I doveri dei governi per i diritti dell’uomo


Roma, 06/09/2000


*** Forum "L''uomo e la salvezza" - Expo Missio 2000 ***


La ricorrenza del Giubileo, nel cui contesto si inserisce l’iniziativa di oggi, rappresenta un grande evento spirituale per la comunità cattolica e cristiana del mondo.
La portata di questo evento non può tuttavia essere circoscritta alla sola comunità dei credenti.
Il suo profondo significato etico, tradizionalmente ispirato oltre che a valori religiosi anche a valori sociali di equità, di uguaglianza e di pace, fa sì che il Giubileo rappresenti anche per la comunità laica e per quella politica in particolare un’occasione importante di riflessione sui problemi relativi alla giustizia sociale ed alla tutela dei diritti dell’uomo.
Norberto Bobbio, alcuni mesi fa, in occasione del suo 90° compleanno, ha significativamente dichiarato che “i diritti dell’uomo sono la religione civile del nostro tempo”, sottolineando l’interesse crescente per questo problema, ma anche le difficoltà ancora esistenti per la loro effettiva protezione sia all’interno degli Stati, sia soprattutto sul piano internazionale.
E’ proprio in questo ultimo ambito infatti che i diritti dell’uomo sono forse oggi meno tutelati, anche a causa del più importante fenomeno del nostro tempo, la globalizzazione. La globalizzazione, che pure porta con sé incredibili opportunità, se non adeguatamente governata, accentua la polarizzazione tra ricchezza e povertà poiché apre una nuova divisione nel mondo tra chi può accedere ai suoi processi, godendo dei suoi innegabili benefici, e chi invece ne è escluso. La questione dei diritti si pone in modo drammatico nel rapporto tra gli esclusi e gli inclusi in questi processi e si sostanzia nella possibilità di accedervi perché la stessa globalizzazione possa riuscire a mantenere ciò che promette.
Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del PIL mondiale di dieci volte, da 3 mila miliardi a 30 mila miliardi di dollari, assistiamo, anche per effetto della parzialità della globalizzazione, ad un preoccupante allargamento della forbice economica già esistente tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Secondo l''ultimo Rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano, a fronte di 40 paesi che dal 1990 hanno ottenuto una crescita media del reddito pro capite di oltre il 3% l''anno, ben 55 paesi soprattutto dell''Africa sub-sahariana, ma anche dell''Europa dell''est e della Comunità degli Stati Indipendenti, sono invece diventati ancora più poveri.
Questi dati confermano una tendenza di lungo periodo nella distribuzione mondiale del reddito, se si calcola che la distanza tra le nazioni più ricche e quelle più povere era di circa 3 a 1 nel 1820, di 11 a 1 nel 1913, di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973 e di 72 a 1 nel 1992.
Ancora oggi, nella cosiddetta società del benessere, molti paesi meno sviluppati, a causa della povertà, si vedono negare alcuni importanti diritti, come quello all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza sociale, alla salute, fino al fondamentale diritto alla vita.
La povertà costituisce ancora oggi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la principale causa di morte nel mondo.
Le donne ed i giovani sono le vittime più vulnerabili della povertà. Si calcola che oltre 550 milioni di donne, oltre la metà della popolazione rurale del mondo vivano sotto la soglia di povertà e che ogni anno muoiano in tutto il mondo 13 milioni di bambini sotto i cinque anni, a causa della malnutrizione o di malattie legate alla povertà. La povertà costringe sino a 160 milioni di bambini al lavoro minorile e circa 2 milioni a prostituirsi.
I paesi ricchi del mondo, sedi delle democrazie occidentali, hanno dimostrato in diverse occasioni di avere a cuore i diritti fondamentali dei popoli. Lo hanno dimostrato con l’intervento militare in Kosovo e a Timor Est, con l’istituzione di una Corte penale internazionale e, prima, con l’istituzione di vari tribunali penali per crimini particolarmente gravi commessi in diverse parti del mondo.
I nostri militari in Kosovo lo stanno dimostrando mantenendo l’ordine, costruendo strade ed aeroporti, facendo funzionare ferrovie.
Tuttavia queste azioni, in sé necessarie e meritevoli, appaiono ben poca cosa a fronte della disperazione di milioni e milioni di esseri umani.
