RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 6
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MASSIMO D'ALEMA
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La seduta comincia alle 9.45.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
Seguito della discussione generale sui progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione generale sui progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione, iniziata nella seduta dello scorso 11 febbraio. Proseguiamo negli interventi.
GUIDO DONDEYNAZ. Signor presidente, onorevoli colleghi, partecipare al dibattito, che ha la finalità di elaborare progetti di revisione della seconda parte della Costituzione, in qualità di rappresentante di una comunità che ha un rapporto peculiare con lo Stato, mi impegna doppiamente sia per contribuire ad un miglioramento complessivo del paese, sia per valorizzare un'esperienza autentica di autogoverno e portatrice di valori utili per realizzare i cambiamenti istituzionali da molti auspicati.
In considerazione delle sue condizioni geografiche, economiche, linguistiche del tutto particolari, dapprima con il decreto luogotenenziale n. 545 del 1945, quindi con l'articolo 116 della Costituzione ed infine con la legge costituzionale n. 4 del 1948 riguardante l'emanazione dello statuto speciale per la Valle d'Aosta, è stata definita la sua posizione istituzionale.
I temi della riflessione sono imponenti, perché riguardano l'organizzazione politica ed economica della libertà umana in un ambiente di differenti esperienze storico-culturali.
Tutto questo avviene in un contesto storico in cui l'Italia è l'unico paese che con il varo della nuova Costituzione muta rispetto alla sua natura e la sua storia, a diversità di paesi come Francia, Germania che confermano il loro assetto istituzionale (per la Francia uno Stato centralista, per la Germania la riconferma di uno Stato nettamente federale).
Quell'innovazione autonomistica fu realizzata male, poco, tardi, (per le regioni a statuto ordinario fu necessario quasi un quarto di secolo), con continue erosioni e riappropriazioni di poteri.
Le autonomie regionali differenziate hanno sempre risentito di una sorta di disagio istituzionale, sia pure con vicende diverse, secondo i vari periodi che si sono susseguiti dal 1948 ad oggi. In un primo periodo le regioni a statuto speciale hanno rappresentato un corpo estraneo rispetto allo Stato centralizzato, e quasi tutta la legislazione statale ha disconosciuto le autonomie differenziate e il processo di attuazione degli stati speciali è rimasto impantanato.
Negli anni settanta dopo l'istituzione delle regioni a statuto ordinario e due consecutivi trasferimenti di funzioni ed uffici statali a favore delle stesse, il rapporto fu invertito deprimendo le autonomie speciali.
Tale comportamento continuò negli anni ottanta e novanta. Il limite degli interessi nazionali, concepito nel senso di introdurre un livello di competenza statale nelle materie nominalmente regionali, incide sulle autonomie legislative e amministrative di tutte le regioni, il limite dei
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principi, pur destinato a distinguere la legislazione regionale esclusiva o primaria da quella concorrente, risulta spesso confuso con il limite delle riforme economico-sociali della Repubblica; per le grandi riforme sono stati gabellati interventi legislativi di settore, che avevano ben poco da spartire con i rapporti economico-sociali, se non con lo scopo di vincolare le competenze delle regioni differenziate.
Analogo discorso è da farsi per gli atti governativi di indirizzo e coordinamento riferiti all'amministrazione regionale, ma suscettibili di ripercuotersi sulle parallele attività legislative.
Oggi, l'Europa, con l'articolo 198 del trattato di Maastricht, che ha previsto la formazione di un comitato delle regioni, anche se con attribuzioni solo consultive, si avvia a diventare un'Europa delle regioni, e quindi è necessario riprendere in considerazione gli ordinamenti regionali e locali.
Questo segnale importante di riconoscimento del ruolo delle regioni nell'ambito dell'Unione europea deve servire a superare l'attuale funzione del tutto marginale rispetto agli Stati ed alle istituzioni europee e favorire una collaborazione fra loro al fine di valorizzare il principio di sussidiarietà.
Forse occorre rimeditare negli incunaboli della rinascita delle autonomie e ripercorrere criticamente il cammino che ha allontanato il paese dal rinnovamento che le autonomie avrebbero favorito.
Ma affrontare una riforma istituzionale significa soprattutto avere presente i grandi cambiamenti che sono intervenuti nella società italiana, nell'Europa e nel mondo intero.
Considero di minore rilievo gli aspetti che riguardano più da vicino una nuova costruzione ingegneristica della Costituzione, mentre ritengo importante che i cambiamenti di carattere strutturale corrispondano ad effettive esigenze della società.
La grande questione sociopolitica ed istituzionale che abbiamo di fronte è la gestione del policentrismo e la difficoltà di trovare una sistemazione istituzionale al suo crescere.
Infatti accanto ai poteri classici di ogni Stato moderno (legislativo, esecutivo, giudiziario) stanno crescendo altre tre grandi sfere di potere, ossia la sfera delle parti sociali, quella delle autonomie locali (regioni, comuni) e la sfera delle autonomie funzionali.
Nelle loro mani si concentra ormai una buona parte dei meccanismi reali delle decisioni; quindi occorre legittimare i nuovi poteri attraverso la loro collocazione istituzionale, attuando un passaggio indicativo dallo Stato soggetto allo Stato funzione.
Gli elementi essenziali da prendere in considerazione per una riforma della Costituzione riguardano le forme di democrazia moderna che esaltino il pluralismo, la rappresentanza economica, sociale ed istituzionale.
Bisogna inoltre avere presente che ogni cambiamento di carattere istituzionale deve essere accompagnato da una profonda e radicale trasformazione della struttura burocratica che realizzi una nuova ed elevata funzionalità della pubblica amministrazione.
Anche la valle d'Aosta ha interesse a partecipare a questa fase di cambiamento. Condivido che tra le questioni preliminari è stata decisa la delimitazione delle competenze e quindi il relativo stralcio dalla discussione degli statuti delle regioni e delle provincie a statuto speciale, anche se si dovranno valutare le conseguenze e gli effetti di eventuali cambiamenti indiretti.
Questo richiede un nuovo tipo di sforzo progettuale lucido e coraggioso che si proietti nel futuro della valle d'Aosta, dell'Italia e dell'Europa.
Lo sbocco naturale della nostra esperienza si indirizza verso un modello federale ove sia pienamente attuata e rispettata l'autonomia regionale e dove la libertà degli uomini di autogovernarsi da semplice aspirazione cui tendere divenga esercizio concreto da svolgere.
Vocabolo oggi molto usato e certamente dotato di una forte capacità di
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suggestione - ma che in assenza delle corrette specificazioni ha scarsa efficacia definitoria - esso consente di mettere in evidenza alcuni punti nodali attorno ai quali occorre compiere scelte precise.
Questo modello, presente nella fase in cui si è discusso dello statuto speciale della Valle d'Aosta e che è sempre stato tra le aspirazioni della nostra popolazione, recupera un'esperienza storica esercitata di autogoverno attraverso un'autonomia; siamo convinti che il federalismo, anche se con radici antiche, si presenti come una dottrina assai attuale in ogni sua forma. Esige una disponibilità culturale e psicologica ad affrontare i problemi irrisolti e complessi che sono presenti nelle istituzioni e nell'organizzazione, nella varietà delle economie e nei contrasti sociali, nella vita delle organizzazioni dei partiti e negli sviluppi della lotta politica.
Quindi, occorre riflettere sugli elementi di utilità e di maggiore vantaggio che la realizzazione di un modello federale, rispettoso dell'esperienza storica italiana, possa portare alla realizzazione di una sintesi tra l'organizzazione politico sociale e la molteplicità delle convivenze economico-sociali.
Questo modello è adatto per quelle comunità che hanno sempre rifiutato l'uniformità e il monocentrismo a favore delle varietà e dalla poliarchia ed in cui si possono sviluppare processi associativi fondati sulla responsabilità individuale e collettivamente sull'esercizio dell'autonomia e dell'autogoverno. Sono queste le basi sociali delle poliarchie che sempre devono precedere e dare vigore formale e giuridico all'ordinamento federativo.
Un ruolo fondamentale deve essere assegnato alle regioni, quelle attuali, affinché diventino il pilastro, il soggetto costituente e l'unità territoriale di riferimento al processo di riorganizzazione federale dello stato per realizzare un nuovo modo di governare.
La revisione principale deve riguardare il capovolgimento dell'attuale modo di attribuzione della potestà legislativa tra lo Stato e la regione. Allo Stato va attribuita la potestà in via esclusiva per la cura e gli interessi d'effettivo ed indiscutibile rilievo nazionale. Ogni altra potestà legislativa e competenza è attribuita alla regione.
Sugli atti amministrativi delle regioni non sono ammessi controlli statali di legittimità e di merito.
Occorre sicuramente snellire l'attuale Parlamento garantendo comunque una presenza di tutte le regioni, superare il perfetto bicameralismo per assegnare funzioni diverse ai due rami del Parlamento e ricercare quindi nel riformato Senato e nella revisione dell'attuale Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL) una partecipazione dei nuovi poteri emergenti rappresentati dalle parti sociali, dalle autonomie locali e da quelle funzionali.
Per quanto riguarda la forma di governo, proprio per essere conseguenti alla visione sopra descritta, in cui gli elementi essenziali della democrazia sono la crescita e lo sviluppo di ogni forma di rappresentanza che interpreti la complessità della società e ritenendo antistorica la filosofia plebiscitaria di uno Stato verticale senza adeguati contrappesi, individuo nelle forme di governo direttoriali, riscontrabili nel modello federale svizzero, quello più adatto alla realtà italiana.
In conclusione, mi auguro che i lavori della Commissione sappiano riconoscere le differenze e trattarle come valori utili a tutti e tenere conto anche di tutte le particolarità etnico-linguistiche che sopravvivono non solo in Italia ma in tutto il continente con incredibile forza. Riandare alle origini delle spinte autonomistiche è l'unica chiave di lettura possibile per provare e capire, e anche apprezzare, la ricchezza culturale delle tante isole di terraferma sia in Italia sia in Europa e con la certezza che aiutare a conservare una lingua che va perdendosi significa semplicemente dare una mano alla civiltà.
GIUSEPPE CALDERISI. Signor presidente, colleghi, il nostro paese - lo ha ricordato il senatore Elia - ha superato un blocco di difficoltà (i famosi paradossi della riforma istituzionale che Zagrebelsky
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aveva messo in evidenza una decina d'anni fa, innanzitutto il paradosso del riformatore che deve riformare se stesso), attraverso una serie di eventi, tra cui in particolare due referendum: quello del 1991 sulla preferenza unica e quello del 1993 per introdurre il sistema uninominale maggioritario, con il quale abbiamo cancellato - lo ricordo - il finto sistema uninominale del Senato, il sistema uninominale proporzionale che fu realizzato con un espediente che aggirò l'ordine del giorno Nitti, approvato dall'Assemblea costituente il 17 ottobre 1947.
A questi eventi referendari aggiungo un altro evento: le elezioni del 27 marzo 1994, quando, grazie all'impegno politico di Berlusconi, fu impressa una fortissima dinamica bipolare al sistema politico, superando i limiti di una legge elettorale che non era stata concepita al fine di bipolarizzare. Tale dinamica bipolare riuscì anche, per così dire, a nazionalizzare la competizione elettorale, a garantire la tenuta dell'unità nazionale, che altrimenti, credo, sarebbe stata messa a repentaglio. La riconoscenza non è una categoria della politica, e nessuno ha riconosciuto a Berlusconi di aver rappresentato un elemento decisivo della tenuta dell'unità nazionale in quel momento politico; anzi, com'è noto, Berlusconi ha pagato a caro prezzo la scelta di aver coalizzato un soggetto politico non coalizzabile, che ha dimostrato, e sempre più dimostra, di non essere coalizzabile.
Dalle elezioni del 27 marzo 1994 non abbiamo però fatto passi avanti verso il bipolarismo e la democrazia dell'alternanza; anzi, ciò che sembrava acquisito è stato brutalmente contraddetto e messo in discussione. Ma non voglio ripercorrere in questa sede gli eventi che si sono susseguiti tra il 1994 e il 1996. Passo subito alle elezioni del 21 aprile 1996, che si sono svolte con lo stesso sistema elettorale del 1994: da una parte, esse hanno confermato una dinamica bipolare; dall'altra, hanno messo a nudo l'immaturità del nostro bipolarismo, dovuta non solo alle contraddizioni del sistema politico ma anche ai gravi limiti della vigente legge elettorale e alla mancanza di riforma costituzionale. Il risultato delle elezioni è che il Governo è sostenuto da una maggioranza diversa da quella che si è presentata agli elettori con un programma omogeneo.
Al punto in cui siamo, dobbiamo sinceramente interrogarci, chiedere a noi stessi in che direzione vogliamo andare. Vogliamo davvero completare, dare sviluppo e attuazione al bipolarismo e alla democrazia dell'alternanza, oppure vogliamo tornare indietro? Non si tratta di un interrogativo retorico: lo dico seriamente, non demonizzo, anche se non condivido affatto, evidentemente, la scelta di tornare indietro e di limitare l'orizzonte del nostro intervento a piccole razionalizzazioni. Anzi, se dovessero mancare la volontà e il coraggio di compiere seri passi avanti per realizzare a pieno il disegno riformatore, che certamente può compiersi con diverse soluzioni, se fossero possibili solo mediazioni pasticciate, riforme prive di coerenza che non fanno riferimento a modelli consolidati, sarebbe meglio, molto meglio, prenderne atto e avere il coraggio di tornare indietro.
A parole tutti diciamo che l'obiettivo è il bipolarismo e la democrazia dell'alternanza. Ma è proprio così? Siamo davvero pronti a realizzare le riforme conseguenti a questa scelta, le riforme che possono veramente portarci al bipolarismo? Mi sia consentito di coltivare al riguardo un sano e prudente pessimismo, anche se abbinato ad una ferma e determinata, determinatissima volontà di dialogo e di ricerca di soluzioni riformatrici dotate del consenso più ampio. Sento la necessità, per così dire, di parlare in chiaro, senza infingimenti e ipocrisie. Sono di fronte a noi recenti e recentissimi comportamenti parlamentari e istituzionali che hanno portato allo scoperto le paure, le riserve profonde, le forti contraddizioni e il terreno limaccioso su cui si dovrebbero poggiare le fondamenta del nuovo edificio costituzionale, che hanno fatto emergere una grande voglia di ritorno al passato, un passato fatto di votazioni segrete e di proporzionale, e anche di disprezzo della
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volontà popolare. Le difficoltà reali che dobbiamo affrontare sono ora chiare, in evidenza di fronte a noi.
L'analisi sul clima di restaurazione che Angelo Panebianco ha svolto sul Corriere della sera di domenica scorsa è impietosa ma condivisibile, o almeno da me condivisa. Il paradosso del riformatore che deve riformare se stesso si ripresenta ancora per intero di fronte a noi. E allora voglio porre degli interrogativi e delle considerazioni di fondo. Il primo interrogativo riguarda il sistema politico-partitico. Il bipolarismo e la democrazia dell'alternanza comportano la volontà del sistema politico di riformare se stesso, come dicevo, di procedere ad una ristrutturazione capace di superare la disaggregazione e la frantumazione che lo caratterizzano. L'orizzonte del bipartitismo è certo lontano, ma anche il bipolarismo, un bipolarismo maturo, richiede una significativa evoluzione del nostro sistema politico, un forte processo di aggregazione, di federazione tra le forze politiche. Le diversità possono essere un fattore di ricchezza, ma le identità partitiche devono trovare momenti di sintesi, devono comporsi all'interno di aggregazioni e di coalizioni dotate di omogeneità e coesione, anche perchè, spesso e volentieri, si tratta di identità che non corrispondono più a linee di frattura della società italiana. Il numero e il modo di essere dei partiti non può rimanere quello attuale.
Allora, la prima domanda è: il sistema politico-partitico intende veramente percorre questa strada? Se la risposta è sì, si possono e si devono scegliere determinati meccanismi costituzionali ed elettorali capaci di favorire e assecondare fortemente questo processo. Occorre allora farvi ricorso con molto coraggio e rigore. Le difficoltà sono enormi, perché non abbiamo, come accadde in Francia nel 1958, alcuna leadership indiscussa che sia in grado di imporre soluzioni alle forze politiche, ma dobbiamo ricercare, come diceva ancora il senatore Elia, un accordo di cooperazione, dobbiamo essere animati tutti da un forte spirito costituente.
Una seconda questione riguarda l'impossibilità, o la grandissima difficoltà, di realizzare nel nostro paese alcuni modelli istituzionali europei come quello inglese o quello tedesco, a meno che non si ricorra in modo massiccio a meccanismi costituzionali ed elettorali molto precisi e rigorosi, ed anche un po' rigidi. Le caratteristiche del nostro sistema politico sono infatti del tutto diverse da quelle dei sistemi politici inglese e tedesco. Non abbiamo il sistema bipartitico inglese, nel quale leader e premier coincidono, dove pertanto gli elettori scelgono di fatto il premier pur non disponendo di un sistema di elezione diretta, dove il premier è non solo il vertice del gabinetto ma anche la guida dell'assemblea, il leader della maggioranza in Parlamento; dove pertanto si realizza un continuum Governo-maggioranza in grado di assicurare la traduzione in norme giuridiche del programma di governo secondo lo schema della «fusione dei poteri»; dove si contrappongono i banchi del Governo e quelli dell'opposizione (perché il termine «maggioranza» non viene neppure adoperato); dove vigono due principi inscindibili e assolutamente paritari: la fiducia dell'assemblea al ministero e il potere del premier di scioglierlo; dove pertanto il sistema parlamentare ha caratteristiche opposte al regime assembleare del nostro Parlamento; dove il concreto funzionamento del sistema istituzionale - fortemente basato sulla teoria del «mandato elettorale» - è il frutto spontaneo della cultura e delle caratteristiche del sistema politico.
Non abbiamo neppure il sistema bipolare tedesco, la cui configurazione è dovuta ad una norma costituzionale che, negli anni cinquanta, mise fuori legge i partiti antisistema, sia quello nazista sia quello comunista, favorendo così la CDU e la SPD. In Germania il cancellierato funzionato perché i partiti che possono ambire ad esprimere i candidati al cancellierato sono soltanto due, i maggiori delle rispettive coalizioni; e anche in Germania si diventa leader della CDU o della SPD al solo fine di concorrere alla carica di
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cancelliere. Di conseguenza, anche gli elettori tedeschi scelgono di fatto il cancelliere, pur non disponendo neppure loro dell'elezione diretta ed avendo, anzi, un sistema proporzionale.
Le caratteristiche del nostro sistema politico sono del tutto diverse. Addirittura, la regola non scritta che ha consentito alla DC ed al suo sistema di correnti di durare così a lungo in un sistema bloccato è stata proprio il divieto del doppio incarico di segretario e di Presidente del Consiglio, un divieto che, dopo De Gasperi, ha conosciuto solo due rare e brevi eccezioni. Il principio di responsabilità è stato così il grande assente nella storia repubblicana.
Nel nostro sistema politico finora ha gravato in qualche misura - e per taluni aspetti potrebbe ancora gravare - il difetto di legittimazione del maggior partito della sinistra, che di fatto ha impedito a quest'ultimo di cambiare il proprio leader a capo dell'esecutivo.
Vi sono poi pesanti eredità trasformistiche, capaci di dar vita in sede parlamentare a cambiamenti di alleanze che sono invece incompatibili con il sistema maggioritario. Inghilterra e Germania non hanno alcun bisogno di meccanismi «antiribaltone», che da noi sono invece necessari come il pane, se vogliamo realizzare il bipolarismo e la democrazia dell'alternanza.
Vi sono, infine, le questioni forse più gravi, quelle della stabilità all'interno delle stesse maggioranze, questioni che derivano dalla competizione tra i partiti e tra i loro componenti, soprattutto in relazione a chi debba essere, appunto, capo dell'esecutivo. Al riguardo abbiamo un passato quanto mai istruttivo. Non starò qui a ricordare vicende note, quale quella legata al patto della «staffetta», ma dobbiamo avere piena consapevolezza delle cause che hanno prodotto in Italia un grado così elevato di instabilità dei governi, pur nella stabilità e nella irresponsabilità del potere politico. Non a caso, i «professori» francesi, i quali, nel 1956, inventarono l'elezione diretta del premier e lo scioglimento automatico della Camera in caso di sfiducia e/o di dimissioni, avevano davanti ai loro occhi lo strazio della quarta Repubblica quando, con la stessa maggioranza centrista, i governi si succedevano al ritmo di uno ogni sei mesi, a causa degli scontri fra partiti e correnti.
Sappiamo bene che, consentire il ricambio del capo dell'esecutivo in una maggioranza composta da più partiti, significa aprire la strada all'instabilità più grave. Dove il sistema partitico è molto frammentato e infido, occorrono necessariamente regole molto rigorose e - come dicevo prima - anche molto rigide.
Da tutte queste ragioni ha origine la nostra ferma convinzione della necessità per il nostro paese di una revisione della forma di governo che veda il vertice dell'esecutivo insediato direttamente, senza mediazioni, dal voto degli elettori. Un esecutivo che tragga la sua forza e la legittimazione a governare dall'investitura diretta dei cittadini e non dalle difficili, mutevoli, e sempre precarie intese fra i partiti.
Da tutte le ragioni esposte, ha origine anche la nostra preferenza - parlo di preferenza - per il sistema cosiddetto semipresidenziale francese, come modello consolidato che può costituire una soluzione per il nostro paese, senza dover ricorrere a troppe misure di ortopedia costituzionale ed elettorale, come sarebbe inevitabilmente necessario per tentare di realizzare in Italia il cosiddetto modello Westminster
Ho richiamato all'inizio la necessità di uno spirito costituente. Questo significa cercare una soluzione, un vestito costituzionale - mi sia consentito il termine - adeguato agli interessi generali del paese per i prossimi decenni, per un buon numero di decenni. Questo significa la volontà e la capacità da parte di ciascuno di non ricercare piccoli vestiti, vestitini cuciti su misura in rapporto alle esigenze particolari, di corto respiro, della propria forza politica e del proprio leader. Se facessimo così, credo che non andremmo da nessuna parte. Affronto tale questione perché - come ho detto - sento l'esigenza di parlare in chiaro e voglio farlo con alcuni esempi.
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Ho letto - purtroppo non ho potuto ascoltare - l'intervento pregevole del collega Nania. Da quell'intervento mi sembra che emerga con chiarezza un'esigenza per alleanza nazionale ed il suo leader, un'esigenza che considero assolutamente e pienamente legittima. Attenzione, però: essa va inserita in un vestito costituzionale di alto profilo, non in un vestitino su misura. Mi spiego. Il collega Nania ha parlato della necessità che gli elettori scelgano non solo il capo dell'esecutivo ma, prima di esso, anche chi debbano essere i candidati a tale carica per ciascuna coalizione. Tutto l'intervento di Nania è stato incentrato proprio su questo aspetto.
Si tratta, come dicevo, di un'esigenza giusta, assolutamente e pienamente legittima. Come può essere soddisfatta? Con il sistema francese essa è pienamente realizzata. In Francia, al primo turno delle elezioni presidenziali - che non coincidono, non a caso, con le elezioni del Parlamento - si presentano più candidati, sul versante tanto della sinistra che della destra. I due candidati che prendono più voti vanno al ballottaggio e si contendono la carica di Presidente della Repubblica. In Francia le elezioni politiche si svolgono quando il Presidente della Repubblica è stato già eletto da pochi giorni (se egli ha sciolto il Parlamento perché di diverso colore politico), oppure alcuni anni dopo. Questa elezione del Presidente della Repubblica, non contestuale all'elezione del Parlamento, è l'elemento fondamentale che bipolarizza nettamente il sistema politico.
