Comitato parlamentare Schengen-Europol

SPAZIO EUROPEO DI LIBERTA’, SICUREZZA E
GIUSTIZIA E GARANZIE DELL’INDIVIDUO

Verso un sistema integrato di controllo tecnico-giuridico,
giudiziario e democratico sui diritti individuali

Schema di intervento introduttivo
di Fabio EVANGELISTI,
Presidente Comitato parlamentare Schengen-EUROPOL
Incontro annuale dell'Autorità Comune di Controllo Schengen

Firenze, 27-28 maggio 1999

 

1. Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, e banche-dati

Il trattato di Amsterdam ha introdotto un concetto di grande rilevanza e dalle implicaizoni potenzialmente vastissime, che potrebbe incidere molto profondamente sul futuro dell’integrazione europea.

Mi riferisco al concetto di spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Si tratta, per ora di un concetto vago, che acquisterà sostanza a poco a poco, attraverso la progressiva definizione delle priorità politiche da parte degli Stati membri e delle istituzioni europee.

In questo senso, un’importanza decisiva avrà il Consiglio europeo straordinario che si terrà sotto presidenza finlandese nell’ottobre prossimo. A questo proposito, mi sia consentito osservare, incidentalmente, come la riflessione preparatoria in vista di quell’importantissimo evento sia stata un po’ congelata dall’emergenza umanitaria provocata dalla guerra per il Kosovo. Ciò è comprensibile, ma bisogna reagire, per evitare che la paralisi decisionale in merito al resettlement e al burden sharing di fronte alla tragedia kosovara trascini nella paralisi tutta la riflessione europea sullo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.

Fatta questa avvertenza, e avvicinandomi al tema specifico dei lavori odierni, vorrei sottolineare un punto. Lo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia è vasto ed estremamente complesso. La nascita di questo spazio presuppone che 15 apparati giudiziari e di sicurezza nazionali (per la verità, sono meno di 15 nei settori in cui lo spazio europeo nasce a geometria variabile, come nel caso dell’acquis Schengen incorporato) coordinino efficacemente le loro attività.

Perché questo coordinamento sia davvero efficace, sono indubbiamente necessarie forme di integrazione dei supporti informativi dell’attività degli apparati nazionali (cioè, oggi, delle banche-dati informatizzate), nei diversi settori. E, quando parliamo di giustizia e di sicurezza, i supporti informativi all’attività degli organi preposti hanno per oggetto, nella maggior parte dei casi, persone, individui.

Ora, come ben sappiamo, questo processo di integrazione informativa è in corso da tempo. E’ un processo che si è finora sviluppato in maniera disordinata, rispondendo volta a volta ad esigenze specifiche, secondo uno modo di procedere rigorosamente funzionalista proprio, d’altronde, di gran parte del processo di integrazione europea e, in particolare, della cooperazione nel settore della giustizia e affari interni.

Le banche-dati comuni e le reti di scambio di dati, anche di dati personali hanno dunque proliferato al di fuori di qualsiasi disegno strategico. Il problema della razionalizzazione di questa esoterica galassia è da tempo stato posto, per iniziativa - tra l’altro - del governo italiano, e speriamo che presto si possano registrare progressi da questo punto di vista.

Ma l’aspetto su cui mi preme soffermarmi qui è un altro. L’edificazione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, obiettivo profondamente innovativo e certamente positivo, anche per l’impulso che darebbe alla nascita di una cittadinanza europea dotata di sostanza, porta necessariamente con sé un’integrazione degli apparati informativi (non nel senso dei servizi di informazione, ovviamente, ma delle banche-dati che forniscono la base di informazione necessaria all’operato degli organi giudiziari e di pubblica sicurezza).

come ho già detto, questa integrazione degli apparati informativi riguarda anche i dati personali. La creazione di centrali europee di immagazzinamento e trattamento di dati personali moltiplica esponenzialmente le probabilità che di questi dati venga fatto cattivo uso, un uso lesivo dei diritti individuali o un uso pregiudizievole del buon funzionamento delle istituzioni democratiche.

Per evitare questo rischio, bisogna attrezzarsi adeguatamente.

2. Informatizzazione del potere ed esigenze di specializzazione delle istituzioni di garanzia

Di fronte all’uso crescente dell’informatica da parte delle agenzie pubbliche incaricate di far rispettare e di applicare, anche coattivamente, le leggi, il problema delle garanzie dei diritti individuali cambia profondamente natura.

