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Doc. XXIII n. 47


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8. Valutazioni riassuntive.

Il complesso di tutte le vicende esposte nei diversi capitoli di questa relazione conducono la Commissione al convincimento dell'esistenza di una vastissima ramificazione di forme varie di criminalità comune ed organizzata, anche di tipo mafioso, praticamente in tutte le regioni d'Italia o almeno in quelle che hanno formato oggetto di analisi da parte della Commissione. Nel corso degli ultimi anni i traffici illeciti nel ciclo dei rifiuti non hanno fatto segnare alcun calo. È senz'altro aumentata l'attività d'indagine da parte dell'autorità giudiziaria e delle forze di polizia, ma con ciò - anche per i limiti che l'azione delle stesse incontra a livello normativo - aumenta la statistica dei reati contestati e delle attività illecite perseguite senza però riuscire ad avere un impatto adeguato alla gravità della situazione. Anzi, dal lavoro di ricognizione effettuato risulta un elemento di novità nelle tipologie dell'illecito: non sono più all'ordine del giorno tanto le mega-discariche abusive, quanto piuttosto interramenti e sversamenti di minore entità quantitativa, o abbandoni incontrollati di rifiuti in aree chiuse (quali i capannoni industriali dismessi) che comunque creano rilevanti problemi in termini di bonifica e di ripristino. Al fenomeno corrisponde una maggiore «raffinatezza» dei traffici, che hanno abbandonato - come abbiamo visto - le caratteristiche originarie del trasporto e dello scarico selvaggio, per approdare a forme di illecito complesse, centrate sul meccanismo della truffa e della falsificazione dei documenti, che si giovano anche della


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scarsa capacità di controllo (quando non della collusione) degli organi amministrativi.
In sostanza, l'imprenditoria deviata e le organizzazioni criminali si sono evolute, hanno esteso il loro raggio d'azione ben oltre il loro territorio naturale, presentandosi sul mercato come aziende titolari di regolare autorizzazione, pronte a sfruttare qualsiasi spiraglio offerto dalle lacune normative.
Né vi sono più aree esenti da fenomeni di infiltrazioni di tipo mafioso nel ciclo dei rifiuti, pur con le forti differenze nell'entità del fenomeno nei diversi territori. Molti episodi mostrano che non esiste, per fortuna, in vaste aree del Paese una criminalità organizzata e radicata nel territorio: esistono però presenze ed attività di stampo mafioso nel ciclo dei rifiuti che non consentono più di parlare di «isole felici». Valga per tutte quanto esposto, ad esempio, nel capitolo dedicato alle infiltrazioni nelle aree non tradizionalmente mafiose. Nella preoccupazione generale occorre però prendere atto di un dato che è assai importante, e precisamente che questa presenza diffusa non si esprime - se non nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa - nella forma di controllo del territorio e del ciclo economico che qui interessa. Infatti, nelle regioni del centronord, anche in presenza di collegamenti con gruppi criminali che operano stabilmente in altre aree del Paese, la mancanza di un consenso diffuso, la resistenza di un tessuto economico-sociale complessivamente sano e consapevole, nonché l'attività svolta dai soggetti istituzionali che, specie negli ultimi anni, si è dimostrata sensibile al problema, funzionano da deterrente ed impediscono la riproduzione delle condizioni ambientali tipiche delle zone di origine delle organizzazioni di tipo mafioso.
Si tratta di un dato registrato dalla Commissione nel corso della sua indagine ed evidenziato dalle vicende che si sono analizzate. Questo dato, che può recare qualche elemento di conforto, non deve far dimenticare che quelle condizioni possono sempre realizzarsi se non si interviene a bloccare la crescita dell'insediamento di tipo mafioso, e soprattutto che in molti casi ci si comincia ad avvicinare troppo ad una situazione del genere: ciò avviene ogni volta che - come si è visto - gli insediamenti criminali diventano corposi e robusti, l'organizzazione si stabilizza ed i collegamenti all'interno e fuori dell'area sono consistenti.
In questo contesto si collocano alcune zone della Liguria, del triangolo Piemonte, Lombardia ed Emilia, alcune aree del Lazio e dell'Abruzzo. E non è davvero poco, se si riflette sulle caratteristiche di queste regioni e sulle progressive interferenze della criminalità organizzata che si sono registrate e che appaiono in espansione, con modalità operative sempre più subdole e raffinate (si pensi al meccanismo del «giro bolla» o al sistema di alterazione del mercato degli appalti) che significano disponibilità, strumenti e mezzi.
Questa situazione dà l'idea dell'entità del fenomeno, della sua complessità e delle diverse ragioni - tra cui il deficit del sistema dei controlli e l'assoluta inadeguatezza della normativa repressiva delle condotte illecite - per cui con tanta facilità esso ha potuto e può presentarsi anche in zone certamente ricche ed evolute, come la Lombardia, il Piemonte e l'Emilia Romagna; ma di infiltrazioni nelle aree non tradizionali si sono trovate significative e consistenti conferme