Con il modello del Governo del premier - sia esso legato all'elezione o ad una modalità diversa di investitura - le elezioni della Camera politica sono contemporanee. In questo caso, la logica del sistema richiede che la scelta del candidato a premier per ciascuna coalizione (ove non coincida automaticamente con il leader del maggior partito della coalizione stessa) avvenga prima delle elezioni, almeno sei-quattro mesi prima.
In definitiva, dal punto di vista istituzionale, l'esigenza che ha posto Nania, si può risolvere soltanto con le primarie, solo istituzionalizzando le primarie; certamente non facendo svolgere, contemporaneamente alle elezioni per la Camera politica, anche la competizione per il candidato a premier di ciascuna coalizione. In questo modo, credo si minerebbe alla radice la coesione della coalizione. Già oggi le coalizioni rischiano di essere soltanto aggregazioni di natura elettorale; non vorrei che si corresse il rischio che non siano più neppure questo.
A mio avviso è anche impensabile un sistema elettorale a doppio turno - non mi riferisco, evidentemente, al doppio turno alla francese, che può rappresentare una soluzione di alto profilo, con collegi uninominali maggioritari a doppio turno - con un primo turno di tipo proporzionale, non importa se con il sistema delle comunali, con quello delle regionali o anche con quello delle provinciali, cioè con i finti collegi uninominali proporzionali abrogati dal referendum del 18 aprile 1993.
La questione si condensa in questo interrogativo: come potrebbero governare assieme partiti che in campagna elettorale si fanno la guerra, con liste o gruppi di candidati distinti, in tutti i collegi ed in tutte le circoscrizioni, per contendersi addirittura l'80 per cento dei seggi? Accanto ai programmi delle coalizioni, comparirebbero inevitabilmente anche quelli dei partiti. La difesa delle diverse identità di partito assumerebbe un ruolo primario, a mio avviso assolutamente incompatibile con l'esigenza di omogeneità e coesione delle coalizioni.
Con un sistema elettorale del genere, l'eventuale premio di maggioranza non risolverebbe affatto - a mio avviso - il problema della coesione delle coalizioni, ma finirebbe probabilmente per aggravarlo, creando un problema ulteriore, ancor più grave. Si può infatti immaginare cosa accadrebbe dopo un primo turno di tipo proporzionale: la lega, probabilmente, diventerebbe decisiva e le coalizioni si contenderebbero il suo appoggio (e possiamo immaginare a quali condizioni!). Analoga situazione si potrebbe verificare per i segmenti trasformistici del nostro
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sistema politico, che deciderebbero con quale schieramento allearsi solo dopo il primo turno, offrendosi, ovviamente, non al peggior offerente, e magari con la riserva mentale di mettere in atto, appena possibile, un cambiamento di alleanza che potremmo definire «prendi il premio e scappa».
La voglia di proporzionale emersa con forza in questi giorni non è compatibile con alcun tipo di presidenzialismo: lo voglio dire soprattutto ai colleghi, agli amici ed alleati di alleanza nazionale, il cui capogruppo, recentemente, è riuscito a rallegrarsi per una presunta vittoria tattica che avrebbe fatto premio su una sconfitta strategica. Coniugare la proporzionale con una qualche forma di presidenzialismo significherebbe soltanto mettere a repentaglio le istituzioni democratiche. Occorre quindi rifuggire dalla ricerca di piccoli, striminziti vestitini, assolutamente incapaci di offrire soluzioni adeguate rispetto alla crisi del paese.
Faccio un altro, ultimo esempio. Mi riferisco alla proposta del collega Targetti, volta ad introdurre la forma di governo semipresidenziale. Si tratta di una proposta ben fatta, tranne che per un dettaglio, un dettaglio capace però di stravolgere tutta la logica del sistema francese (ne ha già accennato il collega Rebuffa). Si tratta del potere di controfirma da parte del premier del decreto presidenziale di scioglimento del Parlamento. Si tratta non solo del premier di un Governo di cosiddetta coabitazione, ma anche del premier del primo Governo insediato dal Presidente della Repubblica appena eletto dagli elettori: così è scritto nella proposta Targetti. Con il potere di controfirma, questo premier - evidentemente - potrebbe diventare autonomo rispetto al Presidente della Repubblica, attuare un indirizzo politico diverso da quello votato dagli elettori con l'elezione presidenziale. Andremmo ad innescare un conflitto pericolosissimo, con la divaricazione tra legittimazione popolare e responsabilità di Governo. Come si vede è un dettaglio di enormi dimensioni, capace di far virare in chiave parlamentare-assembleare il sistema semipresidenziale francese. Se si adotta questo sistema, credo non si possa pensare (diverso, semmai, è il caso delle coabitazioni) a un Presidente della Repubblica debole e ad un premier forte, più forte del Presidente.
Non so se questo cosiddetto dettaglio della proposta Targetti sia una scelta voluta, oppure sia un errore, una svista da parte dei suoi proponenti, come io mi auguro. Altrimenti dovremmo concludere (o almeno dovrei concludere, per quanto mi riguarda) che siamo di fronte - come ho detto prima - ad un piccolo vestitino su misura, addirittura un vestitino che io riterrei pericoloso per le nostre istituzioni.
Avevo posto, nel mio intervento, un interrogativo sull'effettiva volontà del sistema politico-partitico di riformare se stesso. Se la risposta a questo interrogativo dovesse essere un no, ritengo che non dovremmo neppure parlare di bipolarismo e di democrazia dell'alternanza. Sarebbe forse inutile questa stessa Commissione bicamerale. Si potrebbe procedere con la via ordinaria realizzando qualche piccola modifica di razionalizzazione della riforma di governo parlamentare, senza premi di maggioranza; sarebbe una soluzione non idonea certamente a risolvere i problemi di governabilità e di stabilità, ma almeno non faremmo danni, almeno non creeremmo nuove illusioni e nuova sfiducia da parte del paese.
Io non voglio credere che sia così, voglio credere anch'io, come ha detto il presidente D'Alema, che ce la possiamo fare, che lavorando con pazienza, con fiducia, con coraggio, con il coraggio e con lo spirito costituente di ricercare un'intesa, potremo dare all'Italia istituzioni rinnovate, un vestito costituzionale concepito nell'interesse generale del paese.
Diceva Einstein a Roosevelt: «La politica è per un momento, un'equazione è per l'eternità». Non dobbiamo certo scrivere una Costituzione valida per l'eternità, ma che almeno sia una Costituzione all'altezza delle esigenze del paese per un buon numero di decenni.
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GIUSEPPE VEGAS. Signor presidente, io mi tratterrò su un problema che ieri è stato toccato solo marginalmente in un intervento, anche se è contenuto in tutti i provvedimenti organici di revisione della parte seconda della Costituzione e anche in qualche provvedimento di carattere più limitato. Mi riferisco alla revisione dell'articolo 81, quarto comma, della Costituzione. Si tratta di un problema non privo di effetti concreti sulla forma di governo del paese. Cercherò di affrontarlo sforzandomi non solo di illustrare i disegni di legge presentati ma anche di prospettare una possibile via di soluzione.
È quasi superfluo ricordare che l'articolo 81, o meglio la sua applicazione concreta, ha costituito il cuore normativo delle cause istituzionali che hanno condotto il paese nelle attuali gravi condizioni di finanza pubblica. Il sistema vigente, infatti, si è dimostrato non privo di difetti. Ha consentito la crescita del deficit e del debito derivanti dal finanziamento della spesa pubblica in disavanzo. Da ciò è conseguita la crisi economica e parlamentare cui occorre oggi porre un rimedio di carattere in primo luogo istituzionale.
Questa è l'occasione per darsi regole applicabili, efficaci e coerenti con il nuovo impianto della Costituzione che sarà il frutto del nostro lavoro.
L'articolo 81, quarto comma, avrebbe dovuto rappresentare, nelle intenzioni di Einaudi, che lo aveva proposto, «il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore costituente allo scopo di impedire che si facciano nuove e maggiori spese alla leggera, senza aver prima provveduto alle relative entrate». Einaudi paventava la naturale tendenza dei politici a dilatare la spesa, scaricando sul disavanzo la differenza tra le risorse distribuite e quelle disponibili e a confidare nella successiva quadratura inflazionistica per sottrarsi alla responsabilità delle proprie scelte. Il rispetto dell'articolo 81 della Costituzione avrebbe quindi dovuto garantire il tendenziale pareggio di bilancio, tramite l'equilibrio tra entrate e spese. Questo elementare principio di responsabilità fiscale e politica, che per secoli aveva rappresentato il più chiaro indice di buongoverno di una nazione, sarebbe dovuto diventare parte integrante del nostro sistema politico-istituzionale.
Non è andata così. Il principio del pareggio di bilancio, con i suoi corollari di limpidezza e severità nella gestione della cosa pubblica, costituiva il principale ostacolo alla statalizzazione strisciante dell'economia e all'incipiente assistenzialismo: in un quadro costituzionale caratterizzato dalla oggettiva convergenza tra le maggiori forze politiche, ne fu data un'interpretazione sbiadita e per nulla vincolante, determinandone di fatto la tacita abrogazione.
Neanche il richiamo autorevole e accorato di un uomo come Sandro Pertini, in occasione del rinvio alle Camere di una legge di spesa priva di copertura finanziaria nel gennaio del 1983, valse a ristabilire il rispetto del principio di equilibrio e responsabilità fiscale significato dalla norma citata.
La profonda crisi politica, il dissesto finanziario dei conti pubblici, manifestatosi apertamente con la crisi valutaria dell'autunno del 1992, hanno minato la legittimità del nostro appartenere, come fondatori, al consesso europeo, costringendoci a cercare una legittimazione politica internazionale che i crudi dati di bilancio non sembrano consentire. Per una sorta di contrappasso, oggi si è costretti a centrare gli stretti criteri fiscali di convergenza europei, che rappresentano nient'altro che il nucleo del precetto costituzionale di responsabilità fiscale e di equilibrio di bilancio. Questa sorta di Costituzione economica europea sembra, quindi, riuscire a raggiungere i risultati che l'articolo 81 della Costituzione non era stato in grado di garantire. La Costituzione materiale prevale, in un certo senso, su quella formale.
Nel momento in cui il Parlamento è chiamato a riformare la Costituzione, è necessaria una profonda riflessione su queste vicende, che deve partire in primo luogo dalla domanda se siano necessari e, soprattutto, efficaci vincoli costituzionali in materia di finanza pubblica.
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Una tradizione di pensiero originariamente italiana (Pareto e Mosca, in primo luogo) e poi americana (Buchanan) sostiene che i vincoli costituzionali sono un metodo con cui i cittadini cercano di proteggersi da loro stessi (cioè dai politici che mandano in Parlamento). Si tratterebbe, in sostanza, di un metodo per istituzionalizzare comportamenti virtuosi, spesso necessitati.
Se questo è l'obiettivo, non si può tuttavia non rilevare come i testi lasciati dalle Commissioni Bozzi e De Mita-Iotti, il disegno di legge costituzionale del ministro Martinazzoli e le conclusioni della commissioni ministeriale istituita dal ministro Speroni, oltre al tenore dei disegni di legge costituzionale presentati in Parlamento nell'attuale occasione, sembrino, nella sostanza, tendere ad istituzionalizzare l'esistente. - anche il caso di quelle proposte che mirano a costituzionalizzare parte delle disposizioni della legge di contabilità ed altri principi ormai acquisiti nei regolamenti e nelle consuetudini parlamentari e in sede dottrinaria.
Non mancano proposte di revisione dell'articolo 81 che mirano a costituzionalizzare il sistema delle coperture finanziarie definito nella legge n. 468 del 1978 e nel testo di riforma della struttura del bilancio dello Stato attualmente all'esame della Camera dei deputati, ovvero a porre limiti alla possibilità di accendere nuovo debito o, ancora, a prescrivere la salvaguardia del principio del pareggio di bilancio, almeno per la parte corrente.
In alcune proposte di questa parte politica, tuttavia, è contenuto in nuce un principio, quello delle scelte a maggioranza qualificata del Parlamento, che, opportunamente adattato, può consentire di novellare l'articolo 81 in modo efficace e compatibile con un sistema politico-parlamentare tendenzialmente bipolare.
In proposito non occorre utilizzare molte parole per ricordare come meccanismi di contenimento delle nuove spese si siano dimostrati storicamente inefficaci, in quanto facilmente eludibili in fase di deliberazione parlamentare e inidonei a garantire, a consuntivo, il rispetto degli obiettivi di spesa prefissati. D'altra parte, sistemi di costituzionalizzazione di altri limiti alla spesa, come il divieto di indebitamento o di ricorso al disavanzo per la spesa corrente o, ancora, la prefissione di parametri ancorati all'andamento del prodotto interno lordo per gli incrementi della spesa pubblica, difficilmente potrebbero sortire maggiore efficacia dei divieti di dar luogo a nuove spese senza copertura. L'esperienza dimostra che è assai facile ingannare il legislatore di spesa, soprattutto se questi desidera essere ingannato.
Se questa strada è difficilmente percorribile può non dimostrarsi inutile affrontare l'altra faccia del problema, quella dell'imposizione fiscale.
L'esigenza condivisa di mettere ordine nei conti pubblici prospetta un lungo periodo di intensi sacrifici cui la collettività si dovrà sottoporre: le risorse necessarie per ridurre il disavanzo e la consistenza del debito possono essere recuperate essenzialmente tagliando la spesa pubblica o aumentando le imposte.
È opinione comune che gli attuali livelli di imposizione fiscale siano difficilmente sostenibili e possano pregiudicare qualunque prospettiva di sviluppo del paese.
Altrettanto evidenti sono le difficoltà interne e le enormi resistenze che la maggioranza trova nel perseguire un serio programma di diminuzione della spesa pubblica.
L'istituzione di un'imposta straordinaria definita «tassa per l'Europa», rappresenta simbolicamente questo approccio impositivo al risanamento, che pone seri problemi politici ed istituzionali.
Questi problemi celano una serie di interrogativi: di quanto e fino a quando si possono aumentare le imposte? Sono possibili controlli sull'operato dei governi in campo fiscale e questi controlli possono essere di rango costituzionale?
In una parola, è possibile vincolare con una norma costituzionale il livello generale dell'imposizione o l'entità massima di alcune imposte in particolare, al fine di
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impedire che il Governo abusi della sua capacità impositiva?
Le questioni sollevate non sono nuove, tutt'altro; sono coeve ai parlamenti che nacquero qualche secolo fa per contenere e regolare la potestà impositiva dei sovrani.
In un sistema politico-istituzionale a carattere maggioritario, con il Governo che, come un sovrano, controlla saldamente la maggioranza parlamentare, il monopolio della capacità impositiva dell'esecutivo dovrebbe essere limitato e questa limitazione potrebbe a buon diritto far parte del sistema di garanzie costituzionali a tutela non delle sole minoranze, ma dell'intera collettività rappresentata dal Parlamento nel suo insieme.
Si può e si deve discutere dei metodo per attuare a livello costituzionale un vincolo fiscale, stabilendo ad esempio la necessità di maggioranze parlamentari qualificate per decidere un incremento impositivo o definire un rapporto massimo tra gettito fiscale e PIL o ancora vincolare costituzionalmente le aliquote di alcuni tipi di imposte: il principio appare però forte e condivisibile, in grado di mettere al riparo il contribuente da un sistema fiscale che, in certe circostanze, può diventare soffocante e vessatorio.
Un limite costituzionale alla fiscalità obbliga e consente al Governo di avviare un processo di risanamento più minorato sul versante della spesa, contribuendo a ridurre progressivamente il ruolo e le dimensioni dello Stato nel sistema economico.
Contemporaneamente si ridurrebbe una tensione verso la semplificazione e l'alleggerimento del sistema fiscale, premessa indispensabile, insieme alla diminuzione dei livelli di spesa, per riavviare il processo di sviluppo del paese.
Democrazia significa controllo del potere dei governanti da parte dei governati. In campo fiscale, ciò significa che la tassazione deve riflettere il risultato delle decisioni della maior et sanior pars del paese. Non deve essere il risultato dell'accordo collusivo tra gruppi di interesse, i quali si trovano insieme nel formare una maggioranza parlamentare per levare una nuova imposta (o per far aumentare le vecchie imposte) che sanno bene peserà sugli altri gruppi sociali più di quanto peserà su se stessi.
Il principio del primato del diritto, dello Stato di diritto, è l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Oggi questo principio viene completamente svuotato dal fatto che una maggioranza dei parlamentari del 51 per cento può approvare provvedimenti fiscali che discriminano tra i cittadini. Questo naturalmente non vale soltanto per le leggi fiscali ma vale in particolare per le leggi fiscali. Per ottenere che il principio del primato del diritto sia reale bisogna adottare meccanismi costituzionali che producano il seguente effetto: tutte le leggi approvate dalla maggioranza devono applicarsi con le stesse modalità e senza discriminazioni tanto alla maggioranza quanto alla minoranza. Ciò assicura che le leggi che verranno prodotte saranno guidate dalla ricerca del bene comune e non dagli interessi di parte.
Una regola che imponga la maggioranza di due terzi per decidere nuove imposte o aumentare quelle già esistenti avrebbe esattamente come conseguenza quella di impegnare la maggioranza a sopportare le conseguenze delle sue decisioni allo stesso modo in cui le deve sopportare la minoranza. Naturalmente, la regola ideale sarebbe quella dell'unanimità, la quale è impraticabile per gli altissimi «costi di transazione» che impone. Ma la soglia dei due terzi ha già due effetti importantissimi: rende molto difficile mettere insieme maggioranze effimere, cioè quelle maggioranze che si formano sul solo scopo di levare imposte per finanziare benefici ad hoc per i propri elettori; avvicina l'ideale del primato del diritto, ovvero l'ideale per cui la politica deve essere la realizzazione degli interessi generai e non degli interessi di parte. Come sottolinea la dottrina sociale della Chiesa più volte richiamata in questo da Giovanni Paolo II, l'interesse generale non equivale alla somma degli interessi egoistici dei gruppi.
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La norma costituzionale che si può ipotizzare non equivale ad una limitazione della politica. Infatti, non impedisce al Parlamento di aumentare la tassazione, se esso considera che sia nell'interesse del paese farlo. la sola cosa che impedisce è che la tassazione cresca in modo automatico per il solo effetto della logica della cattura del consenso elettorale da parte dei singoli deputati e delle maggioranze governative.
MARIO RIGO. Signor presidente, colleghi, quando l'Assemblea costituente decise di rivedere la struttura dello Stato unitario per dare spazio ad autonomie non meramente amministrative e spostò l'articolo 106 del progetto di Costituzione, che dava forza a tale trasformazione, dal titolo V per inserirlo tra i principi fondamentali, si fermò alla soglia del federalismo che non riuscì a varcare.
Purtroppo lo spirito nuovo trasfuso nella Costituzione (Ambrosini parlò di Stato regionale) lasciò via via spazio ad una tenace azione centralistica che vanificò, salvo qualche sussulto in senso contrario, ogni ipotesi di piena autonomia. Si cominciò a smantellare l'avanzato Statuto siciliano, che poteva servire da modello a chi dava corpo alla Costituzione, e si arrivò a pensare di accantonare l'idea di far nascere l'istituto regionale laddove questo non aveva ancora trovato attuazione.
Alla fine, dopo un ritardo di un ventennio, tutte le regioni furono attivate, ma il tempo trascorso aveva visto venir meno quello spirito di profondo rinnovamento che aveva permeato e caratterizzato la Costituzione. Le regioni vennero a trovarsi di fronte ad un convitato di pietra - forse è più corretto dire di gomma - sordo alle loro legittime istanze radicate su realtà storiche molto diverse l'una dall'altra.
Ne è conseguito un affievolirsi del progetto non solo rispetto allo spirito federalista che la costituente si era sentita di recepire, ma addirittura rispetto al modello poi assunto nel testo costituzionale, di modo che le regioni hanno finito con l'esercitare un ruolo di entità prevalentemente amministrativa, ben diverso da quello loro destinato, con l'aggravante di assorbire inesorabilmente i metodi sempre più degradanti che regolavano, di fatto, la vita dello Stato centrale.
Non c'è dubbio che questo abbia concorso a rendere più acuto il distacco tra i cittadini e le istituzioni. Proprio negli anni in cui lo sviluppo civile ed economico della nostra società subiva forti accelerazioni è venuto a mancare un volano in grado di raccordare il progresso della società civile alla pubblica amministrazione. Di qui la necessità, come ha ricordato il presidente D'Alema, di ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni dello Stato democratico. E la risposta va data là dove la domanda della società si forma.
Abbiamo venti regioni, cento province, ottomila sindaci; ci si deve domandare: quali sono i compiti che lo Stato può assegnare produttivamente alla loro competenza? Dobbiamo dire peraltro che proprio le insufficienze, il malessere, la protesta diffusa tra la gente hanno fatto rinverdire nel paese una voglia di riforme, che nel momento della responsabilità si presenta come il riferimento migliore per iniziare la vita comune e acquisire la consapevolezza che il federalismo è in grado di rimettere in moto un processo di rinnovamento rispettoso delle differenti realtà regionali, affinando un senso di collaborazione che il centralismo non può sviluppare, proprio perché la cooperazione non può non nascere dalla base.
A partire dalla valorizzazione delle autonomie locali che formano il tessuto connettivo della federazione, i poteri degli enti locali vanno considerati prioritari, un cardine nel contesto dei poteri tra diversi livelli di Governo, proprio perché la funzione amministrativa nasce dal basso come risposta alle esigenze primarie dei cittadini e si sviluppa progressivamente sulla base del principio di sussidiarietà.
In tal senso, occorre preliminarmente rimuovere lo schema del regionalismo imposto, ottriato, come è avvenuto nella Costituzione vigente, operando un'inversione dei ruoli tra Stato e regioni. Va attribuita a queste ultime l'attività legislativa
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e programmatoria relativa alle comunità di cui sono espressione, assegnando quindi ai comuni ed alle province le funzioni amministrative di interesse locale.
Ma il rovesciamento del rapporto Stato-regioni va a soppiantare la centralità dello Stato unitario anche attraverso una profonda modificazione della struttura parlamentare, non più incentrata nel bicameralismo perfetto. Difatti la soluzione adottata dal costituente di un bicameralismo con assoluta parità di funzioni delle due Camere ed esclusione della preordinata successione nell'esercizio della funzione legislativa rende illogiche le differenti disposizioni sull'elettorato attivo e passivo e la stessa composizione numerica delle due Camere.
È mancato ogni carattere di rappresentanza regionale, non bastando a ciò l'elezione su base regionale del Senato, situazione invece che nel progetto di Costituzione appariva attenuata dalla previsione, ben inquadrabile nel contesto di Stato regionale che si pensava di costituire, dell'elezione di un terzo dei senatori da parte dei consigli regionali.
Pressanti sono dunque le esigenze di snellimento dell'attività legislativa e soprattutto di caratterizzazione di una Camera quale organo rappresentativo delle singole entità regionali ed anche infraregionali, organo investito della tematica dei rapporti dello Stato con dette entità sia in sede di attività legislativa concentrata sulle materie che direttamente incidono su quei rapporti, anche assicurando - ove occorra - uniformità di principi generali, sia in sede politica.
Si impone pertanto la radicale trasformazione dell'attuale Senato al fine di renderlo - come è regola negli Stati federali - la sede dell'espressione delle componenti della federazione viste come tali, vale a dire con preciso riferimento ad esse e non soltanto al soggetto cui tutte si rimettono, ma rimanendo chiaramente differenziate nelle loro peculiari caratteristiche.
