Commissione parlamentare consultiva in ordine
all'attuazione della riforma amministrativa

CAMERA DEI DEPUTATI SENATO DELLA REPUBBLICA

Commissione parlamentare consultiva
in ordine all’attuazione della riforma amministrativa
ai sensi della legge 15 marzo 1997, n. 59

 

ATTI DELLA II
CONFERENZA SULLO STATO
DI ATTUAZIONE DEL CAPO I DELLA LEGGE
15 MARZO 1997, N. 59

A CHE PUNTO SIAMO CON IL "FEDERALISMO AMMINISTRATIVO?"

 

Roma, 25 gennaio 2000
Sala del Mappamondo
Palazzo Montecitorio

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Dichiaro aperta questa conferenza, che ho l'onore di presiedere. Si svolgeranno subito gli interventi autorevoli del Presidente della Camera dei deputati e del Presidente del Senato.

Purtroppo il nostro incontro segue di poche ore un momento particolarmente triste per tutti noi. Ieri infatti è venuto a mancare il professor Giannini, cioè la persona che "sta dietro" tutte le cose di cui oggi ci occupiamo. Egli è stato, per molti che sono qui presenti, il maestro, ma è stato anche il primo ispiratore di queste politiche. Soltanto pochi mesi fa ricorreva il ventennale del Rapporto sullo stato della pubblica amministrazione, che Giannini, come ministro della funzione pubblica, scrisse nel 1979: credo che da quel documento si possa datare la partenza di questo itinerario riformatore nel quale noi oggi, pur tra tante difficoltà, ma con l’impegno di tutti, siamo coinvolti.

Vorrei che questa giornata di lavoro – un’umile giornata di lavoro, ma impegnata e consapevole – fosse il primo omaggio alla sua memoria.

Ho l’onore di dare la parola al Presidente della Camera.

 

Luciano VIOLANTE, Presidente della Camera dei deputati. Ringrazio il Presidente del Senato per essere qui con noi, il Presidente Cerulli Irelli per questa iniziativa, e tutti quanti voi che avete accolto l’invito.

Il 25 marzo scorso, quando la Commissione ha convocato la prima Conferenza sullo stato di attuazione del federalismo amministrativo, i problemi aperti erano principalmente due: la mancata approvazione delle leggi regionali relative alla distribuzione delle nuove funzioni tra regioni ed enti locali e la mancata adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri relativi al trasferimento delle risorse, dei mezzi e del personale degli uffici necessari per l’esercizio delle competenze trasferite dal centro alla periferia.

Oggi, a distanza di dieci mesi, possiamo dire che sono stati compiuti notevoli passi in avanti. La gran parte delle regioni ha approvato le leggi volte a stabilire quali competenze rimangano ad esse e quali invece siano devolute agli enti locali. In particolare, tutte le regioni, con l’eccezione della Campania e del Molise, hanno definito la distribuzione delle competenze in materia di commercio, agricoltura e pesca, trasporto pubblico locale e, ad eccezione della Calabria, in materia di mercato del lavoro.

Rispetto all’attuazione del decreto legislativo n. 112 del 1998, che dispone – come voi ricorderete – il trasferimento di un gran numero di competenze, due terzi delle regioni hanno approvato le leggi regionali di loro spettanza, Veneto e Piemonte si accingono (speriamo che riescano a farlo prima dello scioglimento) ad approvare i relativi provvedimenti, mentre più indietro sono Calabria, Campania e Puglia.

La legislazione regionale, nel complesso, è pienamente in linea con l’obiettivo della riforma di destrutturare il vecchio modello del centralismo regionale e di rafforzare le funzioni di programmazione e indirizzo, lasciando agli enti locali il massimo spazio nella gestione dei compiti amministrativi. In molti casi, inoltre, le leggi regionali hanno portato ad una significativa semplificazione del tessuto normativo regionale nelle diverse materie e all’abrogazione di centinaia di leggi preesistenti.

Maggiori difficoltà, però, anche a causa della complessità tecnica delle rispettive decisioni, incontra il Governo nella predisposizione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di trasferimento di risorse, mezzi e personale. Su questo punto, peraltro, è nato un grande sforzo della Presidenza del Consiglio dei ministri e della Funzione pubblica, per giungere all’approvazione dei provvedimenti entro il prossimo aprile, cioè prima delle elezioni regionali, grazie anche al lavoro del commissario straordinario.

Se ci saranno, come io credo, determinazione e piena collaborazione da parte di tutte le istituzioni coinvolte in questo progetto, ritengo che potremo rispettare il termine del 31 dicembre 2000 per l’entrata in vigore della riforma.

Completare l’attuazione delle disposizioni della "Bassanini 1" è un obiettivo fondamentale, ma altri traguardi, forse ancora più impegnativi, o parimenti impegnativi, dobbiamo sforzarci di raggiungere prima della conclusione della legislatura.

Indico tre priorità, che a mio avviso sono le principali. La prima riguarda la definizione di un quadro completo di strumenti finanziari, tecnici e professionali, indispensabili perché la riforma parta senza i freni, le contraddizioni e le lacune che hanno caratterizzato il decentramento degli anni '70.

Nel quadriennio 1992-1996 il grado di autonomia tributaria dei comuni è cresciuto del 67 per cento e quello di autonomia finanziaria del 42 per cento. Nel 1997 i tributi locali di comuni e province costituivano l’11,8 per cento del prelievo fiscale, nel 1998 tale quota è salita ad oltre il 19 per cento.

A questi dati positivi si aggiungeranno gli effetti considerevoli del decreto legislativo sul federalismo fiscale, in questi giorni all’attenzione del Parlamento. Il provvedimento segna il passaggio dal sistema dell’addizionale al sistema della compartecipazione al gettito di tributi rilevanti come l’IVA. Questo sistema consentirà subito a sette regioni su quindici a statuto ordinario di raggiungere una completa autonomia finanziaria e alle altre di ridurre progressivamente il proprio deficit.

Occorre ora lavorare per garantire anche ai comuni, secondo quanto disposto dalla legge delega n. 133 del 1999, risorse certe, prevedendo forme di compartecipazione all’IRPEF non facoltativa e rivedendo il sistema dei trasferimenti erariali.

Ma, accanto alle risorse finanziarie, è necessario adottare il nuovo sistema di federalismo amministrativo e di strumenti tecnologici di avanguardia e di un adeguato livello di competenze professionali. Sappiamo che questo è per molte regioni uno dei punti più dolenti.

Un passo importante in questa direzione è rappresentato dall’istituzione della Scuola superiore per la formazione e la specializzazione dei dirigenti della pubblica amministrazione locale e delle Scuole regionali e interregionali. La Scuola superiore ha iniziato la propria attività nell’ottobre scorso, con l’apertura del primo anno accademico. Occorre un impegno notevole in questa direzione perché la positiva affermazione del federalismo amministrativo si avrà, naturalmente, se avremo una classe dirigente locale in grado di reggere tale impatto.

Sul piano degli strumenti di azione e di comunicazione, la diffusione di Internet cresce ed è in grado di influenzare positivamente gli interventi di regioni e comuni. Cito molto rapidamente alcuni dati. Nelle cosiddette città digitali l’88 per cento dei servizi relativi a concorsi, gare ed appalti, l’81 per cento dei servizi del tempo libero, il 48 per cento dei servizi relativi a trasporto e mobilità, il 21 per cento dei servizi relativi alla sanità sono offerti per via informatica e sono giudicati di buona qualità. L’obiettivo è quello di far crescere il numero degli enti locali inseriti nella rete. Infatti, se il 24 per cento ed il 21 per cento degli enti locali, rispettivamente dell’Emilia-Romagna e della Toscana, offrono servizi attraverso Internet, solo il 5,7 per cento, in media, degli enti locali delle regioni meridionali ha un proprio sito. Mi è però capitato ieri, in un medio comune campano, San Giorgio a Cremano, di vedere che c’è un programma molto rapido per sviluppare una rete di servizi telematici ad uso dei cittadini.

La seconda priorità riguarda la maturazione, da parte dei comuni, della capacità di lavorare insieme, mettere insieme risorse e progetti. Una parte rilevante di questa conferenza è dedicata giustamente alle esperienze di associazionismo comunale, come presupposto essenziale della riforma del federalismo amministrativo. Non si tratta di costruire forme di aggregazione artificiale o modelli coattivi. Si tratta di favorire, così come avviene ad esempio in una esperienza centralistica come quella francese, forme spontanee di organizzazione tra le diverse realtà locali, in grado di offrire un livello capillare di servizi anche alle comunità più piccole. Le modifiche della legge n. 142 del 1990, approvate dal Parlamento nel luglio scorso, vanno in questa direzione.

L’Italia dei comuni sarà chiamata, nei prossimi anni, a mettere insieme la salvaguardia delle identità con la modernità. La sfida che abbiamo di fronte è salvaguardare storie, culture, tradizioni, specificità municipali senza chiusure.

I dati raccolti fino ad oggi sono promettenti. Secondo un’indagine del FORMEZ del settembre 1999, il 46,7 per cento dei comuni definiti capofila dei sistemi locali di lavoro e dei comuni con più di trentamila abitanti avevano stretto rapporti di collaborazione con altri comuni o con associazioni di categoria per l’attivazione dello sportello unico.

La terza ed ultima priorità riguarda l’omogeneità e il consolidamento del progetto di riforma del decentramento amministrativo.