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anche in regioni come l'Abruzzo e la Basilicata, perché i gruppi criminali sanno percepire le possibilità di sfruttamento che derivano dall'essere zone ancora quasi vergini e poco presidiate.
Se si facesse una mappa della presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso nelle aree esaminate, il risultato sarebbe impressionante, perché questa sarebbe presente pressoché ovunque, sia pur con connotati, intensità e pericolosità di diverso livello. E se un'altra mappa si dovesse predisporre con specifico riferimento alle metodologie, agli strumenti e alle modalità operative, il quadro sarebbe altrettanto allarmante per la sua varietà e per il livello spesso sofisticato delle infiltrazioni e delle operazioni di inserimento, per la stessa capacità dei criminali di cogliere spazi di manovra anche nelle maglie della normativa, al fine di realizzare nuovi profitti e riciclare le enormi quantità di denaro illegalmente acquisito e che occorre, in qualunque modo, reimpiegare sia in operazioni lecite che illecite.
Si constata cioè, in questo settore, quanto si è verificato per il fenomeno del riciclaggio e/o l'impiego di denaro proveniente da attività illecite da parte delle consorterie mafiose: una vera e propria assistenza tecnica di agenzie criminali specializzate. La procedura del cosiddetto «giro bolla» e la centralità delle società di intermediazione commerciale e dei centri di stoccaggio temporaneo nelle operazioni illecite richiama, infatti, il concetto del riciclaggio: i rifiuti vengono fittiziamente declassificati, perdono cioè le loro caratteristiche originarie esclusivamente sulla carta, grazie alla falsificazione dei documenti di trasporto che avviene all'origine presso i produttori o lungo il percorso verso i luoghi di smaltimento finale, quindi sono immessi nel legale circuito dei residui riutilizzabili o inviati in impianti non idonei a riceverli. Per ridurre ulteriormente i costi, gli stessi vengono, infine, smaltiti in discariche abusive, costituite essenzialmente da semplici buche nel terreno o miscelati ai materiali impiegati per la realizzazione di opere varie, comprese le abitazioni civili.
In questo contesto - come la Commissione ha più volte evidenziato, raccogliendo l'esperienza dei magistrati impegnati nel settore - le società di intermediazione commerciale ed i centri di stoccaggio temporaneo costituiscono veri e propri motori dell'intera attività illecita relativa allo smaltimento dei rifiuti. Le prime, infatti, rappresentano il tramite tra il soggetto produttore, che deve disfarsi del rifiuto, e le aziende di trasporto, stoccaggio intermedio, trattamento e smaltimento finale del rifiuto stesso. Le società di stoccaggio intermedio, autorizzate per il deposito temporaneo dei rifiuti, hanno la precipua funzione di regolare il flusso dei rifiuti destinati ad impianti di trattamento (quando l'autorizzazione non sia estesa anche all'attività di trattamento), riciclaggio e/o smaltimento finale. Infine, i trasportatori movimentano i rifiuti sul territorio, dietro segnalazione delle società di intermediazione commerciale, e certamente rappresentano un ganglio essenziale dell'operazione illecita descritta, in quanto materialmente trasferiscono i rifiuti dal produttore al centro di stoccaggio o all'impianto di smaltimento finale. Qualora, poi, il rifiuto debba essere fittiziamente inviato ad impianti di recupero, è necessaria l'esistenza, almeno sulla carta, di uno di tali centri. A tale scopo l'imprenditoria deviata e le organizzazioni criminali hanno individuato la «scappatoia» nelle procedure semplificate previste dagli articoli 32


