Intervento al 1° Congresso dei Democratici di Sinistra


Torino, 01/14/2000


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In questo congresso stiamo costruendo l''identità e l''appartenenza dei democratici di sinistra.
Usciamo dalle lamentele sulla crisi dei valori, che hanno attraversato tutti gli anni Novanta; non rimpiangiamo appartenenze perdute; non rincorriamo gli antichi miti fondativi; non cerchiamo impossibili mediazioni tra vecchio e nuovo.

Un partito politico riesce a costruire la propria identità quando è capace di indicare in modo inequivoco la propria collocazione rispetto alle grandi questioni dell''epoca in cui vive.
In questo modo definisce le priorità e presenta a coloro che credono nei suoi valori un quadro di principi strettamente connessi all''esperienza concreta e che perciò possono aiutare a comprenderla.
Pronunciare principi senza connetterli alla vita è il vizio più grave in cui può incorrere la politica perché si creano disillusioni e cinismi.
Nella severa coerenza tra principi e comportamenti la politica trova le ragioni della propria legittimazione.

La legittimazione della politica costituisce oggi il presupposto e lo scopo della nostra azione.
Il presupposto, perché se non ridiamo legittimità alla politica lo sforzo di costruire un nuovo partito, che non sia pura macchina per l''esercizio del potere, diventa in sé vano.
Lo scopo, perché la nostra idea della politica è azione per dare un senso alla vita. Alla vita di chi fa direttamente attività politica, nelle forme più diverse; alla vita di chi, per ragioni ideali, sceglie di votare un partito, un programma. Alla vita di chi, smarrito dalla complessità dei problemi, chiede alla politica una risposta.
Non sto parlando solo della nostra politica; sto parlando della politica di tutti coloro che indipendentemente dagli schieramenti sono impegnati, credono e lottano.

C''è oggi un muro tra politica e società. Se questo muro diventasse insuperabile i danni per la democrazia sarebbero irreparabili.
Lontana dalla politica la società precipita negli egoismi. Perde il senso di sé e del proprio futuro.
Lontana dalla società la politica si corrompe e precipita in un sistema di potere oligarchico, sempre più chiuso, animato dagli insulti pubblici e sorretto dalle intese private.
Noi intendiamo abbattere questi muri, riaprire il circuito vitale tra politica e società.

Un cittadino ha il diritto di conoscere le risposte della politica e dei partiti alle grandi questioni della sua epoca. Non a tutte perché è impossibile. Ma dalle risposte che la politica in quel singolo momento gli sa dare può desumere i criteri per le altre e può desumere parametri che adatta alla sua esperienza per trovare il suo filo nel labirinto della vita. La politica che sa fornire quei fili guadagna legittimazione perché appare tesa sulla società, non piegata su sé stessa.

La storia politica non coincide con i calendari; coincide invece con i grandi avvenimenti che segnano il significato del tempo trascorso o prefigurano il prevedibile significato del futuro.
Così la storia politica dell''Occidente nel XX secolo non si è aperta né si è chiusa con il calendario.
Si è aperta con la prima guerra mondiale nel 1914 e si è chiusa con la caduta del muro di Berlino, nel 1989.
Oggi dal punto di vista della politica, non dal punto di vista del calendario, viviamo già nella storia di un secolo nuovo.
Nel nuovo mondo il fenomeno più significativo è la globalizzazione dell''economia, della finanza e della comunicazione; un partito di sinistra non può fermarsi a questa constatazione, ma deve farne seguire un''altra: rendere i poteri politici adeguati a garantire la democrazia nel mondo del globalismo.
Dalla crisi dello Stato nazione emerge infatti la nuova figura politica ed economica dello Stato-mercato, lo Stato che tende ad estendere le proprie leggi oltre i propri confini, dovunque arrivino le proprie merci ed i propri interessi economici.

La nuova Europa ha una moneta unica, caso unico nella storia del mondo; ha in corso il processo di costruzione dell''unità politica, potrà diventare in futuro il più importante protagonista della scena mondiale se riuscirà a trovare il punto di equilibrio tra interessi nazionali ed interessi del''Unione.