Sempre di più, il potere coercitivo degli Stati si fonda su conoscenze, e quindi si legittima in base a premesse conoscitive, che sono il frutto di un trattamento elettronico di dati.

Per controllare l’esercizio del potere, è quindi necessario poter controllare - e saper controllare - il trattamento dei dati sottostante.

Questo rende indispensabile una competenza tecnica, abbinata e resa "intelligente" da una competenza giuridica estremamente specialistica, ma capace di nutrirsi dei grandi principi della giustizia liberale, aggiornandoli continuamente ai cambiamenti tumultuosi del mondo che ci circonda.

E questo tipo di controllo, questo livello di controllo tecnico-giuridico, è indispensabile anche affinché si possano esercitare i controlli propri del modello liberal-democratico classico, fondato sulla divisione dei poteri. Mi riferisco, ovviamente al controllo politico parlamentare e al controllo giudiziario.

E’ quindi essenziale, se vogliamo che il tradizionale (e mai superato) modello di Montesquieu sopravviva e si adatti all’età dell’informazione, che il sistema di controllo sull’operato delle agenzie incaricate del law enforcement cambi e incorpori un livello tecnico-giuridico di controllo sul trattamento informatico dei dati personali.

Questo è, in effetti, quello che sta succedendo. E la via scelta, almeno in Europa, è stata quella di affidare il controllo tecnico-giuridico (ma, forse, è più giusto chiamarlo controllo indipendente sul rispetto dei diritti individuali) ad autorità indipendenti, a loro volta organizzate in rete, riproducendo l’organizzazione delle agenzie del cui controllo esse sono incaricate.

Ma questa non è l’unico mutamento strutturale in corso. Queste autorità indipendenti di controllo sul rispetto dei diritti devono avere un interlocutore politico capace di raccogliere le loro suggestioni, le loro segnalazioni, i loro segnali d’allarme.

E questo richiede anche, ovviamente, una specializzazione degli organismi parlamentari di controllo. La tecnicità intrinseca della materia lo richiede, Altrimenti, ed è un rischio concreto anche in altre aree dove operano autorità indipendenti, l’authority rischia di predicare nel deserto.

3. Le forme del controllo parlamentare all’indomani di Amsterdam

Quello che ho detto sinora trova, evidentemente, un’esemplificazione di grande rilievo nel ruolo dell’Autorità comune di controllo Schengen, e nel suo rapporto con gli organi deputati al controllo democratico in ambito europeo: con il Parlamento europeo, ma soprattutto, visto che ci muoviamo su un terreno rimasto fino a ieri puramente intergovernativo, con i Parlamenti nazionali.

Purtroppo, come sapete meglio di me, questo raccordo stretto, organico e sistematico direi, tra organi indipendenti di controllo tecnico-giuridico e organi di controllo politico-democratico, non è ancora una realtà compiuta.

Le ragioni sono tante. Innanzitutto, la materia, come ho già detto, è complessa ed ha un elevato tasso di tecnicismo. Poi, ci si deve confrontare con la scarsa trasparenza propria dei fori di cooperazione intergovernativa. Ma, soprattutto, si paga la mancanza di specializzazione e di sensibilità degli organi di rappresentanza politica, dei Parlamenti.

Qualcosa, tuttavia, è stato fatto. Come è noto, sono due, in particolare, le esperienze più significative. La prima è quella della Sottocommissione ad hoc della Commissione giustizia della Camera Bassa del Parlamento dei Paesi Bassi. La seconda è l’esperienza del Comitato bicamerale che presiedo.

Entrambi questi organi presentano i caratteri di specializzazione di cui parlavo (anche se è una specializzazione in progress, una specializzazione da tener viva e da coltivare con risorse di personale di ottimo livello, ma purtroppo limitate). Entrambi questi organi, inoltre, dispongono di uno strumento di controllo particolarmente incisivo, che in realtà è più uno strumento di indirizzo e di co-decisione che uno strumento di controllo in senso tradizionale, e cioè il parere vincolante sui progetti di decisione.

Entrambi questi organismi hanno funzionato, hanno accumulato competenze e le hanno diffuse. Nel caso dell’Italia, credo che non sia presunzione dire che il Comitato ha aiutato il Paese in una fase difficile, che è stata quella dell’ingresso a pieno titolo nel sistema Schengen. Credo che il nostro lavoro abbia contribuito, innanzitutto, diffondendo sia nella sfera degli addetti ai lavori sia nell’opinione pubblica più avvertita la consapevolezza dell’importanza dell’obiettivo. Ma credo che il ruolo del Comitato abbia avuto una qualche utilità anche per il Governo, nei rapporti con i partner europei, rinforzando con un consenso parlamentare esplicito ed informato, la posizione negoziale dell’intero Paese.