Innanzitutto il consolidamento: c’è stato un grosso impegno in questi anni perché la riforma della legge n. 59 andasse avanti sui propri binari, in modo autonomo dal processo di riforma costituzionale che, come sapete, è stato bloccato: anche se qualche risultato costituzionale si è avuto, come l’elezione diretta dei Presidenti delle regioni a statuto ordinario (cosa molto importante), mentre al Senato è all’esame l’elezione diretta dei Presidenti delle regioni a statuto speciale ed io conto di proporre alla Conferenza dei capigruppo di porre all’esame dell’Aula, per metà febbraio, la riforma federale dello Stato: la discussione sulle linee generali si è già esaurita, dobbiamo esaminare i singoli articoli.

Per quanto riguarda la questione dell’omogeneità, rischiamo di scivolare verso un paradosso. Le regioni a statuto ordinario, infatti, grazie all’approvazione della legge n. 59 e della legge costituzionale sull’elezione diretta del Presidente, hanno una velocità di modernizzazione istituzionale e amministrativa molto più alta di quelle a statuto speciale. Basti pensare che, tra queste ultime, soltanto Valle d’Aosta, Trentino e Friuli hanno un livello di decentramento amministrativo in linea con i principi della legge n. 59. Sardegna e Sicilia sono molto indietro. L’Assemblea regionale siciliana non ha ancora iniziato l’esame dei disegni di legge presentati dalla Giunta nel maggio 1999. Nessuna iniziativa è stata assunta dalla regione Sardegna.

Il disegno di legge costituzionale per l’elezione dei Presidenti delle regioni a statuto speciale è all’esame del Senato, come ho detto, ed io spero che entrambe le Camere possano lavorare per mettere a punto un quadro costituzionale utile, il più presto possibile.

Superare i ritardi che sinora abbiamo messo in campo è indispensabile per far in modo che la costruzione del federalismo, sui due versanti, ordinario e costituzionale, avvenga in modo equilibrato.

Io ringrazio tutti voi per essere qui presenti e mi permetto di dare la parola al Presidente del Senato.

 

Nicola MANCINO, Presidente del Senato della Repubblica. Ringrazio il Presidente della Camera e porto il saluto dell’Assemblea di Palazzo Madama a tutti i partecipanti.

Farò qualche riflessione sul piano generale, apprezzando l’iniziativa, che consente di avere un quadro d’insieme capace di valutare l’incidenza e il tasso di attuazione di riforme importanti che sono partite in questa legislatura, dal punto di vista formale, attraverso le proposte Bassanini. Siamo all’interno dell’ordinamento, con una forte accentuazione del decentramento amministrativo, ed il federalismo amministrativo è un dato di fatto di cui non possiamo non tener conto.

Non ripeterò le osservazioni – che condivido – avanzate autorevolmente dal Presidente Violante. Dico che, dal punto di vista generale, c’è una riflessione sul grado di adempimento e sulla sensibilità rispetto ad un impianto di decentramento che si è dimostrato molto valido. La dicotomia, cioè, sul piano territoriale purtroppo si accentua anche di fronte al decentramento amministrativo. Tale dicotomia si ricollega ad altra dicotomia che abbiamo registrato durante gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, dopo il decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977. Allora ci avvalemmo dell’apporto notevole di dottrina e di esperienza della "scuola Giannini". Io, per essere stato relatore su uno dei settori trasferiti alle regioni, ricordo, soprattutto nel settore delle infrastrutture, l’apporto dottrinale e culturale di un autentico maestro, la cui perdita va qui anche da me valutata come un evento negativo.

Bassanini ha avuto la fantasia di prevenire le difficoltà: le ha anticipate dentro di sé. Del resto, l’attuazione delle riforme costituzionali ha trovato impedimenti proprio nel rapporto tra centro e periferia. Centralismo e autonomismo si sono scontrati anche in sede di Bicamerale, come anche nel corso della non lunga discussione che si è avuta nella Camera dei deputati.

Tuttavia, l’impianto resta molto valido e può costituire una traccia anche per successive riflessioni dal punto di vista costituzionale. Avere, cioè, rovesciato l’impianto della Carta costituzionale rispetto all’articolo 117 è un fatto molto positivo. Poteva essere anche una arditezza, dal punto di vista costituzionale, però l’esperienza ha dimostrato che avere identificato quali settori sarebbero rimasti al centro (Governo e Parlamento) e quali altri, invece, sul piano generale avrebbero dovuto essere devoluti completamente alle regioni ed agli enti locali, questo rappresenta un fatto positivo.

Noto che c’è molta resistenza, in alcune regioni, in termini di cooperazione, per dare pienezza ad un principio che è stato sempre sottolineato come positivo: l’attribuzione ai livelli comunale e provinciale di una serie di competenze e di funzioni che sono necessarie anche per riformare la regione stessa attraverso un processo autonomo da parte dell’operatore regionale. C’è chi ha avuto maggiore sensibilità, c’è chi ne ha avuta un po’ meno e c’è chi non ne ha avuta affatto, come è dimostrato anche dalle statistiche. La dicotomia si approfondisce anche in questa occasione.

Vorrei dire che, dopo un approfondimento, un’indagine conoscitiva portata avanti dalle due Camere attraverso le presidenze delle Commissioni finanze e tesoro nello scorso anno, si può ritenere che anche la bozza di decreto delegato presentata dal Governo e all’esame delle Camere si inserisce in questo contesto, ha una sua coerenza ed ha anche dei limiti. Non possiamo non sottolineare che altro non può fare il Governo, perché si tratta di provvedimenti all’interno della Costituzione vigente, non potendo andare esso oltre la Costituzione: ma non potendo neppure andare oltre un impianto fiscale che è quello degli anni ’70, che è centralista e al massimo può prevedere una compartecipazione al livello delle istituzioni territoriali. Ma basta la compartecipazione – questa è la domanda – ai fini della realizzazione di una autonomia finanziaria, sia a livello di enti locali tradizionali (comuni e diciamo anche province), sia a livello di regione?

Credo che qualcosa in più venga chiesto al Parlamento, non tanto al Governo, perché credo che il Governo abbia correttamente utilizzato l’ordinamento per inviare ai due rami del Parlamento una bozza di federalismo fiscale (per quanto possibile). Le quote di compartecipazione non soddisfano le regioni e non soddisfano i comuni. Dovremmo – questo è un invito alla riflessione, a partire, credo, da noi Presidenti dei due rami del Parlamento – considerare che il processo riformatore ha bisogno di un rilancio e non può arenarsi: anche se i tempi sono così stretti e così avara è la relazione politica sul piano parlamentare che ritenere di poter affrontare la riforma fiscale complessivamente per arrivare all’autonomia finanziaria completa (ciascun comune decide, ciascuna regione decide, nell’ambito e nei limiti dei tetti prefissati dal legislatore nazionale) mi sembrerebbe una petizione un po’ astratta. Però è un problema che esiste: come realizzare l’autonomia finanziaria, nel momento in cui il processo di federalismo avanza, sia su piano dell’ordinamento vigente, sia sul piano delle riforme costituzionali. A me fa piacere che la Camera abbia la prospettiva di affrontare, nelle prossime settimane, la questione del federalismo fiscale. Posso dire che, per quanto vi sia una diversità di opinioni nell’ambito delle regioni a statuto speciale, tuttavia il disegno di legge per queste ultime viene sollecitato anche da quelle regioni che sembrano un po’ più ferme rispetto alle altre. Ho avuto richieste di audizione sia da parte di livelli istituzionali delle due regioni (Sicilia e Sardegna) sia da parte di alcune forze politiche che sono interne ai due istituti regionali.

Il Senato farà la sua parte al più presto, proprio per realizzare un’omogeneità tra un avanzamento che bisogna dire essere intervenuto – quello delle regioni a statuto ordinario – ed un fermo, una stagnazione che riguarda le regioni a statuto speciale.

Questo posso dire, dal punto di vista generale. C’è un problema – approfitto della presenza del ministro Bassanini – di burocrazia. Il legislatore è andato molto al di là delle possibilità che la burocrazia oggi offre, a livello anche di trasferimenti di personale da un ente ad un altro. Io ricordo quello che è avvenuto con l’attuazione delle regioni. All’epoca io ero Presidente di giunta regionale, nel 1972. Non credo che le regioni possano attestare la positività del trasferimento, così come avvenne all’epoca. Molti dei guasti a livello di regioni, infatti, sono riconducibili anche ad una insensibilità del legislatore dell’epoca rispetto all’esigenza di rafforzamento della burocrazia regionale, meno sollecitata da incentivi e più coerente rispetto anche alla sua appartenenza sul territorio.

Credo che questo settore della burocrazia debba essere particolarmente valutato, soprattutto dalla Funzione pubblica e dal ministro che ne è titolare. C’è bisogno di una cultura degli apparati che sia coerente con le profonde innovazioni che sono state introdotte attraverso la Bassanini. Questo processo di decentramento non si chiude immediatamente, e non si chiude neppure con gli adempimenti legislativi da parte delle regioni: ha bisogno di un consolidamento che è dato soltanto dall’esperienza. Ma se da parte del legislatore nazionale, attraverso segnali significativi, come è anche questa giornata di approfondimento, verrà un input, io posso dire che c’è grande sensibilità in periferia; e la Conferenza Stato-regioni sta anche a dimostrare che il termometro della progressione nella direzione del federalismo amministrativo, sul piano generale, è dato anche dall’apporto che verrà oggi da questa riunione, attraverso gli interventi dei presidenti delle giunte regionali e degli amministratori che sono presenti. Molti amministratori sono anche parlamentari, e questo è un fatto positivo.

Auguro a tutti buon lavoro. Prendo atto che la Commissione presieduta dall’onorevole Cerulli Irelli lavora intensamente, come è dato registrare anche dalla sua produzione.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Ringraziamo molto i due Presidenti per il contributo fornito.