La nuova Italia ha conquistato l''alternanza politica, sta risanando i suoi bilanci, ha in corso una formidabile modernizzazione delle sue strutture istituzionali. Ha dato stabilità politica ai comuni e alle province; l''elezione diretta del presidente del governo regionale darà stabilità ai governi regionali; resta il paradosso di un paese in cui l''unico governo che non ha garanzie istituzionali di stabilità è quello nazionale.

Nel mondo il problema politico più grave è il governo della globalizzazione. Come accentuarne i vantaggi e diminuirne i rischi. La globalizzazione che governa sé stessa accentua la polarizzazione delle ricchezze e della povertà.
Ci pone il problema di coniugare dinamismo economico e giustizia sociale nel mondo.
Ci pone il problema di combattere la povertà.
Le cifre le ha esposte Valter Veltroni nella sua relazione. Ne aggiungo solo due: un abitante del mondo su cinque soffre la fame; è donna il 70% dei poveri del mondo.
Sono grato a Veltroni per aver posto questo problema alla nostra attenzione.
Non è una questione morale, né una questione sociale.
La povertà è una questione politica; per cinque ragioni.
Primo: perché non dipende dalla scarsezza delle risorse ma dalla loro diseguale e ingiusta distribuzione.
Secondo: perché in molte parti del mondo la miseria dipende da guerre locali che potrebbero essere impedite dai paesi più forti, ma che sono intenzionalmente lasciate alla "non politica", Medici senza frontiere, volontari e missionari, perché le donne, gli uomini ed i bambini coinvolti nella guerra, uccisi, violentati, non interessano alla politica.
Terzo: diminuisce il numero dei paesi poveri, ma in molte aree aumenta il numero delle persone povere perché i paesi più poveri sono quelli che hanno i più alti tassi demografici.
Quarto: perché una parte di questi poveri si riverserà ineluttabilmente nei paesi ricchi e noi ci troveremo domani ad affrontare in termini burocratici, di polizia o sociali, comunque assai costosi, anche umanamente, un problema determinato anche dalla nostra disattenzione politica.
Quinto: perché il muro che separa i ricchi dai poveri passa anche attraverso i confini dei paesi ricchi. Nell''Unione Europea e negli USA il 15% degli abitanti vive in condizioni di povertà, nonostante la ricchezza dei paesi dove abitano.

L''Italia, da questo punto di vista, ha una situazione migliore rispetto ad altri paesi. Da noi, infatti, l''indice della povertà è sceso negli ultimi anni dal 14,8% del 1988 all''11,6%, inferiore alla media europea che è dell''11,7%, alla media dei paesi industrializzati che è del 13,5% e a quella degli USA che è del 16,5%.
In Europa hanno meno poveri di noi solo Svezia, Paesi Bassi e Germania. Gli stanziamenti del governo italiano sono passati dai 350 miliardi del 1996 ai 1.450 miliardi del 1999 mentre la legge finanziaria per il 2000 prevede un investimento di 1.800 miliardi per una nuova legge sull''assistenza, che l''Aula della Camera ha iniziato ad esaminare mercoledì scorso e che dovrebbe votare entro la prossima settimana.
Tutti questi sono dati positivi. Ma se guardiamo dentro le cifre scopriamo che alla diminuzione dei dati medi ha corrisposto l''aumento della povertà delle famiglie con più di tre figli. E'' a questi figli che dobbiamo guardare.