Ma una federazione - come qualunque organizzazione statuale o pluristatuale, sia confederale che federale ma specie in quest'ultimo caso - si regge efficientemente soltanto se ha un Governo destinato a durare per l'intera legislatura. E qui il legislatore costituente rivelò una fede non molto ben riposta nei futuri reggitori della Repubblica, ritenendo sufficiente disporre che il voto contrario, anche di entrambe le Camere, non avrebbe comportato per il gabinetto l'obbligo delle dimissioni. Ma la realtà è stata ben diversa ed è ampiamente nota.
Molte sono le soluzioni prospettabili sulla carta e molte sono state qui indicate: dal presidenzialismo a suo tempo scartato dall'Assemblea costituente, al semipresidenzialismo alla francese, creato più per definire sul piano costituzionale la collocazione della figura del generale De Gaulle, dalla forma direttoriale tanto adatta alla vicina Svizzera alla semplice ma efficace - come provano i fatti - sfiducia costruttiva di matrice tedesca.
A nostro avviso, proprio perché la soluzione va vista nel contesto complessivo degli equilibri costituzionali ed istituzionali, pensiamo sia corretto guardare alle prossime indicazioni su questo punto in modo aperto, condizionati solo dal senso federalista che le proposte nel loro insieme andranno ad assumere.
Con queste note abbiamo inteso dare delle indicazioni generali al disegno riformatore dell'assetto costituzionale. L'attuazione della riforma che tutti noi proponiamo non può ancora una volta fermarsi sulla soglia del federalismo. Su questo vogliamo essere chiari non solo per le nostre convinzioni ma soprattutto per le attese responsabili maturate nelle regioni e nei comuni.
La cosa peggiore sarebbe la realizzazione di un progetto ibrido, privo di chiarezza nei suoi confini istituzionali e tale da vanificare un deciso snellimento della legislazione e delle procedure. Dobbiamo essere coscienti che il fallimento della riforma non porterebbe ad un ritorno al centralismo ma alla secessione: di questo dobbiamo avere chiara l'idea in testa.
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La sofferenza in cui vive gran parte del paese affonda le proprie radici in motivazioni profonde, non egoistiche ma espressione di una rabbia per la mancata capacità di adeguare l'azione pubblica a quella della società civile. L'abbiamo vissuta anche in questi giorni: uomini di cultura, di impresa, del sindacato, degli enti locali, delle libere professioni delle regioni del nord-est hanno manifestato il loro disagio e la voglia di impegnarsi decisamente accanto alle istituzioni per la riforma dello Stato.
Nel caso in cui venissero a mancare le ragioni ideali per uno sforzo comune, quel disagio potrebbe esplodere in fenomeni difficilmente controllabili. Federalismo, ampi poteri alle autonomie locali, riorganizzazione dello Stato, valorizzazione delle leggi Bassanini costituiscono gli strumenti strategici per avviare il processo di ricostruzione di quel rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni di cui si diceva, rapporto fondato su un rinnovato senso di appartenenza alla comunità nazionale e di identificazione nei comuni valori della democrazia.
AGAZIO LOIERO. Il fatto di parlare nella fase conclusiva del nostro dibattito mi procura un vantaggio innegabile perché l'ascolto di tanti colleghi comporta un accrescimento di conoscenze ed uno stimolo di risorse intellettuali, ma anche la possibilità di andare oltre le nostre stesse posizioni.
Se alcuni degli oratori che hanno parlato nella prima giornata fossero potuti intervenire oggi, sono convinto e voglio sperare che avrebbero cambiato molte posizioni. Credo che la grande risorsa di questa Commissione sia il fatto che le posizioni non debbano apparire ferme, marmoree; c'è invece bisogno di una grande duttilità e flessibilità. Con questo spirito mi accingo dunque a svolgere il mio intervento, che si racchiuderà in tempi ragionevolmente contenuti.
Avremmo sicuramente preferito un'Assemblea costituente, cioè un mandato degli elettori per riscrivere le parti invecchiate di questa nostra Costituzione; tuttavia siamo impegnati nei lavori di questa Commissione senza riserve e senza scetticismo. Siamo convinti che un fallimento della Commissione sarebbe una sciagura per tutti, per la maggioranza ma anche per l'opposizione; sarebbe la definitiva sconfitta della politica e contemporaneamente la vittoria del qualunquismo e del populismo, che sono i due tarli della nostra democrazia. Si registrerebbe un aumento della disaffezione verso la politica e della ruggine tra quest'ultima e il paese, con conseguenze imprevedibili ed incontrollabili.
D'altra parte, certe fasi della politica implicano un sistema di conseguenze quasi meccaniche. Faccio un esempio, signor presidente: la lega che esce dalla bicamerale comporta un'occupazione più massiccia del territorio ed una gestualità esterna più clamorosa. Mi chiedo e vi chiedo: cosa sarebbe avvenuto se in questi anni un sistema rigorosamente bipartitico avesse messo fuori dal circuito istituzionale la lega? In ogni caso, l'appello di Bossi alla bicamerale e al suo presidente non è oggi - credo - eludibile, anche se si muove sul crinale dell'ortodossia istituzionale.
Teniamo conto che il paese attraversa una fase delicata e che, mentre al nord si registra - come dicevo - un'occupazione del territorio spinta fino al limite estremo della sedizione, nel resto del paese si registra un aumento del vento referendario, che forse noi non cogliamo appieno, un vento referendario che già oggi, per tanti motivi, può diventare potenzialmente impetuoso.
Gli italiani hanno un rapporto strano con l'istituto del referendum, presidente: nel 1991 il paese insorse nella misura di oltre l'80 per cento per votare per un referendum tutto sommato dai risultati modesti, quello sulla preferenza unica, che fu usato ed enfatizzato dalla stampa come un grimaldello per sbloccare il sistema politico.
Ho parlato poc'anzi di una parte invecchiata della nostra Costituzione, ma non è inutile ricordare che questa Costituzione ha regolato la nostra vita pubblica
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per alcuni decenni, accompagnando la trasformazione del nostro paese in una moderna società industriale, anche se non priva di contraddizioni e di nodi irrisolti.
Vorrei brevissimamente ricordare le parole con cui De Gasperi il 25 giugno 1946 salutò l'Assemblea costituente: «Abbiamo gettato un ponte sull'abisso fra due epoche». Nulla - credo - come il linguaggio tradisce lo spirito del tempo. In quella frase vi è tutto lo sconvolgimento esistenziale di una generazione intera. Allora il compito dei costituenti era sicuramente immane; il nostro compito, malgrado le grandi difficoltà che lei ha davanti, presidente, è differente: dobbiamo decidere le regole di un'Italia bipolare, nella quale competono schieramenti diversi che si alternano alla guida del Governo del paese. Dobbiamo dare stabilità ed efficienza all'esecutivo e, contemporaneamente, prevedere il rischio - già individuato da Tocqueville - di una dittatura della maggioranza (su questo mi soffermerò un po' di più). Dobbiamo inoltre tener conto che altre e nuove insidie minacciano, nella nostra epoca, le democrazie: penso al peso sotterraneo delle lobby, agli egoismi crescenti delle corporazioni più forti, alla disperazione dei senza lavoro ed alla conseguente contraddizione che essa postula (mi riferisco all'aumento della ricchezza ed al contemporaneo aumento della disoccupazione, specie tra i giovani del sud).
Ma se noi possiamo legalmente e pacificamente aggiornare la nostra Costituzione e cambiarla dove è necessario, lo dobbiamo alla saggezza dell'Assemblea costituente. Ho riletto proprio in questi giorni un discorso di Meuccio Ruini, che in una certa misura era il suo omologo, come presidente della Commissione dei 75; diceva Ruini nel 1947: «La Costituzione prevede in se stessa di poter essere modificata. E così sarà. Noi, o i nostri figli, rimedieremo alle lacune ed ai difetti che esistono e che sono inevitabili». Noi abbiamo ritenuto di individuare questi difetti e queste lacune e abbiamo tentato, forse immaginariamente, di correggerli con il progetto di legge il cui primo firmatario è il senatore D'Onofrio.
Difenderemo con forza le nostre tesi nel corso dei lavori di questa Commissione; cercheremo di convincere gli altri delle nostre buone ragioni, ma sappiamo - e lo dico apertamente, rifiutando i tatticismi della vecchia politica - che una revisione della Costituzione si può realizzare solo con un compromesso. Dico compromesso nell'accezione costruttiva e positiva del termine e non nel senso di un inconfessabile pasticcio neoconsociativo. Solo le finte costituzioni dei regimi totalitari sono il frutto di poche menti, o spesso di una mente sola; noi abbiamo il dovere di trovare un'intesa, senza tuttavia nascondere la diversità dei nostri propositi e la distanza che c'è tra le nostre rivendicazioni ideali.
Mi pare esista un consenso vasto sulla necessità di costruire un sistema politico bipolare, ma vi è confusione, presidente, tra il concetto di bipolarismo e quello di bipartitismo; questo è un equivoco da dissipare in fretta. Il sistema bipolare è parte integrante di tutte le democrazie compiute, ma solo di rado coincide con il cosiddetto bipartitismo (lo diceva ieri l'onorevole Boato, ma questo punto è stato trattato anche da altri colleghi). Non vi è bipartitismo in Francia, in Germania, in Spagna, in Israele, non vi è nelle nuove democrazie dell'est europeo, e un bipartitismo completo non esiste neppure in Inghilterra. D'altra parte, il bipartitismo non si può decidere per legge, è un processo - ne ha accennato l'onorevole De Mita - legato alla storia di un paese; e, dove esiste, il bipartitismo scricchiola, come accade persino nella realtà degli Stati Uniti, dove la tradizione bipartitica risale alla lotta per l'indipendenza e alla nascita della democrazia americana.
D'altronde, la pluralità delle idee non è certo venuta meno con la caduta delle ideologie ottocentesche, che hanno dominato la scena politica per buona parte del nostro secolo. La pluralità delle idee, delle culture, degli stessi sentimenti, e quindi dei partiti, all'interno di ciascun polo, corrisponde alla complessità dei problemi
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del nostro tempo, ed all'estrema difficoltà che incontra chi presume che la loro soluzione possa essere riassunta in due ricette sole. Nei sistemi bipolari i programmi di governo sono la sintesi, il punto di incontro dei programmi di ciascun partito che compone il polo vincente. Guai a pensare, presidente, che tutto questo sia solo una fastidiosa perdita di tempo.
Nel corso dei nostri lavori ogni gruppo e ciascuno di noi avrà la possibilità di illustrare il proprio punto di vista sui singoli aspetti della riforma. Oggi io mi soffermo sull'idea di democrazia che dovrà essere sullo sfondo dei nostri lavori e delle nostre decisioni. Noi vorremmo concorrere a far nascere, con la riforma, una compiuta democrazia liberale. Si abusa molto di questa definizione, perciò indugio a ricordare che la democrazia liberale poggia su due pilastri: la divisione dei poteri ed il riconoscimento di un'area di indisponibilità, che non può essere violata da alcuna maggioranza, neppure dal cento per cento degli elettori. Nessuna maggioranza potrebbe mai, in una democrazia liberale, ledere i diritti di libertà, la dignità della persona, la libertà della scelta della scuola, il diritto al lavoro.
Questi diritti, nelle società moderne, non vengono mai pubblicamente negati, ma sono talvolta violati nella pratica. La nostra esperienza dimostra che non basta che questi diritti siano sanciti nella prima parte della Costituzione; occorre che vengano esplicitamente garantiti anche nell'ordinamento fissato nella seconda parte, in modo da diventare macigni sulla strada di chi tentasse, anche in buona fede, di far fuoriuscire l'Italia dalla democrazia liberale.
Diverse emergenze, prima quella del terrorismo, poi quella di Tangentopoli, hanno favorito spesso il deragliamento di poteri dello Stato dalle regole della democrazia liberale. Questa, dicevo, si fonda anche sulla divisione dei poteri: del Governo, del Parlamento, della magistratura. Noi riteniamo che questa divisione debba essere mantenuta.
Sono quasi interamente d'accordo con l'analisi dell'onorevole Parenti e del senatore Pera, ma sono contrario all'ipotesi di affidare al Parlamento compiti di indirizzo dell'attività dei pubblici ministeri.
Cercherò di argomentare brevemente perché non sono d'accordo con questa impostazione partendo dall'osservazione del nostro paese e dalla sua inclinazione dominante al conflitto ed alla discordia civile. Un nostro poeta, Umberto Saba, addirittura fa risalire questa predisposizione alla rissa fratricida, al primo mito del nostro codice genetico: il dissidio fra Romolo e Remo. Una contrapposizione permanente ha sempre attraversato la società italiana, una contrapposizione che investe le cose futili ma anche quelle più importanti, fino alla politica.
Si immagini per un solo attimo, senatore Pera, un Parlamento che stabilisce a maggioranza linee di indirizzo per il pubblico ministero. Si pensi a mo' di esempio al Parlamento eletto dopo la consultazione elettorale del 26 aprile e si cerchi di immaginare, se fosse stata in vigore quella norma, quale sarebbero stati i reati che la maggioranza avrebbe imposto di perseguire nell'infuocato clima postelettorale. Nel tentativo di colpire il capo dell'opposizione, sono convinto che la maggioranza, in quel clima politico - ripeto - infuocato, avrebbe probabilmente indicato il falso in bilancio e i reati tributari. Sarebbe stata giustizia? D'altra parte, certe persecuzioni sono state compiute in questi ultimi anni senza l'avallo del Parlamento: figuriamoci cosa avverrebbe se vi fosse quel sigillo istituzionale!
Siamo favorevoli all'autonomia della magistratura e del pubblico ministero compreso; tuttavia non si può negare che il sistema, così come è, è esposto ad errori, deviazioni e prevaricazioni, di cui non è possibile più tacere, e che non si possono ulteriormente tollerare. La magistratura si è divisa al suo interno in correnti e spezzoni di esse si muovono come se spettasse a qualche procura, e non al Parlamento, il compito di decidere
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la politica giudiziaria della nazione, e magari anche quella economica e la politica estera.
L'obbligatorietà dell'azione penale, pure difficile da negare in astratto, è diventata spesso un atto sommamente discrezionale e svincolata da ogni controllo è diventata sovente selettiva e mirata. La stessa notitia criminis, spesso priva di presupposti certi, è stata utilizzata da alcuni pubblici ministeri, o da alcuni loro sostituti, come uno strumento da maneggiare a proprio piacimento per colpire taluni o amnistiare altri. Così pure l'avviso di garanzia, intrecciato con la violazione sistematica del segreto istruttorio, ha consentito ad alcuni pubblici ministeri di celebrare i processi soltanto sulle colonne dei giornali. Si è così realizzato un ingorgo mostruoso!
Un'implicita alleanza tra magistratura e stampa ha creato in questi ultimi anni una sorta di mostro dal potere smisurato che un Parlamento intimidito non è stato in grado di fronteggiare. Da tale mostro è scaturita la seguente idea, anch'essa mostruosa, ossia che l'interesse pubblico alla giustizia venga ormai soddisfatto dall'accusa e non dal giudizio. Da questo garbuglio bisogna tornare al processo vero nel quale vi deve essere il primato della magistratura giudicante e la sua equidistanza rispetto all'accusa ed alla difesa. D'altra parte i milioni di processi pendenti e l'altissima percentuale di detenuti in attesa di giudizio impongono una riforma profonda da attuare con serenità, senza alcun intento punitivo, ma avendo consapevolezza, io stesso per primo, che molti procuratori in certe zone del sud rischiano ogni giorno la vita. Ciò non di meno, questo riequilibrio è un aspetto ineludibile nella costruzione della democrazia liberale, correttamente intesa; altro che leggi ordinarie.
Il problema delle garanzie ai cittadini e lo stesso sistema delle giurisdizioni (si pensi per un attimo al Consiglio di Stato ed alle polemiche che lo hanno investito in questi giorni) va ridefinito in maniera alta e forte in questa sede. Stupisce che personaggi di grande saggezza e di buona cultura istituzionale eludano il problema. Purtroppo, pavento il rischio che sul problema delle garanzie si possa registrare una sorta di scontro, come dire, ideologico, non facilmente risolvibile. Anche la giustizia, come la politica, ha bisogno di conflitto, di confronto e di passione, non fosse altro che per alzare il livello di conoscenza, che solitamente cresce in presenza del disaccordo.
Per affrontare un nodo così arduo non vi è bisogno di passioni che si accendano, piuttosto di passioni che si spengano; diversamente quelle «questioni-macigno», che autorevolmente lamentava il senatore Elia, rischiano di presentarsi sul nostro comune tragitto e bloccare il nostro cammino.
Vorrei ora affrontare un secondo argomento. Poc'anzi ho rivendicato la centralità del Parlamento, ora vorrei brevemente aggiungere qualche considerazione all'esauriente esposizione fatta dal senatore D'Onofrio; una questione questa perfettamente compatibile con il nostro modello di presidenzialismo.
Nel modello costituzionale che proponiamo, il Presidente della Repubblica viene eletto a suffragio universale diretto, come in Francia; nomina il primo ministro, ma questi deve ottenere la fiducia del Parlamento, dal quale può essere revocato. L'elezione diretta del Presidente della Repubblica nasce da una duplice necessità: quella di sottrarlo alle contrattazioni tra i partiti e quello di essere il garante dell'unità nazione in una Repubblica organizzata su base federale.
Il potere di fiducia e di revoca del primo ministro, affidato al Parlamento, corrisponde alla volontà di evitare il sia pur minimo rischio di autoritarismo. Il nostro presidenzialismo è dunque figlio della cultura democratica e si ispira alla lezione di Calamandrei: tende a coniugare la capacità di decisione e l'autonomia del Governo con un potere forte di indirizzo e di controllo del Parlamento.
Una democrazia liberale non può però prescindere dai valori di sussidiarietà e di solidarietà. Ciò vale per la costruzione del federalismo, che deve essere realizzato in
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modo da non rendere drammatico lo squilibrio territoriale già presente nel paese e vale anche per la riorganizzazione dello Stato sociale, un problema italiano ed europeo. Noi vogliamo concorrere ad una revisione indispensabile, forse anche profonda, dello Stato sociale; considereremmo il suo abbattimento indiscriminato un arretramento di civiltà. Siamo perciò impegnati a combattere quella subcultura che serpeggia nel paese, secondo la quale, chi non è direttamente impegnato nel ciclo produttivo (giovane disoccupato o anziano pensionato) può essere tranquillamente ignorato ed emarginato. I diritti devono tornare ad appartenere allo status di cittadino italiano e non al fatto di essere iscritto ad una categoria tutelata. Siamo contro le degenerazioni assistenzialiste e stataliste; vediamo però in un sistema di Stato sociale profondamente rinnovato non soltanto l'attuazione di un principio, per noi irrinunciabile, di solidarietà, ma anche uno strumento per lo sviluppo del mercato nei paesi europei.
Signor presidente, onorevoli parlamentari, l'opera di revisione della seconda parte della Costituzione coincide con un tempo di forti inquietudini per gran parte dell'Europa. La fine della guerra fredda ha reso globale la competizione economica e, d'altra parte, i paesi hanno forse commesso l'errore di affidare la costruzione della casa comune soltanto allo strumento della moneta unica. Mentre viaggia a velocità ridotta il vagone dell'integrazione politica, rendendo distante il cittadino dall'Europa, oggi ad essa il cittadino italiano guarda con diffidenza, come se fosse una dispensatrice di sacrifici, di problemi, di tasse (l'eurotassa è una delle parole più demonizzate oggi nel nostro paese). In Italia non dobbiamo fare entrare l'ente-regione, ma il popolo delle regioni, cominciando a mettere mano a questi collegi elettorali sterminati, che accentuano le distanze invece di accorciarle; perciò devono essere i collegi regionali quelli che votano per l'Europa, un punto che la Commissione dovrà sancire con forza.
Signor presidente, onorevoli parlamentari, se in un'epoca così difficile i nostri lavori si arenassero, verremmo condannati dai nostri alleati europei come un paese inconcludente, votato all'instabilità permanente: alcuni di questi ci condannerebbero con dispiacere, altri senza dispiacere. Non vogliamo assumerci la responsabilità di un fallimento e siamo qui non per contemplare la nostra granitica immobilità, ma, come ho detto all'inizio, per registrare il nostro grado di duttilità. Ci poniamo in questa Commissione, dunque, senza pregiudizi, senza rigidità, con speranza. Ci poniamo come davanti a un viottolo di campagna che all'inizio non esiste e diventa tale quando molte persone vi hanno camminato sopra.
ETTORE ANTONIO ROTELLI. Un giorno, probabilmente uno dei primi, entrò eccezionalmente all'Assemblea costituente, che del resto era anche il Parlamento, Alcide De Gasperi. Sedutosi accanto a Costantino Mortati gli chiese quale fosse tra i presenti Egidio Tosato, alto costituzionalista della democrazia cristiana. Dopo la rapida indicazione, il Presidente del Consiglio domandò: «E Mortati?». «Mortati - rispose questi - sono io».
Come ha confermato la discussione generale, riscrivere mezzo secolo dopo la Costituzione è arduo e persino imbarazzante non solo per il diverso rapporto instaurato fra costituzionalismo e politica, ma anche e soprattutto, per l'assenza del diritto costituzionale: di una scienza giuridica che, misurandosi fino in fondo con la scienza politica, rimanga rigorosamente se stessa, non rinunci alle sue categorie, dunque alla sua specifica facoltà di analisi e di terapia (se occorre una data, 1970; se occorre una fonte, la Francia, di cattivi maestri, né giuristi, come invece i tedeschi, né politologi, come invece gli anglosassoni, specie i nord americani, non quelli immigrati, con troppa nostalgia, da Olanda, Spagna e Italia).
Il diritto costituzionale non può essere ridotto a pura ingegneria, come nei progetti presentati. I gruppi parlamentari si
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sono preoccupati essenzialmente di esibire una qualche apparente unità interna, senza peraltro riuscirci su alcuno dei temi all'ordine del giorno. Con felice intuizione, la presidenza ha liberato la Commissione dal contingentamento dei tempi. Forse, sarebbe stato più coerente non sollecitare gli uffici alla istruzione di ogni questione con le sole proposte riformatrici principali, che poi sarebbero quelle dei gruppi (Cicero pro domo sua, naturalmente: mi riferisco alla mia proposta di legge, atto Senato n. 2030).
L'efficacia delle politiche pubbliche - che è l'obiettivo da perseguire, giacché riguarda direttamente la qualità della vita - non è correlata direttamente alla forma di governo (presidenziale o parlamentare) né alla formula elettorale (cosiddetta maggioritaria o proporzionale). Lo è, invece, alla struttura e al funzionamento del sistema politico, che sia bipartitico o saldamente bipolare, influenzati a loro volta, ma non esclusivamente, dall'uno o dall'altro o da entrambi. La stabilità, infatti, ne è condizione necessaria, ancorché non sufficiente. Essa, la stabilità, precisamente consiste, a tale scopo, nella permanenza in carica di un medesimo Governo col suo capo e, nella sicurezza, per di più, del Governo in carica, di restarci per tutto il tempo assegnato, senza dover mettere in gioco immediatamente la sua sussistenza con ogni provvedimento adottato. La stabilità, che interessa, non consiste, invece, nella conservazione al potere di un medesimo partito per anni interi o decenni (la quale, caso mai, può diventare, alla lunga, una controindicazione).