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e 33 del «decreto Ronchi», che consentono l'apertura di impianti di recupero dietro la mera comunicazione di inizio attività, cui deve seguire - entro novanta giorni - la verifica da parte dell'organo amministrativo, in tal caso la provincia. Da un'apposita indagine della Commissione - nonché da alcune delle inchieste giudiziarie citate - è emerso che tale verifica spesso non avviene nei tempi previsti, e comunque sono sufficienti assai meno di giorni per trasformare un impianto industriale dismesso in un'autentica discarica abusiva colma di decine di tonnellate di rifiuti di ogni tipologia. A questo punto le società falliscono, ma non sono mancati casi di comunicazione di inizio attività addirittura da parte di società inesistenti.
Basti citare, a titolo di esempio, quanto verificatosi a Pontinia, dove la Commissione ha individuato un sito in cui erano stati stoccati oltre undici mila fusti per il trasporto di rifiuti pericolosi che dovevano essere recuperati, ma mancavano i macchinari per le diverse fasi di lavorazione; la società aveva presentato una semplice comunicazione di inizio attività, che non era palesemente in grado di svolgere. Per questi motivi la Commissione ha convocato sul posto l'autorità giudiziaria di Latina, che ha provveduto al sequestro dei fusti e dell'area.
Tale meccanismo viene utilizzato anche per la gestione illecita della frazione secca dei rifiuti solidi urbani: in pratica tale materiale, anziché essere riciclato, viene inviato allo smaltimento abusivo, con ciò truffando in primo luogo il cittadino che aderisce alla raccolta differenziata e paga per tale servizio.
Da ultimo, è bene porre nel dovuto risalto come si registrano, in questo specifico settore, nuove forme di azione da parte della criminalità organizzata che - tradizionalmente - si avvicina in maniera parassitaria e violenta al soggetto imprenditore, cercando di trarre un lucro dalla protezione che gli assicura, sottraendo in tal modo risorse guadagnate dalle imprese e riversandole nelle sue casse. Nel caso dei rifiuti il rapporto si presenta in forme diverse. Le industrie produttrici di rifiuti devono farsi carico di costi spesso elevati per lo smaltimento del materiale di scarto prodotto, cui si lega il sostanziale deficit di impianti di smaltimento esistenti sul territorio nazionale. L'organizzazione criminale, in siffatto contesto, offre un efficiente servizio alternativo che abbatte i costi e garantisce la continuità nello smaltimento dei rifiuti, poiché assicura il superamento di qualunque ostacolo di tipo burocratico e consente l'immediato deflusso degli scarti di produzione senza andare troppo per il sottile nel rispetto della normativa vigente. Si determina, quindi, uno stretto rapporto tra produttore dei rifiuti ed organizzazione criminale, in cui il primo è perfettamente consapevole di rivolgersi a soggetti che scientemente e per proprio tornaconto mettono in atto un micidiale ciclo.
Né si può tacere il fatto che tale offensiva criminale - in grado di stravolgere le regole del mercato - è agevolata dall'atteggiamento dei produttori di rifiuti, che generalmente si disinteressano della destinazione finale degli stessi, grazie anche alla sostanziale irresponsabilità di cui godono di fronte alla legge in caso di smaltimento illecito. Forme di collusione - purtroppo, come abbiamo visto, non infrequenti - tra il produttore dei rifiuti e lo smaltitore illegale sono d'altra parte difficilmente accertabili, a causa dell'inadeguatezza degli strumenti normativi a disposizione della magistratura e delle forze di


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polizia. Allo stesso modo sono di difficile accertamento i casi di collusione con organi della pubblica amministrazione nei casi di omesso controllo.

8.1 Alcune considerazioni sulla normativa.

Le vicende che si sono illustrate nella prima parte di questo lavoro denunciano una serie di carenze a livello normativo. Il «decreto Ronchi» - che pure ha rappresentato un drastico cambiamento di rotta rispetto al quadro delineato dalla vecchia normativa sui rifiuti, in armonia, del resto, con le nuove direttive comunitarie - presenta molto spesso il metodo di enunciare una regola cui seguono numerose eccezioni, subeccezioni ed eccezioni alle eccezioni, a volte disperse in più articoli (il tutto nell'ambito di un testo che si compone di 58 articoli, quasi tutti divisi in numerosi commi e sei allegati), dal che discendono inevitabilmente difficoltà di comprensione e, quindi, di concreta applicazione da parte degli operatori del settore, senza contare che in alcuni casi la determinazione concreta della fattispecie e, quindi, la reale operatività del testo normativo, è rinviata a norme tecniche ancora, in parte, da emanare.
Sono stati eliminati alcuni strumenti fondamentali per il controllo sui movimenti dei rifiuti «dalla culla alla tomba», come è necessario per contrastare l'ecomafia: ad esempio, la violazione dell'obbligo della corretta tenuta del registro di carico e scarico è mero illecito amministrativo anche per i rifiuti pericolosi; l'obbligo delle annotazioni sui libri ha cadenza settimanale, non già immediata, di modo che è facile, in caso di controllo, dire che quei rifiuti, rinvenuti nello stabilimento e non registrati, stavano per essere inseriti nel registro; ancora, il trasportatore professionale di rifiuti ha l'obbligo di inserire nel registro le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti e non anche quelle sulla loro origine e destinazione, laddove invece, secondo le direttive comunitarie, l'articolo 20 del «decreto Ronchi» impone alle province che i controlli sulla raccolta e il trasporto dei rifiuti pericolosi riguardino, in primo luogo, l'origine e la destinazione dei rifiuti. Tale insufficienza del formulario di identificazione favorisce i traffici illeciti di rifiuti e rende, invece, necessaria l'introduzione di un sistema di identificazione del singolo rifiuto che ne segua l'intera vita dal luogo di produzione a quello di destinazione finale (sia esso di recupero e/o di smaltimento).
Si tratta, per la verità, di profili cui si potrebbe rimediare attraverso uno sforzo di integrazione, di correzione e di riordino sistematico della normativa, ed un deciso adeguamento delle strutture pubbliche di applicazione. A tutto ciò devono aggiungersi i numerosi compiti ed adempimenti di cui il decreto carica regioni, province e comuni, già oggi rivelatisi inadeguati, anche a causa dell'insufficienza delle attuali strutture e di personale qualificato.
Altro aspetto negativo generale attiene ad una «semplificazione» che rischia di risolversi, in taluni casi, in una libertà di inquinamento. Le vicende riguardanti le attività di recupero, come detto, hanno messo in evidenza il pericolo insito nel regime della sola comunicazione di inizio attività da parte di coloro che svolgono attività di recupero, cui