Giustizia sociale è una nostra antica parola. La traduzione moderna, per questi bambini, è integrazione culturale. Bisogna sviluppare quanto più è possibile i programmi di integrazione culturale per questi bambini.
I bambini poveri, infatti, si trovano sotto la minaccia di un domani di stabile esclusione dalla società che conta, determinata dal fatto che l''inclusione sociale dipenderà sempre più dalla capacità di usare le nuove tecnologie. Ed i bambini poveri di oggi rischiano l''esclusione permanente in Italia, come in tante altre parti del mondo, soprattutto perché è loro inibita la conoscenza di queste tecnologie. Povertà, tecnoesclusione, marginalità permanente possono essere le tappe di un futuro dei bambini poveri di oggi ai quali domani, da adulti, non resterebbe che la violenza per affermare i propri diritti umani. E gli Stati non potrebbero che replicare con la loro violenza legale.
Oggi la democrazia politica è democrazia dei diritti; domani sarà democrazia della conoscenza. Ma la conoscenza, a differenza dei diritti, è difficile cominciare ad esercitarla da adulti.


In Europa una delle principali priorità è il rapporto con il Mediterraneo. Per ragioni demografiche, economiche e geografiche l''Europa sarà nel futuro quello che sarà il Mediterraneo. Se ci sarà guerra o disperazione sociale nei paesi della riva sud del Mediterraneo saranno inevitabili i contraccolpi nei nostri Paesi in termini di terrorismo o di immigrazione selvaggia.
Stiamo agendo con coraggio: l''Italia ha riaperto i rapporti diplomatici ed economici con la Libia e con l''Iran, che pur non essendo un paese mediterraneo ha un peso assai rilevante in tutto il bacino. Abbiamo ottimi rapporti con tutti i paesi della riva sud, dal Marocco all''Egitto. In Medio Oriente siamo amici tanto di Israele quanto dei palestinesi e dei Paesi arabi.
L''Italia deve farsi portatrice in Europa dell''assoluta esigenza di un rapporto privilegiato con tutti i paesi non europei del Mediterraneo per tre principali ragioni strategiche:
Prima ragione strategica: l''Italia sarà un forte paese europeo se sarà un forte paese mediterraneo; altrimenti rischiamo di diventare un''appendice meridionale dell''Europa centrale. Possiamo diventare invece il ponte permanente e necessario tra popoli, culture, economie del Mediterraneo e dell''Europa. Questa esigenza è stata già colta da numerose università e numerosi centri di ricerca italiani, a Roma, Napoli, Lecce, Catania ed in molte altre città, che hanno specifici programmi di studio e di scambio con i paesi del Mediterraneo. La Rai sta lavorando a specifiche iniziative per tutti i paesi del mediterraneo. Occorrerebbe dare una missione comune a tutte queste iniziative e metterle in comunicazione tra loro per sviluppare sinergie, moltiplicare l''impatto, evitare duplicazioni.
Seconda ragione strategica: lo sviluppo e la competitività dell''Italia dipendono dal Mezzogiorno visto che i dati del Nord e del Centro Italia sono allineati o superiori a quelli delle più forti aree europee. Il Mezzogiorno è lontano dai mercati dell''Europa centrale ed è invece al centro geografico di tutti i mercati mediterranei; la storia ci dice che il Mezzogiorno ha conosciuto i suoi tempi migliori quando il Mediterraneo è stato al centro della storia; il nuovo rinascimento del Mezzogiorno dipende anche dalla valorizzazione del Mediterraneo.
La terza ragione strategica attiene ai rapporti con l''Islam e riguarda ancora una volta tutta l''Europa. C''è chi teme una forma di "inquinamento" religioso dell''Europa e del nostro Paese. A volte il timore nei confronti dell''Islam è determinato anche dall''equivalenza tra Islam e terrorismo. E'' un''equivalenza sbagliata, come confondere il cattolicesimo con il terrorismo dei cattolici nordirlandesi.
E'' certamente vero che in alcune aree del mondo c''è un estremismo islamico che chiede la guerra contro i cristiani. Ma proprio questi rischi devono spingerci a costruire rapporti tali da evitare i conflitti. L''Italia è crocevia tra religione cattolica e religione islamica. La convivenza tra mondo cattolico e mondo islamico è inevitabile: o la si subisce o la si combatte o la si governa. E'' meglio governarla aprendo una frontiera mediterranea nella nostra politica estera, nella nostra politica culturale, nella nostra politica economica.