Basti pensare alle dimensioni attuali della schiavitù che superano di gran lunga quelle del passato. Secondo i calcoli degli studiosi che hanno esaminato la tratta degli esseri umani tra l’Africa e le Americhe, in ben quattro secoli, la cifra relativa a questo traffico non ha superato i 12 milioni. Negli ultimi 30 anni, invece, nella sola Asia la compravendita di donne e bambini ridotti in schiavitù sessuale riguarda circa 30 milioni di persone. Si devono aggiungere le cifre che riguardano l’Africa, alcuni paesi balcanici e dell’Europa centrale e dell’Est. Una gran parte di questo disumano business, alimentato anche dagli uomini dei nostri paesi “civili”, è nelle mani della grande criminalità organizzata.
Lo squilibrio tra i paesi meno sviluppati ed i nostri paesi si traduce oltre che in disperazione umana in massicci movimenti migratori che provocano nei paesi ricchi ondate razziste difficilmente controllabili.
E’ necessario che i nostri paesi rafforzino il loro impegno a livello nazionale e internazionale per garantire a tutti la libertà dal bisogno, alcune condizioni minime di vita ed il diritto allo sviluppo.
Per raggiungere questi obiettivi occorre estendere i benefici della globalizzazione a coloro che ne sono ancora esclusi. Occorre fare in modo che al processo di mondializzazione dell’economia, del commercio e della comunicazione corrisponda un processo analogo per i diritti fondamentali dell’uomo, nella consapevolezza che non può esservi sviluppo senza giustizia sociale.
I nostri governi possono utilizzare due importanti strumenti per realizzare condizioni di maggiore giustizia sociale e di sviluppo per i paesi più poveri: l’adozione di idonee politiche di cooperazione allo sviluppo e l’azzeramento del debito.
L''Italia è già fortemente impegnata in queste due direzioni. La Commissione Affari Esteri della Camera sta esaminando un disegno di legge sulla politica e sugli strumenti della cooperazione allo sviluppo, già approvato dal Senato, che si prefigge come fine primario la lotta alla povertà e all’emarginazione dei paesi cooperanti, attraverso il rafforzamento delle loro istituzioni ed un adeguato sostegno alla loro crescita sociale, economica e culturale, anche attraverso il superamento del divario tecnologico.
La Commissione Affari Esteri della Camera sta inoltre esaminando un disegno di legge che prevede la cancellazione totale di tutti i crediti che l’Italia vanta nei confronti dei paesi più poveri, cioè quelli con reddito inferiore ai 300 dollari annui pro capite, per un totale di 3000 miliardi di lire.
Questo provvedimento apre una nuova fase strategica che affianca le misure di azzeramento del debito a politiche mirate ad avviare la crescita economica ed il progresso civile, per evitare, come avvenuto in passato, che cancellati vecchi debiti se ne siano poi accesi dei nuovi. Così è accaduto per Tanzania, Uganda, Ciad, Burkina Faso.
Oggi, per effetto della nuova strategia, i paesi beneficiati, per potersi avvalere di queste misure, dovranno impegnarsi a riconoscere e garantire i diritti umani e le libertà fondamentali, a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali e a perseguire il benessere e il pieno sviluppo della persona umana, a investire per la salute, l’istruzione e l’assistenza sociale.
L’Italia arriverà, alla fine, ad una cancellazione del debito dei paesi più poveri di oltre 6000 miliardi di lire.
Un’anticipazione di questa nuova strategia si è avuta recentemente con la firma di un Accordo tra Italia e Marocco sulla riconversione parziale del debito, che prevede, da parte italiana, la cancellazione di circa 100 milioni di dollari di debiti, ed un impegno da parte marocchina a realizzare progetti di sviluppo socio – economico e di protezione ambientale con la cooperazione di imprese italiane.
L’iniziativa italiana ha avuto effetti catalizzatori nei confronti di altri Paesi, quali Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada che, seguendo il nostro esempio, hanno annunciato propositi di cancellazione del debito che vanno anche al di là degli impegni assunti nei vertici internazionali.
