“I diritti nella società plurale: società, economia e politica”


Padova, 04/30/2000


*** Intervento al 55° Congresso nazionale della FUCI ***


La globalizzazione sta dando luogo a tre diversi processi, distinti ed apparentemente contraddittori.
Il primo è un processo di omogeneizzazione culturale, economica e di stili di vita fondato sulla velocità, l’instabilità, lo scambio, il viaggio, la ricerca permanente del nuovo.
Ne emerge una sorta di individualismo di massa, i cui aderenti, paradossalmente, si sentono diversi perché fanno le stesse cose che fanno altri milioni di persone come loro.
Il secondo processo, invece, è caratterizzato da profonde diversificazioni, etniche, culturali, religiose, di stili di vita.
Le nostre società sono plurali, come voi avete giustamente scritto. Questo significa, a mio avviso, che le nostre società più che fondate sulla tradizionale dialettica maggioranza-minoranza sono sempre più regolate da relazione tra minoranze variabili. Ciascuno di noi può appartenere ad una o all’altra minoranza a seconda delle sue idee religiose o politiche, del suo stile di vita, delle sue abitudini sessuali, se fuma, se non fuma, se è donna o se è uomo, se è giovane o vecchio e così via.
La fine delle grandi categorie unificatrici, la nazione, l’ideologia politica tradizionale, il modo unico di vivere l’esperienza religiosa ha portato a questa frammentazione, che per un verso è un segno di libertà per altro verso può essere l’anticamera di un pericoloso relativismo etico.
Nelle società avanzate il problema del futuro è legato al rapporto tra questi due processi che spesso riguardano le stesse persone.
La chiave di questo rapporto è la determinazione di valori non negoziabili. Se la logica di fondo dei due processi è la banalità del “perché no?” è evidente che alla fine della strada c’è lo strapotere di chi ha più cose da scambiare e lo schiacciamento di tutti gli altri.
E’ invece necessario che ciascuno determini dentro di sé quello che non è disposto a scambiare e che attorno a questo qualcosa, che può essere diverso per ciascuno di noi, costruisca la propria gerarchia di valori. In questo modo per un verso avrà una linea guida nel processo di uniformazione che gli consiglierà di usare la globalizzazione come strumento e non come scopo. Per altro verso individuerà nel suo essere parte di minoranze diverse una permanente identità legata proprio alla scelta di valore che ha effettuato.
Quanto detto sinora vale per i soggetti inclusi, di quelli cioè che per ragioni sociali, culturali, economiche partecipano in condizioni di sostanziale parità di diritti alla vita della propria comunità.