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dovrebbe seguire un sopralluogo da parte dell'organo provinciale entro novanta giorni dalla comunicazione.
Anche la raccolta differenziata si è prestata all'attività dei trafficanti di rifiuti, come dimostrano i numerosi capannoni dismessi riempiti di frazione secca, che la Commissione ha avuto modo di vedere in diverse regioni (Lombardia, Abruzzo, Toscana, Friuli, Lazio), tutti accomunati dall'avvenuta comunicazione agli organi preposti dell'inizio attività di stoccaggio o recupero, senza dimenticare che anche dall'estero è arrivato materiale raccolto in maniera differenziata, come dimostrano le migliaia di tonnellate di plastica stoccate abusivamente ad Asti, che la Commissione ha constatato direttamente.
Del ruolo decisivo dei centri di stoccaggio provvisorio nei casi di traffici illeciti si è già ampiamente detto: ebbene, anche in questo caso il «decreto Ronchi» richiede la sola comunicazione alla regione e il successivo controllo della provincia, consentendo nelle maglie di questa doppia competenza l'utilizzo del centro di stoccaggio, regolarmente denunciato, come centro di smistamento del materiale da smaltire illecitamente o addirittura come sito finale dello smaltimento.
Va inoltre sottolineato che la mancata imposizione della prestazione di garanzia fideiussoria per le imprese sottoposte al regime della sola comunicazione favorisce la creazione di numerose società nullatenenti (21).
In alcuni casi anche il comportamento della pubblica amministrazione rischia addirittura di compromettere l'operato della magistratura. È quanto rappresentato alla Commissione dal sostituto procuratore della Repubblica di Milano: la scarsità dei provvedimenti di divieto di iniziare e/o proseguire l'attività ed, invece, la frequenza con cui la provincia emette provvedimenti di diffida, infatti, finisce implicitamente col legittimare la mera comunicazione dell'attività anche quando la procura contesta proprio l'assenza dei requisiti prescritti all'articolo 33 del «decreto Ronchi» per lo svolgimento di quell'attività in regime di comunicazione. In tal modo, di fatto le attività di gestione dei rifiuti sono di regola effettuate in regime di comunicazione, come è facile riscontrare nella proliferazione di numerosissime società - delle quali, spesso, legali rappresentanti sono delle «teste di legno» - che formalmente esercitano attività di recupero rifiuti, ma sostanzialmente sono dedite solo ad un illecito smaltimento degli stessi e per lo più gestite da soggetti noti alla magistratura e alle forze dell'ordine perché operano da anni illegalmente in questo settore.
L'intento del legislatore di semplificare le procedure amministrative ha finito, in buona sostanza, per essere sfruttato da operatori spregiudicati. È evidente allora che occorre una diversa attivazione da parte degli enti locali, abolendo il meccanismo della semplice comunicazione e prevedendo un controllo della regione o dell'Arpa, prima di rilasciare il nullaosta, e successivi controlli periodici da parte delle province - previo potenziamento delle loro strutture - per verificare il corretto esercizio dell'attività dichiarata.


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8.2 L'anagrafe dei rifiuti.

Non va sottaciuta la scarsa efficacia del sistema dell'anagrafe provinciale nel settore dei rifiuti. Questa, infatti, risponde a finalità prettamente sociali che mal si conciliano con le necessità di controllo delle società che operano nel ciclo: è possibile che le stesse persone compaiano in più società, che non offrono alcuna garanzia fideiussoria. Ciò spiega la ricorrente presenza nelle attività illecite nel ciclo dei rifiuti degli stessi soggetti, che operano da svariati anni.
Si tratta di un fenomeno che tocca l'intero paese, comprese le grosse aree industriali del nord: ad esempio, a Milano e nelle province vicine (come Pavia, Novara, Vercelli), gli stessi soggetti usano presentare più comunicazioni nelle singole province ed esercitano la loro attività nello stesso territorio. A favorire il fenomeno contribuisce l'interpretazione dominante delle pubbliche amministrazioni del nord Italia, secondo cui non solo le operazioni di recupero, ma anche la realizzazione degli impianti di recupero, sono soggetti al regime della comunicazione e non già a quello dell'autorizzazione, in contrasto con l'interpretazione restrittiva del dettato normativo che sembra per verità imposta dal riferimento degli articoli 27 e 28 del decreto alla realizzazione dell'impianto di recupero, mentre l'articolo 33 contempla le sole operazioni di recupero per sottoporle al regime della comunicazione. L'interpretazione restrittiva è peraltro in armonia anche col dettato dell'articolo 31 del citato decreto, relativo alla costruzione dell'impianto, ché altrimenti si arriverebbe a sostenere che per la costruzione dell'impianto è sufficiente la comunicazione, mentre per l'esercizio delle operazioni di recupero, qualora non si rispettino le norme tecniche, necessita l'autorizzazione.
Addirittura, secondo quanto riferito alla Commissione, la regione Lombardia con la delibera n. 40410 del 1998, in contrasto con la ratio del legislatore nazionale, ha ritenuto che gli inerti non sono rifiuti e in taluni casi possono addirittura non essere soggetti neppure al regime della comunicazione.