Il mio intervento ha la funzione di una breve introduzione. Siamo qui per fare il punto, come è stato già detto, sullo stato di attuazione del Capo I della legge n. 59, quello dedicato al decentramento amministrativo (il cosiddetto federalismo amministrativo), ben consapevoli che si tratta soltanto di un pezzo di un più complesso progetto di riforma che vede almeno altri due punti altrettanto importanti e anch’essi compresi nel disegno della legge. Il primo è quello relativo alla riforma delle strutture organizzative statali, al quale abbiamo messo mano la scorsa estate, tra l’altro con due decreti di fondamentale importanza, relativi al nuovo assetto dell’organizzazione del Governo e al nuovo assetto della Presidenza del consiglio; mentre l’altro, il "terzo pezzo", è relativo, direi, agli strumenti dell’operare delle pubbliche amministrazioni, testé giustamente sottolineati dal Presidente Mancino: cioè disciplina del personale, innanzitutto, disciplina degli strumenti tecnici (cose, queste, che stanno nel disegno della legge n. 59 e delle altre leggi collaterali), ma anche (e questo non c’è nella legge n. 59) una nuova disciplina, un nuovo concetto del modo di operare delle pubbliche amministrazioni in quanto a disciplina giuridica applicabile, e cioè il diritto amministrativo. Diritto amministrativo che sicuramente deve essere ripensato, deve essere adattato alle esigenze di una società moderna, deve essere reso più flessibile, deve potersi coniugare più facilmente e più speditamente con strumenti giuridici di diritto comune, come peraltro il testo della Commissione bicamerale aveva a mio giudizio correttamente indicato. Di questa parte tutti noi siamo consapevoli, come presupposto ineliminabile della riforma, anche se in questo momento non ce la troviamo di fronte come un punto immediato all’ordine del giorno.

Più in particolare, l’oggetto della nostra riflessione di oggi riguarda l’attuazione dei decreti legislativi. I decreti legislativi previsti dalla legge sono stati tutti adottati, credo con un disegno che tutti condividiamo come ampio e ambizioso. Qualcuno di noi, almeno su alcune parti, l’avrebbe voluto più ampio, più ambizioso; qualcuno ha avuto modo di riscontrare come, rispetto al disegno della legge, i decreti legislativi in qualche modo abbiano dovuto fare qualche piccolo passo indietro, ma in ogni caso ci troviamo di fronte ad un’attuazione legislativa che può essere considerata, nel complesso, soddisfacente. Basta sfogliare il decreto n. 112 per rendersi conto del nuovo assetto della distribuzione del potere amministrativo tra il centro e la periferia; di quanto esso sia incisivo rispetto alla situazione precedente.

Il problema adesso, è di attuare i decreti legislativi. Questo perché, come qui dentro tutti ben sappiamo, il legislatore della legge n. 59, a differenza del legislatore degli anni ’70, ha inteso procedere al trasferimento in maniera più concreta e realistica, subordinando il processo concreto di trasferimento ad alcuni passaggi organizzativi, finanziari e procedurali che costituiscono il presupposto perché il trasferimento delle funzioni e dei compiti possa effettivamente attuarsi.

Questi passaggi li conoscete: sono principalmente due, ma io ne aggiungerei poi un terzo.

Il primo è il presupposto ineliminabile, senza il quale il trasferimento non avviene, ed è il procedimento di individuazione puntuale delle risorse, finanziarie, strumentali ed umane, che settore per settore debbono essere trasferite alle regioni e agli enti locali; procedimento, questo, che è in corso ed oggi siamo qui anche, e forse in primo luogo, per fare il punto su di esso: a che punto siamo con questo procedimento di individuazione, che tempi ci diamo perché possa concludersi. Anche perché tutti riteniamo che questo processo entro il 2000 debba concludersi. E perché – il ministro Bassanini ancora recentemente lo ha ricordato, ma nessuno di noi, su questo punto, credo dubitasse dell’impegno massimo del Governo – questo avvenga entro il 2000, occorre che entro il 2000 i decreti di trasferimento si facciano.

Sentiremo poi dal consigliere Pajno – che fortunatamente è ritornato a guidare questo processo – a che punto siamo.

Il secondo passaggio riguarda le leggi regionali. Infatti, anche qui il legislatore, credo con qualche saggezza, ha ritenuto che le leggi regionali attraverso le quali l’esercizio del potere nei diversi settori verrà allocato ai diversi livelli territoriali dovessero precedere il trasferimento. Il trasferimento, cioè, avviene concretamente a fronte di un quadro regionale definito dalle singole leggi regionali, e non già rinviato sine die come si fece negli anni ’70. Ora, le leggi regionali sono state tutte adottate, sono tutte in corso di attuazione; e presentano un quadro molto articolato, anche differenziato.

Anche qui, da parte di molti di noi si sarebbe voluta una più accentuata tendenza da parte regionale verso il decentramento; credo però che possiamo riscontrare realisticamente un salto di qualità rispetto a quella che era stata la legislazione regionale attuativa del decreto n. 616, cioè una maggiore sensibilità verso le esigenze di decentramento.

Ora, su questo secondo punto ci troviamo di fronte ad un grande ed importante ostacolo (se così lo posso chiamare), sul quale oggi siamo qui chiamati a riflettere. L’ostacolo, che non è soltanto un ostacolo, ma è soprattutto una grande opportunità di riforma, deriva anch’esso da una visione molto chiara del legislatore della legge n. 59, il quale è partito dalla consapevolezza che, nel momento in cui si intendeva attuare appieno il principio di sussidiarietà, e quindi decentrare al massimo il potere di governo e amministrazione, si dovesse prendere atto del fatto che il governo locale, segnatamente a livello comunale, non presenta generalmente dimensioni territoriali, organizzative e capacità di governo, adeguate. Questo perché il sistema comunale è quello che è, deriva dalla tradizione storica e, appunto, nella gran parte del paese presenta dimensioni organizzative non adeguate. Tutto qui.

Cosa ha detto, allora, il legislatore? Innanzitutto ha inserito il principio di differenziazione, novità assoluta nel panorama legislativo italiano, dicendo cioè che il processo di decentramento andava fatto tenendo conto che gli enti locali non sono tutti uguali, anche se si chiamano tutti allo stesso modo; e in secondo luogo ha inserito il principio di adeguatezza, dicendo al Governo (cioè al delegato) che il trasferimento andava fatto tenendo conto in concreto della capacità di governo di ciascun ente, e laddove questa capacità di governo non si riscontrasse in concreto, imponendo (io dico: imponendo; ma poi vedremo meglio questo punto) delle forme associative. In altre parole, il governo locale, al livello comunale, laddove in concreto non presenta delle dimensioni adeguate, si ricompone attraverso forme associative.

Questa è la visione del legislatore; prendendo atto (direi anche sulla base dell’esempio importante che ci viene dalla Francia) del fallimento della politica delle fusioni, che non ha possibilità alcuna di ottenere dei risultati in questo Paese, come non ce l’ha avuta in Francia. E, una volta fallita la politica delle fusioni – fallimento che noi consideriamo anche un fatto positivo, perché l’autonomia comunale è una grande ricchezza politica del paese ed il fatto di essere gelosi della propria autonomia è un fatto importante – resta la politica dell’associazionismo.

Le leggi regionali hanno risposto a questa impostazione del legislatore nazionale e tutte hanno stabilito che in ambito locale vadano definiti dei livelli ottimali di esercizio delle funzioni, attraverso l’individuazione di ambiti territoriali nei quali i comuni sono chiamati ad associarsi, stabilendo i comuni stessi autonomamente le forme associative adeguate all’esercizio delle funzioni e anche sulla base delle leggi comunali e provinciali, da ultima la legge n. 265 del 1999, che danno libertà di forme associative: si passa dalla semplice convenzione, che il legislatore della legge n. 265 ha fortemente valorizzato, fino all’unione di comuni, cioè ad un ente strutturato vero e proprio.

Ecco, su questo secondo punto ci troviamo in un momento di impasse, perché le leggi regionali – tutte, ripeto – prevedono questo passaggio, prevedono dei termini, che sono quasi dappertutto scaduti o comunque in scadenza, prevedono degli esiti, una volta che i comuni, nei diversi ambiti, non riescano a trovare delle forme associative di comune accordo, spontaneamente. Che cosa succede, dunque, se questo non avviene? Che cosa succede nelle more? Occorre chiederselo, anche perché questo processo sarà comunque lungo e complicato, e certo non facilitato dal fatto che in questo anno ci troviamo di fronte all’importante appuntamento elettorale del prossimo mese di aprile. Che cosa facciamo del trasferimento, fintanto che questo processo aggregativo non si è concluso?

Alcune regioni hanno previsto delle forme sostitutive: ad esempio, hanno previsto che nelle more le funzioni vengano allocate a livello provinciale. Altre regioni hanno previsto degli interventi sostitutivi di tipo imperativo da parte dell’autorità regionale, e questo dà luogo a qualche perplessità. Che la regione possa determinare autoritativamente un ambito territoriale, questo sì; ma che la regione possa costituire con proprio atto una struttura associativa comunale, francamente mi sembra più difficile, anche sul piano tecnico, oltre che in termini costituzionali.

Si tratta quindi di vedere a che punto siamo, innanzitutto, e abbiamo chiamato degli amministratori a riferire su iniziative che stanno sorgendo nel paese (ringrazio, in particolare, il Presidente Torchio); ma siamo qui anche per definire (e sentiremo come la pensa su questo punto il ministro Bassanini) che cosa succede intanto, nelle more, in esito a questo processo.

