titoli di ammissione dei componenti delle Camere.
Com'è noto, la necessità di verificare la validità del principio espresso dall'articolo 66 della Costituzione vigente - che affida alla competenza esclusiva del Parlamento i giudizi su tale materia - è emersa con evidenza soprattutto dopo l'adozione di un sistema prevalentemente maggioritario uninominale per l'elezione delle due Camere. La competizione elettorale nell'ambito dei collegi uninominali ha aumentato la posta in gioco nel contenzioso elettorale, potendo le relative decisioni incidere molto più che in passato direttamente sulla composizione dei rapporti numerici tra le diverse componenti parlamentari. Di qui i rischi di decisioni arbitrarie da parte delle forze di maggioranza e la conseguente proposta di affidare ad istanze neutrali esterne al Parlamento la decisioni sui ricorsi elettorali o la verifica delle deliberazioni adottate in materia delle Camere.
Il relatore aveva ricevuto dalla Commissione il mandato di elaborare una proposta in materia. L'articolo proposto alla Commissione, anche sulla base di una analoga ipotesi contenuta nel testo base sul Parlamento, conteneva due previsioni:
obbligo per le Camere di decidere sui ricorsi elettorali «entro termini tassativi stabiliti dai propri regolamenti»;
possibilità per l'interessato di ricorrere avverso le decisioni delle Camere davanti alla Corte costituzionale entro quindici giorni dalla deliberazione.
La Commissione ha tuttavia approvato solo il primo principio (che si trova trasfuso nell'articolo 92 del progetto). Nei confronti della seconda previsione sono state infatti espresse perplessità in riferimento all'eccessivo onere attribuito alla Corte, cui verrebbe di fatto trasferito il riesame dell'intero contenzioso elettorale delle due Camere. Rispetto a tale inconveniente, non sono apparse convincenti le proposte di limitare in vario modo l'accesso alla Corte: riservandolo ad esempio ai parlamentari eletti colpiti da pronuncia di decadenza o rendendo possibile il ricorso solo su iniziativa di una minoranza parlamentare. Le due soluzioni sono apparse in contrasto rispettivamente con il principio di eguaglianza e con la natura di diritto soggettivo dell'eleggibilità. Di qui la decisione di non includere per il momento tra le competenze della Corte quella riguardante la verifica dei titoli di ammissione dei membri delle Camere.
Non ha invece incontrato obiezioni l'ipotesi di attribuire alla Consulta i giudizi sui ricorsi presentati in materia di elezioni del Presidente della Repubblica.
A favore della individuazione nella Corte costituzionale dell'organo competente per questi ricorsi milita la particolare posizione nel sistema della Consulta, dotata del prestigio e della indipendenza necessari per assumere decisioni di così grande delicatezza. Sulla base delle medesime regioni, anche altri paesi (Francia, Portogallo, Austria) hanno attribuito la competenza in questione alle rispettive Corti costituzionali.
I giudizi sui ricorsi in tema di elezioni presidenziali sono attribuiti alla Corte nel progetto della Commissione dalla lettera e) dell'articolo 134: tutti gli ulteriori particolari per lo svolgimento dei giudizi della Corte su questa materia sono rinviati alla apposita legge bicamerale cui l'articolo 70 del progetto demanda la definizione del procedimento elettorale per l'elezione del Presidente della Repubblica.

5.2.4 Le pronunce della Corte costituzionale
Un'ultima categoria di innovazioni contenute nel testo approvato dalla Commissione riguardano la natura e il contenuto delle decisioni con cui la Corte svolge le competenze ad essa assegnate.