8.3 Il problema della catalogazione dei rifiuti.

Conseguenze negative ha sul sistema di gestione del ciclo dei rifiuti l'assenza di previsione di qualsiasi tipo di analisi per la classificazione del rifiuto (prevista solo in funzione del codice CER) e/o di un'omologa di qualsiasi tipo che possa attestare la vera natura del rifiuto. Intanto il rifiuto può classificarsi come pericoloso, in quanto rientra nell'elenco dell'allegato D del «decreto Ronchi», senza dare alcun rilievo alla sua vera natura, il che porta spesso a situazioni inaccettabili.
Vale ricordare l'esempio della miscela di ebanite nella vicenda Ecobat, di cui si occupa la procura di Monza (vedi sopra), e quello addotto dal sostituto procuratore di Milano delle polveri di abbattimento dei fumi dell'industria siderurgica, prodotte in quantità considerevoli nel nord Italia, con una forte concentrazione nel territorio del Piemonte. Queste ultime contengono piombo, cromo esavalente e cadmio in concentrazioni massicce, ma nonostante ciò, non essendo il


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loro codice incluso nell'elenco di cui all'allegato D, sono soggette alla procedura del riutilizzo perché non pericolose. Ne discende che, se questo rifiuto è smaltito in discarica, si applicano le procedure previgenti e la delibera del Comitato interministeriale del 1984; invece, se esso viene destinato al recupero, non è previsto alcun trattamento.
Sotto questo profilo basterebbe una semplice rettifica del dettato normativo dell'articolo 7 - che, peraltro, era sicuramente nelle intenzioni del legislatore, altrimenti non avrebbe avuto senso la modifica del «Ronchi-bis» - ed un'integrazione dell'articolo 57, nella parte in cui non fa menzione dell'attività di recupero.
Ai problemi di diritto interno della catalogazione dei rifiuti cui si è accennato, vanno aggiunti quelli determinati dalla mancanza di una definizione e classificazione omogenee dei rifiuti sul piano europeo, sempre più avvertiti dagli operatori del settore e per la cui risoluzione è impegnato, in particolare, il comitato per l'adeguamento tecnico-scientifico delle legislazioni sui rifiuti previsto dalla direttiva CEE n. 91-156. Ad essi si aggiungono le difficoltà dipendenti dalla non corrispondenza tra codici europei e codici di identificazione doganali dei rifiuti che, determinando ulteriori sovrapposizioni e confusione, certamente agevolano lo svolgimento di traffici illeciti di rifiuti tra i vari Paesi, secondo quanto la Commissione ha rilevato nella relazione avente ad oggetto i traffici transfrontalieri di rifiuti, alla cui ampia trattazione si fa rinvio.

8.4 L'inadeguatezza del sistema sanzionatorio.

Venendo ora al profilo sanzionatorio delle violazioni relative al settore dei rifiuti, la realtà emergente dalle indagini svolte dalla Commissione, in particolare nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa (come la Sicilia), rende evidente che, a fronte di attività illecite nel contesto delle quali si è inserita, con un lucroso profitto, la criminalità organizzata, l'effetto della normativa ambientale vigente è praticamente nullo, giacché le modeste sanzioni previste sono del tutto inadeguate a fronteggiare e scoraggiare i vantaggi economici miliardari che determinano.
Vale ricordare che manca la previsione del delitto ambientale e che il traffico illecito di rifiuti è punito come contravvenzione, che alcuni obblighi sono sprovvisti di sanzione, che in alcuni casi i soggetti attivi del reato risultano non coincidenti con i soggetti indicati nel precetto come destinatari dell'obbligo da sanzionare e, purtroppo, l'elenco potrebbe continuare.
In particolare, lo strumento della contravvenzione, anziché quello del delitto, a sanzione della maggior parte delle condotte illecite del settore, espone al forte rischio di una prescrizione in tempi assai brevi, non compatibili con la durata del processo, e non consente alla magistratura e alle forze dell'ordine di adoperare tutto lo strumentario investigativo conseguente alla sussistenza dei delitti (intercettazioni telefoniche e ambientali), che sarebbe particolarmente utile. Lo stesso discorso va fatto circa l'impossibilità di chiedere misure cautelari interdittive e personali che pure sarebbero certamente giustificate, quantomeno nei casi più gravi in cui il danno recato alla collettività