Il terzo punto a cui accennavo, che non è propriamente un presupposto del processo di trasferimento ma ad esso si deve accompagnare, riguarda il riordino ovvero la soppressione di strutture amministrative e organizzative dello Stato interessate – così dice la legge – al processo di trasferimento, le quali dovranno essere appunto oggetto o di riordino o di soppressione, attraverso un atto regolamentare del Governo. Abbiamo predisposto, sulla base del decreto n. 112 e degli altri decreti in materia, un elenco cospicuo di strutture oggetto di riordino o di soppressione: ecco, su questo punto, a quanto ci risulta, l’attività organizzativa attraverso l’adozione degli atti regolamentari non è ancora iniziata, o comunque non abbiamo avuto ancora riscontro di tale attività.

Tutto questo, questi tre punti fondamentali che dobbiamo esaminare, con particolare riferimento ai primi due, viene tuttavia a dislocarsi in un quadro del governo regionale e locale che, come molto opportunamente ha prima ricordato il Presidente Violante, si è venuto in questi anni notevolmente modificando sul lato finanziario. Vorrei soltanto ricordare alcuni dati. Sulla finanza comunale, dal 1990 al 1997 (a cui si riferisce l’ultimo dato che abbiamo disponibile sulla base della relazione della Corte dei conti), i trasferimenti erariali sono passati dal 66 per cento circa al 37 per cento circa e la restante parte è stata compensata con entrate proprie. Sul versante delle province, il processo fino al 1997 è stato molto più lieve ed infatti in quell’anno i trasferimenti hanno rappresentato ancora il 74 per cento circa della finanza provinciale; però per effetto del decreto legislativo n. 446 del 1997, a partire dall’anno 2000 i trasferimenti erariali si riducono di circa 3.500 miliardi, che rappresentano il 40 per cento della finanza provinciale, tant’è che nella recente assemblea dell’UPI quest’ultima ha portato dei dati di proiezione che al 2000 farebbero ammontare i mezzi propri utilizzati dalla finanza provinciale a circa il 56 per cento del totale. Si tratta di un cambiamento sicuramente molto significativo.

Sul versante regionale, nel 1998 l'ammontare dei trasferimenti statali è stato di circa 90 mila miliardi. Si tratta di una cifra di poco superiore a quella che si riscontrava nel 1990, nonostante che in questi dieci anni la lira abbia modificato il suo valore; mentre, per quanto riguarda l’ammontare dei mezzi finanziari propri, le entrate correnti nel 1990 erano pari a 96 mila miliardi e nel 1998 a 162 mila miliardi; e di esse le entrate tributarie a 70.600 miliardi nel 1998, a fronte di 9.000 nel 1990, con una situazione, quindi, totalmente modificata. Ci troviamo cioè di fronte al fatto che la finanza regionale ormai è costituita per una percentuale che sfiora il 60 per cento (56-57 per cento) da mezzi propri. Per effetto del decreto legislativo sul federalismo fiscale si verificherà nel 2001 una diminuzione di circa 40 mila miliardi dell’ammontare dei trasferimenti statali e a fronte di essi di una percentuale di partecipazione delle regioni al gettito fiscale, soprattutto sul versante dell’IVA, ma anche sull’addizionale IRPEF, di somma corrispondente.

Perché porto questi dati? Perché credo che essi delineino una base organizzativa e finanziaria di partenza sulla quale noi adesso andiamo ad inserire il processo di decentramento: una base che si è venuta formando in questi anni per effetto di altre leggi, che hanno accompagnato il nostro processo ma che certamente mutano fortemente il quadro. Passiamo da un sistema di finanza quasi totalmente derivata ad un sistema di finanza che vede come componente maggioritaria i mezzi propri delle regioni e degli enti locali.

Colleghi ed amici, questo grosso modo è il quadro sul quale noi oggi siamo chiamati a lavorare. Io termino qui perché dovevo soltanto introdurre il dibattito e portare alcuni dati, e do la parola al collega onorevole Frattini.

 

Franco FRATTINI, Membro della Commissione. Ringrazio anzitutto il Presidente Cerulli Irelli che ha organizzato questo incontro e che mi ha invitato a prendere la parola in questa occasione. La mia prima considerazione, nel quadro di quella che sarà una riflessione generale sullo stato dell’arte del percorso attuativo della riforma amministrativa, è una considerazione che faccio quale componente dell’opposizione che crede fermamente che questa riforma si debba portare a compimento e che ha cooperato e ritiene che si debba continuare a cooperare affinché questo percorso, ovviamente nell’interesse non soltanto del sistema centrale del Governo e dello Stato ma di tutto quel mondo degli enti territoriali che aspettano da tanti anni il compimento di questa riforma, venga completato nei tempi programmati.

La prima caratteristica, che io vedo e che è di estrema importanza e di estremo interesse per tutti noi, è quindi che si tratta di un percorso condiviso. E quando un percorso è politicamente condiviso dalle maggioranze e dalle opposizioni, si tratta sicuramente di un percorso più forte, rispetto al quale tutti sono nelle condizioni ed hanno la volontà di impegnarsi a fondo.

E’ una sfida, senza dubbio, non solo istituzionale, ma anche culturale. Lo ha detto molto bene il Presidente del Senato nella sua introduzione; ed a questo proposito io vorrei dire che certamente leggi e regolamenti di riforma, anche molto coraggiosi, come quelli che il ministro Bassanini ha messo in campo all’inizio di questa legislatura, non significano in modo automatico cambiamento. Sono l’apertura di una sfida, su cui l’attenzione deve rimanere alta. Vorrei dire, a dieci mesi dall’ultimo incontro che il Presidente Cerulli Irelli aveva organizzato ancora per fare il punto della situazione, che oggi la prima necessità per tutti noi è proprio quella di mantenere alto il livello di guardia e di attenzione su una riforma che – uso un’espressione volutamente forte: mi perdonerà il ministro Bassanini – è in mezzo al guado. Noi dobbiamo aiutare questa riforma ad uscire e ad andare dall’altra parte del fiume.

Lo dico perché le attese dei cittadini viaggiano più velocemente dei risultati di questa riforma. Forse, quindi, il danno maggiore per tutti noi che crediamo in un simile percorso sarebbe quello di far venir meno le grandi attese del paese per una riforma che, essendo stata programmata in modo serio, ha suscitato appunto delle forti attese: ebbene, la disillusione di queste attese sarebbe forse la pietra tombale per l’attuazione di un simile percorso.

Ecco perché io credo che si tratti di una questione culturale e politica, oltre che strettamente istituzionale e normativa. Quali sono i punti a mio avviso prioritari perché questo cammino possa proseguire e concludersi?

Una riflessione, anzitutto, sul sistema normativo. Io credo che questo sistema sia ancora oggi tanto saturo e farraginoso, vorrei dire, da imporre una riflessione di questo tipo: se in alcuni settori, oltre (e forse anche piuttosto) che, pensare a forme di migliore regolazione, come sono ad esempio i percorsi di delegificazione e di semplificazione, non sia opportuno fermarsi brevemente e riflettere sull’opportunità di una moratoria normativa completa. Questo perché c’è una preoccupazione che io vedo: i tempi urgono, i tempi per l’attuazione delle varie fasi sono stretti, c’è il rischio che affrettarsi nel regolare per migliorare finisca per aggiungere tessuto normativo su un altro tessuto normativo che, con una pausa di raffreddamento e di riflessione, si sarebbe potuto forse meglio studiare nel suo quadro complessivo. Questo non dovunque, ma ci sono dei settori in cui a mio avviso una moratoria normativa, di ogni grado ovviamente, e sia pure temporanea e limitata, permetterebbe tale riflessione, allo scopo di valutare meglio in quali ambiti si debba proseguire con il percorso della miglior regolazione e in quali ambiti sia opportuno scegliere la deregolazione. Si tratta, come sapete, di due strade non coincidenti. Sistemi di tradizione anglosassone, che avevano tradizionalmente scelto la deregolazione, hanno di recente adottato la via della migliore regolazione, quella cioè di sostituire una regola non con il mercato e con la competizione, ma con una regola migliore. Non credo che questo percorso possa essere generalizzato a tutti gli ambiti in cui stiamo operando, e quindi si richiede un quadro tecnico-normativo completo per i vari stati d’avanzamento che restano da qui alla fine del percorso di attuazione.

Credo invece che, proprio per rispondere a quella preoccupazione che ho rapidamente enunciato, relativa alle attese dei cittadini, qualche risultato tangibile, che non sia solamente – senza nulla togliere all’importanza di tale percorso – la sostituzione di certificazioni con le autocertificazioni, che sono pur sempre certificazioni, forse potrebbe essere colto con l’eliminazione delle certificazioni stesse. Ora, è chiaro che questo non può essere un discorso generalizzato; ma valutare dove accelerare sulla deregolazione è forse uno sforzo che in questo percorso dobbiamo cercare di realizzare.

Sempre funzionale, poi, allo sviluppo di quello che chiamiamo federalismo amministrativo per comodità di lettura credo sia una riflessione attenta su quel principio di sussidiarietà orizzontale che, come il ministro Bassanini ben ricorda, molti di noi, ed io stesso, avevano fortemente sottolineato e che – debbo dirlo – in una visione originaria del quadro normativo da parte del Governo era addirittura più forte (e più condivisa personalmente da me) di quello che poi è diventato legge dello Stato. Voglio dire che ci trovammo all’inizio con il ministro Bassanini più a condividere l’ipotesi originaria, che vedeva un più forte ambito di sussidiarietà orizzontale, rispetto a quello che poi il Parlamento ha definito come norma di legge. Ebbene, io credo che un rafforzamento dei percorsi di devoluzione dalla mano pubblica al sistema del mercato, al sistema delle autonomie, alla competizione, di importanti settori, un’accelerazione di tale percorso, giovi molto al federalismo amministrativo. E’ infatti fin troppo evidente che, sottraendo settori assai onerosi, per gli impegni che richiedono, agli enti territoriali, e restituendo questi settori alla dinamica della società civile, del mercato, della competizione, si aiutano gli enti territoriali a fare di meno ma a fare meglio quello che resta loro da fare.