L''Islam presenta certamente alcuni aspetti ostici, innanzitutto per la mancata separazione tra religione e politica, come in Europa prima della rivoluzione francese.
Ma il confronto con l''Islam ha il merito di obbligarci ad un riflessione complessiva sui nostri valori e sui nostri stili di vita. I governi laici, come il nostro, sono obbligati a ridefinire il proprio rapporto con le religioni, pensiamo alla questione del velo nella scuola pubblica, dell''alimentazione oppure ad alcuni aspetti delle controversie sulla parità scolastica.
Le società secolarizzate sono obbligate dal confronto con l''Islam ad interrogarsi sui propri valori fondamentali. La Chiesa cattolica, per fronteggiare l''Islam, è tenuta a rinvigorire i propri fondamenti evangelici.
Tutte le società occidentali stanno attraversando un profondo processo di secolarizzazione che determina, nella vita privata come nella vita pubblica, un deperimento dei legami civili o religiosi dotati di un significato che va oltre la vita. Nella nostra società la secolarizzazione ha aspetti positivi di liberazione delle persone, di equità civile e sociale, di sviluppo della libertà culturale e artistica. Questi aspetti vanno difesi.

Ma la secolarizzazione trascina con sé anche la tendenza negativa ad una immersione frenetica nel quotidiano che non è realizzazione, ma fuga dai problemi esistenziali.
Mesi fa, in un regione diversa da questa che ci ospita, sono stato ospite di una comunità per la cura delle tossicodipendenze. La comunità funziona bene. Il sacerdote che la dirige ad un certo punto della conversazione, eravamo a tavola, mi ha detto ammiccando "sai, io non dico mica messa". Gli ho risposto un po'' seccamente "Ma se non la dici tu la messa che sei un prete, chi vuoi che la dica?". Non so se quel mio interlocutore cercasse una forma di complicità o intendesse solo manifestare una sorta di disinvolta modernità. In ogni caso l''episodio mi è sembrato emblematico degli effetti sbagliati della secolarizzazione, della tendenza a considerare ciò che trascende il quotidiano come cosa inutile, che è elegante superare. Mi è sembrato emblematico di una trascuratezza della dimensione religiosa della vita, che ci capita di incontrare troppo spesso. Non dico di questa o quella religione, perché c''è anche una religione civile. Dico di una dimensione della vita che cerchi un senso che vada oltre i confini della vita stessa, qualunque esso sia.
Questo aspetto del processo di secolarizzazione è pericoloso perché chiude il significato delle azioni, delle decisioni, in sé stesse o in presunti retroscena e le sradica da un significato più generale, strategico, al punto che a volte la stessa azione e la stessa decisione finiscono con l''apparire prive di senso. Il processo di secolarizzazione privo della guida della ragione, ed abbandonato all''apparenza o alla convenienza, degenera in un''avvilente banalizzazione guidata soltanto dal cinismo.

Questa secolarizzazione, che a volte sembra coinvolgere anche alcuni aspetti della chiesa cattolica, lo dico con il necessario rispetto, quando sembra dare un eccesso di peso alle esigenze della comunicazione rispetto alle esigenze della sostanza della spiritualità, rende l''Occidente e l''Europa fragili di fronte ad una cultura compatta e rocciosa come quella islamica. Ma allora il problema non è nell''Islam; il problema è dentro di noi, nella fragilità dell''Occidente europeo, nel timore di non reggere la competizione. Si tratta quindi per un verso di dare un senso più compiuto ai valori della tradizione europea che sono incentrati attorno ai valori della persona umana e dall''altro di combattere il pensiero cinico ed il pensiero leggero con una ragione alimentata dallo studio e dal confronto, dal sacrificio della costruzione e dalla consapevolezza della solidarietà.