Ma la globalizzazione ha aperto un’altra divisione nel mondo, determinata dalla distinzione tra chi può accedere ai suoi processi e chi invece ne è escluso. La questione dei diritti si pone in modo drammatico nel rapporto tra gli esclusi e gli inclusi in questi processi e si sostanzia nella possibilità di accedervi perchè la stessa globalizzazione possa riuscire a mantenere ciò che promette.
Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del PIL mondiale di dieci volte, da 3 mila miliardi a 30 mila miliardi di dollari, assistiamo, anche per effetto della parzialità della globalizzazione, ad una preoccupante allargamento della forbice economica già esistente tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Secondo l''ultimo Rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) sullo sviluppo umano sono ancora oltre 80 i paesi che hanno redditi pro capite più bassi rispetto ad un decennio fa o più. In particolare, a partire dal 1990, solo 40 paesi hanno ottenuto una crescita media del reddito pro capite di oltre il 3% l''anno, mentre 55 paesi soprattutto dell''Africa sub-sahariana, ma anche dell''Europa dell''est e della Comunità degli Stati Indipendenti, sono diventati ancora più poveri.
Questi dati confermano una tendenza di lungo periodo nella distribuzione mondiale del reddito, se si calcola che la distanza tra le nazioni più ricche e quelle più povere era di circa 3 a 1 nel 1820, di 11 a 1 nel 1913, di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973 e di 72 a 1 nel 1992.
Ancora oggi, nella cosiddetta società del benessere, molti paesi meno sviluppati, a causa della povertà, si vedono negare alcuni importanti diritti, come quello all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza sociale, alla salute, fino al fondamentale diritto alla vita.
La povertà costituisce ancora oggi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la principale causa di morte nel mondo. Il 40% dei decessi registrati nel mondo è dovuto a malattie contagiose, il 99% delle quali si verifica nel paesi meno sviluppati.
I dati statistici generali non ci aiutano a distinguere tra uomini e donne, mentre il rapporto uomini-donne non è uguale di fronte alla povertà. E’ in corso un processo di “femminilizzazione” della povertà. Le donne, specie nei paesi più poveri, sono infatti le più discriminate. Circa 550 milioni di donne, oltre la metà della popolazione rurale del mondo, vivono sotto la soglia di povertà. La donna povera è più soggetta a violenze degli uomini, partorisce figli ammalati o indeboliti ai quali non riesce a fornire il nutrimento necessario.
I dati statistici generali non ci dicono che i giovani sono le vittime più vulnerabili della povertà. Ma ogni anno muoiono in tutto il mondo 13 milioni di bambini sotto i cinque anni, a causa della malnutrizione o di malattie legate alla povertà. Almeno 5 milioni di bambini sotto i cinque anni, pari al 36% del totale in questa fascia d’età, sono gravemente malnutriti. La povertà costringe sino a 160 milioni di bambini al lavoro minorile e circa 2 milioni a prostituirsi.
I paesi ricchi del mondo, sedi delle democrazie occidentali, hanno dimostrato in diverse occasioni di avere a cuore i diritti fondamentali dei popoli. Lo hanno dimostrato con l’intervento militare in Kosovo e a Timor Est, con l’istituzione di una Corte penale internazionale e, prima, con l’istituzione di vari tribunali penali per crimini particolarmente gravi commessi in diverse parti del mondo.
I nostri militari in Kossovo lo stanno dimostrando mantenendo l’ordine, costruendo strade ed aeroporti, facendo funzionare ferrovie.
Tuttavia queste azioni, in sé necessarie e meritevoli, appaiono ben poca cosa a fronte della disperazione di milioni e milioni di esseri umani.

Le dimensioni attuali della schiavitù superano di gran lunga quelle del passato: secondo i calcoli degli studiosi che hanno esaminato la tratta degli esseri umani tra l’Africa e le Americhe, in ben quattro secoli, la cifra relativa a questo traffico non ha superato i 12 milioni. Negli ultimi 30 anni, invece, nella sola Asia la compravendita di donne e bambini ridotti in schiavitù sessuale riguarda circa 30 milioni di persone. Si devono aggiungere le cifre che riguardano l’Africa, alcuni paesi balcanici e dell’Europa centrale e dell’Est. Una gran parte di questo disumano business è nelle mani della grande criminalità organizzata; ma non saremmo completi se non ricordassimo che di queste forme di schiavitù sessuale abusano i maschi civili dei nostri civilissimi paesi.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’AIDS l’epidemia dei poveri; ben il 95% delle persone colpite nel 1998 da questa malattia proviene infatti da paesi in via di sviluppo. Per alcuni di essi, quali Botswana, Kenya, Malawi, Mozambico, Namibia, Rwanda, Sudafrica, Zambia e Zimbabwe, l''AIDS ha posto un pesante dazio sulle aspettativa di vita, riducendole di 17 anni entro il 2010.

Lo squilibrio tra questi paesi ed i nostri paesi si traduce oltre che in disperazione umana in massicci movimenti migratori che attivano nei paesi ricchi ondate razziste difficilmente controllabili.
A tale proposito devo dirvi, a proposito del bambino ucciso da un pedofilo, ho cercato senza successo il titolo “ Bambino albanese ucciso da pedofilo italiano”; ma sono certo che un titolo di questo tipo ci sarebbe stato se il pedofilo fosse stato albanese ed il bambino italiano.

E’ necessario un rinnovato impegno a livello nazionale e internazionale per garantire a tutti la libertà dal bisogno e alcune condizioni minime di vita.