Qui c’è un tema su tutti: il tema dei servizi pubblici locali. Credo che il Parlamento debba compiere uno sforzo straordinario per una grandissima accelerazione. C’è un percorso di riforma, al Senato, che – voglio dirlo – da troppo tempo è aperto. E’ ormai tempo che quel provvedimento arrivi all’Assemblea e poi alla Camera dei deputati per diventare rapidamente legge: beninteso sulla linea di una vasta azione di liberalizzazione dei servizi pubblici locali, per la quale io credo ci debba essere più coraggio di quanto finora non ci sia stato da parte di tutte le forze politiche: perché chi governa e chi è all’opposizione, sia al centro sia alla periferia e negli enti territoriali, quando ha in mano i meccanismi decisionali, poi deve tradurre in decisioni i propri principi, anche in tema di liberalizzazione e di privatizzazione dei servizi pubblici locali.

Credo si tratta di un tema strategico per il Parlamento, perché da due anni – ed è forse un pochino troppo! – questo provvedimento langue. Tutti ricordano che era addirittura il collegato ad una delle finanziarie; poi, è andato in una sorta di binario morto.

E’ chiaro che l’altro punto che io vedo come prioritario è una accelerazione delle regole sulla flessibilità del lavoro pubblico e sulla formazione del personale: è stato detto anche dal Presidente Violante, ed io riprendo quelle considerazioni, che non soltanto condivido ma estendo, dicendo che dare agli enti territoriali un quadro di regole e di funzioni amministrative e non accelerare gli strumenti di governo del personale pubblico rende incompleta la nostra opera. La formazione è materia su cui ho visto che il ministro Bassanini è particolarmente sensibile, ed io credo che sia un tema strategico: noi tutti lo sappiamo, siamo lontani dalla media europea di percentuale dello stanziamento per la formazione del personale pubblico, in rapporto al cosiddetto monte salari. Quindi, il budget percentuale assegnato alla formazione è ancora troppo basso.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Un piccolo salto c'è stato.

 

Franco FRATTINI, Membro della Commissione. Sì, c’è stato un incremento, non c’è dubbio: ma dovremmo riuscire ad arrivare a quella media europea che sfiora il 2 per cento del monte salari. Io ricordo che nel 1995, con una direttiva che varai dalla Funzione pubblica, auspicavo di arrivare all’1 per cento. Oggi quel livello lo abbiamo fortunatamente superato, grazie agli impegni del ministro Bassanini, ma siamo lontani dal tetto del 2 per cento che credo sarebbe un segnale significativo e che paesi europei più virtuosi del nostro hanno già da tempo raggiunto.

In tale ambito, proprio sugli strumenti per governare la macchina amministrativa, non voglio dimenticare l’informatizzazione. Occorre a mio avviso accelerare la realizzazione della rete unitaria della pubblica amministrazione. Anche qui, non dimentichiamo che è un percorso che inizia da lontano e abbiamo ancora testimonianza di ministeri che al loro interno applicano e utilizzano sistemi che non parlano tra loro! Ci sono strutture ed enti che hanno realizzato reti unitaria pilota e le propongono come la rete unitaria della pubblica amministrazione, ma non possono essere quelle reti settoriali a diventare la rete unitaria della pubblica amministrazione. Altrimenti, vuol dire che manca quella cabina di regia che il Governo cinque anni fa aveva avviato e che si deve a mio avviso rapidamente sviluppare.

Il terzo punto che io credo si debba ricordare tra le priorità è proprio quello menzionato dal Presidente Cerulli Irelli: l’esistenza di un quadro unitario tecnico-economico per gli enti territoriali. Questo quadro unitario deve avere un proprio scopo: dare certezza temporale per le varie fasi del percorso attuativo. A questo proposito, io mi rendo conto che negli auspici di tutti di noi e negli impegni che ognuno per propria parte si assumerà c’è quello di arrivare al 31 dicembre 2000 con un percorso sostanzialmente definito. Ho l’impressione che occorrerebbe definire e predeterminare delle tappe intermedie. In altri termini, dicendo: "Arriveremo al 31 dicembre 2000" e non dando delle scansioni temporali da qui a quella data rischiamo di attenuare le certezze, gli affidamenti degli enti territoriali. Credo che questo quadro unitario tecnico-economico dovrebbe contenere i passaggi intermedi.

Quali sono le tappe? La prima è certamente quella che ci sarà in qualche modo descritta dal consigliere Pajno, che ovviamente ha preso in mano un fardello onerosissimo, che è quello di governare la fase dell’attuazione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri attuativi di quell’aspetto, indispensabile per la riforma, che è il quadro delle risorse finanziarie alle regioni. Ecco, io credo che se, partendo da quella delicatissima funzione, si dessero delle scansioni temporali certe, probabilmente diventerebbero minori le difficoltà degli enti territoriali, i quali – non dobbiamo dimenticarlo – debbono anch’essi programmare le loro attività in relazione alle risorse stimate entro un determinato periodo: se non forniamo questa stima con dati certi, noi rendiamo un po’ più difficoltoso il rapporto in questa fase importante di assunzione delle funzioni delegate agli enti territoriali. Lo dico più brutalmente: in altri termini, possiamo rischiare che gli enti territoriali ricorrano al solito discorso delle addizionali fiscali. Ora, se dessimo l’impressione che tutto questo percorso di federalismo amministrativo si risolve infine in una pletora di addizionali fiscali regionali, certamente non funzionali agli obiettivi della riforma, che non sono quelli di tassare di più i cittadini sul territorio, probabilmente rischieremmo in questo modo, ancora una volta, di gelare le attese dei cittadini: i quali si aspettavano il federalismo amministrativo e in concreto vedono soltanto le addizionali fiscali regionali. Il quadro delle risorse è quindi assolutamente importante.

C’è un quarto punto che mi sembra necessario ricordare. Vorrei sottolineare questo aspetto, di tutto il percorso di riforma: abbiamo visto finora un percorso che si è attuato attraverso varie forme di regolazione, di attuazione delle deleghe; ora credo che si debba accentuare l’aspetto della gestione di quanto è stato in qualche modo deciso di riallocare in termini di competenze. Dico questo nel senso che quella cultura della responsabilità di governo, sia a livello centrale sia a livello territoriale, deve tradursi in scelte. Finora, le scelte sono state, in parte del Parlamento, in parte del Governo, per dislocare le funzioni amministrative. Ora, io vorrei vedere di più una gestione, un esercizio, sia a livello di Governo, per quanto riguarda gli indirizzi di coordinamento, sia a livello di scelte di politica territoriale, per quanto riguarda le competenze trasferite, sia (non dimentichiamolo mai!) a livello delle competenze della dirigenza pubblica, che di quelle scelte dovrà (vorrei dire: finalmente) diventare compartecipe, anche in termini di responsabilità. Altrimenti, perché ci saremmo tanto impegnati nell’introdurre la regola della valutazione dei risultati della dirigenza pubblica, se non perché abbiamo postulato l’assunzione di responsabilità di gestione da parte di tale dirigenza? Occorre che queste responsabilità comincino finalmente ad essere assunte in capo a chi ne ha le competenze.

Voglio qui riprendere, rapidissimamente, un tema toccato dal Presidente Cerulli Irelli. Se gli enti locali non attuano, ad esempio, e quindi non gestiscono in forma associata quelle funzioni che il sistema dei trasferimenti aveva devoluto e le regioni avevano a loro volta trasferito, che cosa succede? Questo è ciò che si chiede il Presidente Cerulli Irelli. A mio avviso, purtroppo, non può succedere che sulla gestione inattuata vi sia un intervento surrogatorio: perché l’intervento surrogatorio, che abbiamo in qualche modo accettato rispetto alle funzioni normative regionali, sarebbe a mio avviso, sulle funzioni non di regolazione e di normazione ma di gestione, inammissibilmente compressivo dell’autonomia degli enti territoriali. Voglio, più esplicitamente, chiedere: l’associazione tra comuni non realizzata spontaneamente, da chi viene costituita? Chi adotta l’atto costitutivo che surroga quell’azione amministrativa non spontaneamente adottata? Qui, a mio avviso, dobbiamo – purtroppo, io dico – essere rispettosi fino in fondo delle autonomie: denunziare semmai l’irresponsabilità politica di quei comuni che paralizzano alla periferia il percorso di riforma; ma certamente non immaginare un percorso che dall’alto, magari dalla regione, venga a surrogare le inadempienze degli enti locali.

Vengo alla conclusione di questo mio intervento, scusandomi se sono stato un po’ lungo. Il problema della responsabilità è un problema di rafforzamento dell’unità di indirizzo di questo percorso. Io vedo questo rafforzamento necessario al centro e alla periferia, e lo vedo anche per quanto riguarda la "faccia" parlamentare di attenzione di questa vicenda e di questo percorso, e cioè la funzione e il ruolo della Commissione bicamerale che è ora così autorevolmente presieduta dal professor Cerulli Irelli. Questo perché io ho constatato, dalla mia parte e dal mio osservatorio, che in questi anni il ruolo attribuito al Presidente del Consiglio dei ministri, e per sua delega al ministro della funzione pubblica, non ha interessato tutta la complessa articolazione di mezzi e di attribuzioni che un vero governo unitario del processo di riforma avrebbe richiesto. In altri termini – mi perdonerà il ministro Bassanini – credo che la solitudine del ministro della funzione pubblica, che vede ministri di settore intervenire in Parlamento con emendamenti ed iniziative che vanno spesso in controtendenza rispetto al percorso unitario, lascia privo il ministro….