In questa prospettiva è l''Europa che può costituire una chance per l''Islam. Può aiutare a distinguere ciò che conta per la coscienza religiosa e ciò che riguarda le leggi dello Stato, a liberarsi dalla confusione tra politica e religione, ad ammettere che laicità non è ateismo, non è negazione del valore delle religioni, ma, al contrario, comprensione e rispetto delle loro diversità.
D''altra parte il confronto con l''Islam può servire a noi per rafforzarci nell''idea che per una vita responsabile servono pensieri forti e valori non negoziabili. Si tratta di una sfida difficile. Ma le classi dirigenti non nascono nell''ovatta; nascono dalle sfide difficili.

Il processo di secolarizzazione, in Italia, ha riguardato anche la politica.
La fine del bipolarismo internazionale ha tolto alle forze politiche italiane le armature ideologiche, le parole d''ordine, i miti fondativi che erano durati per quarant''anni e che non sono stati ancora sostituiti da nuove identità, nuove parole chiave, nuove utopie strategiche.
E'' venuta meno anche la grande lotta politica, lo scontro e l''incontro tra pensieri forti, che stimolano le conoscenze, rendono più acute le intelligenze, insegnano a capire le ragioni degli altri.
C''è sempre più spesso un simulacro della lotta politica, una sorta di ricerca dell''insulto più colorito, dello sgarbo più idoneo a far titolo sui quotidiani, abitudini alle quali il nostro partito, per fortuna, ed anche per educazione, in genere si sottrae.

A questo allentamento di vincoli ideali ha contribuito anche la scomparsa prematura, per mano terroristica o mafiosa, di alcune grandi figure della nostra vita politica ed istituzionale, che di quei vincoli erano testimoni, come Aldo Moro, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri sino a Massimo D''Antona.
E'' stata questa la vera decimazione della classe dirigente italiana, quella che ci ha reso più deboli, che ha rallentato la nostra transizione, che ci ha privato di intelligenze politiche e di competenze professionali.

Anche l''attuale instabilità degli equilibri politici è determinata dall''allentamento della rete dei valori ideali. L''etica dell''identità appare sostituita a volte dall''etica della convenienza e dello scambio.

A volte, rispetto alle promesse elettorali, hanno cambiato posizione i partiti politici; a volte i singoli parlamentari. Altre volte gli uni e gli altri. So bene che non si può sostituire un fatto politico come l''indebolimento delle appartenenze con una regola parlamentare. Ma so anche che la regola può aiutare a riscoprire il valore di un principio morale. E'' mia opinione che viene meno ai propri doveri davanti al Paese chi di fronte ad un fenomeno degenerativo che può proporre di bloccare, tace rinviando comodamente a soluzioni migliori. Comunque sarà la Camera e saranno i singoli deputati a decidere, nella loro responsabilità.
Questi non sono tempi di rinvio. Questi sono tempi di impegno e di decisione, per tutti.

La domanda che abbiamo il dovere di porci è come ricostruire una legittimità del sistema politico, come riaprire canali di comunicazione tra politica e società.
A mio avviso occorre recuperare la rappresentatività del sistema politico; si tratta della capacità dei partiti e delle istituzioni politiche di riconnettersi alla società rappresentandone i valori e gli interessi. Non credo che oggi il sistema politico possa pensare a sé stesso come pilota della società, come è accaduto nel passato.
Ma può certamente pensare a sé stesso come stratega collettivo, come complesso di persone, di partiti e di istituzioni che, oltre a governare, prospettano le diverse possibilità di futuro per la società, che disegnano soluzioni per i problemi più urgenti, che indicano alternative per lo sviluppo. Saranno poi i cittadini a scegliere tra le diverse alternative al momento del voto. Dopo il voto, il rapporto dialettico tra maggioranza ed opposizione, la critica dei mezzi di informazione, le posizioni dei partiti politici, dei gruppi di pressione, delle associazioni, sulle scelte effettuate e su quelle che ci si propone di effettuare consentiranno di correggere o di confermare quanto si è fatto e quanto ci si propone di fare.

