Dialogo parlamentare sulle antiche civiltà mediterranee (egizia, greca, persiana, romana)


Il Cairo, 01/23/2001


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Nel 1527 Roma subì il sacco dei Lanzichenecchi, una delle pagine più buie della sua storia millenaria. Ma dalle rovine riemerse uno straordinario reperto: una tavola bronzea dell’altezza di 75 centimetri, raffigurante una cerimonia religiosa in onore della dea Iside. La “Mensa Isiaca” ha segnato così la riscoperta in età moderna della civiltà egizia ed ha costituito il primo pezzo intorno a cui si è sviluppata la collezione che oggi è ospitata nel Museo egizio di Torino, la mia città.
L’opera, risalente al primo secolo dopo Cristo, testimonia l’ampia diffusione di quel culto nel mondo romano. Altri importanti reperti sono venuti più recentemente alla luce persino nel corso dei lavori di restauro di una delle sedi della Camera dei deputati, sulle cui fondamenta sorgeva un tempio dedicato ad Iside.
Il bacino del Mediterraneo si caratterizza per questa osmosi tra civiltà e culture che ha rappresentato la comune ispirazione sulla cui base la Camera dei deputati e i Parlamenti egiziano, greco ed iraniano hanno promosso il dialogo parlamentare sulle antiche civiltà mediterranee. Come ha scritto il grande storico svizzero Jakob Burckhardt, i popoli che vivono sulle sponde del Mediterraneo e sino al Golfo Persico costituiscono un “continuum magnifico”, come se fossero un “unico corpo animato”.
Tuttavia dobbiamo sfuggire a quella che chiamerei la trappola mediterranea, una riflessione carica di reminiscenze e nostalgie, spesso del tutto sganciata dalla realtà e priva della capacità di costruire per il futuro.
Ciò che deve legarci è un impegno per il futuro più che una memoria del passato. Il passato non può essere considerato un rifugio contro il presente; deve essere considerato la base per progredire nel rispetto delle nostre identità.
Le vicende del Mediterraneo hanno sempre condizionato la vita dei nostri Paesi e continueranno a condizionarla.
Se ci saranno pace, sviluppo economico e giustizia sociale, i nostri Paesi e tutti quelli dell’area euromediterranea saranno liberi, prosperi e giusti.
In mancanza di ciò, molti popoli, in particolare quelli della riva Sud, sarebbero probabilmente condannati a subire una frammentazione egemonizzata dal modello di sviluppo delle economie dominanti o da estremismi religiosi. Nessuno di questi due rischi corrisponde ai modelli culturali prevalenti nelle civiltà che si incontrano da millenni nel Mediterraneo.
Esistono, tuttavia, ancora troppe incomprensioni tra mondo europeo e mondo islamico, determinate dalla scarsa conoscenza delle diverse realtà. Esse generano un''immagine negativa dell''uno e dell''altro. E'' invece indispensabile che il mondo europeo assuma un atteggiamento maggiormente aperto verso il mondo islamico, in modo paritario e non paternalistico, e che il mondo islamico, a sua volta, inizi a conoscere meglio il mondo europeo.
Oggi i Paesi musulmani guardano all''Occidente come ad un''unica entità, senza fare distinzioni tra la realtà europea e quella nordamericana. L''Europa deve impegnarsi a modificare tale percezione, rivendicando nel dialogo internazionale la specificità del proprio modello culturale, che coniuga sviluppo e giustizia sociale.
Ciò comporta, innanzitutto, il superamento della visione euro-centrica e quindi un ripensamento critico delle fasi storiche in cui il rapporto tra mondo europeo e mondo islamico si è articolato nel passato più recente.
Nell''arco del XX secolo, tale rapporto ha attraversato tre fasi. La prima metà del novecento ha visto consumarsi l''ultima esperienza del colonialismo, in cui le grandi potenze europee - ed in particolare la Gran Bretagna e la Francia - dominavano il Mediterraneo ed il Medio Oriente e determinavano le condizioni politiche e sociali della regione. Ad essa ha fatto seguito la fase della rivendicazione dell''indipendenza da parte di quei Paesi. La crisi di Suez del 1956 può esserne considerata lo spartiacque decisivo. Come era inevitabile a causa della precedente oppressione, il mondo islamico ha riaffermato la sua autonomia in termini fortemente polemici nei confronti dell''Occidente. Ne è stata conseguenza il delinearsi di un quadro lacerato delle reciproche relazioni.
La fase che oggi stiamo vivendo è quella della possibile ricomposizione di questa frattura. Tale prospettiva si gioca soprattutto sul nuovo modello di convivenza che sapremo costruire nel bacino mediterraneo. Il Mediterraneo rappresenta, infatti, il cuore di quella comunità euro-islamica, che è il frutto della storia delle nostre civiltà e dei nostri popoli.
Egitto, Grecia, Iran ed Italia possono giocare un ruolo decisivo in questo processo, proprio perché condividono non solo l’eredità di antiche civiltà, ma anche la natura di Paesi di frontiera: essi sono stati, al tempo stesso, centri di irradiamento e luoghi di interscambio.