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e, a volte, anche ai singoli individui, è di gran lunga maggiore di quello cagionato da molti dei reati contro il patrimonio, per i quali pure si prevede la possibilità o addirittura l'obbligo di adottare, ad esempio, misure cautelari personali.
Paradossalmente, in alcune situazioni l'azione di contrasto è resa possibile non perché l'oggetto dell'indagine è il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti, ma le operazioni finanziarie illecite che stanno a monte e che configurano fattispecie di delitti (si pensi al reato fiscale, al falso in bilancio); fuori dei casi, poi, in cui da subito emergono elementi che facciano ipotizzare i reati di falso, truffa, ovvero dei casi - ancora più rari - di un disastro ambientale o dell'avvelenamento di acque, la Commissione ha dovuto registrare lo sforzo di alcuni operatori di giustizia di ricerca di ipotesi di reato «collaterali», che consentano di colpire la gestione illecita dei rifiuti. Ciò vale ancor più quando ricorrono gli estremi dell'associazione per delinquere, che - per la sua natura di delitto - non può essere contestata rispetto a sanzioni amministrative o reati contravvenzionali, nonostante che la complessità del fenomeno criminale descritto richieda di essere posto prevalentemente in relazione all'esistenza di strutture criminali create allo scopo.
Lo sforzo effettuato nell'utilizzazione normativa non può, tuttavia, surrogare l'esigenza di una norma precisa per ciò che attiene alle prassi applicative ed investigative; la semplificazione normativa e l'individuazione di meccanismi sanzionatori semplici, chiari ed efficaci, farebbero accrescere, invece, sia i livelli di deterrenza nei confronti dei soggetti destinatari delle norme che i livelli di efficacia dell'azione degli uffici requirenti e di polizia.
Le audizioni dei magistrati impegnati in inchieste attinenti al ciclo dei rifiuti hanno inoltre fatto emergere la crisi di razionalità delle misure di prevenzione. La natura contravvenzionale delle fattispecie normative nel settore dei rifiuti - anche quando siano stati individuati precisi interessi economici e patrimoniali direttamente riconducibili alle organizzazioni criminali di tipo mafioso - non consente nella gran parte dei casi di aggredire l'impresa camorristica o mafiosa nel suo patrimonio complessivo, privandola delle capacità economiche di reinvestimento. In questo modo gli enormi patrimoni mafiosi che si formano grazie al traffico illecito dei rifiuti vengono sostanzialmente sottratti ad un'efficace azione giudiziaria.

8.5 Proposte normative in campo penale.

La Commissione, recependo le univoche segnalazioni provenienti dalla magistratura e dalle forze dell'ordine, con l'approvazione del doc. XXIII, n. 5, ha formulato una proposta d'inserimento nel codice penale di alcune figure di reato previste come delitti, dalla cornice edittale non indifferente e concernenti condotte di danneggiamento dell'ambiente, redatte in modo tale da ricomprendere anche quelle che possono derivare da un'illecita gestione dei rifiuti.
Viene previsto, infatti, l'inserimento nel titolo VI del libro II del codice penale di un capo relativo ai delitti ambientali, con ciò riconoscendo alle aggressioni all'ambiente lo stesso disvalore giuridico


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che connota le condotte lesive dell'incolumità pubblica e della salute pubblica.
Di particolare rilievo è la previsione del delitto di traffico illecito di sostanze dannose per l'ambiente e la salute, in cui s'incrimina la produzione, il trasporto, l'acquisto e la cessione non autorizzati di sostanze tossiche e dannose per l'ambiente; nonché la previsione di un'aggravante speciale rispettivamente per il delitto di associazione per delinquere (quando i delitti-scopo siano delitti contro l'ambiente) e di associazione mafiosa di cui all'articolo 416-bis (quando le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo siano finanziate con i proventi di attività illecite contro l'ambiente).
L'impostazione che la Commissione auspica che sia assunta a livello legislativo è pertanto quella di unificare, sotto il profilo della tutela penale, il concetto di aggressione all'ambiente, contemporaneamente abrogando tutte le norme sanzionatorie di minor rilievo sparse nella legislazione e prevalentemente ispirate a controlli formali.
Purtroppo, si deve rilevare con rammarico che, a fronte delle spinte in questa direzione che vengono da formazioni sociali ed organi istituzionali, gran parte della classe politica non ha finora mostrato particolare zelo ed interesse: i disegni di legge per l'introduzione dei delitti ambientali nel codice penale (sia quello governativo, sia quelli d'iniziativa parlamentare, frutto del lavoro della Commissione) giacciono ormai da un anno all'esame del Senato. Queste incertezze del legislatore, questa eccessiva dilatazione dei tempi di approvazione dei nuovi strumenti di prevenzione e di contrasto, non soltanto sono produttivi di effetti disastrosi rispetto alle situazioni già in atto, ma - è bene dirlo - a causa del forte impatto che esse hanno sulla società civile, ad ogni livello, rischiano di minare anche l'azione tenace e caparbia di coloro che sono impegnati da anni nella difesa di un bene prezioso per tutti e che richiede uno sforzo comune, la cui tutela, invece, rimane ancora in larga parte affidata all'iniziativa volenterosa del singolo magistrato o del singolo rappresentante delle forze dell'ordine, oppure alla denuncia di un'associazione ambientalista.
Non si vuol negare che negli ultimi anni la società civile si sia mostrata più attenta alla tutela dell'ambiente e che vi sia stata una progressiva presa di coscienza della stessa autorità giudiziaria delle problematiche connesse al ciclo dei rifiuti, la qual cosa spiega perché solo di recente sono stati accertati fatti «di vecchia data» che hanno portato ad una maggiore attenzione ed approfondimento delle tecniche di accertamento delle attività illegali. Ma l'impegno deve essere massimo verso un processo di sensibilizzazione culturale, che ancora non è stato completato, ed una valorizzazione delle professionalità nel settore dell'ambiente, e specificamente in quello attinente al ciclo dei rifiuti.
In quest'ottica deve essere nuovamente ribadito che l'asse della lotta alla criminalità ambientale va spostato sull'osservazione di parametri diversi da quelli meramente giudiziari, ponendo al centro dell'attività di contrasto i controlli amministrativi, gli accertamenti fiscali e la corretta lettura dei fenomeni economici, ivi comprese le condizioni della libertà del mercato degli appalti; in sintesi, spostare l'osservazione prioritaria dal campo penale a quello economico ed