Gli effetti delle pronunce
Nell'ambito del comitato sul sistema delle garanzie era stata esaminata dalla Commissione l'opportunità di introdurre, come ipotizzato in alcuni progetti all'esame della Commissione (p.d.l. Mussi, C. 3071; Salvi, S. 2047; D'Onofrio, S. 1917), una modifica all'articolo 136 della Costituzione, finalizzata a precisare che le decisioni della Corte sono di accoglimento, di rigetto, di inammissibilità. La questione sollevata da tali proposte riguarda evidentemente l'opportunità di ricondurre il ruolo della Consulta a quello di «legislatore negativo», disincentivando per il futuro le tentazioni per l'organo di giustizia costituzionale di supplire il legislatore attraverso sentenze che di fatto introducono nuove discipline di carattere positivo nell'ordinamento.
Rispetto a tale ipotesi, sono state tuttavia espresse perplessità in relazione al rischio di irrigidire eccessivamente gli strumenti di intervento della Corte, cui dovrebbe essere invece mantenuto un sufficiente margine di flessibilità in relazione alla complessa attività di ponderazione tra valori costituzionali che spesso si esprime nelle pronunce del giudice delle leggi. Si è pertanto rinunciato a proporre tale modifica anche guardando all'effettiva possibilità di incidenza sugli effetti delle decisioni della Corte ottenibile attraverso l'eventuale ridefinizione della natura di tali pronunce in termini rigorosamente negativi. La stessa natura del sindacato di costituzionalità sulle leggi (caratterizzato in senso assolutamente peculiare rispetto all'ordinaria attività giurisdizionale dal doppio elemento di avere per oggetto atti normativi primari e di dare luogo a decisioni con valenza erga omnes) sembra infatti indurre nei diversi ordinamenti gli organi di giustizia costituzionale a porre in essere un'attività interpretativa delle leggi destinata inevitabilmente a riproporsi, anche in presenza di clausole restrittive sulla tipologia delle sentenze, in termini di sostanziale rimodulazione del precetto normativo ricavabile dalle leggi sottoposte al giudizio.
Ha invece raccolto consenso la modifica, che il testo approvato introduce al secondo comma dello stesso articolo 136 della Costituzione, con cui si dà facoltà alla Corte di modulare l'incidenza temporale delle proprie pronunce, posticipando gli effetti caducatori delle sentenze per un termine massimo di un anno dalla pubblicazione delle decisioni. Si riconosce così formalmente un ampio margine di elasticità agli interventi della Corte (che la stessa Consulta aveva, del resto, in passato affermato in via giurisprudenziale). Tale innovazione pare opportuna per ridurre gli effetti destabilizzanti che si possono determinare in relazione all'immediata applicabilità soprattutto delle sentenze che comportano effetti finanziari. La posticipazione degli effetti di alcune sentenze di incostituzionalità potrebbe infatti permettere al Governo e al Parlamento di provvedere nel frattempo alla copertura dei maggiori oneri comportati o alla revisione dell'intera disciplina su cui incidono le pronunce.
In Commissione si è svolto sul punto un ampio dibattito. Da parte di alcuni commissari si è in particolare sostenuto che l'innovazione introdotta non è sufficiente per dare completa risoluzione al problema degli effetti finanziari delle sentenze della Corte. Per riportare le decisioni di spesa nell'ambito delle sede istituzionale propria - che non può essere che quella rappresentata dal Governo e dal Parlamento - si sono così proposte soluzioni alternative. Da una parte si è proposto di attribuire alla legge la facoltà di stabilire un termine non superiore a tre anni entro il quale viene data esecuzione alle sentenze della Corte che comportano nuove o maggiori spese. Da altra parte si è invece formulata una diversa ipotesi: la fissazione in Costituzione del principio che sostanzialmente vieta alle sentenze della Corte di modificare le decisioni complessive di spesa definite con la legge di autorizzazione. Secondo tale seconda ipotesi, in caso di individuazione ad opera di una sentenza di nuovi destinatari di un determinato beneficio, il rispetto del limite di spesa dovrebbe essere assicurato attraverso l'automatica riduzione proporzionale della spesa a favore di tutti i beneficiari, in modo da rispettare i limiti del preventivo.
Questa soluzione è stata tuttavia ritenuta dalla Commissione troppo rigida e sostanzialmente limitativa dell'efficacia generale ed erga omnes riconosciuta dallo stesso articolo 136 alle sentenze della Corte costituzionale. Nell'ambito del dibattito è stato tuttavia da più parti dichiarato e richiesto l'impegno ad approfondire la questione, al fine di individuare una più soddisfacente soluzione del problema nella successiva fase dei lavori della Commissione.
La Commissione non ha invece accolto una proposta formulata dal relatore che, riprendendo lo spirito di un emendamento presentato, era tesa ad attribuire un nuovo strumento di flessibilità all'intervento della Corte: l'esplicita attribuzione alla Consulta della facoltà di limitare gli affetti retroattivi delle proprie pronunce, tranne che in materia penale e per le questioni che hanno provocato il giudizio. Si è ritenuto che il principio così definito introducesse una deroga di carattere eccessivamente ampio al principio generale che impedisce di applicare a tutti i rapporti ancora «giustiziabili» le norme dichiarate incostituzionali.
Nell'ambito della medesima discussione si è anche dibattuto se dare rilevo costituzionale al disposto enunciato dall'articolo 30 della L. 87 del 1953, che prevede la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale: la Commissione ha tuttavia rinviato l'approfondimento della questione nell'ambito di un successivo riesame del nuovo articolo 131 della Costituzione.