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Questo avviene anche in sede consultiva.

 

Franco FRATTINI, Membro della Commissione. Ne convengo, avviene anche in sede consultiva, certo: lo abbiamo visto tante volte in sede di Commissione bicamerale.

Allora, credo che il primo punto sia rafforzare i poteri di reale coordinamento e indirizzo che sono dati al Presidente del Consiglio e che il ministro della funzione pubblica esercita per sua delega; poteri che non possono essere limitati alla disponibilità, numerica e fisica, vorrei dire, di un manipolo di eccezionali collaboratori, che però si trovano poi a doversi arrendere dinanzi a vicende che avvengono fuori da Palazzo Vidoni.

A questo primo aspetto si collega il ruolo del Parlamento. Noi abbiamo addirittura modificato una norma per "sottrarre" alla Commissione bicamerale il controllo in ordine ai provvedimenti attuativi relativi a materie settoriali. Ebbene, io credo – per carità, non voglio dire cose che dispiacciano ai colleghi delle Commissioni di merito – che o nelle Commissioni di merito vi sarà una percezione dell’unitarietà di questo percorso di riforma, oppure noi rischieremo, nella Commissione bicamerale, di dare indirizzi con una giurisprudenza che è sempre costante e di lasciare poi che nelle Commissioni di merito, che sono più sensibili agli interessi settoriali, arrivino delle proposte di modificazione dei decreti attuativi in controtendenza rispetto al percorso unitario della riforma.

Credo che di questo si possano far carico i Presidenti delle Camere, e se occorre ripensare addirittura quella scelta di sottrazione alla Commissione bicamerale del ruolo di vera cabina di regia consultiva. Qui, a mio avviso – e chiudo davvero – gli interlocutori di sovraordinazione e vigilanza sul percorso di riforma, che ha delle competenze quanto all’iniziativa, dovrebbero e non potrebbero che essere, dalla parte del Governo, un’autorità di governo investita delle funzioni e dei pieni poteri (non credo sia necessario ricordare che negli Stati Uniti si è data al VicePresidente una responsabilità unitaria, un tempo e un obiettivo: qui, purtroppo, non è accaduto) e, dalla parte del Parlamento, il controllo incentrato su un’unica cabina di regia: fermo il controllo delle Commissioni parlamentari di merito, che a mio avviso dovrebbero rappresentare momenti endoprocedimentali di una fase di controllo che dovrebbe vedere solamente nella Commissione bicamerale l’interlocutore finale in grado di valutare il quadro finale complessivo di quanto sta accadendo.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Ringrazio l’onorevole Frattini, il quale, essendo in corso il Comitato parlamentare per i servizi, tra pochi minuti si dovrà allontanare.

Invito il consigliere Pajno, che ringrazio, a prendere la parola. Credo poi che il ministro Bassanini abbia un problema di tempi nel corso della mattinata: cercheremo di organizzare gli interventi in maniera adeguata. Ringrazio anche il ministro del tesoro di essere qui presente: naturalmente, visto che parliamo di trasferimenti delle risorse, credo che il ministro del tesoro sia la responsabilità politica più coinvolta.

Pregherei l’amico Pajno di riflettere anche sulla questione delle scansioni temporali che l’onorevole Frattini ci ha ricordato: di darci cioè il quadro dei decreti in preparazione, dei tempi e delle modalità. Ricordo soltanto che, poco prima di Natale, ai primi di dicembre, abbiamo varato il decreto sulle strade, che prevede un trasferimento veramente massiccio, pari a circa trentamila chilometri di strade statali su 46 mila complessivi, alle regioni e ai poteri locali. Quel decreto è fermo, in attesa del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di trasferimento delle risorse. Un grande settore di trasferimento, quindi, è in realtà ancora "appeso" perché sul versante delle risorse, in quel settore, emergono particolari problemi, anche perché viene coinvolto un ente come l’ANAS.

Questo soltanto come esempio. Prego ora il consigliere Pajno di farci il quadro della situazione.

 

Alessandro PAJNO, Commissario straordinario del Governo per il completamento del federalismo amministrativo.Cercherò, nei limiti del possibile, di dare un quadro che sia il più esauriente e completo delle attività già svolte e delle attività da svolgere. Tenterò anche di dare un’indicazione circa i tempi che ci aspettano e gli adempimenti futuri (dopo il passaggio fondamentale costituito dalla fine della fase istruttoria per la realizzazione dei decreti generali) per la messa a punto complessiva del sistema, in modo da far sì che entro il termine previsto dalla legge, e cioè il 31 dicembre 2000, esso possa andare a regime.

Per dare il senso della dimensione complessiva della riforma, per dare il senso, cioè, da una parte della complessità, sotto il profilo della quantità e sotto il profilo della qualità, delle operazioni da fare, dall’altra delle indicazioni e del modo di lavoro che si è scelto, vorrei raccogliere questa mia relazione in una serie di punti che delineino in modo chiaro il sistema. Vorrei innanzitutto dare un’indicazione del quadro istituzionale all’interno del quale si muove il processo di trasferimento. Vorrei poi dare un’indicazione del quadro costituito dal sistema dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri: perché la verità è che gli articoli 7 della legge n. 59, da una parte, e del decreto legislativo n. 112, dall’altra, costituiscono una sorta di regime speciale del trasferimento, che in qualche modo sperimenta non soltanto una serie di adempimenti, ma anche un metodo di lavoro. Vorrei poi farvi un po’ la cronaca di quelle che sono le operazioni di trasferimento, dei decreti che sono stati già adottati, di quelli che sono già passati nella Conferenza unificata e di quelli che invece debbono ancora essere completati, per dare poi, alla fine, quello che è il possibile calendario degli impegni futuri.

Questo è dunque lo scheletro del discorso che abbiamo di fronte, senza dimenticare che l’importanza di un incontro come questo è del tutto specifica per due ragioni. La prima è che troppo spesso si dimentica che l’attuazione del decreto n. 112 è una parte del complessivo progetto di riforma che è delineato dalla legge n. 59: una parte senza l’attuazione della quale anche le altre rischiano in qualche modo di non andare pienamente a regime. Voglio dire che il decreto n. 112 costituisce un po’ l’altra faccia del decreto di riforma e di riorganizzazione dei ministeri, proprio perché le riaggregazioni delle strutture ministeriali sono state realizzate proprio tenendo presente l’alleggerimento che c’è stato verso gli altri livelli di governo e tenendo presente l’esigenza delle nuove amministrazioni di dialogare con questi diversi livelli di governo. E’ chiaro dunque che le due cose si tengono insieme; e messe insieme, l’attuazione del decreto n. 112 e la riforma dell’amministrazione centrale e periferica dello Stato, costituiscono il più significativo apporto per l’abbandono nel nostro paese del cosiddetto modello ministeriale.

Questo è il quadro, anche culturale, che non bisogna trascurare per capire quale sia, in sostanza, il significato della partita che si sta giocando con il decreto n. 112. Non si sta giocando, cioè, soltanto la partita del trasferimento, ma si sta giocando, appunto, anche quella della rifondazione della macchina amministrativa dello Stato nel suo complesso.

Il quadro istituzionale del trasferimento è scandito da alcune parole d’ordine, che sono alla base dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui ci stiamo occupando. Queste parole d’ordine voi le conoscete già, alcune sono state già pronunciate: superamento del parallelismo tra funzione legislativa e funzione amministrativa, concezione unitaria ed unificante del conferimento, considerazione comune di funzioni delegate e di funzioni trasferite, tassatività dell’elencazione dei compiti riservati allo Stato, con attribuzione degli altri alle regioni, alle province o ai comuni.

Dico questo non per un semplice vezzo culturale, ma perché questa indicazione svela, ad esempio, uno dei possibili compiti ulteriori dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri che sono stati adottati e di quelli che potranno essere adottati. Poiché il sistema di trasferimento di funzioni nei confronti di regioni ed enti locali è un sistema sostanzialmente generale (tutte le risorse sono trasferite, tranne quelle riservate allo Stato), la ricognizione delle risorse, utilizzando i capitoli del bilancio dello Stato e tutti gli elementi che vengono in considerazione, contribuisce a dare corpo ulteriore e, in qualche modo, a dare un maggiore livello di specificazione alle indicazioni che sono state date dal decreto legislativo n. 112.

Sotto tale profilo, pur non avendo ovviamente un contenuto normativo, i decreti di trasferimento, nella misura in cui collegano risorse individuate a funzioni altrettanto specificamente individuate, contribuiscono ad esplicitare il quadro complessivo del trasferimento. E’ per questo che va tenuto presente che, in ogni caso, lo strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di trasferimento delle risorse non si esaurisce una tantum, ma è uno strumento che consentirà anche in futuro, quando l’operazione sarà stata messa a regime, se da una ricognizione più puntuale emergerà l’esistenza di ulteriori risorse e funzioni da trasferire, di provvedere con continuità. Dobbiamo concepire il sistema degli articoli 7 della legge n. 59 e del decreto n. 112 come un sistema permanente di individuazione e trasferimento di risorse nei confronti delle regioni o degli enti locali. Questo è un dato non solo culturalmente, ma anche amministrativamente, significativo.

L’altra indicazione è, come dicevo poco fa, che le due norme contenute nell’articolo 7 della legge n. 59 e nell’articolo 7 del decreto legislativo n. 112 costituiscono un vero e proprio regime speciale del trasferimento di funzioni. Costituiscono un regime speciale perché in realtà non si limitano ad operare questo trasferimento di funzioni, ma contengono almeno altre tre indicazioni importanti, non solo per l’operazione, ma per il quadro complessivo dei rapporti tra sistema del governo centrale e sistema delle autonomie.