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uscire finalmente dall'equivoco che il giudice penale sia titolare e vicario di una funzione di controlli anche di natura amministrativa. Ciò a prescindere dalla necessità di affidare al magistrato penale strumenti più idonei di quelli di cui al momento dispone.
Ma va sempre sottolineato che lo strumento processuale è sì importante, ma non decisivo, perché ciò su cui fare affidamento è soprattutto l'effettività dei controlli amministrativi. La vicenda di Pitelli rappresenta solo la punta dell'iceberg di un sistema - quello dei controlli amministrativi - che in generale si è rivelato inadeguato ed inefficiente, anche a causa della proliferazione legislativa, spesso convulsa, degli ultimi anni, che ha determinato nel settore un eccessivo frazionamento ed intreccio di competenze e di adempimenti, rispetto ai quali diventa difficile sia una verifica del raggiungimento degli obiettivi dell'attività, sia una ricerca ed individuazione delle responsabilità.
Assai debole è anche il coordinamento tra le varie forze di polizia, come (fatto ancora più grave, attesa l'esistenza dello strumento processuale di cui all'articolo 117 del codice di procedura penale) tra gli uffici giudiziari inquirenti, spesso costretti ad operare su stralci di inchieste trasmessi una volta effettuati gli accertamenti. Se va preso atto della sollecitudine con la quale alcuni organi di polizia giudiziaria (quelli specializzati, in particolare i carabinieri del Noe ed il comando del Corpo forestale dello Stato) hanno seguìto i procedimenti aventi ad oggetto la questione rifiuti, d'altra parte occorre anche porre in evidenza che la gran parte delle indagini è scaturita da fatti accidentali. Mancano, cioè, referenti istituzionali capaci di letture dei fenomeni che possano portare a denunzie motivate, ad opera delle strutture amministrative di controllo preposte alla verifica della regolarità nelle modalità di conduzione dei traffici. Sembra debole il controllo delle forze di polizia diffuse nel territorio ed aventi anche compiti di carattere amministrativo (vigili urbani, polizia stradale, guardie ecologiche, eccetera), al fine di individuare ed interpretare i traffici e le connesse mistificazioni gestionali. In particolare, come detto, sembra mancare una conoscenza approfondita del fenomeno di infiltrazione da parte degli organi di investigazione specifica, che non sempre hanno saputo mettere a punto e focalizzare le pur copiose informazioni emergenti da più parti.
Nella direzione di una progressiva presa di coscienza del valore da annettere alle indagini in materia ambientale ed all'acquisizione di un patrimonio di conoscenze capace di letture più approfondite e complessive dell'intero fenomeno, va senz'altro segnalata la recentissima iniziativa (1999) con cui il comando generale della Guardia di finanza, recependo una direttiva del Ministero delle finanze, ha imposto a tutti i comandi che operano sul territorio nazionale di inserire nella programmazione delle attività di verifica i soggetti che operano nel settore rifiuti (imprese di smaltimento e di trasporto, movimento terra e altro). Si auspica, quindi, che tra qualche anno nel contenzioso tributario comparirà anche questo tipo d'impresa.
Conclusivamente, appare del tutto condivisibile il monito del procuratore generale presso la corte d'appello di Bari, dottor Riccardo Di Bitonto, secondo il quale: «se vogliamo condurre una guerra ad armi pari, dobbiamo farlo attraverso le più alte tecnologie ed utilizzando