Oggi, il modello di controllo rafforzato sperimentato in Italia e in Olanda è in discussione.

Come sapete, un protocollo allegato al trattato di Amsterdam ha deciso l’incorporazione del sistema Schengen nell’ambito dell’Unione europea.

Questa incorporazione è un’operazione complessa, che è risultata molto più impegnativa e delicata di quanto molti si aspettassero.

Ancora oggi, la situazione non è chiara. Il segretariato Schengen è stato inglobato dal segretariato del Consiglio. E questo è un primo passo. Ma quanto al nocciolo della questione, cioè il destino dell’acquis Schengen, il quadro è ancora confuso.

Tecnicamente, per il momento, è stato deciso di non decidere. L’acquis, cioè, si sposta provvisoriamente e integralmente sotto il terzo pilastro.

Ma c’è un impegno a proseguire nei negoziati, per fare in modo che quella parte della disciplina Schengen che corrisponde alle materie comunitarizzate dal nuovo titolo IV del trattato comunitario venga trasfusa - come la logica, la Commissione e il Parlamento europeo richiedono - nel primo pilastro. E diventi quindi diritto comunitario.

Vedremo. Quello che sembra certo, intanto, è che ha prevalso la soluzione pragmatica - auspicata tra l’altro anche da un componente l’autorità garante italiana, il professor De Siervo, in una sua recente audizione dinnanzi al Comitato Schengen - con riferimento al destino del SIS. Non mi soffermerò su questo punto, anche se vorrei sottolineare che il SIS, incontestabilmente, per quanto riguarda specificamente il trattamento delle segnalazioni ai fini della non ammissione, è anche uno strumento di politica migratoria. Anzi, è forse il più importante strumento esecutivo della politica migratoria su scala europea.

Ma quello che mi interessa di più qui sono i risvolti istituzionali, sul piano nazionale, dell’entrata in vigore del trattato di Amsterdam e dell’incorporazione del sistema Schengen in ambito UE.

Su questo piano, infatti, è in gioco il ruolo futuro del Comitato che presiedo - e non è questo che importa, ovviamente - ma è anche in gioco la costruzione di un sistema integrato di controllo europeo sul trattamento dei dati personali e, più in generale, sull’edificazione dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia.

Il Comitato sta conducendo un’ampia indagine conoscitiva sulle conseguenze dell’incorporazione dell’acquis Schengen ai diversi livelli. Naturalmente, abbiamo approfondito anche le conseguenze sul piano istituzionale nazionale. Siamo stati lusingati di constatare che la totalità, direi, delle autorevoli voci dottrinali che abbiamo ascoltato, giudica positivamente l’operato del Comitato e, soprattutto, giudica interessante il modello che lo ispira.

Abbiamo appreso, inoltre, e questo è molto importante, che il Parlamento olandese ha confermato il modello del controllo specializzato e vincolante sia con riferimento al terzo pilastro, sia con riferimento alle materie afferenti al nuovo titolo IV TCE (immigrazione, asilo, visti, etc.), perlomeno finché queste materie non verranno comunitarizzate davvero, con il passaggio alla maggioranza qualificata ed alla co-decisione. Solo in quel momento, infatti, si potrà finalmente dire che il Parlamento europeo è subentrato effettivamente ai Parlamenti nazionali nell’attività di controllo e di indirizzzo. Addirittura, appunto, nella co-decisione.

In Italia la discussione sull’assetto istituzionale futuro, in questo settore, è aperta. Non ci nascondiamo che i problemi sono molti e sono seri. Sono, per esempio, problemi di coerenza istituzionale nel modo e nei metodi con cui il Parlamento partecipa alla fase ascendente del processo normativo comunitario.

Ma la posta in gioco è elevata. Si tratta di creare un sistema integrato di controllo, agile ed efficiente, che sappia assicurare il rispetto dei diritti individuali e degli equilibri democratici nell’Europa di domani, che speriamo diventi davvero uno spazio unico di libertà, sicurezza e giustizia, e quindi uno spazio di cittadinanza, per tutti coloro che la abitano.

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