La lotta per la globalizzazione dei diritti contro la povertà e la battaglia per il diritto dei paesi poveri allo sviluppo passa necessariamente attraverso l’azzeramento del loro debito. Il debito cresce ogni anno di 100 miliardi di dollari e si traduce nella impossibilità per quei paesi di gettare le basi per un proprio sviluppo economico stabile e duraturo.
L''Italia ha dimostrato una attenzione crescente su questo terreno, sia a livello multilaterale che unilaterale. Per 6 paesi poveri, Mali, Mozambico, Nicaragua, Sierra Leone, Tanzania e Zambia, l’Italia ha già cancellato 920 miliardi di lire di debito.
E’ in corso di esame presso la Commissione Affari Esteri della Camera un disegno di legge che prevede la cancellazione totale di tutti i crediti che l’Italia vanta nei confronti dei paesi più poveri, cioè quelli con reddito inferiore ai 300 dollari annui pro capite, per un totale di 3000 miliardi di lire.
Con questo provvedimento si apre una nuova fase strategica.
La cancellazioni “tradizionali”, infatti, si sono rivelate insufficienti. Esse, tranne i casi della Polonia e dell’Egitto, non sono servite a far uscire i paesi beneficiati dalla spirale del debito. Cancellati i vecchi debiti, spesso, se ne sono accesi dei nuovi. Così è accaduto per la Tanzania, l’Uganda, il Ciad, il Burkina Faso. Infatti nel passato le misure di azzeramento del debito non sono state accompagnate da politiche mirate ad avviare la crescita economica ed il progresso civile.
Oggi, per effetto della nuova strategia, i paesi beneficiati, per potersi avvalere di queste misure, dovranno impegnarsi a riconoscere e garantire i diritti umani e le libertà fondamentali, a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali e a perseguire il benessere e il pieno sviluppo della persona umana, a spendere per la salute, l’istruzione e l’assistenza sociale.
L’Italia arriverà, alla fine, ad una cancellazione del debito dei paesi più poveri di oltre 6000 miliardi di lire.
Un’anticipazione di questa nuova strategia si è avuta nei giorni scorsi con la firma di un Accordo tra Italia e Marocco sulla riconversione parziale del debito, che prevede, da parte italiana, la cancellazione di circa 100 milioni di dollari di debiti, ed un impegno da parte marocchina a realizzare progetti di sviluppo socio – economico e di protezione ambientale con la cooperazione di imprese italiane.
L’iniziativa italiana ha avuto effetti catalizzatori nei confronti di altri Paesi, quali Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada che, seguendo il nostro esempio, hanno annunciato propositi di cancellazione del debito che vanno anche al di là degli impegni nei vertici internazionali.

Ma è venuto il momento di avviare una terza fase della strategia della riduzione del debito che faccia in modo che il diritto allo sviluppo dei paesi poveri costituisca un vincolo per le politiche economiche dei paesi più ricchi affinché essi non adottino scelte ingiustamente dannose per questi paesi.
Due sono le principali direzioni in cui agire:
- in primo luogo abbattere le barriere al commercio internazionale e fare in modo che anche i paesi poveri possano avvalersi dei benefici della globalizzazione. Questi paesi non avranno infatti un vero sviluppo se non riusciranno ad entrare liberamente con i loro prodotti nei nostri mercati come avviene per i nostri prodotti nei loro mercati;
- in secondo luogo contrastare la politica neocolonialista adottata da alcune grandi industrie dei paesi ricchi nei confronti dei paesi poveri, che sta creando nuove, pericolose forme di sfruttamento e di dipendenza.
Cito un caso che costituisce un vero paradosso: i paesi poveri rappresentano la fonte di circa il 90% della biodiversità esistente in natura. Ma oggi il diritto di questi paesi alla biodiversità è seriamente minacciato. Essi, pur trovandosi nelle vesti di donatori di materia prima, il patrimonio genetico vegetale, non ricevono nulla in cambio. Attualmente, in assenza di idonee legislazioni in questi Paesi, si stanno per realizzare alleanze strategiche tra industrie e governi o gruppi autoctoni. In cambio di brevetti basati sulle conoscenze tradizionali degli agricoltori locali, le industrie offrono una quota pari all’1 o 2%. Prendendo come base tale percentuale si calcola che il Nord sarebbe debitore nei confronti dei paesi poveri di oltre 300 milioni di dollari per diritti di sfruttamento non pagati relativi alle sementi per coltivazioni agricole.
Si sta inoltre manifestando nel mondo una dipendenza alimentare da pochissime piante ottenute da sementi modificate geneticamente, non riproducibili. Sono solo 10 le piante che oggi forniscono il 75% dei prodotti alimentari più consumati sulla Terra. Questa dipendenza può minacciare seriamente qualunque strategia di sicurezza alimentare di un Paese povero, impedendo di fatto la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’alimentazione umana.