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le persone più qualificate dal punto di vista professionale (...) Se vi fosse un coordinamento tra gli istituti assicuratori, le forze di polizia ed il Noe, potremmo raggiungere risultati apprezzabili (...) Se non creiamo dei soggetti istituzionali con specifiche responsabilità tecniche, giuridiche, politiche ed amministrative e che dispongano degli strumenti per poter attingere alle varie informazioni, non riusciremo a portare avanti in maniera adeguata la nostra battaglia (...), non riusciremo a dare una risposta alla criminalità organizzata, adeguata all'azione condotta da tali criminali».
Il procuratore ha anche avanzato la proposta di consentire anche alla magistratura ed alle altre forze dell'ordine l'accesso al sistema informatico Schengen (SIS), attualmente riservato solo al Ministero dell'interno ed alla polizia di Stato. Ciò consentirebbe, anche per quanto riguarda i rifiuti, di poter valutare i riflessi internazionali di questi traffici.
Tale libertà di accesso richiederebbe una modifica sul punto della convenzione (da adottare, quindi, in altra sede), ma che a questa Commissione non sembra inutile proporre alle valutazioni del Parlamento e del Governo, anche perché appare paradossale che le informazioni siano accessibili alle forze di polizia giudiziaria e non alla magistratura.
Per quanto concerne le innovazioni tecnologiche in materia è opportuno segnalare, sul fronte della prevenzione, il sistema ideato dall'Anpa ed attualmente in fase di sperimentazione, per il controllo amministrativo in tempo reale delle movimentazioni dei rifiuti; il sistema prevede la dotazione ai trasportatori di strumenti che (collegati via satellite ad un elaboratore centrale) segnalano l'avvenuta presa in consegna e l'avvenuto conferimento dei rifiuti. Sempre tramite il medesimo strumento, con dei badges, il produttore e il ricettore dei rifiuti danno comunicazione delle quantità consegnate o prese in carico. Un sistema che potrà da un lato semplificare l'intera procedura e dall'altro consentirà di avere costantemente sotto controllo i flussi di rifiuti, e quindi potrà agire in maniera molto efficace sul versante della prevenzione degli illeciti.
Tornando invece al settore della repressione, la Commissione ha rilevato che negli ultimi anni anche la magistratura ha mostrato un interesse ed una capacità culturale in grado di andare al di là dei singoli fatti, di particolare rilievo, di cui questo o quel sostituto si stesse occupando, per acquisire finalmente una maggiore consapevolezza della gravità e delle dimensioni del problema ed impegnarsi in attività di formazione e specializzazione nel settore, che devono, però, essere intensificate e garantite sin dall'inizio a coloro che andranno ad occuparsi di tematiche ambientali nelle sedi giurisdizionali di destinazione e vanno completate con la realizzazione di forme stabili di coordinamento tra uffici giudiziari.
Al riguardo, i magistrati impegnati sul fronte delle ecomafie hanno sottolineato che le possibilità di collaborazione tra organi inquirenti sono maggiori quando l'illecito ricade nella competenza degli uffici della dda che, attraverso la dna e la banca dati ivi disponibile, assicura il coordinamento a tutte le ventisei procure distrettuali dislocate sul territorio nazionale, in tal modo assicurando una sinergia di azione e, soprattutto, l'assenza di duplicazioni di interventi, analogamente a


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quanto è avvenuto nel settore del contrabbando con la creazione di una task force permanente tra le procure distrettuali di Napoli, Bari e Lecce, sotto l'egida della dna, azzerando il pericolo di duplicazioni ed interferenze (22).
Le procure ordinarie non sono, invece, attualmente dotate di un sistema elaborato di archivio dati come quello disponibile presso la dna. In qualche modo suppliscono a questa carenza i protocolli d'intesa con cui procure ordinarie e distrettuali antimafia, sotto il coordinamento dei procuratori generali, si impegnano allo scambio di notizie e all'invio immediato del fascicolo per competenza (23).
Una «promessa» in questa direzione è rappresentata dalla recente riforma del giudice unico, che ha comportato una riorganizzazione di tutti gli uffici giudiziari. In particolare, l'unificazione tra uffici della ex procura presso la pretura e quelli della procura presso il tribunale è certamente favorevole alla fusione di esperienze professionali diverse e complementari specie rispetto alla lotta alle ecomafie: quelle dei magistrati impegnati da anni nel settore ambiente e di coloro che hanno maturato esperienza del fenomeno mafioso.
Tutti i magistrati ascoltati dalla Commissione hanno espresso la seria convinzione - che è propria anche di questa Commissione - di poter realizzare concretamente con questo nuovo modello organizzativo anche quei collegamenti necessari tra le attività degli operatori del ciclo dei rifiuti e le attività illecite conseguenti all'accertato interesse della mafia per tale settore, grazie alla fluidità delle informazioni e alla sinergia di professionalità diverse.

(21) V. al riguardo audizione del sostituto procuratore della Repubblica di Milano, dottoressa Paola Pirotta, del 27 giugno 2000.
(22) V. audizione del sostituto procuratore distrettuale di Napoli, dottor Giovanni Russo, del 6 luglio 2000; audizione del sostituto procuratore della Repubblica di Asti, dottor Luciano Tarditi, del 22 marzo 2000; intervento del sostituto procuratore distrettuale di Bari, dottor Giorgio Giovanni, nel corso del seminario, svoltosi a Bari il 7 marzo 2000, sull'istituto del commissariamento per l'emergenza rifiuti.
(23) V. sul punto audizione del sostituto procuratore della Repubblica presso la dda di Napoli, dottor Giovanni Russo, del 6 luglio 2000.

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