Il sistema politico può recuperare pienamente questa funzione di stratega collettivo a tre condizioni.
La prima è che la rappresentanza femminile nella politica sia proporzionata la peso che essa ha nella società. Nella Camera le donne sono rappresentate per meno del 12%, sono 72 su 630; nel Senato sono l''8%, 26 su 315; nel paese sono circa il 50%. Se fosse garantito ad uno dei sessi almeno il 40% dei seggi, alla Camera sarebbero circa 250, invece di 72 e al Senato 120 invece di 26.
Se questa discriminazione dipendesse dal censo, probabilmente sarebbe stata corretta. Se ci fosse il 12% di uomini, invece che di donne, probabilmente la percentuale sarebbe stata corretta. La discriminazione parlamentare ai danni delle donne priva le assemblee rappresentative della capacità di rappresentare la società nella sua interezza. Perché le donne, per la loro specificità e per la loro esperienza, sono portatrici in molti campi di istanze diverse da quelle degli uomini. Perché, soprattutto, non esiste un sesso generale. Poi ci saranno donne capaci e donne meno capaci, come per gli uomini; ma questo è un discorso diverso.
Se è vero che nella società ci sono donne e uomini, che sono soggetti integralmente diversi e distinti, e l''una non è una variante dell''altro, una forza democratica e di sinistra per restituire rappresentatività alle istituzioni politiche deve proporre misure per superare le discriminazioni, non per soddisfare una soggettività mortificata, ma per recuperare la pienezza della rappresentanza politica.

A proposito di parità, aspetto una trasmissione tv sul prossimo trentacinquenne che lascerà la moglie per una ragazza diciassettenne. A meno qualcuno non consideri simpaticamente normale questo tipo di fuga e scandaloso solo l''altro.

La seconda condizione attiene alla stabilità del sistema politico. La stabilità è un valore in sé, chiunque governi, perché attiene alla trasparenza dell''azione politica ed alla competitività del Paese. In Europa siamo l''unico Paese ad aver cambiato tre governi nel corso di una legislatura. Questo non aiuta la credibilità dell''Italia agli occhi degli altri Paesi e rompe la coesione civile tra il sistema politico e la società.

In un sistema parlamentare, quale noi siamo, la stabilità politica è determinata da tre fattori: un sistema elettorale che definisca con chiarezza le maggioranze e le opposizioni; un sistema parlamentare che sia tendenzialmente stabile e che perciò non sia indifferente rispetto ai tentativi di mutare in Parlamento gli assetti di governo decisi dai cittadini; una norma costituzionale a difesa della maggioranza di governo che introduca, ad esempio, la clausola della sfiducia costruttiva.

Come si vede, la legge elettorale è il fondamento di un sistema politico stabile, ma da sola non è sufficiente. Per la stabilità del sistema parlamentare stiamo studiando alla Camera, con i colleghi della Giunta per il Regolamento, la praticabilità di misure idonee. In questa sede, naturalmente, non posso dire di più. Ritengo infine particolarmente utile la clausola della sfiducia costruttiva, come nel sistema tedesco. Se avessimo avuto questa clausola non sarebbe caduto il governo Berlusconi nel 1994, né il governo Prodi, né il primo governo D''Alema; in nessun caso, infatti, coloro che erano contro il Governo avrebbero potuto stipulare un accordo per costituire insieme un nuovo governo.