La sicurezza alimentare dei paesi poveri e il loro stesso diritto alla sopravvivenza sono oggi seriamente minacciati dalla penuria di acqua e dalla sua iniqua distribuzione nel mondo. Il diritto all’acqua costituisce uno dei diritti maggiormente invocati da questi popoli, a fronte dei dati che vedono meno di 10 paesi al mondo - tra cui, in testa, Brasile, Russia, Cina, Canada, Indonesia e Stati Uniti - dividersi il 60 per cento del totale delle risorse idriche.
Per alcuni paesi le previsioni sono particolarmente allarmanti. Nei prossimi 10 anni le risorse pro capite si ridurranno del 30 per cento in Egitto, del 40 per cento in Nigeria e del 50 per cento in Kenya.
L’allarme lanciato nel 1995 dalla Banca Mondiale di una gravissima crisi idrica nel nostro secolo, anche definito “il millennio della sete”, non riguarderebbe d’altronde solo questi paesi, ma l’intero pianeta. Infatti, dalla metà degli anni ’90, l’uso di acqua nel mondo si è triplicato. Il prosciugamento di numerosi bacini e fiumi, nonché l’abbassamento delle falde, testimoniano oggi l’impossibilità delle risorse idriche di tenere il passo con l’aumento della domanda. Tale domanda è fortemente accresciuta non solo dall’aumento della popolazione ma anche dallo stesso sviluppo dell’industria e dell’agricoltura Attualmente ben 80 paesi, equivalenti al 40 per cento della popolazione mondiale sono in condizioni di penuria di acqua. Sono ben 2 miliardi le persone che non hanno accesso all’acqua potabile. Ogni anno dai 5 ai 10 milioni di persone muoiono per cause idrosanitarie dirette e 30 milioni per cause indirette.
E’ evidente che il mancato diritto all’acqua sarà sempre più causa di divisione sociale e di possibili conflitti. L’acqua potrebbe ridiventare presto un obiettivo geostrategico, come nella guerra dei “sei giorni” del 1967 per l’accesso alle sorgenti che alimentano il Lago di Tiberiade - lago che fornisce un terzo dell’acqua dolce ad Israele – o nel conflitto tra Iran ed Iraq nel 1980 per il controllo del delta dello Shat-al-Arab.
Uno dimostrazione concreta dell’importanza di questo diritto è fornito dal processo di pace in Medio Oriente.
Il diritto all’acqua e ad un’equa utilizzazione delle comuni risorse idriche dei territori occupati costituiscono infatti uno dei punti chiave di questo processo, previsto fin dagli Accordi di Oslo del 1995.


Ciascuna di queste situazioni esige una risposta appropriata sul suo terreno. Tuttavia occorre definire un terreno ideale sul quale costruire quelle risposte, un’idea prima che dia anima a tutte le altre.
Questo terreno è costituito dal cosmopolitismo, che rifiuta l’altra impostazione quella che si esprime in termini di comunitarismo, e che è fondata invece sull’egoismo, sull’esclusione, sulle tradizioni, sui miti, sulla chiusura e sul rifiuto del diverso da sé.

Le democrazie cosmopolite e pluraliste si fondano sul ripudio del “monismo” politico, religioso, culturale, sul rifiuto del partito-Stato, dello Stato confessionale, dello Stato etico, ma anche sul rifiuto della indifferenza che il liberismo ha rispetto ai valori.
La concezione “cosmopolita” della democrazia fonda il riconoscimento del pluralismo non sulla “indifferenza “tra le diverse posizioni”, ma sul riconoscimento di un nucleo di valori costitutivi che sono il primato della persona umana, la solidarietà, il rispetto delle differenze, la libertà dal bisogno unita indissolubilmente alla libertà di agire.
Questi valori – in quanto resi “vivi” e concreti dal buon funzionamento delle istituzioni politiche - definiscono in termini positivi la democrazia pluralista, come strumento che non ostacola ma agevola l’allargamento degli spazi di libertà e garantisce l’effettività dei diritti delle minoranze.
A differenza del comunitarismo, la democrazia cosmopolita si pone come fattore di apertura e di reciproco riconoscimento delle fedi, delle culture, delle etnie diverse, nella consapevolezza, tuttavia, che pluralismo non significa coesistenza nella indifferenza e nella assenza di limiti.
Una democrazia cosmopolita e pluralista non si fonda sulla mera tolleranza, ma su una coesistenza fondata sul limite invalicabile del rispetto della persona umana e dei suoi diritti, la cui affermazione in termini universalistici costituisce l’unica forma di “appartenenza comune” che non richiede la rinuncia ad altre identità.