L'opinione dissenziente
L'ultima innovazione contenuta nel testo proposto dalla Commissione riguarda infine, ancora con riferimento all'articolo 136 della Costituzione, l'introduzione della possibilità per i giudici della Corte di esprimere e motivare la propria opinione dissenziente rispetto alle decisioni adottate dalla maggioranza del collegio.
Sull'argomento si era svolto in seno al Comitato sul sistema delle garanzie un ampio dibattito. È stato in proposito rilevato che la difficoltà di definire la natura delle sentenze dei tribunali costituzionali risulta in maniera particolarmente evidente dal confronto tra sentenza continentale (tipica dei Paesi dell'Europa a diritto codificato) e sentenza del giudice di common law. Nel primo caso, infatti, la sentenza adottata dal giudice costituzionale (per sua natura organo non monocratico) è un atto strettamente collegiale ed unitario, deliberato nel segreto della camera di consiglio. Nel secondo caso, invece, essa non appare come un atto collegiale unitario e impersonale, avendo in realtà mantenuto il carattere di sommatoria di volontà: ad esempio, la decisione della Corte suprema statunitense è formata da un atto scritto, che contiene sia la cosiddetta opinion of the Court, sia le opinioni separate (concorrenti e dissenzienti) dei singoli giudici.
In tal senso, è opportuno sottolineare che le esperienze costituzionali del primo tipo si differenziano, al loro interno, a seconda che l'ordinamento preveda o meno la possibilità, per i singoli giudici costituzionali, di manifestare le proprie opinioni separate, spesso in dissenso rispetto alla decisione finale delle Corti. Sotto questo profilo, infatti, mentre l'unitarietà di azione della Corte costituzionale italiana è «protetta» dalla regola che impedisce di dare rilievo esterno alle posizioni differenziate (siano esse opinioni dissenzienti o concorrenti), al contrario, alcuni altri ordinamenti (ad esempio, quello spagnolo e quello tedesco) consentono ai giudici costituzionali di apporre alle decisioni dei rispettivi Tribunali costituzionali le proprie opinioni separate. In quest'ultimo caso, infatti, l'espressione dell'opinione dissenziente non discende dalla struttura della sentenza, bensì da espresse disposizioni che consentono ai giudici di rendere pubbliche le proprie opinioni in maniera separata rispetto al complesso della pronuncia della stessa Corte.
Secondo i fautori della unitarietà formale delle decisioni della Corte, i vantaggi della regola adottata nell'ordinamento italiano sarebbero direttamente legati alla garanzia dell'indipendenza di giudizio dei giudici. In tal senso, l'uniformità di giudizio dell'organo garantirebbe la piena autonomia dei giudici costituzionali rispetto alle forze politiche e costituzionali che li hanno nominati alla Corte, impedendo altresì la formazione di «correnti» all'interno dell'organo e scongiurando l'ipotesi di utilizzazione parziale delle divisioni eventuali tra giudici di fronte all'opinione pubblica. La possibilità di manifestare le opinioni dissenzienti porterebbe pertanto verso una maggiore «responsabilizzazione» del giudice e, quindi, anche ad una maggiore personalizzazione del giudizio, ponendo così un problema di «legittimazione democratica» della Corte, realizzabile anche attraverso un possibile controllo diffuso sul suo operato da parte dell'opinione pubblica.
Per coloro che si dichiarano contrari alla regola dell'unitarietà, il rischio collegato all'impossibilità di esprimere le opinioni dissenzienti è quello di influire sulla chiarezza delle pronunce, rendendo contraddittorie le motivazioni delle sentenze, in quanto i giudici costituzionali, non avendo altri strumenti a disposizione, finiscono tendenzialmente per far valere le proprie opinioni all'interno delle stesse motivazioni. In secondo luogo, l'unicità «formale» delle decisioni della Corte potrebbe configurare, secondo i critici della regola del divieto di espressione delle dissenting opinions, una sostanziale irresponsabilità dei singoli giudici.
La seconda tesi è quella che ha raccolto maggiori consensi nella Commissione: l'introduzione della dissenting opinion, proposta dal relatore, è stata ritenuta utile per rafforzare la responsabilizzazione dell'alta attività svolta dai componenti della Corte e per incentivare una maggiore chiarezza ed univocità delle pronunce della Consulta, attraverso una formale emersione degli orientamenti in dissenso rispetto alle posizioni fatte proprie dalla maggioranza dei giudici.
Il principio in questione è accolto nel nuovo testo dell'articolo 136 della Costituzione, prevedendo che le decisioni della Corte siano pubblicate con le eventuali opinioni in dissenso dei giudici. Nel corso del dibattito in Commissione è stato espresso qualche timore in relazione alla formula adottata nel testo, che si presterebbe, secondo alcuni, a rendere comunque obbligatoria la pubblicazione delle posizioni adottate dai giudici costituzionali sulle singole pronunce. Al relatore sembra che il testo approvato escluda invece tale interpretazione: la disposizione dà facoltà - ma non impone ovviamente l'obbligo - ai giudici di esprimere le proprie opinioni dissenzienti, da pubblicare contestualmente alla sentenza.

Marco BOATO, relatore sul sistema delle garanzie.

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