La terza condizione riguarda la costruzione di un diverso rapporto tra maggioranza e opposizione.
Durante la guerra fredda l''Italia è stata, per ragioni prevalentemente internazionali, un paese a sovranità limitata. Oggi rischiamo di essere un Paese a sovranità frenata da quello specifico tipo di conflitto politico italiano che riguarda la lotta per il passato non le strategie per il futuro.
Il conflitto è il sale della democrazia quando riguarda l''assetto del Paese, i suoi equilibri futuri, come dare lavoro, come conciliare sviluppo economico e giustizia sociale, come lottare contro la mafia e contro la corruzione.
Ma il conflitto diventa una gabbia che paralizza il Paese quando riguarda permanentemente il passato e le sue interpretazioni.
Se si presenta l''Italia come divisa tra gli uni che hanno le mani sporche di sangue e gli altri sono amici dei mafiosi, e non si discute di altro, c''è poco futuro per l''Italia.
Alla base di questo atteggiamento ci sono valutazioni diverse della storia repubblicana, sulla fine della prima Repubblica e su Tangentopoli, sul ruolo della magistratura, sulle collusioni tra politica e malaffare.
Kohl non ha accusato i magistrati tedeschi, che fanno indagini sui finanziamenti illegali al suo partito, di essere servi della SPD. Né Strauss Kahn, potente ministro di Jospin, costretto alle dimissioni prima ancora di un''incriminazione, ha accusato la magistratura di Parigi di essere al soldo dei gaullisti.

Siamo entrati, contro tutte le previsioni, nell''Unione Monetaria Europea; contro tutte le previsioni stiamo risanando la finanza pubblica e semplificando le procedure amministrative; dal 1996 abbiamo oltre 700.000 posti di lavoro in più; siamo diventati il quinto paese esportatore nel mondo. Quali altri traguardi potremmo raggiungere se la vita politica non fosse così avvelenata? Quanto lavoro, quanta scuola, quanto sviluppo in più?
Ma sinora l''Italia è stata ciclicamente frenata da scontri basati sulla "riscoperta" di pezzi di storia, usati per annientare l''avversario. Una volta la storia sembra affidata ad un mafioso pentito, un''altra volta ad un usciere di qualche servizio segreto straniero, altrettanto pentito.
Nell''età del bipolarismo la nostra storia è stata affidata agli Stati Protettori.
Oggi non possiamo affidarla ai Pentiti Accusatori. Quelli servono per i processi non per la politica.
Questo stato di cose separa la politica, tutta la politica, dalla società, che ha ben altri problemi e che si aspetta ben altre risposte.
Perciò è necessario un progetto per superare questa condizione di autoimprigionamento.
Il progetto deve escludere occultamenti della verità ed oblio delle responsabilità politiche. Poiché non esistono in democrazia corti depositarie del vero, sarà ciascun cittadino a ricostruire la sua verità sulla basi di quello che dirà ciascuna forza politica.
Perciò ognuno deve portare il suo contributo, anche se in conflitto con quello degli altri, alla comprensione della storia dei nostri anni, dai rapporti tra PCI ed URSS, a tangentopoli, ai rapporti tra mafia e politica, ai finanziamenti illeciti dei partiti e degli uomini politici, alla copertura degli autori e dei mandanti delle stragi impunite.

Ieri, nella sua relazione, Valter Veltroni ha connesso la proposta della commissione su Tangentopoli, nei limiti che egli ha delineato, e la conciliazione.
Conciliazione non significa né rinuncia all''identità né confusione di valori. Conciliazione significa rinuncia all''uso della storia di ieri per combattere i conflitti di oggi. La conciliazione non esclude il conflitto politico di oggi, anzi lo presuppone, ma ne determina i confini. L''unico modo per raggiungere la verità e la chiarezza è che in una sede adeguata per la sua dignità e il suo peso nella vita del Paese, come la sede parlamentare, ciascuno dica la sua verità e sia disposto ad ascoltare quella degli altri.
Ogni parte politica indicherà direttamente le sue chiavi di lettura, le sue verità; poi gli italiani ricostruiranno la propria verità, sulla base di quanto avranno ascoltato, e giudicheranno con lo strumento della democrazia: il voto.
La costruzione del progetto della conciliazione è indispensabile anche per poter affrontare, in uno spirito di verità e senza vendette, le vicende della crisi del sistema politico dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del vecchio legame tra partiti ed elettori.
La crisi della prima repubblica non nasce infatti nelle aule giudiziarie o in presunti complotti.
E'' una crisi che si è sviluppata a partire dalla fine del primo centro sinistra e dal naufragio della solidarietà nazionale dopo l''assassinio d Aldo Moro. Gli anni Ottanta tentarono di dare una risposta con la modernizzazione del sistema politico. Ma a lato di queste spinte positive lievitava quel sistema di corruzioni politiche ed amministrative che avrebbe fatto crollare la vecchia classe dirigente.
I colpi finali a quel sistema sono stati dati prima, nel 1989, dalla fine di un assetto internazionale bipolare in cui anche l''Italia era pienamente inserita e, dopo, dai due referendum, del 1991 per la preferenza unica e del 1993 per il sistema maggioritario.