Conta, allora, il contesto, conta la storia di ciascun paese, da cui non si possono estrapolare impunemente le istituzioni politiche, come alla revisione costituzionale è richiesto tecnicamente di fare. Ecco perché non si tratta affatto di scegliere, a piacere, il modello straniero da imitare. Siccome si possono importare solo le regole giuridiche-formali, costituzionali, estratte dal contesto, il fallimento sarebbe, in tal caso, garantito. Per giunta, la copiatura pedissequa di articoli costituzionali altrui costituisce rinuncia ad acuire l'ingegno, istigazione alla pigrizia intellettuale, proprio quando serve la creatività, che, ovviamente, non è la stravaganza. Insomma, nessuna ricerca, estetica o estetizzante, del modello formale straniero migliore. Individuazione, piuttosto, degli accorgimenti stranieri che sarebbero funzionali alla correzione, essenziale e minimale, delle istituzioni italiane, specie nel nesso con il sistema politico.
I modelli, come vengono chiamati, sono, in diritto costituzionale, i diversi tipi di forma di governo, da un lato, e di forma di Stato dall'altro (ma la peculiarità dello Stato federale è più storico-genetica che giuridico-positiva), mentre tutt'altro sono i modelli in scienza politica (dove lo schema è: se, allora). Ora, la forma di Governo non è la forma del governo, come crede anche la trascrizione della bicamerale (e il drafting che mette la «g» maiuscola). Se lo fosse, non sarebbe fuorviante, com'è, la definizione tipologica della relazione introduttiva e, prima di questa, quella dei progetti: 1) ipotesi presidenzialista classica, su modello americano; 2) ipotesi semipresidenziale; 3) ipotesi di Governo del primo ministro. Esiste, certo, il regime presidenziale («presidenzialista» è aggettivo, forse inconsapevolmente, un po' spregiativo) di cui l'americano sarà il prototipo, non il modello. Un modello, infatti, per essere tale non deve constare di un solo caso - come il direttorio svizzero - e non deve identificarsi in tutto e per tutto con un solo caso, sia pure il prototipo. Sono gli elementi costitutivi, comuni a tutti i casi, a definire il modello.
Si può discutere poi e si discute se il semipresidenziale, più recente, sia un tertium genus o una specie del genere presidenziale; comunque sia, è definibile semipresidenziale non perché l'esecutivo sia duale (invero, più di fatto che di diritto), ma perché solo una componente del dualismo, il Presidente della Repubblica, non dipende dalla fiducia preventiva o, meglio, dalla non sfiducia successiva del Parlamento. Non esiste, invece, in alternativa storica e tipologica al regime presidenziale
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che il regime parlamentare, il quale non è definibile correttamente, in diritto costituzionale, come Governo del primo ministro (un' espressione, questa, usata dalla dottrina italiana nella seconda metà degli anni venti per assimilare il regime fascista al Regno Unito dopo la legge sul capo del Governo, primo ministro, segretario di Stato - 24 dicembre 1925, una delle due leggi fascistissime -). E', infatti, regime parlamentare quando il Governo (tutto il Governo) dipende, anche senza fiducia preventiva, dal Parlamento, e quindi il Governo, tutto il Governo, non coincide né con il re ereditario, com'era nello Statuto albertino, né con il Presidente della Repubblica elettivo, com'è negli Stati Uniti. Allora è regime parlamentare.
L'imprecisione terminologica - chiamiamola così - può gravare sulle scelte sostanziali della revisione costituzionale, che necessariamente sono scelte - ripeto - di regole giuridico-formali. Per esempio, l'alternativa viene ridotta, nella relazione del presidente, a due fattispecie, non definita però parlamentare o presidenziale, bensì grandi democrazie con governi del primo ministro ed altre nelle quali «i cittadini eleggono direttamente il Presidente della Repubblica» (ciò che può avvenire in Europa anche senza che il Capo dello Stato sia partecipe del potere esecutivo). Le seconde - si certifica - «sono ugualmente grandi democrazie», «purché naturalmente all'elezione popolare del Presidente della Repubblica corrisponda un sistema di pesi e contrappesi», ma «chi ritiene che il presidenzialismo non sia un sistema adatto per il nostro paese ha ragioni profonde e motivate».
Non è certo imputabile al presidente della Commissione la intuibile mancanza di favor personale per il regime presidenziale, né che vi includa il semipresidenziale (anche questo a elezione diretta del Presidente), né ancor meno è imputabile che abbia definito «neoparlamentare» la soluzione opposta, sulla scia, del resto, dell'inventore francese e del titolare del brevetto italiano. Sarà consentito di dubitare, però, che l'esigenza di pesi e contrappesi si ponga di più per un regime presidenziale, il cui tratto caratteristico è la divisione dei poteri, nel senso della non dipendenza reciproca di Governo e Parlamento - eletti separatemente -, pur nella partecipazione determinante del secondo alla funzione legislativa (tanto che il cosiddetto Governo diviso è diventato un'obiezione). Non si tratta, a proposito del cosiddetto Governo del primo ministro, di fare il processo alle intenzioni per contestare al Presidente l'opinione che «le scelte di fondo ed i valori sono quelli della democrazia», da non caricare quindi «di un significato ideologico» e che le diverse soluzioni prospettate nei progetti «sono tutte all'interno di una visione democratica e ispirate a esperienze democratiche». Ma, oggettivamente, le esperienze democratiche di regimi non presidenziali, che l'Occidente ha sperimentato, sono da due secoli quelle dei regimi parlamentari, che, in diritto costituzionale vigente ignorano, anzi escludono, per definizione, sia l'elezione diretta, sia l'indicazione indiretta, sia la scelta popolare garantita dall'obbligo di apparentamento di ogni singolo candidato al Parlamento con un candidato premier.
Il cosiddetto Governo del primo ministro, a parte l'organo così denominato, non ha parentela costituzionale di sorta con la forma di governo britannica, che è squisitamente parlamentare (il cosiddetto modello Westminster è prodotto politologico di origine olandese-americana, confezionato per l'esportazione in Europa, e quivi certificato, in genere, per gli altri, non per sé stessi); come, del resto, è parlamentare quella tedesca e quella che la Costituente italiana riteneva di avere ripristinato e sanzionato nel nostro paese (con l'articolo 94, che, per il carattere normativo della forma di governo adottata, avrebbe dovuto determinare l'interpretazione sostanziale dell'articolo 92, primo comma e dell'articolo 88). Israele, non è precisamente una democrazia grande per dimensione, né dell'Occidente per geografia, né consolidata o di successo per la sua recentissima forma di governo.
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Nascono perplessità, in primo luogo, di principio, cioè - spiace turbare la serenità invocata sul punto - proprio di democrazia. Intanto, dal punto di vista dei diritti politici del cittadino, che sono fondamentali in Costituzione. Se è in gioco un seggio in Parlamento, ogni cittadino ha il diritto pieno e incondizionato di candidarvisi senza dover sottostare, per questo, all'onere di indicare, congiuntamente, un primo ministro e, per converso, ogni elettore ha il diritto pieno e incondizionato di votare per un candidato al Parlamento senza dover votare quel candidato, da lui non gradito, alla carica, distinta, di primo ministro. Se poi, secondo qualche proposta, così non si ottiene la maggioranza (assoluta), e la si conferisce allora con un omaggio supplementare di seggi, ne risulta - in ossequio alla democrazia - un Governo non derivante da un'elezione diretta separata del suo capo (a maggioranza assoluta), né da una maggioranza (assoluta) di parlamentari eletti direttamente come tali. L'obbligo giuridico fatto al candidato di collegarsi a un primo ministro potenziale e la connessa implicazione di essere tenuto a sostenerlo immediatamente in Parlamento sembrano configurare, inoltre, una sorta di vincolo di mandato, il cui divieto (articolo 67) non si vede come possa essere rimosso. Del resto, una maggioranza si forma legittimamente, cioè senza coazione giuridica dei comportamenti soggettivi dei componenti, soltanto in organi già eletti e costituiti; dunque non prima e non da parte di altri, sia pure elettore (comunque non libero). La fortunata formula del «leader con la sua maggioranza» appare quindi intrinsecamente contraddittoria. E presuppone, anche giuridicamente (ripeto: giuridicamente), che sia il leader a far eleggere la sua maggioranza e non la maggioranza degli eletti in Parlamento a riconoscersi in un leader: oltre tutto un leader, come già si è osservato, che non gli elettori hanno scelto, bensì i partiti (della coalizione), imponendola poi all'elettore come condizione della sua scelta del parlamentare.
Ci sarebbe anche da discutere se l'abbinamento obbligatorio della singola candidatura al Parlamento con la candidatura a primo ministro non postuli necessariamente l'inserimento surrettizio in Costituzione di una determinata formula elettorale (per il Parlamento): il che è precluso non solo, in generale, dalla tradizione costituzionale, ma anche, in particolare, dalla legge sulla bicamerale, oltre che dalla illiceità di patti in materia che, sottaciuti nella revisione costituzionale approvata, si intendessero far valere nei confronti del successivo legislatore ordinario. Non è il caso, tuttavia, di anticipare questioni pregiudiziali, pur rilevanti, quando sussistono questioni sostanziali, attinenti al ruolo stesso del Parlamento, e del Governo nei confronti del Parlamento, in un ordinamento della Repubblica che intenda essere ancora democratico rappresentativo. Non senza imbarazzo, infatti, si è costretti a recitare, ancora una volta, l'articolo 16 della dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 26 agosto 1789: «Ogni società, nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata,» - ripeto: né la separazione dei poteri determinata - «non ha costituzione». Non che si voglia tuttora ritenere e sostenere che il Governo sia semplicemente potere esecutivo, come tale tenuto alla pura esecuzione delle leggi del Parlamento, né che solo a questo spetti l'esercizio della potestà legislativa: altro è il senso della separazione dei poteri come antidoto dell'assolutismo. Ma nemmeno è consentito, senza sacrificarla, annullare la dialettica, chiamiamola così, fra Parlamento e Governo e ridurre il primo a mero e obbligatorio sostegno del secondo, fra l'altro eletto come monocratico.
Un collega della mia facoltà, che questa volta non fa parte della bicamerale, ne ha spiegato il compito il giorno dopo la seconda votazione: potenziare il capo dell'esecutivo. Non essendo sufficiente la elezione diretta del primo ministro (che, comunque non sarebbe, giuridicamente, una elezione separata, né a maggioranza assoluta, onde subito tutte le giuste obiezioni
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relative), occorre una maggioranza parlamentare, la quale si ottiene attribuendo al primo ministro «vincente» (si è visto in che modo e in che senso) tutti i seggi del recupero proporzionale o parte, fino al conseguimento, appunto, di una congrua maggioranza parlamentare. Ma siffatta maggioranza (assoluta), che gli elettori, come tali, non hanno determinato né coll'uninominale né col proporzionale e non corrisponde perciò ad alcuna analoga esperienza delle democrazie occidentali, occorre poi anche che sia «operativa». Per questo il primo ministro deve avere, continuo a citare, «poteri significativi sia nei confronti della sua maggioranza che nei confronti del Parlamento come istituzione»: sono, si capisce, i poteri di scioglimento. Sorgerebbe il dubbio, a questo punto, che così il Parlamento sarebbe «troppo ridimensionato». Ma «in verità» - assicura il collega - «il problema riguarda soprattutto l'opposizione», che volendo, può sempre «criticare, controllare e controproporre». Quanto alla maggioranza, «è democratico» che «appoggi lealmente e continuativamente il suo primo ministro». Anzi, precisa sempre il collega, «il problema vero sono i poteri di legislazione» da attribuirgli. Del resto, conclude, «nessun primo ministro scioglierà un Parlamento che funziona o una maggioranza che lo sostiene». Ora, se così è, possiamo nutrire, sommessamente, qualche preoccupazione? Ci lasceranno ricordare impunemente gli ingegneri istituzionali che forse serve ancora l'equilibrio dei poteri, specie quando uno dei due è monocratico alla fonte? Che la facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche fu stabilita con la legge n. 100 del 1926 (l'altra fascistissima), che, personalmente, ho dovuto citare al Senato allorché il Governo poneva e otteneva la fiducia sulla conversione di decreti-legge che gli conferivano la delega legislativa? Era forse una specie di prova generale?
Oltre che pericoloso per le ragioni appena dette, il cosiddetto governo del primo ministro, che sicuramente, per la dipendenza dal Parlamento della durata in carica del Governo e viceversa non è presidenziale, appare anche inefficace sotto il profilo della stabilità governativa come sopra definita. - vero, infatti, che la maggioranza parlamentare, che pure si sia sfaldata, può avere interesse ad evitare lo scioglimento e quindi non esprima sfiducia, ma, di fatto, non è più operativa, non funziona più come effettivo sostegno alle politiche pubbliche proposte dal Governo al Parlamento con atti legislativi.
Sarebbe, dunque, una stabilità apparente, appunto inefficace, come ha insegnato la prima esperienza di grandi comuni - Milano per esempio - ad elezione diretta del sindaco con la sua obbligatoria maggioranza. In realtà, l'elezione diretta del leader con la sua maggioranza è una formula elaborata, dai colleghi citati, fino dagli anni ottanta in funzione, per così dire, della conquista elettorale del potere. Essa risolve, quando risolve, il problema del successo di una qualche coalizione elettorale, ma lascia insoluto quello, che più interessa, della coerente gestione del potere conquistato, cioè di politiche pubbliche sviluppate coerentemente per un determinato periodo di tempo (non basta nemmeno dire Governo di legislatura, se la legislatura può non durare nemmeno due anni, come succede in Italia dal 1992).
La Commissione bicamerale, quale organo del Parlamento in sede di revisione costituzionale, non deve temere l'accusa di autoriproduzione se capovolge il ragionamento corrente; tanto meno deve temerla se la restituzione di ruolo del Parlamento è in funzione di un corretto regime presidenziale. In effetti, non è il Governo e, per esso, il primo ministro che va rafforzato: è fin troppo forte ormai in Italia, finché è in carica, con l'enorme potere legislativo che ha accumulato (semmai l'ostacolo è diventato il ruolo assunto dal Capo dello Stato). E' il Parlamento per parte sua a non esserlo più, ben inteso in termini costituzionali. E' solo lì il tallone di Achille del Governo, che in qualsiasi momento, anche giuridicamente, può essere licenziato e di conseguenza ogni parola che pronuncia, ogni atto che propone, deve calibrarlo su tale pericolo
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sempre incombente. In questo modo, però, non sviluppa effettive politiche pubbliche.
D'altra parte, il Parlamento e, per questo, la maggioranza - comunque assortita - prima ancora che l'opposizione è in balia del Governo nell'esercizio della sua principale funzione, che è quella legislativa. Si approvano leggi e articoli di legge sul cui contenuto non conviene alcuno dei parlamentari che consapevolmente li votano. L'unico strumento di cui il Parlamento dispone è la minaccia quotidiana di far cadere il Governo; ma è uno strumento in mano alle segreterie dei partiti, che compongono la maggioranza, non del Parlamento. E l'opposizione non fa opposizione, non propone politiche pubbliche alternative, non cerca di determinare più di tanto il contenuto delle leggi per migliorarlo, ma semplicemente cerca di far cadere il Governo, tentando di sottrargli qualche quota di maggioranza. Se, come, quando cade il Governo in carica è l'unico interrogativo su cui - da maggio - ho visto cominciare e finire ogni giornata parlamentare romana, della maggioranza o dell'opposizione.
Se non mi inganno la riforma essenziale della forma di governo è sottrarre il Governo, la sua durata, alla disponibilità del Parlamento; è sottrarre il Parlamento, la sua durata, la stessa, alla disponibilità del Governo (o del Capo dello Stato, indipendentemente dal Governo). Ciò significa, certo, due elezioni dirette e distinte. Significa, inoltre, un regime presidenziale, ma non americano più che francese; anzi, nella formulazione proposta (atto Senato n. 2030) più francese che americano, se avesse senso simile misurazione: a cominciare dal modo di eleggere il Presidente della Repubblica.
Ma, diversamente da entrambi, in sintonia con la tradizione costituzionale italiana, le due elezioni sono contestuali o, meglio - ecco l'uovo di Colombo - la elezione del Parlamento viene fatta coincidere, per lucrarne i benefici, col ballottaggio eventuale della elezione presidenziale. Si evita, in tal modo, sia il cosiddetto governo diviso americano (spesso determinato dalle elezioni intermedie), sia la cosiddetta coabitazione francese. Tutte le ricerche sulla «luna di miele» sono concordi in tal senso, così come le due elezioni politiche italiane del 1994.
Persino nel 1996 solo il 7 per cento in Italia ha espresso un voto diviso, ma non sarebbe impedito di darlo all'elettore che, con due schede in mano, proprio lo volesse, magari per garantirsi. E nel caso decisamente improbabile che il Presidente eletto si trovasse di fronte, non di meno, ad una maggioranza parlamentare contraria, potrebbe sempre tenerne conto nel formare il Governo (l'ha fatto il presidente Clinton) nonché, in caso estremo di maggioranza assolutamente contraria coesa, potrebbe ritrarsi dal Governo stesso come nel regime semipresidenziale. Invece il Parlamento, privato della facoltà di sostituire il Governo, comunque inibita - anche per non indurli in tentazione - ai parlamentari e candidati dell'ultima e della penultima legislatura, recupererebbe la funzione legislativa giacché una sospensione governativa della promulgazione della legge approvata sarebbe rimossa da una seconda votazione parlamentare a maggioranza assoluta.
Se l'aggettivo presidenziale (o semipresidenziale) non spaventa più, dopo mezzo secolo di democrazia; se si comprende che sarebbe un equilibrio assai più rassicurante di quello promesso dal cosiddetto governo del primo ministro; se la proposta formulata non è suscettibile di alcuna delle opposte obiezioni giustamente mosse anche nella discussione generale al semipresidenzialismo francese tradotto alla lettera; se si apprezza che con essa non si introduce istituzione o denominazione che non sia già nella Costituzione; se si vede rispettata anzi esaltata la collegialità del Governo; se si prende atto che il Capo dello Stato ha ormai assunto un ruolo difforme dal regime parlamentare (l'ho scritto nel 1994), dal quale è difficile prescindere, ond'è conforme allo sviluppo dell'ordinamento renderlo direttamente elettivo, piuttosto che esporlo ad un probabile, impari conflitto permanente col primo
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ministro diventato direttamente elettivo; se si considera tutto ciò, si può assumere infine il coraggio dell'innovazione, peraltro circoscritta all'essenziale, a ciò che è strettamente indispensabile. Sarà difficile altrimenti che la bicamerale non fallisca per la terza volta o che non sia un altro compromesso, nell'unica materia in cui sarebbe inconcepibile, la Costituzione della Repubblica, che per il 2000 occorre definitiva.
Ho nominato un Alcide De Gasperi del 1946, nel raccontino che mi fece Costantino Mortati, e con Alcide De Gasperi del 1946 conviene concludere nella testimonianza resa da Giuseppe Dossetti nel 1994.
Subito dopo l'inizio della Costituente ci fu al Celio, nella casa generalizia dei Passionisti, una riunione del gruppo dirigente DC con De Gasperi dove «si discusse principalmente della scelta fra una repubblica parlamentare e una repubblica presidenziale. Io tendevo un po' - confessa Dossetti - alla repubblica presidenziale, che non avrei visto male». Ma la maggioranza con De Gasperi «si schierò decisa per la repubblica parlamentare, soprattutto per la paura del fronte popolare, della sinistra vincente con un candidato non estremista (non Togliatti, ma Nenni)». Ebbene, noi sapevamo già perché la DC, finché è vissuta, ha mantenuto quella pregiudiziale ed anche perché un partito l'ha accettata volentieri in eredità. Desidereremmo sapere dalla bicamerale, cinquant'anni dopo, se qui c'è ancora un Togliatti che si ritenga ancora meno legittimato di Nenni: spero di no. Insomma, desidereremmo sapere se nell'anno 2000 l'Italia potrà essere, finalmente, un paese normale, con una Costituzione normale. E questo spero di sì.
PAOLO ARMAROLI. Signor presidente, onorevoli colleghi, essendo in aspettativa dall'epoca in cui ho ricevuto il mandato parlamentare, avevo una certa nostalgia dell'università. Mi considero quindi fortunato perché, entrato a far parte della bicamerale, posso partecipare, in questa prima fase, ad una sorta di seminario universitario, in ciò accomunato a tanti colleghi, da Elia a Fisichella, da Urbani ad Onofrio, da Villone a Pera, da Tremonti a Buttiglione, fino a Passigli, a Rebuffa e a tanti altri ancora. Intelligenti pauca
! Per distinguermi, farò come il personaggio di una commedia di Eduardo De Filippo, cioè come quel nonno che viveva in soffitta e che, stanco di parlare, comunicava con i familiari attraverso i petardi, sicché, a seconda del petardo che lanciava, intendeva dire una cosa oppure un'altra. Intendo dire che parlerò per flash, scusandomi per non aver potuto partecipare come avrei voluto a tutte le sedute dedicate alla discussione generale. Purtroppo, siamo come gli aeroplani della «buonanima»: un po' qua e un po' là, divisi tra Commissione affari costituzionali, Giunta per il regolamento, Assemblea e quant'altro.
La legge costituzionale istitutiva della bicamerale ha rappresentato un'anomalia rispetto al passato. Come sappiamo, sia la Commissione Bozzi sia la Commissione De Mita-Iotti furono istituite con mozioni o con risoluzioni. Ciò consentì di avviare immediatamente il lavoro. La nostra Commissione, invece, è stata istituita a seguito di quella mozione mancina approvata alla Camera e della contestuale risoluzione o mozione - non ricordo bene - al Senato, cioè a seguito di atti «Ogino Knauss», trattandosi di mozioni prive del benché minimo effetto giuridico. L'effetto giuridico, infatti, è stato determinato dalla legge costituzionale. Quest'ultima, essendo intervenuta soltanto da poche settimane, ha impedito che la bicamerale potesse lavorare fin dal luglio scorso. Probabilmente, si è perso del tempo utile e, per di più, lo si è perso inutilmente. Mi domando se l'espediente della legge costituzionale non sia stato in realtà un artificio per differire il momento della verità, per permettere di baipassare la sessione di bilancio e per non creare troppi grattacapi al manovratore. Alludo al signor Presidente del Consiglio, Romano Prodi.
MARCO BOATO. Si sarebbe potuto votare già all'inizio di novembre!
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PAOLO ARMAROLI. Come giuristi, avvertiamo un rovello con riferimento al termine giugulatorio del 30 giugno fissato dalla legge costituzionale. Se, per ipotesi, a noi commissari occorressero tre giorni in più per consegnare il risultato del nostro «parto» ai due rami del Parlamento, dovremmo già oggi - come si dice in Toscana, presidente Mussi - fasciarci il capo (Commenti), mettere in cantiere una legge costituzionale, con la speranza che vada in porto prima del 30 giugno, per prorogare il termine di tre giorni (che poi potrebbero essere cinque, sette o dieci). Questo è un problema che mi sono posto, signor presidente, e che sottopongo alla sua attenzione ed a quella dei colleghi.