Ma è venuto il momento che i governi dei paesi industrializzati compiano un passo ulteriore nella strategia di promozione allo sviluppo dei paesi poveri, che vada oltre la cancellazione del debito. Il diritto allo sviluppo dei paesi poveri deve costituire per i paesi ricchi un vincolo ed un preciso dovere a non adottare politiche economiche ingiustamente dannose per questi paesi.
Un forte richiamo a questo dovere degli Stati ci viene oggi rivolto con particolare urgenza dai missionari, da quegli uomini e da quelle donne quotidianamente impegnati sul terreno, spesso a rischio della propria vita, in aiuto dei più deboli.
Anche alla luce delle loro importanti segnalazioni ritengo che i governi dei paesi ricchi debbano agire in due direzioni principali:
- in primo luogo abbattere le barriere al commercio internazionale e fare in modo che anche i paesi poveri possano avvalersi dei benefici della globalizzazione. Questi paesi non avranno infatti un vero sviluppo se non riusciranno ad entrare liberamente con i loro prodotti nei nostri mercati come avviene per i nostri prodotti nei loro mercati;
- in secondo luogo contrastare la politica neocolonialista adottata da alcune grandi industrie occidentali nei confronti dei paesi poveri, dell’Africa in particolare, che sta creando nuove, pericolose forme di sfruttamento e di dipendenza. Faccio 2 esempi: il Nord sarebbe oggi debitore nei confronti dei paesi poveri, donatori di materia prima di oltre 300 milioni di dollari per diritti di sfruttamento non pagati relativi alle sementi per coltivazioni agricole. Alcune sementi modificate geneticamente, non riproducibili, imposte sul mercato da alcune industrie, minacciano seriamente qualunque strategia di sicurezza alimentare di un paese povero, impedendo di fatto la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’alimentazione umana.
Siamo in questo modo arrivati al paradosso che il dramma del continente africano non sia oggi tanto rappresentato dalla sua povertà quanto dalla sua immensa ricchezza!
La sicurezza alimentare dei paesi poveri e il loro stesso diritto alla sopravvivenza sono oggi seriamente minacciati dalla penuria di acqua e dalla sua iniqua distribuzione nel mondo. Il diritto all’acqua costituisce uno dei diritti maggiormente invocati da questi popoli, a fronte dei dati che vedono meno di 10 paesi al mondo - tra cui, in testa, Brasile, Russia, Cina, Canada, Indonesia e Stati Uniti - dividersi il 60 per cento del totale delle risorse idriche del pianeta.
Per alcuni paesi le previsioni sono particolarmente allarmanti. Nei prossimi 10 anni le risorse pro capite si ridurranno del 30 per cento in Egitto, del 40 per cento in Nigeria e del 50 per cento in Kenya.
L’allarme non riguarda solo questi paesi, ma l’intero pianeta. La Banca Mondiale, in base a studi effettuati nel 1995, ha preannunciato infatti una gravissima crisi idrica per il nuovo secolo, definendolo “il millennio della sete”. Queste previsioni sono confermate dal dato ONU sulla disponibilità idrica attuale, che risulta ridotta al 60% rispetto a quella degli anni ’70. Dalla metà degli anni ’90, l’uso di acqua nel mondo si è infatti triplicato. Il prosciugamento di numerosi bacini e fiumi, nonché l’abbassamento delle falde, testimoniano oggi l’impossibilità delle risorse idriche di tenere il passo con l’aumento della domanda, dovuto non solo alla crescita della popolazione ma anche allo sviluppo dell’industria e dell’agricoltura Attualmente ben 80 paesi, equivalenti al 40 per cento della popolazione mondiale, sono in condizioni di penuria di acqua. Sono ben 2 miliardi le persone che non hanno accesso all’acqua potabile. Ogni anno dai 5 ai 10 milioni di persone muoiono per cause idrosanitarie dirette e 30 milioni per cause indirette.
E’ necessaria una urgente concertazione internazionale per garantire un’equa distribuzione nel mondo di questo bene primario, non solo perché la mancanza di acqua minaccia la sicurezza economica, alimentare e sanitaria dei paesi più poveri, ma anche perché questo diritto negato sarà sempre più causa di divisione sociale e di possibili conflitti internazionali. L’acqua potrebbe ridiventare presto un obiettivo goestrategico, come lo è stato nella guerra dei “sei giorni” del 1967 per l’accesso alle sorgenti che alimentano il Lago di Tiberiade - lago che fornisce un terzo dell’acqua dolce ad Israele – o nel conflitto tra Iran ed Iraq nel 1980 per il controllo del delta dello Shat-al-Arab.