La storia del mezzo secolo trascorso dalla proclamazione della Dichiarazione universale di Parigi ci mostra una verità drammatica e in parte paradossale: la maggior parte delle violazioni dei diritti umani provengono proprio dagli Stati cui appartengono i cittadini titolari dei diritti violati.
Come denunciano i rapporti delle Nazioni Unite sono 78 gli Stati in cui si ricorre alla prigione per soli motivi di opinione e 73 quelli in cui la tortura dei detenuti continua ad essere ammessa. In molti paesi continuano oggi applicazioni indiscriminate della pena di morte, abusi e violenze su detenuti, uso politico della detenzione. Sono 142 i paesi in cui si riscontrano in generale violazioni di diritti umani, mentre torture e maltrattamenti si segnalano in 125 Stati.
Per quanto riguarda la pena di morte alcuni dati resi noti in questi giorni da Amnesty International rivelano che durante il 1999 sono stati giustiziati almeno 1813 detenuti in 31 paesi, mentre sono state condannate a morte 3857 persone in 63 paesi.
Anche a fronte di questi dati ritengo sia ormai matura una riflessione sull’opportunità che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo possa essere nel futuro integrata da un distinto documento, una Carta dei doveri degli Stati.
Mi riferisco ad un documento di seconda generazione rispetto alla Dichiarazione dei diritti, che la integri e che indichi i doveri universali degli Stati: a non uccidere i propri condannati, a non torturare i propri detenuti, a rispettare i diritti fondamentali di coloro che si trovano sul proprio territorio, nonché ad investire una quota ragionevole delle loro risorse contro la povertà e contro la fame, per l''istruzione e per la liberazione dal bisogno.
Oggi, con la fine del bipolarismo internazionale ed il declino della vecchia sovranità nazionale, si può finalmente porre la questione degli strumenti e delle modalità per vincolare gli Stati all''osservanza di determinate regole.
Con rinnovata efficacia, il primato dei diritti umani rende assoggettabili a responsabilità gli Stati e le persone che in ragione dell''esercizio di pubblici poteri si rendono responsabili delle violazioni di tali diritti.
E'' dunque ormai possibile fare in modo che ai diritti universali degli uomini corrispondano finalmente anche i doveri universali degli Stati.
Credo che il nostro Paese debba porsi tra i suoi obiettivi prioritari l''adozione di una Carta dei doveri universali degli Stati che integri la tradizionale frontiera dei diritti umani. Lavorare per questa Carta può costituire forse uno degli impegni più nobili di ogni paese civile, libero e democratico.

A questo impegno per la definizione dei doveri degli Stati dobbiamo affiancarne un altro, altrettanto forte, per evitare che le ragioni del mercato prevalgano e travolgano le ragioni degli uomini, nella consapevolezza dell''esistenza di un nesso inscindibile che lega i diritti civili e politici ai diritti economici e sociali, la democrazia e i diritti umani allo sviluppo dei Paesi più poveri.
E’ necessario impegnarsi affinché al processo di mondializzazione dell’economia e della comunicazione corrisponda un processo analogo per i diritti fondamentali degli uomini, delle donne, dei bambini.
Occorre globalizzare anche questi diritti, non possiamo fermarci ai mercati, nella consapevolezza, ormai emersa in molte sedi nazionali ed internazionali, che non ci può essere sviluppo senza giustizia sociale.
D’altronde, la globalizzazione, che pur favorisce l’espansione di molte facoltà contenute nella libertà di agire, come la libertà di circolazione di persone, idee, capitali e merci, la libertà di comunicazione e di informazione, dimostra che non riesce a sviluppare altrettanto automaticamente altre libertà fondamentali che sono articolazioni della libertà dal bisogno.
Mi riferisco in particolare alla libertà dai vincoli economici, fisici e culturali che impediscono ai singoli la piena realizzazione di sé stessi, dei loro progetti di vita e che li rendono subordinati e dipendenti dalle scelte altrui, privandoli del diritto ad una giustizia sociale.
Sembrano cose difficili, ma tutto sembra difficile a chi non vuole cominciare un cammino nuovo. Chi invece, fiducioso nella forza degli uomini e dei loro valori questo cammino intende intraprendere ha semplicemente deciso di cominciare porsi il problema di governare la globalizzazione e rifiuta la possibilità di esserne governato.