Anzitutto, i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri che trasferiscono le risorse fissano, come voi ricorderete, la decorrenza dell’esercizio delle funzioni. Questo significa che costituiscono una sorta di condizione per l’attuazione del decentramento, una condizione per l’operatività reale del decentramento di funzioni. E fissare la decorrenza significa anche porsi il problema del modo in cui si arriva a quella decorrenza, dunque i decreti contengono, all’interno di tale indicazione, una sorta di suggestione, implicita ma chiara, sulla possibilità di inserire lì tutte quelle discipline che in qualche modo aiutino a pervenire alla decorrenza stabilita: non dico una disciplina transitoria, ma una serie di eventuali scalini che servano a mettere a regime il provvedimento.

La seconda indicazione è data dal fatto che le due norme in questione contengono anche un’indicazione dei criteri che debbono assistere i soggetti incaricati di portare a termine queste operazioni. Si tratta di criteri diversi, e non sto qui a ricordarli tutti, però un dato appare significativo, e cioè che il criterio complessivo, quello che alla fine verifica la qualità di tutti gli altri, è il criterio dell’adeguatezza, della congruità. E’ un’indicazione importante per capire il sistema di determinazione delle risorse che viene attribuito ai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, perché tutti gli studi, tutte le determinazioni di contabilità di Stato che vengono fatte per identificare in concreto e per attualizzare le risorse trovano poi la loro valutazione finale in questo giudizio di congruità.

Il terzo elemento, che a mio avviso è quello decisivo per dare il senso dell’operazione e soprattutto per far capire che l’operazione di trasferimento è un’operazione che grava innanzitutto sull’amministrazione statale, ma vede come protagonisti allo stesso titolo gli altri livelli di governo, è il metodo che l’articolo 7 del decreto n. 112 indica per pervenire alla elaborazione di questo tipo di provvedimento. E’ un metodo che vede non la semplice partecipazione di regioni, province e comuni, ma una codeterminazione del sistema complessivo di risorse. Questa indicazione è evidente proprio in quella parte della norma contenuta nell’articolo 7, nella quale si fa riferimento non ad un semplice passaggio per un parere, per un’attività consultiva, in sede di Conferenza unificata, ma al fatto che è l’accordo in sede di Conferenza unificata lo strumento che dà corpo al contenuto specifico del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Gli schemi di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri non passano in Conferenza unificata per un parere, ma in quella sede registrano un accordo dei soggetti istituzionali preposti a questo tipo di indicazione. In altri termini, la procedura di determinazione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri costituisce, sin da adesso, uno di quegli strumenti di cooperazione che più diffusamente in altra parte della legge n. 59 sono previsti fra diversi livelli di governo. La prova di ciò è che lo stesso articolo 7 del decreto n. 112 dà delle indicazioni per l’ipotesi in cui questa cooperazione non riesca ad andare a buon fine: iniziativa del Presidente del consiglio, iniziativa della Conferenza stessa, quando l’accordo non venga raggiunto o vi siano ritardi su queste indicazioni.

Ho delineato un simile quadro perché è quello che abbiamo cercato di riempire di contenuto concreto quando si è passati all’attuazione e al tentativo di messa a regime della dimensione complessiva del trasferimento. Voi ricorderete - perché vi sono stati altri incontri con la Commissione bicamerale e vi sono state anche audizioni informali che in vesti diverse mi hanno visto riferire su queste indicazioni - che questa operazione era partita nei primi mesi del 1999 con la costituzione di un gruppo tecnico all’interno del gruppo di coordinamento per l’attuazione della legge n. 59, gruppo tecnico che presiedevo nella mia duplice qualità di componente del comitato per l’attuazione della legge n. 59 e di capo di gabinetto dell’allora ministro del tesoro, e ciò proprio in ragione della strutturale necessità del criterio di collegamento tra questo tipo di indicazioni. In quella sede si scelse sostanzialmente un metodo di lavoro, che era quello coerente con il quadro istituzionale che io ho descritto: un metodo, cioè, che anzitutto sceglieva di effettuare le operazioni di trasferimento non in relazione, come avrebbero voluto le singole amministrazioni, a singoli ministeri ed agli stati di previsione dei singoli dicasteri, ma in relazione ai tre grandi agglomerati di funzioni che sono indicati dal decreto legislativo n. 112, e quindi l’area territorio-ambiente-infrastrutture, l’area servizi alla persona e alla comunità, l’area, infine, dello sviluppo economico.

Da questo punto di vista, la prima scelta fu quella di operare avendo riguardo a tali aree, seguendo le indicazioni del decreto n. 112, e quindi di istituire dei tavoli tecnici per ciascuna di queste aree, attorno ai quali sedevano le amministrazioni statali interessate, le regioni, le province e i comuni, cioè i soggetti istituzionali chiamati poi a perfezionare il loro concorso nell’accordo di cui si è detto. In questo quadro cambiava la funzione della Presidenza del Consiglio e del Ministero del tesoro, che diventavano, ciascuno per la propria parte, al tempo stesso guida e garanzia della dimensione complessiva dell’operazione. Da questo punto di vista, la Presidenza del Consiglio diventava, come del resto era già stata e come per la verità è nel disegno della legge n. 59, la struttura istituzionale deputata all’attuazione complessiva della riforma, al governo del processo di riforma, ed il Ministero del tesoro diventava il soggetto necessariamente coinvolto in questa operazione, con un ruolo della Ragioneria generale dello Stato che, in qualche modo, si pone al servizio dei diversi sistemi di governo, proprio perché essa diventa lo strumento con il concorso del quale si perviene alla determinazione delle risorse finanziarie.

A questa indicazione istituzionale, contenuta all’interno del decreto n. 112 e della legge n. 59, si accompagna un diverso declinarsi, sul piano delle funzioni, delle amministrazioni dello Stato: vi sono da un lato amministrazioni dello Stato che costituiscono in qualche modo il "contraltare" delle amministrazioni regionali, provinciali e comunali e dall’altro la Presidenza del Consiglio e il Tesoro, che hanno una funzione di indirizzo, di coordinamento, di governo complessivo, politico, istituzionale e finanziario, del sistema. Questa è in qualche modo anche un’anticipazione di quello che potrà essere l’assetto complessivo dopo la messa a regime della riforma dei ministeri: perché noi dobbiamo anche ricordare il fatto che, in questo quadro, amministrazioni come Presidenza e Tesoro avranno il compito di assicurare, sul piano dell’indirizzo e del coordinamento e sul piano dell’impegno finanziario, il collegamento tra i diversi livelli di governo del sistema.

Questa prima fase ha visto il suo dato più significativo nella conclusione di un accordo, portato in Conferenza unificata, tra Stato, regioni, province e comuni, che riguardava la metodologia da adottare per la determinazione delle risorse e per la messa a regime di tutto il progetto. Dico questo perché tale accordo ha subito due aggiornamenti, dopo che l’attività, a seguito della nomina del Commissario straordinario, ha avuto nuovo impulso. In sostanza, alla disciplina originaria contenuta nell’accordo stesso sono state aggiunte altre due disposizioni, che riguardano da un lato la soluzione di alcune questioni contabili, legate soprattutto al valore da attribuire agli interessi, dall’altro l’introduzione di una procedura per assicurare la contestualità dei trasferimenti al sistema delle regioni, delle province e dei comuni e per tentare in qualche modo di coordinare gli adempimenti che spettano allo Stato e agli altri livelli di governo nel prosieguo dell’operazione.

Questa metodologia, che era stata sperimentata in sede di gruppo tecnico, è stata poi ripresa ed è diventata in qualche modo direttiva declinata ufficialmente all’interno del provvedimento di nomina del Commissario straordinario, quando si è dato un assetto ordinamentale più solido ed evidente a questo tipo di procedura, che era stata semplicemente immaginata sulla scorta delle indicazioni emerse.

Una volta effettuata la nomina del Commissario, l’attività si è incentrata sulla conclusione dell’iter procedimentale degli schemi di provvedimento che, durante il lavoro dei tavoli tecnici, erano giunti ad una più avanzata fase di elaborazione. Sono stati così sottoposti alla Conferenza unificata o alla Conferenza Stato-regioni, che hanno espresso il proprio parere favorevole, i seguenti schemi di provvedimento: individuazione dei beni e delle risorse umane, finanziarie, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni e alle autonomie per l’esercizio delle funzioni in materia di incentivi alle imprese di competenza del Ministero dell’industria, del Ministero del commercio con l’estero e del Ministero del tesoro, dipartimento del tesoro; individuazione delle risorse e degli uffici provinciali dell’industria, commercio e artigianato da trasferire alle camere di commercio; è stato approvato lo schema di delibera del CIPE contenente i criteri e le modalità per il trasferimento alle regioni delle risorse collegate alla cessazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno: questo perché con l’accordo che è stato concluso il 22 aprile si è deciso di attribuire al commissario ed ai tavoli tecnici non soltanto i provvedimenti di trasferimento ex articolo 7, ma tutti quelli che in qualche modo, direttamente o indirettamente, fossero in qualche modo collegati con la complessiva manovra di trasferimento di risorse. Cito, ancora, il provvedimento di individuazione di risorse riguardanti la salute umana e la sanità veterinaria; quello riguardante i criteri per il riparto delle risorse relative agli incentivi alle industrie; il provvedimento riguardante la determinazione delle percentuali di riparto delle risorse relative sempre agli incentivi alle industrie; il provvedimento di individuazione e trasferimento alle regioni degli istituti professionali; quello relativo all’individuazione dei beni e delle risorse da trasferire alle regioni per l’esercizio delle funzioni connesse agli istituti professionali; il provvedimento relativo al trasferimento delle strade di interesse regionale non comprese nella rete autostradale e stradale nazionale; il provvedimento relativo all’individuazione delle risorse strumentali, organizzative e finanziarie in tema di trattamenti economici a favore degli invalidi civili, da trasferire alle regioni ed agli enti locali. Tutti questi provvedimenti sono stati definiti dalla Conferenza: in sostanza, nei confronti di tutti questi provvedimenti la Conferenza si è pronunziata e quindi può darsi luogo all’ulteriore corso procedurale, che prevede da una parte la consultazione delle organizzazioni sindacali, dall’altra l’invio alla Commissione bicamerale, per il suo definitivo parere.