Ritengo che il tema delle riforme istituzionali non sia e non debba essere una sorta di trenino elettrico per gli addetti ai lavori, magari per i costituzionalisti di professione come sono io. Le riforme, signor presidente - così, almeno, credo, e mi auguro che lei sia d'accordo con me, anzi sono io ad essere d'accordo con lei, perché mi pare di capire che anche lei, lei soprattutto, sostenga questo - debbono essere funzionali ad un bipolarismo. Quando lei parla di paese «normale» (e non paranormale, così come è invece oggi, per tutta una serie di ragioni la cui elencazione vi risparmio), è perché dovremmo diventare inglesi
Le riforme, in sostanza, dovrebbero servire a due poli ordinati che si alternano al potere. Però, signor presidente, noi siamo oggi alla «canna del gas», perché la Camera dei deputati ha affondato la legge Rebuffa, cioè ha affondato la possibilità per il popolo sovrano di abrogare la parte proporzionale. Non starò a dire se si tratti di un bene o di un male, ma mi limito a considerare come questo renda le cose molto più difficili, ove si consideri che i due rimedi per un bipolarismo ordinato sono anzitutto la legge elettorale e, in secondo luogo - ed io mi schiero in questa seconda scuola di pensiero -, la forma di governo. Sotto questo profilo, abbiamo perso una cartuccia. Ella, signor presidente, molto opportunamente ha dapprima corretto Montanelli, ed era nel vero; è stato ancora nel vero quando ha detto che in qualche modo, nonostante ci si debba occupare della seconda parte della Costituzione, sullo sfondo resta il grosso tema, il grosso macigno del sistema elettorale. Su questo punto sono d'accordo con lei, signor presidente. Noi dobbiamo puntare, per avere un bipolarismo ordinato, soprattutto sulla forma di governo.
La posizione di alleanza nazionale, che è poi quella - ricordiamocelo bene! - di tutto il Polo delle libertà, è favorevole a che sia il popolo sovrano a legittimare l'esecutivo e ad avere un esecutivo efficiente, salva poi la diversità tra chi pensa in israeliano e chi invece pensa alla francese. Personalmente penso alla francese, signor presidente, e mi fa piacere che, in «zona Cesarini», il PDS, sia pure con la sola firma dell'onorevole Targetti (che non ho il piacere di conoscere anche se credo sia parente dell'illustre onorevole Targetti membro dell'Assemblea costituente, se ricordo bene socialista).....
Quando venne presentata la proposta Soda mi meravigliai perché su L'Unità (del quale sono un attento lettore), nell'ambito delle tesi congressuali, si puntava sul rosso e sul nero: si puntava, cioè, sia sul sistema israeliano - che definisco così per semplicità - sia su quello francese. La mia meraviglia è che l'onorevole Targetti sia rimasto un po' solo e che sia intervenuto in «zona Cesarini» quasi si trattasse di una foglia di fico delle tesi congressuali del PDS. La cosa, evidentemente, mi fa piacere.
Perché sostengo che il sistema semipresidenziale francese potrebbe salvare capra e cavoli? Lo dico perché il sistema semipresidenziale francese è più confacente al bipolarismo italiano. In Francia abbiamo un Presidente della Repubblica e un Capo del Governo. Evidentemente, se vincesse il polo per le libertà, la dislocazione del potere sarebbe presumibilmente tra i due leader delle formazioni maggiori, senza però escludere le altre formazioni. Allo stesso modo, se vincesse il centro sinistra, avremmo una dislocazione del potere ordinata fra il centro-centro sinistra
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e il sinistra-centro. Quindi sarebbero legittimati sia il partito più forte della sinistra, il PDS, sia gli alleati del PDS, cosa che invece non si potrebbe attuare con il sistema israeliano, visto che la seggiola in quel caso è una sola. La dislocazione del potere, fra l'altro, servirebbe anche a temperare il potere medesimo, perché in una stessa coalizione vi sono delle nuance diverse, vi sono delle posizioni differenti, sia pure nella unità strategica: ciò sarebbe quindi molto positivo.
Inoltre, il semipresidenzialismo francese tranquillizzerebbe ad un tempo sia i presidenzialisti sia i parlamentaristi. I presidenzialisti sarebbero soddisfatti perché il sistema semipresidenziale francese funziona come presidenzialismo se non c'è coabitazione; viceversa, se c'è coabitazione, funziona come un sistema neoparlamentare. Quindi, professor Elia, anche i parlamentaristi dello schieramento dell'Ulivo si potrebbero sentire garantiti, anche perché non è detto che non vi possa essere coabitazione: in Francia c'è stata per due periodi, e lo stesso Maurice Duverger ha dovuto riconoscere, disconoscendo se stesso, che la coabitazione addirittura rientrava nella filosofia (il che forse è dubbio) dei padri fondatori della quinta Repubblica, De Gaulle e Debré. I vantaggi, quindi, mi sembrano notevoli.
È stata poi smentita la famosa frase pronunciata da Mitterrand nel 1958 secondo cui le istituzioni della quinta Repubblica erano un colpo di Stato permanente. Furono talmente poco colpo di Stato permanente che François Mitterrand è potuto ascendere all'Eliseo e restarci praticamente per quattordici anni.
È vero, il Parlamento in Francia è debole, e quindi il trapianto della quinta Repubblica francese in Italia avrebbe bisogno di quei correttivi che del resto, signor presidente, ella stessa aveva segnalato in un passaggio cruciale e recente della nostra storia politico-costituzionale, il famoso tentativo Maccanico; correttivi che potrebbero trovare un ulteriore correttivo nello statuto dell'opposizione, che compare anche nel progetto costituzionale del PDS e nel progetto costituzionale di forza Italia e che è (mi si consenta l'autocitazione) un punto di forza dei progetti costituzionali di alleanza nazionale. E alleanza nazionale, signor presidente, non se ne esce ora, dopo la batosta, dopo la sconfitta, perché fa tesoro di un seminario tenuto al Senato un anno e mezzo fa o due anni fa (non ricordo bene); queste cose, pertanto, le dicevamo anche quando non stavamo all'opposizione. Ritengo infatti che noi saremo un paese normale quando appunto l'opposizione avrà un vero statuto, il che significa, in parole povere, possibilità di inchieste parlamentari, ricorso diretto alla Corte costituzionale, consultazioni continue tra il Presidente del Consiglio, il leader dell'opposizione e quello che noi abbiamo definito consiglio dell'opposizione, che fotografa l'attuale realtà sia nel Polo sia nell'Ulivo.
Devo sconsolatamente constatare che per un evento importante come la prossima e imminente tornata elettorale amministrativa, da quanto ho letto sui giornali (che ovviamente non sono Vangelo), non risulta che il ministro dell'interno, prima di fissare la data (forse non felice perché in mezzo ad un ponte tra il 25 aprile e il 1° maggio), abbia consultato le opposizioni (e forse sarebbe stato utile per lo stesso Governo avere il parere, certo non vincolante, ma importante, delle stesse). Così purtroppo, da quanto mi risulta, non è stato. Spero però che per il futuro si faccia tesoro di quanto detto. Perché anch'io come lei, signor presidente (io sono un suo attento lettore), so bene quanto importanti siano le relazioni, la correntezza di rapporti tra maggioranza e opposizioni per il buon andamento dei lavori parlamentari. Devo dire che questo non capita sempre, anzi capita di rado. Basti citare il fatto che è attualmente all'esame della Commissione affari costituzionali un decreto-legge che ha come comun denominatore la proroga dei termini, che penso faccia rizzare i capelli al professor Elia (che è un po' il decano dei costituzionalisti italiani) perché è veramente
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un obbrobrio. Meglio sarebbe in questo caso che il Governo presentasse tutta una serie di disegni di legge, anche miniformi. Il Parlamento potrebbe approvarli in quattro e quattr'otto, anche grazie al contingentamento dei tempi. Per i decreti-legge invece non vi è il contingentamento dei tempi. Questo decreto-legge, signor presidente, sarà affossato dall'opposizione di alleanza nazionale e delle altre opposizioni.
Mi avvio alla conclusione, signor presidente. Io ho seguito passo passo, con grande attenzione (e poi ne ho anche scritto) la prima Commissione bicamerale per le riforme, quella presieduta da quel galantuomo che rispondeva al nome di Aldo Bozzi. Ho avuto modo di conoscere bene Aldo Bozzi: forse era uno scettico in tema di riforme istituzionali, e poi era un padre della Costituzione, e come dice sempre Eduardo, i figli sono figli! Quando divenne presidente della Commissione bicamerale, non è che credesse molto alle riforme istituzionali. Poi vi fu una metamorfosi che ricorda quel personaggio del libro di Montanelli Il generale Della Rovere. Il generale Della Rovere era un generale badogliano che, sbarcato al nord (mi pare a La Spezia o a Genova) viene subito catturato e fucilato dai nazisti, i quali prendono uno squattrinato giocatore di poker, gli mettono la divisa del generale della Rovere e lo mandano a San Vittore per scoprire chi sia il capo della resistenza italiana. Ebbene, questo scettico blu, il falso generale Della Rovere, si immedesimerà poi talmente nel personaggio che si farà fucilare. Lei, signor presidente non è Aldo Bozzi, nel senso che non è uno dei padri della Costituzione; lei crede sinceramente - ritengo - anche se poi deve fare i conti in casa, e sono sempre conti difficili, perché «parenti serpenti»! Mi auguro che la nave vada.
Qui vengo - e concludo, signor presidente - al paradosso delle riforme, che è il seguente: se capisco bene, anche da episodi recenti, i miniaccordi non funzionano, non trovano legittimazione sufficiente e quindi non bastano, sono - se mai vi sono stati - tramontati. Allora occorre un accordo il più largo possibile, ma - ecco il paradosso - più è larga l'ipotesi di accordo più questo diventa difficile. La strada è stretta ed io mi auguro, come rappresentante del gruppo di alleanza nazionale, che si trovi una strada per arrivare veramente al cambiamento perché, se non riusciremo noi, si spalancherà come un'autostrada la via dell'Assemblea costituente.
ROCCO BUTTIGLIONE. Signor presidente, onorevoli colleghi, il tempo è breve e le cose da dire sono tante. Chiedo la vostra attenzione e vi prometto, per quanto possibile, la brevità. Andrò avanti, ovviamente, soltanto per indicazioni di punti meritevoli di approfondimento.
Sono un po' preoccupato perché mi sembra che il dibattito nella Commissione abbia messo da parte il grande tema dei valori fondanti la Costituzione stessa, come se ci fosse uno spettro in questa sala che nessuno si azzarda a nominare e che tuttavia va evocato per distinguere chiaramente cosa è vivo e cosa è morto nell'ispirazione ideale nella nostra Costituzione.
Se avessimo fatto un dibattito di questo tipo appena qualche anno fa, tutti avrebbero cominciato ricordando che la nostra è una Costituzione antifascista. Non ho sentito risuonare questo richiamo e, visto che non lo dice nessuno, lo dico io: la nostra è una Costituzione antifascista, i cui valori di fondo nascono dalla riscoperta dei diritti fondamentali della persona umana contro i totalitarismi della seconda guerra mondiale e in Italia il totalitarismo era il fascismo, quindi la Costituzione ha una radice antifascista.
Cosa vuol dire ripensare questa radice ideale della Costituzione oggi? Credo che siamo stimolati a fare una distinzione fra due significati che la parola antifascismo ha assunto. C'è un antifascismo morale che è antitotalitarismo e quindi indirettamente, o anche direttamente, anticomunismo, opposizione all'insieme dei totalitarismi che hanno insanguinato il novecento. L'altro significato della parola antifascismo invece non vuole vedere che la
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seconda guerra mondiale è guerra sì della democrazia contro il fascismo, ma contemporaneamente anche di un totalitarismo contro un altro, del comunismo contro il fascismo e tenta di mettere insieme comunismo e democrazia occidentale, facendo di un'alleanza provvisoria una nuova sintesi culturale.
Quando diciamo «l'Italia deve diventare un paese normale», cosa vogliamo dire? L'Italia deve diventare un paese occidentale come gli altri paesi occidentali, all'interno dei quali questa ambiguità non esiste. L'ambiguità che ha messo insieme democrazia occidentale e comunismo nel fondamento ideale della Costituzione ha fatto in modo che prevalesse un'idea di uno Stato di tutto il popolo, il quale fosse superiore alle democrazie occidentali tradizionali e ha fatto prevalere l'idea di un sistema in cui la società civile colpevole di aver tollerato il fascismo è tenuta sotto tutela dalla società politica. Qui, notava Bobbio con grande lealtà intellettuale, sono le radici prime della partitocrazia italiana. Scindere un antifascismo morale da un mito dell'unità antifascista e da un antifascismo politico è la grande operazione culturale che dobbiamo fare se vogliamo arrivare ad avere un paese normale da un lato e se vogliamo creare le condizioni per una riforma istituzionale di tipo occidentale dall'altro.
Con questa operazione culturale cade anche il mito della superiorità della Costituzione italiana rispetto a quelle degli altri paesi occidentali. In fondo, cosa stiamo cercando? Stiamo cercando una Costituzione occidentale normale, simile a quelle degli altri paesi occidentali, che ci garantisca grosso modo gli stessi meccanismi decisionali che valgono in questi paesi. Siamo portati a questa revisione dal fatto che è crollato il comunismo: con il muro di Berlino viene meno uno degli elementi della sintesi che entrava nella vecchia Costituzione italiana; nessuno più vuole camminare verso il comunismo - in realtà neanche l'onorevole Bertinotti, ma forse fa fatica a dirlo - sulla base della Costituzione vigente.
Abbiamo una nuova generazione che è cresciuta fuori del mito dell'unità antifascista, che è più internazionale, che ha viaggiato, che lavora in tempo reale con l'estero, che vuole meccanismi decisionali simili a quelli degli altri paesi occidentali. Abbiamo un processo di mondializzazione, il quale chiede una grande flessibilità del nostro sistema economico e, in conseguenza di questo, abbiamo nuovi ceti che si affacciano.
Il compromesso con il comunismo che sta alla base di gran parte della nostra Costituzione vigente aveva un grande valore positivo, permetteva di evitare la guerra civile e di incanalare le forze del movimento operaio dentro la democrazia italiana. Questo utilmente è stato fatto. Oggi premono forze nuove, forze diverse, oggi premono quei quattro milioni di lavoratori autonomi che sono la forza dell'economia italiana e hanno con i loro lavoratori, con quelli che lavorano nelle loro piccole e piccolissime imprese, un rapporto affatto diverso da quello tradizionale tra il padrone e l'operaio. Oggi abbiamo una maggioranza dei lavoratori italiani che vivono fuori dell'opposizione tradizionale grande capitale-proletariato; oggi abbiamo una divisione del reddito nazionale che si scosta molto da quella ottocentesca che si riflette negli esempi di Karl Marx ne Il capitale, in cui l'imprenditore ha grosso modo il 50 per cento del valore aggiunto - che Marx chiama plusvalore - mentre l'altro 50 per cento lo ha l'operaio; oggi abbiamo una divisione del valore aggiunto in cui il 45 per cento lo ha il lavoratore, il 10 per cento l'imprenditore e il 45 per cento lo Stato.
Il problema della distribuzione, il conflitto distributivo diventa prevalentemente conflitto fiscale e non salariale. Questa è la realtà che oggi ci chiede di essere costituzionalizzata, cioè di entrare, con il suoi diritti e avendo attenzione ai suoi specifici problemi, all'interno del sistema costituzionale. Badate, questa realtà non ci chiede di cambiare l'articolo 1 della Costituzione «l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», ci chiede di rileggerlo nei termini di una
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società in cui il lavoro non è più prevalentemente quello salariato tradizionale, in cui il lavoro è anche quello autonomo, in cui il lavoro salariato nell'impresa piccola e piccolissima molto spesso è solidale con il datore di lavoro perché sa che si va a fondo o si sopravvive insieme; nella cooperazione e non nel conflitto è la possibilità del successo e della salvezza per tutti, una società ossessionata dalla questione fiscale.
Noi dobbiamo trovare il modo di porre un limite costituzionale alla pretesa fiscale dello Stato, come dobbiamo trovare il modo di costituzionalizzare alcuni principi di difesa del cittadino che oggi troppo frequentemente sono violati. Dobbiamo stipulare un nuovo patto di solidarietà sociale che faccia spazio a questa nuova Italia e credo che dobbiamo ascoltare qui non solo i rappresentanti del sindacato e della Confindustria sul nuovo patto di solidarietà sociale che dobbiamo stringere, ma anche i rappresentanti della piccola e media impresa, dei coltivatori diretti, degli artigiani, dei commercianti, dei quadri, dei dirigenti aziendali, delle nuove forme di lavoro atipico, che diventano sempre più il lavoro sul quale gli italiani si guadagnano da vivere.
Il vecchio patto di solidarietà sociale non tiene più, un nuovo patto va stipulato e questo non è solo un patto di solidarietà fra ceti diversi ma è anche patto di solidarietà intergenerazionale. E' il vecchio patto che si esprime nel sostrato sociale italiano attuale non tiene - ed è patto di solidarietà territoriale tra diverse parti della Repubblica, secondo una concezione nella quale non esiste la Repubblica una e indivisibile, come voleva la costituzione francese, che poi si articola in dipartimenti. Esiste un sistema di comunità che convengono nell'unità nazionale e che hanno il dovere di farlo: non hanno il diritto né la possibilità reale di esentarsene; tuttavia, il modo in cui convengono deve essere deciso insieme.
Per questo, signor presidente, voglio invitarla a fare uno sforzo ulteriore per coinvolgere i rappresentanti della lega nord nei lavori della nostra Commissione. Sono una realtà inquietante ed eversiva, ma non più inquietante ed eversiva di quanto fossero i comunisti nel 1946-1948; dobbiamo inserire proprio queste forze nella Costituzione che andremo a scrivere; dobbiamo fare in modo che questa domanda di federalismo trovi una sua adeguata espressione. Certo, se vorranno escludersene sarà una loro responsabilità, ma i problemi che sollevano sono reali, mentre è sbagliata la soluzione che prospettano.
Dobbiamo dirigerci verso una decomposizione del concetto di sovranità, e non reclamare una parte della sovranità per una zona del paese autonomamente; una decomposizione di tipo qualitativo, che si ripartisce nelle regioni, nello Stato nazionale, nell'Europa.
Un'osservazione sulla forma di governo, che è uno dei temi centrali della nostra discussione. Vorrei invitare ad una riflessione attenta: sono stato molto colpito dalle parole pronunciate ieri dall'onorevole Occhetto. Molti ritengono che la forma di governo semipresidenziale sia più autoritaria rispetto al modello neoparlamentare. Qui gioca una campagna di demonizzazione di De Gaulle condotta a suo tempo dalla sinistra francese e italiana, che lo hanno descritto come una specie di reazionario di destra, semifascista o fascista del tutto, mentre è stato un grande europeo, un grande democratico, un grande uomo di centro.
La Costituzione neoparlamentare - come ha messo bene in evidenza il senatore Rotelli - ci dà una situazione invertita rispetto a quella attuale; ma l'opposto di un errore non è la verità, ma un errore di segno opposto. Oggi abbiamo un Governo che è semplicemente il comitato di gestione del Parlamento; rischiamo di avere un Parlamento messo sotto il tallone del Governo. Si parla di un Presidente eletto insieme con la sua maggioranza e quindi di realizzare l'autonomizzazione effettiva dell'esecutivo perché il capo del Governo è eletto direttamente dal popolo e la maggioranza è obbligata a seguirlo e perde qualunque autonomia rispetto al Governo; si dà vita così ad una concentrazione
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di poteri senza precedenti. Qual è il nostro problema, infatti? Separare l'esecutivo dal legislativo. Che cosa otteniamo in quel modo? Stringiamo ancora di più l'esecutivo al legislativo, solo che oggi il primo è sotto il tallone del secondo, mentre domani avverrebbe il contrario.
Se il vostro problema - mi rivolgo agli amici della sinistra contrari al semipresidenzialismo - è quello di evitare un uomo troppo forte alla guida del nostro paese, state seguendo la via sbagliata. Un sistema semipresidenziale è tale per cui al suo interno i Governi possono cambiare; se si determina una nuova maggioranza parlamentare, questa può far cadere il Governo; la continuità di fondo delle responsabilità che il paese assume verso l'esterno è garantita da un Presidente della Repubblica eletto il quale, quando ha una maggioranza in Parlamento, guida effettivamente la politica e, quando non l'ha, può essere ridotto alla figura del convitato di pietra nelle sedute del Consiglio dei ministri. Quando il Parlamento non è in grado di esprimere una solida maggioranza, comunque si garantisce la funzionalità del Governo.
Non dimentichiamo un dato. La riforma migliore non è quella preferibile in astratto ma quella che corrisponde anche alle tendenze evolutive del nostro sistema istituzionale. I sistemi istituzionali sono creature vive. Domandiamoci: in che direzione evolve il nostro sistema istituzionale? Evitiamo che ci accada come ai giacobini napoletani, che introdussero la migliore Costituzione del mondo, che però era fatta per i francesi e non per i napoletani e a Napoli non funzionava, come ricorda Vincenzo Cuoco.
Il nostro sistema istituzionale già evolve in questa direzione. Il Presidente Scalfaro ha sostenuto più di un Governo del Presidente davanti a un Parlamento debole; davanti a un Parlamento forte, si ritira. Per farlo ha dovuto utilizzare tutti i poteri che gli dà la Costituzione vigente e che i suoi predecessori non avevano utilizzato, ed anche qualcuno di più, del quale si è appropriato nell'occasione. Io non lo condanno per questo perché ha riempito buchi del sistema che altrimenti avrebbero impedito a quest'ultimo di funzionare; avendo svolto questo ruolo - e quindi avendo assunto funzioni di direzione politica - non deve però lamentarsi se è oggetto di critica politica.
Consolidiamo questo processo, ampliamo ragionevolmente i poteri del Presidente della Repubblica italiana (oppure sottraiamo qualcosa a quelli del Presidente della Repubblica francese: più o meno è la stessa cosa), facciamolo eleggere direttamente dal popolo per dargli la legittimazione a svolgere il suo ruolo: avremo così realizzato una riforma con il minimo di cambiamento rispetto all'esistente.
So che molti di voi sono invece favorevoli al sistema semipresidenziale. Secondo me è un errore; tuttavia non posso non considerarlo, almeno come posizione subordinata. Possiamo avere un Presidente designato che ci lascia sostanzialmente nella situazione attuale: non serviva una Commissione bicamerale per questo. Un Presidente designato significa che è indicato dalle forze politiche ma che dalle stesse può essere sfiduciato e tranquillamente sostituito.
GUSTAVO SELVA. Lo abbiamo già avuto!
PAOLO ARMAROLI. Lo abbiamo!
ROCCO BUTTIGLIONE. Lo abbiamo: non cambia assolutamente nulla e - ripeto - non serviva creare la bicamerale.
Possiamo avere un Presidente eletto dal popolo: da ciò derivano i problemi che ho indicato e sottoposto alla vostra attenzione. C'è un punto d'incontro tra l'esigenza dell'elezione del Presidente e quello della sua designazione: sto parlando della possibilità che il premier sia eletto direttamente dal popolo e che si venga tuttavia incontro alla sensibilità di coloro che insistono per la designazione.
Credo che in realtà, piuttosto che opporre eletto a designato, dobbiamo domandarci: la legislatura sopravvive alla caduta del Governo? Esiste la possibilità
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di una mediazione tra chi sostiene che la legislatura non può cessare alla caduta del Governo e quelli che ritengono che essa non possa sopravvivere a ciò? Questa è in sostanza la differenza tra premier designato e premier eletto.
Credo che l'onorevole Occhetto abbia indicato un tema su cui occorre riflettere. Possiamo avere una situazione in cui il patto concluso tra il Presidente del Consiglio e l'elettorato, patto del quale è personalmente responsabile, viene violato dal cambiamento di Governo. Il capo del Governo sente come una violazione del patto la caduta del Governo stesso. In questo caso ha il potere di sciogliere le Camere e si va a nuove elezioni: esecutivo e legislativo, eletti insieme, sottopongono il loro conflitto al giudizio del popolo.