Nell’ambito delle relazioni internazionali, del resto, la dimensione culturale sta assumendo un sempre maggiore rilievo. Tocca, tuttavia, ai Parlamenti, in quanto espressione democratica dei popoli che rappresentano, far compiere al dialogo tra le civiltà un ulteriore passo in avanti, e cioè nella direzione della società civile dei rispettivi Paesi, e non soltanto delle istituzioni.
La riunione, che inizia oggi, tra le delegazioni delle Commissioni competenti in materia culturale delle quattro Assemblee partecipanti al dialogo ha proprio l’obiettivo di individuare gli strumenti da apprestare perché i mezzi di comunicazione, le istituzioni educative, possano promuovere la conoscenza reciproca della storia, delle lingue e delle tradizioni delle quattro antiche civiltà e dei quattro Paesi, con particolare riguardo agli scambi tra i giovani.
Nell’era della globalizzazione, le risorse strategiche per lo sviluppo sono il capitale umano e la sua capacità di gestire il cambiamento.
Servono grandi possibilità di formazione delle giovani generazioni, che permettano ai popoli della regione mediterranea la costruzione di una propria strada per lo sviluppo.
L’investimento nelle giovani generazioni rappresenta un obiettivo imprescindibile per dotare di solide fondamenta il dialogo tra le civiltà e non farne solo l’occasione per solenni dichiarazioni di principio. E’ un obiettivo che deve vedere impegnate, nei rispettivi ambiti di competenza, sia la classe politica sia la comunità scientifica.
Ringrazio, perciò, con amicizia il collega Ahmed Fathi Sorour, Presidente dell’Assemblea del Popolo, per aver reso possibile l’organizzazione di questa riunione ed avervi affiancato un incontro tra storiche egiziane, greche, iraniane ed italiane, che avranno l’opportunità di offrire direttamente un esempio di dialogo, confrontandosi sulla condizione femminile dal punto di vista della storia delle donne.
La crescita ed il cambiamento nel rispetto delle diverse identità sono in gran parte affidate al ruolo della donna nella società.
Si è affermato che il modo in cui la donna elabora, praticamente nella propria vita e simbolicamente nella propria identità, una “doppia presenza”, nella famiglia e nel lavoro, sviluppa forti appartenenze a ciascuna delle due centralità.
Questa pluridimensionalità dell’esperienza e degli interessi spiega come mai la diversità della donna risieda soprattutto nel riconoscere come positivo e possibile il cambiamento.
In tal modo, la diversità diventa risorsa sia individuale che sociale. Ciò non vale solo sul piano dei generi, ma anche su quello dei popoli.
La globalizzazione può avere come effetto l’affermazione di una cultura unica quale riflesso del mercato unico. Ma la cultura unica è, in realtà, una non-cultura.
La scelta del dialogo tra le culture è la principale opportunità a nostra disposizione per salvaguardare le singole identità delle civiltà, che sono una risorsa umana inestimabile.
Il dialogo può così diventare la modalità di promozione di un’alleanza tra le culture che abbiano raggiunto la consapevolezza di dover affrontare un percorso comune.
L’impegno del dialogo tra le civiltà deve rivolgersi a questo fine essenzialmente sul piano della comunicazione, per due principali ragioni. Prima ragione: lo scambio rischia di costituire la misura di tutte le relazioni umane, in una prospettiva, che nessuno considera desiderabile, della “mercificazione globale”.
Seconda ragione: lo strumento della comunicazione ne influenza i contenuti. La tecnologia non è neutrale; essa può influenzarci in modo determinante. Si pensi alla rivoluzione telematica, che pure ha annullato le barriere spazio-temporali ancor più delle scoperte geografiche oppure del trasporto aereo. La velocità della comunicazione sta riducendo lo spazio del pensiero critico .
Il computer, che è forse il simbolo dell’età post-moderna, è senz’altro uno straodinario mezzo di diffusione della libertà e del pensiero, ma è appunto solo un mezzo che non deve omologare i suoi utenti.
Ai rischi derivanti dalla velocità della comunicazione si aggiungono quelli derivanti dalla quantità di informazione che si rovescia quotidianamente sui nostri tavoli; oggi l’informazione è appiattita sul presente ed è perciò costretta ad ignorare la memoria storica.
La comunità internazionale ha, dunque, un forte bisogno delle cultura per salvaguardare le diverse identità.
In questa prospettiva, la contrapposizione tra le culture è una battaglia persa in partenza da tutti i contendenti, mentre ciascuna cultura può legittimare se stessa legittimando le altre culture solo attraverso la cultura.
Il futuro dovrebbe essere costituito da sistemi culturali plurali, e cioè da reti di relazioni tra le culture, in cui la loro diversità e specificità sia messa a frutto in un’ottica di collaborazione e di comprensione, non di assorbimento o di prevaricazione. A questo fine mira il programma di cooperazione parlamentare che abbiamo portato avanti negli ultimi due anni e trova il suo coronamento nel 2001, proclamato dalle Nazioni Unite l’Anno del Dialogo tra le civiltà.
Mi auguro che dai lavori odierni possano provenire utili indicazioni per procedere in tale direzione e si possano delineare comuni obiettivi di politica culturale, all’altezza delle sfide del XXI secolo.