Il diritto all’acqua e ad un’equa utilizzazione delle comuni risorse idriche dei territori occupati, previsti fin dagli Accordi di Oslo del 1995, costituiscono uno dei punti chiave del processo di pace in Medio Oriente.
Ciascuna di queste situazioni esige evidentemente una risposta appropriata sul suo terreno. E’ tuttavia dovere degli Stati contribuire alla definizione di un terreno ideale sul quale costruire quelle risposte, un’idea prima che dia anima a tutte le altre.
Questo terreno è costituito dal cosmopolitismo, che rifiuta l’altra impostazione che si esprime invece in termini di comunitarismo, e che è fondata sull’egoismo, sull’esclusione, sulla chiusura e sul rifiuto del diverso da sé.
Le democrazie cosmopolite e pluraliste si fondano sul riconoscimento di un nucleo di valori costitutivi che sono il primato della persona umana, la solidarietà, il rispetto delle differenze, la libertà dal bisogno unita indissolubilmente alla libertà di agire.
Questi valori – in quanto resi “vivi” e concreti dal buon funzionamento delle istituzioni politiche - definiscono in termini positivi la democrazia pluralista, come strumento che non ostacola ma agevola l’allargamento degli spazi di libertà e garantisce l’effettività dei diritti dei più deboli.
Una democrazia cosmopolita e pluralista non si fonda sulla mera tolleranza, ma su una coesistenza fondata sul limite invalicabile del rispetto della persona umana e dei suoi diritti.
La storia del mezzo secolo trascorso dalla proclamazione della Dichiarazione universale di Parigi ci mostra una verità drammatica e in parte paradossale: la maggior parte delle violazioni dei diritti umani provengono proprio dagli Stati cui appartengono i cittadini titolari dei diritti violati.
Come denunciano i rapporti delle Nazioni Unite sono 78 gli Stati in cui si ricorre alla prigione per soli motivi di opinione e 73 quelli in cui la tortura dei detenuti continua ad essere ammessa. In molti paesi continuano oggi applicazioni indiscriminate della pena di morte, abusi e violenze su detenuti, uso politico della detenzione. Sono 142 i paesi in cui si riscontrano in generale violazioni di diritti umani, mentre torture e maltrattamenti si segnalano in 125 Stati.
Per quanto riguarda la pena di morte i dati più recenti di Amnesty International rivelano che durante il 1999 sono stati giustiziati almeno 1813 detenuti in 31 paesi, mentre sono state condannate a morte 3857 persone in 63 paesi.
Anche a fronte di questi dati ritengo sia ormai matura una riflessione sull’opportunità che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo possa essere nel futuro integrata da un distinto documento, una Carta dei doveri degli Stati.
Mi riferisco ad un documento di seconda generazione rispetto alla Dichiarazione dei diritti, che la integri e che indichi i doveri universali degli Stati: a non uccidere i propri condannati, a non torturare i propri detenuti, a rispettare i diritti fondamentali di coloro che si trovano sul proprio territorio, nonché ad investire una quota ragionevole delle loro risorse contro la povertà e contro la fame, per l''istruzione e per la liberazione dal bisogno.
Oggi, con la fine del bipolarismo internazionale ed il declino della vecchia sovranità nazionale, si può finalmente porre la questione degli strumenti e delle modalità per vincolare gli Stati all''osservanza di determinate regole.
Con rinnovata efficacia, il primato dei diritti umani rende assoggettabili a responsabilità gli Stati e le persone che in ragione dell''esercizio di pubblici poteri si rendono responsabili delle violazioni di tali diritti.
E'' dunque ormai possibile fare in modo che ai diritti universali degli uomini corrispondano finalmente anche i doveri universali degli Stati.
Credo che il nostro Paese debba porsi tra i suoi obiettivi prioritari l''adozione di una Carta dei doveri universali degli Stati che integri la tradizionale frontiera dei diritti umani. Lavorare per questa Carta può costituire forse uno degli impegni più nobili di ogni paese civile, libero e democratico.