Può però darsi anche il caso in cui il capo del Governo ritenga che il nuovo equilibrio che si determina non rappresenti un tradimento del patto da lui sottoscritto con il popolo, che sia un male minore rispetto a nuove elezioni, che sia persino un bene, come nell'ipotesi di dimissioni dovute a stato di salute, inabilità ed altri motivi. In questo caso il capo del Governo non esercita il diritto di sciogliere le Camere e la legislatura può proseguire. Se dovessimo seguire questo cammino - che non auspico e giudico sbagliato - forse l'unica possibilità di allestire un sistema che - chissà - potrebbe anche funzionare consiste nell'approfondire l'itinerario che ho delineato.
Vorrei concludere citando un grande oratore, Marco Tullio Cicerone, che affido alla vostra meditazione. Noi siamo qui per fare le istituzioni, le quali servono per trasformare gli umori del popolo in volontà popolare. Non è l'umore del popolo quello che esso veramente vuole, spiega Cicerone; la volontà del popolo è ciò che esso vuole dopo essersi riunito ordinatamente in comizi, dopo aver ascoltato uomini probi che espongono le diverse tesi. In seguito ad un processo di formazione della volontà popolare adeguato, il popolo deciderà per il meglio. Senza questo processo non c'è volontà popolare, c'è umore popolare; non c'è popolo, c'è plebe. Il popolo non è una qualunque folla disorganizzata, è una pluralità di soggetti tenuti insieme da una regola di diritto consensualmente riconosciuta e dalla comunanza di un interesse generale. Mi auguro che a noi riesca di costruire questa regola di diritto consensualmente riconosciuta.
Grazie per la vostra attenzione.
GIULIANO URBANI. Mi scuso con tutti i colleghi se non parteciperò alla discussione sulle questioni di merito che si è svolta finora, perché credo da un lato che abbiamo già sentito molto, se non tutto, e dall'altro che le mie particolari preferenze su tali questioni siano relativamente note (non mancherà ovviamente occasione di tornarvi sopra). Vorrei invece guardare al lavoro che ci aspetta a partire dalla prossima settimana, quando inizieremo a operare nei gruppi e svolgeremo le audizioni che in linea di massima abbiamo programmato. Ciò per una ragione precisa, vale a dire perché da questo lavoro dipenderà buona parte del successo o meno che la nostra attività potrà avere. Mi permetto quindi, con tutta umiltà, di suggerire alcune avvertenze, di carattere sia tecnico sia politico, perché il lavoro delle prossime settimane possa essere il più fruttuoso possibile.
La prima avvertenza, o se volete la prima regoletta, riguarda le audizioni, che dovrebbero essere svolte cercando di guardare il più possibile al mondo che ci circonda, uscendo dai confini delle nostre stanze ma anche del nostro paese. Dico questo non perché pensi - dal punto di vista delle riforme istituzionali che dobbiamo compiere - a qualche modello da fotocopiare; sono un fiero nemico dei modelli da fotocopiare, anche per le ragioni che ha ricordato il collega Buttiglione citando Cuoco: si tratta di una buona citazione, ma potremmo riempire ore di altre citazioni di autori che hanno giustamente ricordato come le stesse istituzioni, inserite in culture politiche diverse, abbiano quasi sempre finito per dare esiti distantissimi dal modello di partenza. No, credo che dobbiamo guardare
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al mondo che ci circonda perché è in rapidissima trasformazione, e noi abbiamo il dovere - sottolineo la parola dovere - di immaginare per il nostro paese istituzioni che abbiano alcune caratteristiche, in primo luogo quella della compatibilità con tutta la parte del mondo con cui vogliamo convivere e cooperare costruttivamente.
L'altro giorno il senatore Pera, parlando della questione relativa all'ordinamento giudiziario, ha usato una metafora più o meno ardita, quella di parametri concernenti la compatibilità dei sistemi giudiziari; anche qui, l'elenco delle cose in ordine alle quali dobbiamo cercare la compatibilità tra il nostro e gli altri paesi potrebbe essere infinito: basta pensare al futuro dell'Unione europea (accantonando per un attimo la questione più incerta e acuta rappresentata dall'Unione monetaria) per capire quanto sia importante la compatibilità. Abbiamo bisogno di istituzioni che rendano il nostro paese il più compatibile possibile con il resto del mondo con cui vogliamo cooperare. Possiamo immaginare un paese che non abbia istituzioni fiscali compatibili con quelle dei paesi con cui vuole condividere il mercato, i diritti civili e tutta una serie di altre caratteristiche che rendono possibile o meno la cooperazione internazionale? La risposta è no. Questa è la prima ragione per cui dobbiamo guardare al resto del mondo.
La seconda ragione è che dobbiamo anche creare istituzioni che rendano il nostro paese competitivo su tutti i terreni per i quali la competizione è la regola della cooperazione, è la regola prima della convivenza. Anche qui non voglio fare un lungo elenco ma intendo richiamare due «bussole»: istituzioni compatibili con il mondo con il quale vogliamo convivere e istituzioni che rendano il nostro paese competitivo. Infatti, se finiremo per prendere sul serio queste due bussole, adottandole come criteri per selezionare le istituzioni, per ragionare su di esse per poi scegliere quelle ottimali, credo che avremo una quantità incredibile di suggerimenti utili e usciremo dal terreno della battaglia ideologica - che spero non avvenga - per entrare invece nel campo della selezione consapevole e fruttuosa.
Nelle prossime settimane non svolgeremo soltanto delle audizioni ma cominceremo anche a lavorare per gruppi; credo che ciò sia indispensabile, almeno nella fase iniziale di attività della nostra Commissione, ma non possiamo dimenticare che lavorare per gruppi nasconde due rischi, dei quali dobbiamo essere molto consapevoli. Parto da quello apparentemente minore, vale a dire quello di entrare nei gruppi per confrontare le soluzioni che abbiamo in testa e che abbiamo inserito anche nei documenti illustrati in questi giorni; il secondo rischio è quello di guardare le parti rispetto al tutto, confondendole, quindi di considerare la forma di governo indipendentemente dalla forma di Stato, dal sistema delle garanzie, dal sistema delle fonti e così via (è un rischio che dovremo cercare di minimizzare).
Consentitemi di partire dal primo rischio, quello di entrare nei gruppi di lavoro partendo dalle soluzioni che abbiamo in testa. Credo che le soluzioni siano tutte variamente legittime e degne della massima considerazione, ma mi permetto di proporvi da questo punto di vista - scusate la battuta abusatissima - una rivoluzione copernicana: per favore, partiamo non dalle soluzioni ma dai problemi, dalle diagnosi, dalla ricostruzione di ciò che non va e di ciò che richiede un miglioramento, un progresso. Dico questo per tante ragioni ma soprattutto perché credo che partendo dalle diagnosi, cercando l'approfondimento dei problemi, poi la soluzione - o meglio la ricerca di accordo sulla soluzione - diventi più facile, molto più ragionevole.
Non è questo il momento - l'avevo detto - per entrare nel merito dei problemi, e non lo farò, salvo un piccolo riferimento: l'altro giorno, non essendo io particolarmente specialista di garanzie per il cittadino, ho ascoltato con particolare attenzione, per imparare, soprattutto interventi come quelli dei colleghi Pera, Parenti e Folena. Il giorno dopo, ho
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trovato sui giornali una ricostruzione più delle divisioni che delle convergenze, mentre nella stessa giornata, su uno di questi giornali è comparsa un'intervista all'attuale vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Carlo Federico Grosso. Devo dire, nella mia ignoranza del problema - che ribadisco - ma da cittadino ad esso sensibile, di aver riscontrato nelle diagnosi degli onorevoli Parenti, Pera e Folena e del dottor Grosso una convergenza, soprattutto una incredibile somiglianza delle questioni poste in evidenza; il che è molto più incoraggiante della ricostruzione effettuata dai giornali delle divergenze e delle discrepanze sulle soluzioni.
Ho la forte sensazione che se nell'attività dei gruppi di lavoro si potesse partire più che dalle soluzioni dei problemi che abbiamo di fronte dal tentativo di approfondirne ulteriormente la diagnosi, la ricerca delle soluzioni potrebbe apparire meno difficile ed impervia.
Vi è una seconda considerazione per la quale, in maniera molto calda e vigorosa, consiglio di partire più dalla natura dei problemi e dal loro approfondimento che non dall'indicazione delle relative soluzioni. In termini un po' esagerati, dico che non mi fido molto dell'assolutezza delle soluzioni, nemmeno di quelle che propongo io. Chi vi parla ha avuto la fortuna di partecipare ai lavori preparatori o di revisione della Costituzione di molti paesi del mondo. Questa esperienza mi ha fatto capire ancora meglio la questione, che noi studiosi del settore conosciamo bene, della relatività delle istituzioni politiche, che, come diceva giustamente l'onorevole Buttiglione, citando Cuoco, non sono relative alle culture politiche alle quali si rifanno. Esse sono, come dire, relative, anche per altre ragioni e soprattutto per la loro stessa natura. In termini più semplici, significa che le istituzioni contengono incentivi ed ostacoli, ma non obblighi ed impedimenti assoluti. Tale assolutizzazione appartiene alla visione infantile delle istituzioni e, quindi, ad una visione infantile dell'ingegneria istituzionale e purtroppo anche dei disegni riformatori delle costituzioni. Credo perciò che le istituzioni non vadano né sottovalutate, né sopravvalutate: è un esercizio non facile di equilibrio. Ritengo - ripeto - che esse non vadano sottovalutate perché i loro effetti si producono comunque. Nel mondo contemporaneo - non voglio fare citazioni lunghe che ci porterebbero fuori strada - abbiamo visto cosa è accaduto a paesi che nel dopoguerra sono stati divisi in base all'avvento di istituzioni politiche diametralmente diverse. Penso alle due Cine, alle due Coree, alle due Germanie: come si fa a dire che le istituzioni non sono state rilevanti per il funzionamento di questi paesi? Ma non dobbiamo nemmeno sopravvalutare le istituzioni, poiché, come ho detto, esse non hanno un valore assoluto, non hanno la capacità di stabilire per legge effetti comportamentali, intervenendo le culture politiche e tanti altri fattori. Per esempio, non esiste un paese al mondo nel quale il bipolarismo si possa realizzare con una norma costituzionale e men che meno subcostituzionale. Mi viene molto da sorridere quando si parla di bipartitismo e pluralismo de iure condendo. Sono fenomeni empirici che riguardano descrizioni, possono esserci o meno, in misura minore o maggiore, ma non si va oltre questo. Pensate che è possibile che vi siano sistemi bipolari i quali, per rimanere tali, fanno funzionare l'istituto, che conosciamo tutti, dei governi di minoranza: cioè le opposizioni maggioritarie lasciano vivere i governi di minoranza. Né vi sono, magari, sistemi elettorali o sistemi costituzionali che forzano troppo la situazione, ma esiste una competizione culturale di tipo bipolare che altrove è assente.
Come vi potete rendere conto, se sottovalutiamo le istituzioni commettiamo un errore, ma se le sopravvalutiamo rischiamo di commetterne uno ancora più tragicomico e grottesco. Dobbiamo perciò soltanto prenderle sul serio per quelle che sono e che possono dare: questa è la ragione per la quale ritengo si debba partire dai problemi e cercare soluzioni in grado di risolverli più o meno parzialmente, anche perché una soluzione assoluta,
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certa e valida storicamente, al di là dei mutamenti, non ha senso cercarla. Inseguiremmo infatti un miraggio e questo non è bene farlo, soprattutto quando si è impegnati in un lavoro come il nostro, perché temo che ad ogni miraggio corrisponderebbe una «patacca» che cercheremmo di vendere ai nostri concittadini. Il che non è certamente bello e ben augurante per la nascita di una nuova Repubblica.
Aggiungo inoltre che dobbiamo partire dai problemi per individuare soluzioni fra loro compatibili anche per un'altra ragione; passo così ad affrontare l'altro punto che avevo preannunciato. Le soluzioni sono come tasselli di un mosaico complessivo, devono cioè essere compatibili e coerenti tra di loro e tenere in piedi tutta l'architettura generale. Le soluzioni, quindi, devono avere non solo la caratteristica di essere realistiche, ma anche di essere parti di un tutto che poi funziona. Riformare una costituzione non significa mettere insieme dei mattoni qualsiasi, ma unirli in maniera tale da costruire un ordinamento complessivo dotato di coerenza e di forza autonoma. Ecco perché più che alle singole soluzioni e alle singole bandierine, dovremmo guardare al sistema complessivo dei pesi e dei contrappesi che creeremo. Questo sarà un impegno che dovremmo osservare più che nei singoli gruppi di lavoro in sede di Commissione plenaria. Nel momento in cui tali gruppi stanno per iniziare la loro attività dobbiamo renderci conto che essi dovranno predisporre del materiale provvisorio da perfezionare in sede di Commissione plenaria, perché è lì che passeremo dalla predisposizione dei singoli mattoni alla costruzione dell'edificio complessivo e noi saremo giudicati sulla bontà o meno dell'edificio stesso e non della brillantezza o meno dei singoli mattoni. Fuor di metafora, voglio dire che tutti i poteri che individueremo nel lavoro di gruppo dovranno essere più definiti possibili, ma anche più bilanciati possibili tra di loro, quando diventeranno mattoni di una costruzione comune.
L'ultima avvertenza che vorrei sottoporre alla vostra attenzione è di carattere più squisitamente politico rispetto a quelle tecnico-procedurali sulle quali mi sono finora soffermato. Personalmente sono un nemico di quei comportamenti che tendono a creare aspettative esagerate nei confronti di un compito così difficile come l'attuale. In questo caso credo che non potremo realizzare molto di buono se non avremo la grande ambizione di creare - torno alla metafora di prima - una cattedrale e non una catapecchia, utilizzando i mattoni che avremo costruito nei vari gruppi di lavoro. Che cosa intendo con il termine cattedrale? Credo che non falliremo nel nostro lavoro se riusciremo ad offrire agli italiani il disegno di una nuova Costituzione che abbia due caratteristiche. La prima è che possa risultare chiaramente a tutti che si tratta di un ordinamento crescentemente legittimo agli occhi dei nostri stessi concittadini. Questo è un punto fondamentale, perché tutte le ricerche degne di questo nome hanno dimostrato che nel nostro paese negli ultimi dieci anni si è registrata una vera e propria caduta di legittimità delle istituzioni, per cui il nostro problema principale è quello di edificare delle istituzioni che risultino più legittime rispetto alle attuali e, naturalmente, a quelle del recente passato.
Passando dalle questioni generali e di principio alle questioni molto pratiche e usando anche in questo caso una metafora estremistica, credo che noi dovremmo sapere che costruiremo una cattedrale, non una catapecchia, se tale risulterà a 50 milioni di italiani (forse qualcosa di meno, ma non molto); dovrà cioè risultare un disegno istituzionale comprensibile e di immediato valore; si dovrà avere la percezione che la novità sottoposta ai nostri concittadini ha maggiore validità rispetto alla Costituzione che proponiamo ad essi di lasciare. Sembra facile da dire, ma è uno spartiacque complesso, difficile, sul quale ci giochiamo la nostra legittimità di potenziali costituenti.
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Sono rimasto molto colpito da due affermazioni o, forse, dalle stesse affermazioni fatte dalla collega Salvato e dal collega Cossutta quando hanno individuato tra gli obiettivi di questa bicamerale la soluzione o, meglio, quasi l'ottimizzazione di due questioni: più partecipazione, più governabilità, contemporaneamente. Ebbene, pensiamo soltanto alle forme di partecipazione: come saltare, attraverso una nuova costituzione, le forme di partecipazione? Vi sono mille modi sui quali potremmo discutere, ma credo che almeno su tre connotati non ci piova, e si tratta di tre connotati non facili da realizzare. Anzitutto, per avere una migliore partecipazione dei 50 milioni di cittadini al Governo del loro paese occorre esaltare la loro controllabilità di tutti gli amministratori pubblici, il che vuol dire aumentare, con il massimo di chiarezza possibile, le responsabilità di tutti gli amministratori, perché se queste ultime non sono chiare la controllabilità si vanifica nel nulla. Inoltre, vi è più partecipazione, in primo luogo, quando i cittadini possono affrontare da soli la gran parte dei problemi o attraverso aggregazioni comunitarie non necessariamente politiche, cioè senza ricorrere ai partiti o alle istituzioni, liberi di individuare forme prepolitiche di soluzione dei problemi. Dove non vi sono queste cose elementari, pensate sul serio che possa esservi qualche forma di maggiore partecipazione dei cittadini al Governo di una democrazia moderna e di un paese complesso? Se lo pensassimo ci prenderemmo in giro ed entreremmo in una logica tipo: più partecipazione attraverso la convocazione di un'assemblea nazionale degli italiani, magari in qualche stadio olimpico più o meno allargato! Faremmo ridere. Non è questo il modo per incrementare la partecipazione.
Ho portato questo esempio, che chiudo subito, per dire che se l'obiettivo è quello di una Costituzione che agli occhi dei cittadini aspiri a risultare migliore di quella precedente (per questo usavo la metafora della cattedrale rispetto alla catapecchia) bisogna assicurare maggiori diritti di partecipazione. Ma per individuare gli strumenti attraverso i quali concretamente assicurare ai cittadini maggiore e migliore partecipazione, credo che le riflessioni debbano andare nella direzione alla quale accennavo prima.
Ritengo, per dirla in breve, che oggi una costituzione che aspiri a risultare una cattedrale migliore della precedente debba in gran parte definirsi rispetto alla Costituzione vigente. Tutti sappiamo che deve essere meno centralistica, quindi cerchiamo le soluzioni a questo problema. Tutti sappiamo che deve essere meno assembleare, anche a questo cerchiamo allora una soluzione. Tutti sappiamo che deve essere meno partitocratica. Al riguardo, ho ascoltato con interesse sia l'intervento del collega Occhetto sia quelli di altri colleghi: certo, nel meccanismo elettorale avremo un terreno di verifica importante, ma grazie al cielo - ripeto - se vediamo le cose in termini di pesi e contrappesi, ho l'impressione che le soluzioni siano più di una e siano a portata di mano; non dovremo fare guerre di religione sui nomi dei sistemi elettorali, dovremo, viceversa, costruire un meccanismo in grado di ben funzionare, un meccanismo che sia ben bilanciato.
Dobbiamo anche costruire una costituzione che sia meno burocratica e meno corporativa. Spiego meglio cosa intendo per «meno corporativa»: un ordinamento costituzionale che sia più impermeabile al prevalere degli interessi di parte delle corporazioni rispetto agli interessi generali. Questo è un paese che ha la sua maggiore debolezza e la sua caduta di legittimazione nel fatto che è assomigliato ed assomiglia troppo ad una torta di formaggio assediata e divorata da orde di topi, ognuno dei quali con addosso una maglietta di una corporazione o di una parte. Rendere una costituzione meno vulnerabile all'assalto delle corporazioni significa automaticamente legittimarla. Naturalmente, oltre che in negativo, perché si tratti di una cattedrale e non di una catapecchia rispetto alla Costituzione attuale, credo che potremmo connotarla anche in termini positivi. Per dirla in
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breve, con due sole battute: occorre far diventare il nostro Stato più Stato di diritto, intendendo per tale semplicemente quello in cui la legge fa premio sul comportamento discrezionale degli uomini, dove i governanti sono indirizzati dall'applicazione della legge e non dalla sua interpretazione costante. Questo può sembrare un passaggio da quattro soldi, ma si tratta invece di una considerazione che, se la prendiamo per buona, ci porta a rivoluzionare tutto il nostro assetto amministrativo; non ci porta a cambiare piccole cose, ci porta a cambiarne moltissime.
Bisogna poi aumentare - secondo connotato - i sistemi di garanzie per tutti, naturalmente le garanzie per le maggioranze (la responsabilità dell'esercizio del Governo), le garanzie per le minoranze e, soprattutto, le garanzie per i diritti dei cittadini. Ho molto apprezzato, per esempio, che l'approccio di tutti gli oratori alla questione dell'ordinamento giudiziario sia partito proprio dall'esigenza di aumentare i diritti dei cittadini. - quella la stella polare che deve guidarci.
Ho parlato molto più del previsto, quindi mi avvio a concludere con un'ulteriore avvertenza di carattere squisitamente politico. Mi scuso per avere enfatizzato attraverso la metafora della cattedrale l'ambizione che deve guidarci, ma credo che questa Commissione bicamerale, ancorché nata con la dovuta umiltà, non possa non misurarsi con un compito storico di grande ambiziosità. E qual è questo compito storico? E' quello di contribuire, nei limiti in cui potrà e saprà farlo, a creare nel nostro paese una civiltà politica che sappia scoprire due piloni portanti di qualsiasi democrazia: primo, un numero ragionevolmente ampio di valori condivisi; secondo - e qui è il nostro tema diretto -, istituzioni che siano pienamente legittimate e soprattutto ben equilibrate (tutto il discorso sui pesi e contrappesi che abbiamo fatto).
Perché do molta importanza a questi due pilastri? Per una ragione molto semplice, cari colleghi: perché non può esserci bipolarismo, non può esserci democrazia dell'alternanza, non possono esservi - aggiungo io - nessuna democrazia liberale, nessuna civiltà politica, nessuna forma di moderazione e nessuna forma di convivenza costruttiva se non ci sono questi due pilastri: un numero ragionevolmente ampio di valori condivisi ed istituzioni che siano ampiamente legittimate e bilanciate. Senza queste due cose, facciamo ridere a discutere di sistemi elettorali che spingano nell'una o nell'altra direzione, non stanno in piedi! Del resto, abbiamo esperienze storiche in paesi che non hanno tutte queste cose, ma hanno questo risultato (i governi di minoranza di cui parlavo prima), perché hanno valori condivisi ed istituzioni le quali, essendo ampiamente legittimate, sono «sacre», nel senso che sono rispettate alla lettera e con il massimo di sacrificio da parte di tutti.
Mi rendo conto che può apparire esagerato caricare il lavoro nei gruppi, nelle audizioni e poi quando torneremo a riunirci in plenaria di compiti così storicamente ingombranti, ambiziosi, tanto da apparire forse a qualcuno eccessivamente ambiziosi. Tuttavia, come avete capito, credo che se non abbiamo una stella polare, una bussola che ci guida nel lavoro di gruppo, nel lavoro di audizione e poi in plenaria, difficilmente potremo sfuggire a due rischi molto grossi. Il primo spero potremo evitarlo, ma il secondo è ugualmente pericoloso: il primo è quello di non combinare niente perché ci impantaniamo nella guerra, chiamiamola così, delle bandierine, delle soluzioni ideologizzate; il secondo è quello che, per combinare qualche cosa, troviamo un compromesso non sulle soluzioni risolventi, ma su passaggi deteriori (il «pateracchio», una bandierina a te, una bandierina a me, sperando che dalle due bandierine venga fuori una soluzione, mentre invece quasi sempre vengono fuori due problemi, non due soluzioni).
Personalmente, come molti di voi avranno visto, mi sono molto battuto e impegnato perché questa Commissione potesse essere insediata e lavorare in questa direzione. L'ho fatto perché non credo che questi obiettivi così ambiziosi
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siano oggi troppo ambiziosi. Se guardiamo ai cambiamenti intercorsi nel nostro sistema politico, nella formazione dei nostri partiti e delle nostre culture politiche di riferimento solo negli ultimi cinque anni, ci accorgiamo di una cosa che i nostri colleghi storici chiamano da tempo «accelerazione storica». Siamo in una fase incredibile di accelerazione storica verso un cambiamento che, grazie al cielo, si muove proprio nella direzione che ricordavo prima.
