Libertà di stampa e diritto di cronaca


Roma, 03/01/1999


*** Incontro promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana***


Paolo Serventi Longhi ha detto che la norma di cui discutiamo qui è stata deliberata in modo surrettizio. Ma non è così. Era all’esame della Camera dal giugno ’98, cioè da sei mesi. Alla Camera sono accreditati 360 giornalisti parlamentari. Credo si siano occupati di questa norma circa 10 deputati. C’erano quindi 36 giornalisti per deputato, che avrebbero potuto seguire questa vicenda per sei mesi e quindi accorgersene.

Non è una contestazione ma una constatazione. A noi questa vicenda ha posto un’altra domanda: come è potuto avvenire questo? Com’è potuto avvenire che nessuno dei 360 giornalisti si sia accorto di una questione di questo rilievo, che è da sei mesi in Commissione, discussa e scritta nei resoconti? C’è evidentemente anche un nostro difetto di comunicazione? Abbiamo perciò pensato di avviare un seminario sull’uso del sito Internet della Camera, aperto a tutti i giornalisti, parlamentari e non, in modo che ciascuno possa accedere con la massima rapidità e completezza alle informazioni sui nostri lavori.

Altro aspetto, qui non esaminato, e comunque strettamente correlato a quanto stiamo discutendo, è che una notizia diventa pubblica perché qualcuno la comunica: i verbali che dovrebbero restare riservati e che invece diventano pubblici acquistano questa qualità perché qualcuno ha violato il dovere di riservatezza. Tale violazione è molto più grave della violazione commessa da chi li ha pubblicati. Il peggiore giornalista è infatti quello che non pubblica la notizia che ha; perché, come è noto, potrebbe farne un uso diverso da quello professionale.

Siamo riusciti ad arrestare Riina, ma non riusciamo a prendere uno di questi violatori ufficiali. Credo sia una questione sulla quale dovrebbero riflettere coloro che hanno l’obbligo di esercizio dell’azione penale e la titolarità dell’azione disciplinare.

Molto spesso, come Lei sa signor Presidente, ci sono delle cointeressenze tra il violatore ufficiale ed il violatore giornalista. Carriere costruite sia sull’una che sull’altra violazione. Credo quindi sia giusto affrontare la questione in modo completo.

In questo quadro un punto indispensabile da affrontare non é tanto quello della pubblicità, quanto quello della segretezza. Riflettiamo un momento: c’è un valore democratico della segretezza, stiamo tutelando la segretezza necessaria? C’è una parte di notizie che non deve essere pubblicizzata. Piuttosto che discutere sul margine di pubblicità, discuterei su quale deve essere il nocciolo di riservatezza e su come garantirlo in modo serio. Se una televisione, come è accaduto in un’area a forte presenza mafiosa, manda in onda un servizio in cui si dice che l’indomani alle cinque ci sarà un’operazione in questa regione, nel corso della quale i carabinieri entreranno da un certo comune, la guardia di finanza da un altro e la polizia da un altro ancora, mi domando: si tratta di informazione o di complicità con la mafia?

Ho l’impressione che il punto sia l’individuazione di un nocciolo di riservatezza strettamente attinente alla sicurezza dei cittadini, all’accertamento della verità e delle responsabilità, a tutto quanto sia costituzionalmente tutelato in un ordinamento democratico. Questo è il punto di partenza e la violazione di questo nocciolo di riservatezza va perseguita con grande rigore.

Siamo passati da un regime processuale penale che estendeva enormemente il margine del segreto a un regime in cui questo margine è rimasto formalmente lo stesso, ma con una serie di lacerazioni che rendono ormai il segreto puramente accidentale. Perciò bisogna affrontare nuovamente la questione e stabilire che cosa, oggi, deve essere considerato riservato, perché attiene alcune tutele primarie in un sistema democratico. Il resto può ben essere pubblicizzabile; ma quel poco, e deve essere poco, che è segreto, deve rimanere tale, perché altrimenti viene meno l’accertamento di responsabilità, la sicurezza dei cittadini, la onorabilità delle persone.

Infine, poiché ci si è riferiti in alcuni autorevoli interventi, ad una mia proposta, vorrei illustrarla più precisamente. Il problema non è tanto quello dell’azione penale per diffamazione, né quello del risarcimento dei danni patrimoniali, che appartengono ad un altro ordine di questioni. Il problema è quello relativo al risarcimento dei danni morali o immateriali. Poiché se si dovessero sommare dieci, venti di questi risarcimenti morali, si arriverebbe a somme praticamente sopportabili solo per poche testate, con evidenti riflessi sulla libertà di informazione.

La mia opinione è la seguente: la rettifica è un istituto previsto dalla legge, ma non praticato dai mezzi di informazione, per carenze di deontologia professionale e perché espone la testata che deve rettificare a una progressiva non credibilità da parte dell’utente, senza alcuna contropartita. Allora mi chiedo se la rettifica fatta nelle forme, nei modi e nei tempi dovuti, non debba essere considerata una misura di per sé risarcitoria dei danni morali, di guisa che non si possa addivenire ad una richiesta di risarcimento morale, se non quando il giornale non abbia operato la rettifica. A quel punto la richiesta dei danni va fatta alla testata e non al giornalista. Se un quotidiano è costretto ovviamente a pubblicare rettifiche tre, quattro, cinque volte la settimana vuol dire che non è attendibile. Questo inciderebbe sul rapporto di fiducia con il lettore perché il giornale scorretto perde credibilità.