Se le cose stanno in questi termini, la politica non compie invasioni di campo nella giustizia solo se si affronta prima l''aspetto politico e poi quello giudiziario.
Le soluzioni giudiziarie rispettabili sinora prospettate, da quella del pool di Milano a quella del ministro Flick, non sono andate avanti proprio per la mancanza di un progetto politico complessivo.
Ma deve essere chiaro che nessuna "soluzione" giudiziaria può riguardare chi è stato condannato per corruzione.
Nessuno Stato di diritto l''ha mai fatto, ad eccezione di quei Paesi dove i corrotti sono andati al potere e hanno decretato per sé stessi l''autoassoluzione.
Il sistema delle tangenti non è l''invenzione di una parte politica o il frutto di un teorema giudiziario. Basta guardare agli importi degli appalti di ieri e di oggi.
Una condizione: quando un uomo o una donna mettono in giuoco la propria vita per difendere la Repubblica, la sua legalità, i suoi valori, quell''uomo e quella donna meritano il rispetto incondizionato della nazione. E'' un diritto dei cittadini criticare i singoli atti; ma abbiamo assistito, a volte forse senza la necessaria intransigenza, a casi di linciaggio della vita di persone che meritano invece il rispetto dell''intera nazione. Qualche volta siamo stati troppo silenziosi. Non deve più accadere.

Fissati questi punti fermi, le commissioni d''inchiesta, gli storici, i mezzi di informazione potranno affrontare i capitoli più controversi della storia nazionale sulla base di tutti gli archivi esistenti che devono essere messi a loro disposizione, a partire da quelli dei partiti politici e delle diverse commissioni d''inchiesta.
Non si tratta di creare un Tribunale degli storici. Ad essi, se lo riterranno, è invece affidato il compito di farci conoscere e capire meglio il significato dei documenti, nella consapevolezza che nessun documento è innocente.

Una critica potrebbe essere la seguente: per quale motivo proporre una conciliazione a chi ad esempio diserta il nostro Congresso? Capisco il senso dell''obiezione e tento una risposta: lo sforzo riguarda l''Italia non riguarda i rapporti tra i partiti. Serve a ridefinire un conflitto utile all''identità delle forze politiche e a chiudere una fase politica senza vendette e nello sforzo per la verità.
Lo sforzo serve a far sì che il conflitto riguardi il futuro e non più il passato.

Prima di noi si sono trovati nella nostra situazione, e per vicende certamente più gravi, la Francia, dopo l''Oas e l''Inghilterra con l''Irlanda del nord. Oggi lo fanno Paesi che hanno subito vere e proprie tragedie storiche e che non sono, a differenza di noi, tra le grandi potenze del mondo: dal Sudafrica alla Colombia, all''Algeria. E'' utile per noi rinunciare a fare ciò che in condizioni assai più difficili hanno fatto altre importanti nazioni? E se domani in condizioni politiche a noi avverse questo tema venisse proposto e sviluppato da altri, potremmo ancora dire NO?

Ciò che è nuovo non si lascia esprimere dalle categorie del passato.
Chi ha la responsabilità di governare deve farlo nell''interesse di tutto il Paese, anche di chi non è dalla sua parte.
La politica, come la vita, nei momenti di crisi ha bisogno di nuovi inizi che sono più rischiosi delle vecchie continuità.
Ma è nella capacità di affrontare i rischi dei nuovi inizi che si selezionano le nuove classi dirigenti del Paese e del partito.