Si tratta allora di prendere tutta la fiducia dal cambiamento che vi è stato per sapere che i mutamenti intervenuti sono suscettibili, in quanto si muovono nella direzione giusta, di essere ulteriormente accelerati.
Per dirla con qualche retorica, questo sarà possibile solo che noi riusciamo ad attingere a tre fonti ulteriori. Occorre anzitutto il coraggio di guardare a questa riforma costituzionale sopra gli interessi di fazione. E' in secondo luogo necessario muoversi con un amore di patria ritrovato, che naturalmente accompagna il primo elemento; sapete, questa parola era un po' fuori corso fino a qualche tempo fa per ragioni storiche anche molto comprensibili, ma credo che se non abbiamo un forte senso della collettività - mettiamola così - non sia possibile impegnarci in un lavoro come questo; il senso degli interessi, dei destini collettivi dobbiamo averlo, non per creare le premesse di un nuovo nazionalismo fuori della storia, bisogna avere questo senso della collettività in vari ambiti, in famiglia, nei propri ambienti territoriali, in Italia, in Europa, come cittadini del mondo; non si tratta quindi di nazionalismo, ma di sapere quali siano di volta in volta gli interessi collettivi che devono prevalere su quelli di parte e di fazione. Come ultimo punto, naturalmente, dobbiamo rinnovare molto la cultura e il senso dello Stato, in particolare, dello Stato di diritto.
Ho l'impressione che se riusciamo a metterci in questa direzione, il compito che abbiamo davanti può diventare per tutti meno difficile e più a portata di mano. Vi chiedo scusa se con il mio intervento ho portato la nostra riflessione su un altro terreno, ma, ripeto, se non ci diamo delle bussole ambiziose sarà difficile evitare di bloccarci nel labirinto che ci sta alle spalle.
CESARE SALVI. Signor presidente, colleghi, credo che questa discussione generale sia stata utile perché ha confermato l'ipotesi, che il presidente della Commissione aveva formulato all'inizio dei nostri lavori, che ci sono le condizioni per arrivare a soluzioni per il compito impegnativo che ci siamo dati che siano non necessariamente unanimistiche, ma tali da non creare lacerazioni al nostro interno.
Tanto più questo sarà possibile se sapremo seguire il metodo esposto da ultimo dal collega Urbani di soffermarsi sulla diagnosi dei problemi, sulle esigenze cui occorre dare risposta, prima di affrontare la formulazione tecnica delle soluzioni da dare. Affrontare in questo modo, con questo spirito laico, non ideologico il tema della riforma costituzionale non vuol dire che dal nostro compito siano assenti i valori, vuol dire però - e questo è un fatto a mio giudizio positivo per la democrazia italiana - che ci sono nel sistema politico italiano, prima ancora nel paese, valori di partenza largamente e unanimemente condivisi, innanzitutto il valore democratico, non come genericità della formula, ma probabilmente con qualcosa di più (ne parlerò fra un momento).
Ricordava l'onorevole Buttiglione come quella della Costituzione del 1948 fosse un'ispirazione antifascista (antitotalitaria diceva lui). Oggi per fortuna siamo in un paese che non ha bisogno di fare una costituzione contro qualcosa o contro qualcuno all'interno; non ci sono nemici interni, siamo soli con le nostre responsabilità per costruire un patto più avanzato rispetto al concreto modo di funzionare, oggi, delle nostre regole istituzionali.
Ci sono le condizioni, c'è la possibilità - ne ha parlato a lungo il collega Elia nel suo intervento - di arrivare a un risultato positivo. Il collega De Mita - siamo tra i
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pochi reduci della precedente bicamerale insieme a qualcun altro - ha ricordato che il fallimento di quella bicamerale fu dovuto a ragioni le quali riguardavano molto più ciò che accadeva fuori di quella sala, piuttosto che quello che accadeva al suo interno. Vorrei dirgli però che non era solo una resistenza dei governi, era una resistenza del vecchio sistema politico complessivo, il quale era convinto, forse si illudeva di poter ancora resistere ai cambiamenti profondi che si imponevano.
Il principale di questi cambiamenti non può non essere il passaggio da una democrazia monca, zoppa, consociativa - ognuno userà gli aggettivi più consonanti alla sua lettura - alla democrazia dell'alternanza, una democrazia nella quale entro valori di fondo condivisi si confrontano e si alternano ipotesi politico-programmatiche alternative per il Governo del paese.
Dopo di allora non siamo riusciti a costruire questo nuovo sistema, non siamo riusciti a portare a compimento la transizione dal vecchio al nuovo sistema politico. Dobbiamo porci questo obiettivo, chiudere definitivamente una fase storica ed aprirne un'altra evitando un doppio rischio, che cito in positivo: l'esigenza di scrivere per i tempi lunghi. Il senatore Pera ha detto che occorre scrivere un patto costituzionale che duri nel tempo. Non si possono immaginare le istituzioni fondamentali continuamente sottoposte alla contestazione o alla verifica del dubbio. Se per far questo l'innovazione deve essere profonda, radicale e largamente condivisa; quando si pone l'esigenza di larghe convergenze, la si pone anche da questo punto di vista.
Le regole che costruiremo - se riusciremo a farlo - devono essere sentite come proprie non solo e non tanto dalle forze politiche presenti in Parlamento, quanto dal maggior numero possibile degli italiani, indipendentemente dalla formazione o dallo schieramento politico al quale hanno dato il loro voto al momento delle elezioni.
Un altro aspetto va tenuto presente, ossia che ogni riforma o processo di cambiamento è processuale. Si chiude una transizione per quanto riguarda le regole, ma la transizione continua: pensiamo a due grandi temi, il primo dei quali è il federalismo. E' chiaro che il federalismo non si realizzerà all'atto dell'approvazione di un testo costituzionale, contenente norme che vanno in quella direzione, perché seguirà un processo non solo di attuazione normativa con legge ordinaria o altri provvedimenti, ma anche di ristrutturazione del sistema politico, nel rapporto fra sistema politico nazionale e sistema politico regionale e locale.
Pensiamo al tema del bipolarismo, del bipartitismo di cui tanto si è parlato. E' chiaro che le riforme devono andare in quella direzione, così come altrettanto chiaro é che le riforme avviano un processo ed un percorso.
Certamente esiste un nodo che lega la questione dei partiti e delle coalizioni al tema della forma di governo e da quello della legge elettorale. Sarebbe sbagliato sia riproporre la questione in termini di preminenza del ruolo della formazione politica, del partito in quanto tale, sia pensare - come si è fatto in una fase della crisi italiana - a riforme contro o senza i partiti. Ritengo che questo sia un punto condiviso nel dibattito perché, anche se con accentuazioni diverse, emerge sia la logica della democrazia dell'alternanza, che ispira i nostri lavori e gli interventi che abbiamo ascoltato e che va al di là del pluralismo partitico e tanto più dell'attuale pluralismo partitico, sia la logica di una democrazia pluralista che si esprime dentro le coalizioni e fuori dalle coalizioni, per scelte che possono essere compiute - che una formazione politica assente in questa sede, ma non priva di peso nel paese, ha operato - di non stare all'interno dello schieramento, dentro l'alleanza o la coalizione. Tenere insieme questi due aspetti, cioè della democrazia dell'alternanza, come confronto tra ipotesi politico-programmatiche, e di coalizioni alternative, del bipolarismo, di una democrazia pluralista che esiste (e non è comprimibile con marchingegni elettorali) è una sfida difficile ma non impossibile.
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Probabilmente, proprio una soluzione corretta del rapporto forma di governo-legge elettorale - che non è materia di nostra competenza ed è sullo sfondo del nostro ragionamento - può dare un contributo in questa direzione.
L'analisi della crisi italiana compiuta ieri da Achille Occhetto ritengo debba essere richiamata giustamente alla nostra attenzione. La crisi del vecchio sistema non è stata solo - forse nemmeno prevalentemente, lo diranno gli storici - un insieme di circostanze accidentali per le quali, per combinazione, nello stesso anno vi è stato un referendum elettorale e l'inizio di alcune indagini giudiziarie a Milano, è qualcosa di più vero e profondo, cioè il fatto che il vecchio sistema dei partiti era fallito rispetto al compito individuato, consistente nel rispondere ai problemi del paese.
La crisi del debito pubblico, la crisi fiscale dello Stato, hanno rappresentato i veri fattori di destrutturazione del vecchio sistema; a quel punto i partiti sono apparsi nudi, pura occupazione del potere, non più capaci di guidare, di indirizzare il cambiamento. E quanto ha pesato - moltissimo, secondo me - l'impossibilità di ricambio che è esistita in Italia per quasi mezzo secolo, per ragioni storiche che tutti conosciamo e sulle quali non è possibile tornare!
In quel periodo si è teorizzato che la crisi della partitocrazia, come occupazione di potere, potesse rappresentare la fine dei partiti, ma non è così; non c'è politica, non c'è democrazia, senza la funzione del partito politico. Di qui, il problema della riforma della politica e di un ruolo della democrazia pluralista e delle coalizioni, che sappia non essere più quella che è stata la degenerazione finale.
Questo tema, pur collocandosi sullo sfondo del lavoro che ci accingiamo a svolgere, deve sempre essere tenuto presente, anche quando si passerà all'articolazione delle possibili soluzioni. Vi è una crisi complessiva della politica in Occidente, non solo in Italia; vi è una crisi di legittimazione delle istituzioni rappresentative e si registra la difficoltà di costruire classi dirigenti credibili, il che rappresenta un problema non solo italiano. Questo è l'obiettivo principale che ci accomuna nel lavoro da svolgere, quale che sia la collocazione attuale rispetto allo schieramento di governo.
Riuscire a dare un nuovo patto fondativo, avanzato, moderno e innovativo significa rilegittimare la funzione e il ruolo di una politica che sappia autolimitarsi - questo è il vero tema delle garanzie sul quale tornerò tra un momento -; di una politica che sappia individuare gli spazi suoi propri, che sono quelli della competizione per governare un paese sulla base di schieramenti alternativi, dagli spazi che debbono essere apertamente e cristallinamente dati a poteri altri, i quali devono avere, al loro interno, controlli e contrappesi.
Nella discussione sulla forma di governo - lasciatemi argomentare rapidamente le ragioni per le quali questo dibattito ha consentito di avvalorare l'ipotesi formulata da D'Alema all'inizio dei nostri lavori - vi sono diversità, modelli diversi e alternativi, nessuno ha intenzione di nasconderlo; però ci sono punti comuni che impediscono di parlare di una rotta di collisione tra posizioni diverse. Vi è la scelta per la democrazia dell'alternanza, per una logica di bipolarismo; vi è il convincimento diffuso, direi unanime, che l'elettore ha diritto di scegliere anche la persona che deve governare il paese. Certo, questo si traduce in modelli e meccanismi diversi - per carità, sappiamo che sono molto differenti - ma questo principio, fino a qualche anno or sono tutt'altro che scontato, è condiviso. In altri termini, che l'elettore abbia il diritto di conoscere anche il nome e il cognome della persona che dovrà governare, come fatto di responsabilità e di democrazia, è - ripeto - un dato condiviso; voglio sottolinearlo perché è una puntualizzazione di valori democratici; l'idea che tutto questo possa non tradursi in personalizzazione della politica, in contrapposizione con il ruolo delle assemblee rappresentative. Tutte le proposte infatti mantengono il rapporto fiduciario con il
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Parlamento, e le stesse proposte semipresidenzialiste - che sono una delle ipotesi sul tappeto - tendono a precisare - faccio riferimento in particolare agli interventi di D'Onofrio, di Rebuffa e di altri - che si pensa ad un modello nel quale, rispetto al sistema francese, viene dato qualcosa in più al Parlamento e qualcosa in meno al Presidente della Repubblica.
Il collega Fisichella, il quale ha illustrato un'altra variante in campo, cioè quella dell'elezione diretta del premier, ha ribadito più volte l'esigenza di evitare il rischio della personalizzazione della politica e del potere nonché l'esigenza di mantenere l'istituto all'interno della cornice della democrazia rappresentativa.
Certo, il Governo del premier - che è la proposta da noi formulata - presenta delle difficoltà. Anche la nostra proposta fornisce soluzioni e suggerimenti, non pretende di aver chiuso la discussione. All'onorevole Buttiglione vorrei dire che non credo non cambi nulla rispetto all'esistente. Se rifacessimo il film delle ultime due elezioni con il maggioritario, ci renderemmo conto che se ogni candidato fosse stato obbligato a candidarsi con un candidato premier prima delle elezioni, tante cose, in entrambe le circostanze, sarebbero probabilmente andate diversamente. E' evidente che il problema è legato non soltanto all'idea del collegamento esplicito ma, soprattutto, al modo con il quale costruire il legame tra il premier e la sua maggioranza, al modo con il quale la legge elettorale consente il processo di formazione della maggioranza e della scelta intorno al premier.
Altrettanto evidente è che rimane aperto il problema delicato e complesso, più volte segnalato, di come si debba risolvere l'ipotesi, che io immagino dobbiamo considerare eccezionale, di un conflitto tra il premier e la maggioranza del Parlamento. A tale riguardo, va configurato un doppio rischio. Anzitutto, quello di un gattopardismo, di una legittimazione del trasformismo, con soluzioni che riproducano nel Governo neoparlamentare vecchi meccanismi e vecchie logiche, quasi legittimandole. In secondo luogo, il rischio di un eccesso di rigidità del sistema: voler legare - come dire? - per la vita e per la morte quella scelta, potrebbe comportare come conseguenza o una fasulla stabilità politica (con i due protagonisti che, sapendo di essere legati ad un comune destino, vanno avanti indefinitamente nel non Governo) o la ripetuta instabilità istituzionale. Si tratta di materia che dovrà costituire oggetto di riflessione e di discussione, anche alla luce delle diverse ipotesi prospettate. Si potrebbe anche valutare, ad esempio, se nella fase di un ipotetico conflitto possa avere un ruolo arbitrale il capo dello Stato. Anche questa è un'ipotesi da considerare. Il tema, in ogni caso, richiede riflessione ed approfondimento. Occorre tenere presente che, laddove si è proceduto verso il meccanismo più radicale (il Governo del premier scelto direttamente dai cittadini, come è nel sistema israeliano, dove sono espressi due voti separati), si è previsto che la sfiducia parlamentare comportasse, con il venire meno del Governo, anche nuove elezioni, ma si è anche prevista una norma singolare, che non credo debba essere riproposta anche se comunque esiste, in virtù della quale il premier eletto direttamente e sfiduciato dal Parlamento non si può ricandidare immediatamente. Ripeto: non si tratta di una soluzione che propongo in questa sede; il richiamo serve tuttavia a dimostrare come nel sistema in cui è stata adottata questa soluzione, evidentemente ci si è posti lo stesso tipo di problema che ci stiamo ponendo noi, con riferimento al fatto che un premier a legittimazione diretta che abbia anche il potere di scioglimento del Parlamento, probabilmente vede troppo sbilanciato a suo favore il raccordo che deve avere con l'istituzione rappresentativa.
Vorrei brevemente soffermarmi sulle acute osservazioni svolte dai colleghi Nania e Calderisi in merito al rapporto tra i diversi modelli istituzionali e la costruzione di un moderno di bipolarismo, con riferimento al tema della scelta del premier nella coalizione. Credo che la soluzione sia a rischio, nel senso che un
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sistema di Governo di coalizione non favorisce l'evoluzione del bipolarismo. Come ha osservato anche il collega Villone, la questione non è nella scelta tra semipresidenzialismo o Governo del premier, ma è piuttosto legata al doppio turno e al turno unico. Un meccanismo selettivo in virtù del quale anche all'interno di soggetti potenzialmente omogenei si forma la candidatura che nell'ambito di quelle forze è quella che riceve più consenso popolare e democratico, è legato al doppio turno. Poiché il collegamento con la legge elettorale, che pure non è un tema del quale trattiamo, è evidente, credo che, se si ragiona sull'elemento di novità che introdurrebbe nella legge elettorale il collegamento con il candidato premier, molti dei problemi e delle difficoltà che, anche legittimamente, da più parti sono stati prospettati rispetto all'introduzione in Italia di quello che per noi è il sistema elettorale preferibile, cioè il doppio turno sui collegi uninominali, con una quota proporzionale, potrebbero essere superati da meccanismi tecnici di costruzione. Si aprirebbe, in sostanza, un campo nuovo rispetto alla stessa logica della legge elettorale.
La stessa questione della quota proporzionale, che è stata affrontata anche ieri con opinioni e giudizi diversi, non può essere posta in termini di astratta formula matematica. Il problema è di stabilire a cosa serva la quota proporzionale, quale ne sia la funzione e in qual modo si garantisce che quella funzione sia realizzata. Oggi le funzioni individuabili al riguardo sono sostanzialmente due: consentire una conta tra le formazioni politiche delle diverse coalizioni; garantire una presenza in Parlamento di chi non faccia parte delle coalizioni, o per scelta propria o per altri motivi. Né la pura e semplice abolizione della quota proporzionale, come sappiamo tutti, risolverebbe il problema delle coalizioni eterogenee e delle difficoltà di costruzione. E' evidente che, se la prima funzione è affidata al secondo turno mentre la seconda rimane propria della quota proporzionale, allora le dimensioni di quest'ultima non possono che essere legate al modo con il quale questa funzione può essere realizzata e, quindi, alle tecniche complessive di funzionamento del sistema del doppio turno.
Dico questo per segnalare un tema che probabilmente, al di là dei nostri compiti immediati, va sottratto a contrapposizioni ideologiche ed a discorsi astratti, sapendo che si tratta di un problema al quale le forze politiche danno legittimamente un peso ed un rilievo estremamente importante e che è possibile probabilmente trovare soluzioni che rispondano alle diverse esigenze, partendo da un dato: non esiste alcuna legge elettorale al mondo che garantisca la maggioranza assoluta. Né credo si possa pensare per il Parlamento nazionale di adottare soluzioni e meccanismi di freni, in misura tale da garantire maggioranze assolute, che potrebbero essere funzionali per organi diversi ma non per un Parlamento nazionale.
Anche sul tema del federalismo, pur a fronte di opinioni e valutazioni diverse nonché di una volontà terminologica diversa, c'è - mi pare - un comune convincimento che si debba procedere verso un trasferimento di poteri alle regioni ed alle città, che vada molto oltre l'esperienza regionalista realizzata a partire dagli anni settanta. Lo stesso collega Cossutta, il quale ha dichiarato che non gli piace usare il termine «federalismo», ha auspicato la creazione di uno Stato regionale, che oggi non c'è ed ha sottolineato come, sotto questo profilo, il primo punto da affrontare sia il capovolgimento delle competenze legislative previste dall'articolo 117 della Costituzione.
Sul versante del federalismo vi sono opinioni e giudizi diversi. Io non mi affeziono alle definizioni: saranno i professori, quando avremo terminato il nostro lavoro, a dire se avremo introdotto un modello di federalismo o di regionalismo forte. Tuttavia, c'è un punto sul quale si è ragionato. Quando il collega Villone ha parlato di federalismo competitivo - concetto ripreso da diversi colleghi, ancora ieri da Tremonti - vorrei sia stato chiaro - come certamente è stato - che non si pensa ad una competizione tra
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le diverse regioni. Il federalismo competitivo è fondato non su meccanismi codecisionali e consociativi tra i diversi livelli istituzionali, ma su un riparto di competenze tra questi ultimi. La competizione, in sostanza, è tra i diversi livelli istituzionali ed il federalismo risponde anche a quell'esigenza teorizzata dalla dottrina della revisione dei poteri, che è alla base dell'ispirazione del federalismo degli Stati Uniti d'America, dove la competizione è tra i diversi livelli istituzionali, e spetta a soggetti terzi dirimere i conflitti. Per esempio, noi prevediamo che della Corte costituzionale facciano parte anche membri eletti dai consigli regionali. In questo senso, riteniamo che la logica di una Camera nella quale siedono insieme i diversi protagonisti della vita istituzionale, risponda ad un meccanismo valido, ad un modello apprezzabile, ma di tipo diverso.
D'altra parte, il federalismo competitivo non è in contrapposizione con l'idea della cooperazione e non nega affatto l'esigenza di una solidarietà. Vuole che la solidarietà sia trasparente, sia esplicita. La solidarietà tra le diverse zone del territorio nazionale è un compito che deve essere assunto in modo trasparente dallo Stato nazionale, con sue scelte e con sue competenze; non deve essere affidato a meccanismi di concertazione e di codecisione. E lo Stato deve assolvere questo compito perché impegnato costituzionalmente in questo senso.
In questo dibattito vi è stato un convitato di pietra. Credo che i parlamentari della lega commettano un errore, anche dal loro punto di vista, a non essere presenti in questa discussione. Non credo che quella forza politica possa pensare seriamente di essersi tagliata i ponti dietro le spalle e di essersi avviata verso un'avventura per la quale non c'è e non ci sarebbe il consenso nel paese e per la quale evidentemente non vi sono neppure condizioni di legalità e di legittimità. - qui che si affronta e si discute la questione. - qui che la lega, se ha una sua proposta, se non vuole affidare le sue idee soltanto al folclore, ai discorsi ambigui, a periodici raduni che con il tempo si esauriranno da soli, all'attesa di chi sa quale disgregazione nazionale - che non ci sarà -, deve venire (ed è interesse di tutti che lo faccia) a portare il suo punto di vista, a dirci anche che cosa pensa del lavoro che avviamo in questo campo.
Farò infine alcuni accenni rapidi sul tema del Parlamento e sul tema delle garanzie.
Non vi sono proposte antiparlamentari, ma mi sembra che il Parlamento sia una sorta di grande assente dal nostro dibattito. Ho l'impressione che lo vediamo come qualcosa di residuale rispetto ad altre scelte. Non so se sia una strada giusta. Una delle due Camere assume rilievo soprattutto dal punto di vista della tecnicalità per scegliere il Governo e tenerlo in piedi, l'altra viene più o meno collegata al problema della forma dello Stato (si tratta di come far pesare le regioni e i comuni nelle scelte nazionali). Se ne parla, insomma, come se fossero quasi due appendici tecniche rispetto ad altri problemi.
C'è sicuramente un collegamento tra forma di governo da una parte e forma di Stato dall'altra, c'è più o meno in tutte o quasi tutte le proposte. Forse, dovremmo però fare al riguardo una riflessione (sempre con il metodo della diagnosi, senza pretendere di avere in mano verità rivelate), dal momento che, come dicevo all'inizio, in tutti vi è il riconoscimento dell'importanza della democrazia rappresentativa. Ricordo come fatto positivo, dal mio punto di vista, al di là dell'esito del tentativo Maccanico, nella fase in cui sembrava che vi fosse l'adesione a quella proposta anche da parte di alleanza nazionale (poi il tutto venne meno per altre ragioni), il richiamo al fatto che anche il modello semipresidenziale deve tener conto della tradizione storica italiana, che ha un suo punto di riferimento nel parlamentarismo.
Ma di quale Parlamento stiamo parlando? Non parliamo certo del mito della centralità del Parlamento, come ricordava il collega Rebuffa; non parliamo certo del Parlamento in cui viviamo quotidianamente, che è molto più il luogo dell'ostruzione,
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della difficoltà decisionale, che il luogo delle grandi scelte. Occorre fare allora una riflessione autonoma su quale sia oggi, in una società che guarda al futuro, alle grandi sfide di cui si è parlato anche qui, a cominciare dalla sfida sovranazionale, il ruolo, la funzione delle istituzioni rappresentative, dal punto di vista della legittimazione della politica, dal punto di vista del controllo, dal punto di vista delle scelte.
Noi abbiamo provato a dare un contributo. Abbiamo provato ad individuare nel bicameralismo il luogo in cui si dispiegano le due grandi funzioni della politica: da una parte, la Camera politica, la Camera dell'alternanza, la Camera dell'attuazione del programma di governo, la Camera del confronto maggioranza-opposizioni; dall'altra, la Camera delle garanzie, delle libertà, delle dimensioni istituzionali nel loro senso più alto, la Camera in cui ci si raccorda non solo con i livelli istituzionali inferiori allo Stato nazionale ma anche con l'istituzione europea.
E qui entra in ballo l'altra grande questione che dovremmo affrontare, quella dell'Unione europea. Da questo punto di vista, siamo in ritardo. La Francia e la Germania hanno già adeguato la loro Costituzione al rapporto con l'Europa. Noi finora, come su tanti altri aspetti del problema europeo, siamo andati avanti sottovalutando una questione che esiste ed è duplice. Da una parte, la gabbia dell'articolo 11 della Costituzione, con cui finora la Corte costituzionale ha legittimato le deleghe di sovranità, si rivela sempre più insufficiente, perché quella norma, come sappiamo, fa riferimento alla pace ed è pensata per l'organizzazione delle Nazioni Unite (ora stiamo parlando di qualcosa di diverso e anche di più concreto). Dall'altra, si tratta di capire come si possa far sì che questa delega di sovranità, questo rapporto tra dimensione nazionale e dimensione sovranazionale, segua i principi della democrazia rappresentativa, della garanzia dei diritti che ispirano la nostra Costituzione. Anche al riguardo credo che una riforma del Parlamento non possa non tener conto di queste dimensioni.
Un'ultima osservazione sul tema delle garanzie. Probabilmente era inevitabile, ma ho avuto l'impressione di un dibattito molto riduttivo, perché legato alla questione del funzionamento della giustizia ordinaria e in particolare della giustizia penale. Il problema esiste. Se però non riusciamo a collocarlo nella dimensione più ampia della questione delle garanzie, dei poteri neutri (si tratta di capire cosa siano oggi i poteri neutri, sottratti alla sfera della politica, rispetto ai quali la politica deve sapersi fermare e che a loro volta debbono sapersi limitare al proprio ambito, al proprio compito, che è quello di svolgere determinate funzioni e non altre), non affronteremo il problema nel modo giusto, anche perché alcune interrelazioni vi sono. Alcune proposte, fra cui la nostra, vanno nella direzione dell'unità della giurisdizione. Immagino che già un Consiglio superiore della magistratura nel quale convivano giudici amministrativi e giudici ordinari, portatori di culture della giurisdizione differenti, potrebbe determinare appunto un intreccio, un incrocio di culture. Ancora, l'accesso diretto dei cittadini alla Corte costituzionale per la tutela dei propri diritti è uno strumento che a sua volta può rappresentare una spinta nella direzione di un sistema costituzionale più garantista. Certo, anche al riguardo - ha ragione Urbani - dobbiamo soffermarci sulla diagnosi del problema e sul modo in cui va affrontato. Se lo inquadriamo come un problema di rapporto fra magistratura e sistema politico, non ne usciremo mai, tanto più se lo vediamo con la vecchia logica del primato della politica su tutti gli altri poteri. Il problema è riconoscere l'autonomia che hanno soggetti istituzionali diversi da quelli propri delle istituzioni rappresentative e, all'interno di quell'autonomia, far funzionare meccanismi di controllo e di responsabilità nell'interesse e dal punto di vista dei cittadini.
Se provassimo a ragionare in questo modo, probabilmente tante questioni potrebbero
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trovare una soluzione. Faccio un esempio fra i tanti di cui si è parlato: il tema della separazione delle carriere. La mia è anche una testimonianza personale, perché credo di essere stata la prima persona con un certo rilievo politico a sinistra a dire, qualche mese fa, che, al di fuori dei tabù e delle ideologie, è necessario aprire un dibattito su tale questione. Sono stato oggetto anche di critiche ideologiche e di processi alle intenzioni, che ho respinto e che continuo a respingere. Poi però mi sono persuaso che dal punto di vista garantista quella soluzione è sbagliata. Se infatti nelle indagini preliminari di un processo accusatorio abbiamo un pubblico ministero che si sradica dalla giurisdizione, questi diventa sempre più poliziotto. Esaminiamo semmai il problema e affrontiamone la diagnosi. Probabilmente il problema sta più nel legame tra il pubblico ministero e la polizia giudiziaria. E' questo il punto rispetto al quale porrei la questione di rapporti e di equilibri diversi. Scorgo, onestamente, il rischio di una caduta del garantismo, nel delineare una categoria separata ed autonoma che avrà un suo capo, qualcuno che parlerebbe anche al paese e spiegherebbe come e perché intende muoversi. Siccome l'ipotesi di sottoporre questo ipotizzato corpo separato al controllo politico è non solo sbagliata dal punto di vista democratico e liberale ma anche insostenibile politicamente, perché in nessuna delle moderne democrazie ciò accade, la strada dovrebbe essere un'altra. Una carriera (se vogliamo usare questa espressione), un corpo separato di superprocuratori, di superpoliziotti onestamente mi preoccupa da un punto di vista garantista; mentre la questione - che esiste - dell'habeas corpus, della presunzione di innocenza richiede probabilmente un rafforzamento di principi a livello costituzionale. Molte proposte, compresa la nostra, si prefiggono di costituzionalizzare il principio della parità fra accusa e difesa, anche sperando di evitare in futuro l'anomalia tutta italiana per cui, mentre normalmente vengono annullate le leggi per difetto di garantismo, da noi diverse leggi sono state annullate per eccesso di garantismo. Probabilmente, chiarendo in Costituzione il principio della parità fra accusa e difesa, tutta la tematica dell'habeas corpus, della presunzione di innocenza può (e deve) avere un suo svolgimento nelle sedi proprie, che sono la normativa processuale e la regola dell'ordinamento giudiziario per quanto riguarda i rapporti di responsabilità interna.
Penso che la discussione generale sia stata utile e che, se lavoreremo nella consapevolezza del compito rilevantissimo che abbiamo di fronte (ridare basi stabili e più avanzate alla democrazia italiana e quindi un rapporto diverso tra opinione pubblica e sistema politico nel suo insieme) e, al tempo stesso, con la modestia di non essere portatori di verità rivelate o di bandiere da sventolare sulla trincea finale, ma sapremo intervenire sui problemi, sulle diagnosi e sulle questioni aperte, potremo compiere, al di là dei dubbi e delle perplessità che tutti abbiamo davanti alle difficoltà dei temi che dovremo affrontare, un lavoro utile e meritorio.
PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale.
Mi limito a ricordare che la Commissione è convocata per mercoledì prossimo alle 10.30, per consentire all'ufficio di presidenza, convocato per le 9 della stessa giornata, di definire meglio le proposte. L'ordine del giorno prevede la costituzione dei comitati per l'elaborazione dei testi. L'orientamento dell'ufficio di presidenza - che sarà discusso in Commissione - è quello di costituire quattro comitati, per la forma di Stato, per la forma di governo, per le garanzie, per il Parlamento e le fonti normative. Se questo orientamento sarà confermato dalla Commissione, sarà semplice il riparto dei gruppi; naturalmente per quelli minori è prevista comunque la possibilità di far parte di tutti i comitati, quindi l'organizzazione dei lavori dovrà tenere conto della necessità di consentire ad essi di dare il loro apporto all'attività dei
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singoli comitati. Sarebbe utile che si cominciasse a pensare alla distribuzione delle forze - mi riferisco soprattutto ai gruppi maggiori - perché in tal modo si potranno sollecitamente costituire i comitati ed avviarne il lavoro.
MARCO BOATO. Perché non decidiamo oggi?
PRESIDENTE. Intanto perché eravamo rimasti d'accordo in tal senso nell'ufficio di presidenza e poi perchè in questo momento si registrano alcune assenze: non vorrei che una decisione potesse apparire come un colpo di mano. Inoltre, perché mi pare che la proposta debba essere corredata dell'indicazione dei relatori, dato che la legge prevede che la loro nomina avvenga da parte della Commissione plenaria.
Desidero far presente che l'ufficio di presidenza è orientato nel senso di nominare in questa sede un presidente e un relatore per ciascun comitato, per assicurare una gestione binaria, un bipartisan dei diversi comitati, dato che in questa Commissione sono rappresentate forze che nel Parlamento sono ordinate secondo il principio maggioranza-opposizione. In realtà, le opposizioni sarebbero due, ma una purtroppo non partecipa ai nostri lavori ed io sono d'accordo con i colleghi che le hanno rivolto un invito a rientrare. Ho avuto diverse occasioni di conversazione con l'onorevole Bossi - che, come vi informa attraverso i giornali, mi considera un suo interlocutore - però fino a questo momento esse non hanno sortito l'effetto di un ritorno dei rappresentanti del gruppo della lega nella Commissione. Credo, comunque, che si debba insistere.
Allo stato delle cose, dobbiamo lavorare con le forze presenti e disponibili, il che può consentire di organizzare il lavoro dei comitati corresponsabilizzando i due grandi poli politici nel loro governo e nella logica di quella ricerca di un'intesa, di quello spirito cooperativo che molti che sono intervenuti hanno evocato come necessario.
Infine, nella riunione della Commissione dovremo cominciare a discutere dell'impostazione delle audizioni che accompagneranno il lavoro dei comitati. Da questo punto di vista, i colleghi possono far pervenire segnalazioni o sollecitazioni. Personalmente credo sia giusto che la prima audizione, che avrà un carattere speciale, sia quella con i rappresentanti delle regioni italiane, anche perché esse sono proponenti di riforme costituzionali. Siccome in questo dibattito generale hanno potuto prendere la parola tutti i gruppi e i singoli parlamentari che propongono riforme ma non le regioni, che invece hanno presentato proprie proposte di riforma costituzionale, credo che il dialogo con i rappresentanti delle regioni debba avere la priorità e debba rappresentare il momento iniziale delle audizioni, considerandolo quasi come un completamento della discussione generale che abbiamo sin qui svolto. Si tratterà poi di definire un calendario, anche molto elastico, che prevederà forme diverse di dialogo, nel senso che potranno svolgersi audizioni nei singoli comitati, in relazione ai temi particolari che si affrontano, in seduta plenaria o in ufficio di presidenza.
Ritengo olto importante - come d'altro canto emerge dalla discussione - il dialogo con la società e con le sue rappresentanze, come momento di approfondimento e di raccolta di idee e di proposte. Penso che con alcuni interlocutori questo dialogo avrà più riprese; ad esempio, con le regioni e con il sistema delle autonomie credo che ci debba essere un confronto preliminare e che poi si debba andare anche ad un confronto sui testi di riforma nel senso federalista. Dobbiamo cioè prevedere che l'interlocuzione con quelli che consideriamo soggetti fondamentali di discussione con noi avvenga non soltanto nella fase iniziale ma possa riprendere anche intorno alle precise proposte su cui si lavorerà.
Detto questo soltanto come indicazione generale del lavoro e rinviando alla riunione di mercoledì un approfondimento ed una deliberazione su questi temi e la scelta dei relatori e dei presidenti, che compete appunto alla Commissione plenaria, vorrei fare una sola considerazione
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sulla discussione generale alla quale abbiamo assistito e che, a mio giudizio, rappresenta una base di grande interesse. Vorrei rassicurare tutti i colleghi, in particolare il senatore Rotelli, che il lavoro degli uffici sarà completato, nel senso che avremo un quadro di tutte le proposte. Dobbiamo considerare cioè il lavoro nel quale sono messe a confronto soltanto le proposte presentate dai gruppi come una prima elaborazione. D'altro canto, le proposte sono 185 e dobbiamo anche essere comprensivi verso un lavoro non semplice per gli uffici.
La discussione è stata molto importante ed ha messo in evidenza certamente - come è stato ricordato da ultimo da Urbani e da Salvi - una problematica comune ed anche risposte diverse. Proprio perché queste ultime non hanno un carattere ideologico pregiudiziale ritengo che dobbiamo evitare di sciogliere questi nodi attraverso voti di indirizzo. Dobbiamo lavorare - penso al comitato che costituiremo sulla forma di governo - su diverse ipotesi e tornare in Commissione avendo discusso su un'ipotesi di adattamento alla realtà italiana del modello semipresidenziale, andando ad un confronto più ravvicinato sui problemi che si pongono e sugli equilibri da costruire, oppure su un'ipotesi di tipo neoparlamentare (ho ascoltato con grande interesse la lezione del professor Rotelli, che da questo punto di vista non ci ha dato la sufficienza).
Tuttavia continuo a pensare da neofita - senza nessuna pretesa di gareggiare con i professori - che in realtà, in alcuni grandi paesi democratici d'Europa, gli elettori scelgono con il voto il primo ministro, anche se questo avviene per virtù di quel sistema politico, di quella che si potrebbe definire la costituzione materiale, più che per regola formale.
Non mi sembra peregrino porsi il problema di come quell'effetto si possa ottenere nel nostro paese nel quale, essendoci un sistema politico più disgregato, è necessario effettuare a tale scopo qualche operazione di ortopedia costituzionale (così si è espresso simpaticamente ed in modo efficace l'onorevole Calderisi) della quale altri paesi non hanno bisogno, perché il loro sistema politico è più aggregato e questo procedimento si svolge in modo naturale, senza obbligazioni e vincoli.
Mi rendo conto che è una ricerca complessa, che per certi aspetti ci porta a soluzioni più artificiose; però penso anche che questa ricerca abbia un vantaggio rispetto all'ipotesi semipresidenziale, quello di sollecitare un'evoluzione del sistema politico italiano ed una sua aggregazione. Il semipresidenzialismo - che non demonizzo - ha un rischio, quello di sovrapporsi ad un sistema politico disgregato. L'elezione popolare di una persona in un sistema politico aggregato dà luogo ad un equilibrio di poteri; l'elezione popolare di una persona di fronte ad un Parlamento composto di 14 gruppi dà luogo ad una fortissima concentrazione di poteri: c'è poco da fare.
Non è così peregrina, quindi, la ricerca di una forma di governo del primo ministro che, mi rendo conto, richiede degli artifici ma sollecita anche un'evoluzione del sistema politico italiano che invece l'altra soluzione può sollecitare in misura minore. Naturalmente, nell'uno e nell'altro caso, resta sullo sfondo, ma assolutamente determinante, il tema del sistema elettorale.
Su questo torno a precisare che non è intenzione del presidente forzare i limiti della legge costituzionale da cui ha preso origine questa Commissione. E tuttavia credo che nessuno può impedire a questa Commissione di discutere, nel momento delle scelte, di forma di governo e contestualmente di legge elettorale e persino di prendere un indirizzo. Che poi quest'ultimo si traduca in una coerente riforma elettorale dipende dalla serietà politica e dalla coerenza delle persone che sono qui, anche se formalmente in questa sede non possiamo approvare leggi elettorali. Siamo anche un consesso politico, una rappresentanza delle forze parlamentari del paese, e quindi gli impegni che si prendono in questa sede possono, del
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tutto legittimamente, trovare un loro coerente sviluppo in altre sedi parlamentari.
Proprio perché la discussione sulla forma di governo si è intrecciata con grande libertà, senza preclusioni ideologiche e muovendo largamente da preoccupazioni comuni, penso che essa sarà una buona ed utile base di lavoro. Sarà utile anche lavorare su ipotesi diverse, su testi differenti e tra loro anche alternativi per arrivare alle scelte sulla base di soluzioni che abbiano una loro globalità, che siano ponderabili nel loro effetto complessivo, scelte che ragionevolmente, a mio giudizio, dovrebbero porsi alla fine del nostro lavoro.
Questo può valere anche per altri aspetti. Giustamente l'onorevole Urbani ha messo in luce - anche sul tema più controverso, quello delle garanzie della giustizia - come all'interno di questa Commissione, ma anche fuori di essa, si sia ormai aperta una discussione che muove da forti preoccupazioni comuni. Sottolineo un punto di mia profonda convinzione ed anche di nostra responsabilità di fronte al paese, se vogliamo essere classe dirigente: nessuna discussione sulla giustizia può prescindere dal fatto che questo paese è giunto ad un passaggio di cambiamento dal quale può uscire un'Italia più aperta, più libera, più moderna anche perché abbiamo conquistato una soglia di controllo di legalità che prima non c'era.
Che questo sia avvenuto con un processo tumultuoso, che si è accompagnato anche a distorsioni e ad ingiustizie, è possibile; anzi, mi sentirei di dire che è vero. Ma penso che il paese, così come non tollererebbe un ritorno a vecchie forme partitocratiche, non tollererebbe neppure la sensazione di un ceto politico che cerca una rivincita e che vuole abbassare la soglia di quel controllo di legalità.
Qui davvero passa la differenza tra il comandare e l'essere classe dirigente: è una soglia che non può essere valicata. Per questo ritengo che la questione vada affrontata nel modo più aperto e coraggioso. Spero davvero che in questa sede possiamo discutere apertamente, con grande rispetto, con gli uomini e le istituzioni che sono stati protagonisti di questo passaggio della storia nazionale; discutere cioè con i rappresentanti della magistratura e dell'avvocatura, svolgendo una riflessione comune e critica, che muova però dalla volontà di consolidare e rendere normale quel livello di legalità, la cui conquista si è compiuta soprattutto contro un potere che pretendeva impunità. Poi si sono affermati altri poteri in questo processo, poteri che noi dobbiamo regolare; ma guai se dimenticassimo tutto ciò, che poi costituisce la storia della crisi della democrazia italiana. C'è una vicenda sofferta alle nostre spalle che non può essere cancellata.
Sono quindi favorevole ad affrontare nel modo più aperto e senza rimozioni questo problema e a svolgere in questa sede un dialogo con i protagonisti. Sono convinto che noi faremo davvero una riforma in questo campo se di essa saranno protagonisti con noi gli uomini che rappresentano quella magistratura italiana che è stata protagonista della svolta di questi anni, che costituiscono una parte importante delle istituzioni democratiche del nostro paese. Contro di loro, contro la magistratura, non si riforma il sistema delle garanzie, a mio giudizio, si apre soltanto un nuovo capitolo di quel conflitto tra poteri che nel passato ha conosciuto alterne fortune: c'è stata l'epoca in cui dominavano i politici e venivano perseguitati quei pochi magistrati che coraggiosamente cercavano di mettere il naso nelle malefatte del potere; c'è stata l'epoca in cui hanno dominato i magistrati. Se noi non vogliamo avere un nuovo capitolo di questo «pendolo» dobbiamo costruire un livello normale di controllo di legalità in un dialogo aperto, costruttivo e coinvolgente con altri poteri dello Stato. Credo che la discussione abbia non dico indicato le soluzioni ma sicuramente messo in campo la possibilità che questo accada.
Mi fermo qui, non affronto altri temi, ma questi due mi sono sembrati importanti perché forse su altri sembra che vi
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sia un maggiore comune sentire; in realtà, noi incontreremo anche lì le nostre serie difficoltà, quando andremo a discutere la riforma del bicameralismo o quando passeremo da un certo riferirsi tutti, magari un po' retoricamente, all'esigenza del federalismo, alla concreta articolazione dei poteri. Ma non c'è dubbio che in questi altri campi muoviamo da un maggiore, comune sentire, e questo ci aiuterà a superare i problemi; ma anche laddove si sono manifestate più nette divergenze di indirizzo, credo che arriveremo alle soluzioni democraticamente, votando, ma votando tra alternative che, nel frattempo, saranno state sperimentate, sondate, arate fino in fondo e che avranno perduto la connotazione di contrapposizione ideologica.
Alla fine, delle soluzioni condivise di cui si è parlato, alcune saranno ampiamente condivise, altre lo saranno un po' meno, ma l'importante è che siano considerate seriamente accettabili anche da chi non le condivide; l'importante è che anche chi non le condivide sia stato partecipe della costruzione di un'ipotesi in cui si è tenuto conto del suo punto di vista e delle sue preoccupazioni. Anche chi magari non condivide quella forma di governo, perché ne avrebbe preferita un'altra, tuttavia vede nell'assetto che si va delineando un equilibrio, una ragionevolezza, per cui il suo punto di vista è entrato anche nella definizione di una soluzione che, complessivamente, non è quella che avrebbe voluto.
Per fare questo in modo non pasticciato - perché è chiaro che ciò può essere fatto anche in modo pasticciato - occorre un lavoro serio, accurato; a tal fine sono propedeutici il comitato, il lavoro ravvicinato, il confronto fra esperti e fra culture, la ponderazione e, a mio giudizio, anche un certo grado di riservatezza, anche se abbiamo deciso che tutto sarà reso pubblico. Infatti saranno pubblici anche i resoconti sommari dei comitati, perché - per l'amor di Dio - la trasparenza deve essere totale; però non bisogna confondere la trasparenza con la confusione, e cioè il fatto che un'ipotesi diventa una decisione, viene presentata in un modo distorto: anche qui secondo me si misura e si misurerà, nei momenti delle decisioni, la serietà di questo consesso, il fatto che non siamo qui per farci dispetti o per farci propaganda ma per ricercare soluzioni. Quindi, ci facciamo carico di questa esigenza.
Questa consapevolezza si è largamente manifestata in questi giorni: lo considero un buon avvio e mi pare che abbiamo mosso i primi passi nella direzione giusta; adesso superiamo il primo tornante e articoliamo il nostro lavoro. E' evidente che c'è una forte interconnessione tra le diverse questioni e l'ufficio di presidenza dovrà svolgere un ruolo di coordinamento, di ascolto, di rapporto con i relatori e con i presidenti. Penso dunque che sarà giusto impegnare in questo lavoro, nei singoli comitati (non in modo esclusivo ma in una misura significativa), colleghi che fanno parte dell'ufficio di presidenza: sarà un lavoro complesso, che richiederà anche un certo grado di informalità, di contatto, di confronto. Abbiamo un impegno di partito, del quale vi chiedo scusa, che però, come avete visto, non ha rallentato il nostro lavoro, perché abbiamo tenuto seduta questa settimana e la terremo anche la prossima, quindi l'assenza sarà giusto per il tempo strettamente necessario; ma dopo questo adempimento ci metteremo con impegno pieno a fare il nostro dovere.
Non ho timori per la scadenza del 30 giugno: è un limite che non consideriamo prorogabile. Quella di inserire nella legge la data del 30 giugno è stata un'idea non nostra, ma di alleanza nazionale: non la trovo, però, disprezzabile. Noi siamo persone serie, dobbiamo metterci in grado di votare entro il 30 giugno. Ci mancherebbe altro! Possiamo fallire per tante ragioni, ma fallire perché non si fa in tempo, sinceramente, sarebbe talmente ridicolo che non ce lo possiamo permettere.
MARCO BOATO. Presidente, la questione della restituzione delle proposte di legge non di nostra competenza, sarà risolta mercoledì? Forse poteva essere deliberata oggi, chiudendo quel capitolo.
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PRESIDENTE. Non c'era bisogno di decisione perché il Presidente della Camera, dopo averci assegnato - come lei sa - la revisione degli statuti delle regioni a statuto speciale, si è trovato di fronte all'obiezione della I Commissione della Camera e, sulla base di tale obiezione, ha riesaminato la propria decisione. Poiché noi abbiamo deciso, in sede di ufficio di presidenza, di non sollevare obiezioni, la questione resta così stabilita: la riforma degli statuti è stata rimessa alla I Commissione della Camera, mentre le riforme dell'articolo 116 della Costituzione restano assegnate a noi, e le esamineremo; oggi in Assemblea si formalizzerà la nuova assegnazione.
La seduta termina alle 13.55.