E’ in corso di definizione e di ultimazione un altro cospicuo pacchetto di provvedimenti, che riguarda l’individuazione dei beni e delle risorse da trasferire alle regioni ed agli enti locali per l’esercizio delle funzioni in materia di lavori pubblici, in materia di trasporti, in materia di incentivi alle imprese di competenza del Ministero del tesoro, dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione; l’individuazione delle risorse connesse alle competenze collegate alla cessazione del soppresso intervento nel Mezzogiorno; l’individuazione dei beni e delle risorse umane per l’esercizio delle funzioni in materia ambientale; il trasferimento alle regioni dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative in materia di energia e risorse minerarie, di competenza del Ministero dell’industria; l’individuazione delle risorse strumentali, umane e finanziarie ai sensi degli articoli 138 e 139 del decreto n. 112 in materia di istruzione scolastica; l’individuazione dei beni e delle risorse da trasferire alle regioni in materia di viabilità; il trasferimento delle risorse in materia di protezione civile. E’ poi in atto una ricognizione per quanto riguarda le eventuali risorse necessarie per la polizia amministrativa e i problemi connessi con il regime del catasto.

Il dato che segna la conclusione formale della fase istruttoria è quello della sottoposizione del provvedimento alla Conferenza unificata per la definizione dell’accordo. Dopo l’intervento della Conferenza unificata ha luogo tutta la seconda fase della procedura che investe i vari soggetti chiamati ad intervenire ulteriormente per la definizione del provvedimento espresso dai diversi soggetti istituzionali che partecipano al trasferimento, tra cui ha valore decisivo il parere della Commissione bicamerale. E’ sulla scorta delle indicazioni che si traggono da questo parere che si opera la definizione finale del contenuto del provvedimento.

Per il primo gruppo di provvedimenti (quelli definiti dalla Conferenza) abbiamo già esaurito la prima fase procedurale ed ora sta per iniziare la seconda, cioè quella della consultazione dei sindacati ed il successivo invio alla Commissione bicamerale. Gli altri provvedimenti, per i quali sono ancora in corso gli approfondimenti istruttori, l’indicazione che vorremmo poter rispettare è quella della definizione complessiva di questa partita decisiva, che vede presente tutto il tavolo riguardante la materia dei lavori pubblici, dei trasporti e del territorio, entro il prossimo mese di febbraio. Quando parlo di "definizione" intendo riferirmi non solo all’ultimazione degli approfondimenti tecnici, ma anche al passaggio all’interno della Conferenza unificata, affinché si possa formare l’accordo, di cui alle norme prima richiamate.

La chiusura complessiva entro il mese di febbraio della fase istruttoria ci potrebbe consentire di rispettare un calendario che veda altre due scansioni fondamentali. Una volta ultimata questa fase pensiamo di poter provvedere alla emanazione di tutti i DPCM di carattere generale e cioè di tutti i DCPM che contengono la individuazione delle risorse, entro il trenta giugno. Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di tali provvedimenti scatterebbe l’ultima parte dell’operazione, che vede prima intervenire la Conferenza unificata per il riparto delle risorse tra le regioni, sulla base dei DPCM generali, e, a seguito del riparto effettuato alle regioni, in virtù del principio di contestualità, l’effettuazione dei trasferimenti agli enti locali e provinciali.

Per effettuare un’operazione di questo genere, che noi pensiamo di poter definire entro il mese di ottobre di quest’anno, occorre da una parte che la Conferenza unificata agevolmente e rapidamente adotti i provvedimenti di sua competenza e dall’altra che ciascuna regione adotti la propria legge di individuazione delle risorse da trasferire ai vari enti locali. Se ciò non fosse possibile, sarà necessario provvedere alla stregua degli interventi sostitutivi attualmente in vigore; in ogni caso, questa operazione dovrà essere attuata con la disciplina a disposizione delle autorità per il periodo in cui questa sarà posta in essere.

Questo calendario consentirebbe di dedicare gli ultimi due mesi dell’anno in corso alla integrazione dei trasferimenti e alla correzione degli eventuali errori per assicurare l’attuazione del sistema del federalismo amministrativo e del trasferimento delle risorse al 31 dicembre 2000, conformemente al dettato della legge. Per fare ciò è necessario che ci sia una regia complessiva di questa operazione che veda Governo e Parlamento coinvolti, ciascuno per la propria parte. E’ importante che da parte delle amministrazioni statali ci sia la capacità di assicurare una regia complessiva di questa operazione di trasferimento e che, da parte delle amministrazioni regionali, provinciali e locali, ci sia la capacità di cooperare, avendo presente il trasferimento come operazione complessiva. Da parte del Parlamento occorre continuare a porre attenzione - come si sta dimostrando con questa Conferenza - e vigilare sulla qualità complessiva di queste operazioni, tenendo conto che sono in qualche modo connesse con l’attività che passa ordinariamente per il Parlamento.

Il federalismo amministrativo ed il trasferimento delle risorse alle regioni, alle province e ai comuni, è un obbligo che scaturisce dall’attuazione del decreto legislativo n. 112 ed un criterio di interpretazione e di valutazione dell’attività legislativa de futuro. Occorre, cioè, che da parte del Governo e del Parlamento ci sia una particolare attenzione e che, nell’effettuare l’operazione di attuazione, non prevalgano nuovamente logiche che in qualche modo portino ad adottare provvedimenti legislativi che tendano nuovamente a ripristinare il modulo del rapporto Stato-regioni o Stato-regioni-autonomie esistente prima del decentramento. In altri termini, se facciamo l’operazione di decentramento, ma poi continuiamo ad approvare leggi di finanziamento di interventi che prescindono da questo nuovo quadro istituzionale, rischiamo di aprire una parentesi importante, dimenticando che questa dovrebbe essere una scelta strategica per la nuova edificazione dell’amministrazione nel nostro paese.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Ringrazio il consigliere Pajno per la sua completa relazione. Credo di poter dire che i dati esposti sono abbastanza confortanti; tutto è in lavorazione, ed una parte in fase di definizione.

Ringrazio i nostri gentili ospiti: il ministro del tesoro, i due sottosegretari alla Presidenza del consiglio, Caveri e Cananzi (il ministro Bellillo è impegnato oggi in Umbria, ma il sottosegretario Caveri ha la delega per le regioni). Sono presenti altresì i rappresentanti del mondo delle regioni e degli enti locali, il Presidente Chiti, il vicePresidente Susta, il Presidente dell’UPI, il Presidente Gonzi dell’UNCEM, che ringrazio e che ascolteremo tra poco. E’ presente il professor Vandelli, che esporrà la relazione generale sulle forme associative e poi proseguiremo su questo tema.

Se siete d’accordo, darei la parola al ministro Bassanini, perché tra non molto dovrà assentarsi e poi perché credo che il suo intervento completi il quadro del processo di trasferimento che ora il consigliere Pajno ha impostato.

 

Franco BASSANINI, Ministro per la funzione pubblica. Spero di tornare prestissimo in modo da seguire la parte finale del seminario.

Vorrei partire da alcune considerazioni svolte prima dall’onorevole Frattini, che ha quasi chiesto scusa per una affermazione che in realtà spesso ho fatto anch’io e che ritengo fotografi lo stato attuale della riforma. La riforma è in mezzo al guado. Non c’è da chiedere scusa. La valutazione equilibratissima ed anche molto positiva sulla riforma che Frattini ha dato coincide con la visione realistica che deve avere il Governo. Essere in mezzo al guado vuol dire molte cose; mi è capitato di ricordarlo abbastanza spesso. Quando si è in mezzo al guado la cosa peggiore è fermarsi a discutere, a riflettere o farsi nascere dei dubbi sull’opportunità di attraversare il fiume in quel punto. Quando si è in mezzo al guado la cosa migliore è frustare i cavalli e passare dall’altra parte, perché se ci si fermasse in mezzo al guado, a ragionare su quello che avrebbe potuto essere, se si fossero trovate altre soluzioni o si fosse pensato ad altri tempi e così via, si rischierebbe di essere travolti.

La riforma continua ad avere alcune spinte propulsive importanti, la prima delle quali l’ha ricordata proprio l'onorevole Frattini: è un discorso condiviso ed il fatto che lo dica un esponente autorevole dell’opposizione è importante per provare che è così; per non parlare delle altre cose che ha detto, che vanno nel senso di una realizzazione e di un completamento e non certo nel senso di un contrasto e di un rallentamento della riforma. E’ un percorso condiviso nelle sue linee fondamentali e nei suoi obiettivi dalla maggioranza e dall’opposizione, così come è condiviso – questa mattina credo ne avremo conferma – dal Governo e dal sistema delle autonomie regionali e locali. Per altro, fino ad ora nella Conferenza Stato-regioni e nella Conferenza unificata Stato-città-autonomie, si sono rivelate, ovviamente, posizioni differenti su singoli punti, ma mai contrasti radicali sui provvedimenti di attuazione della riforma. I contrasti, anche duri, che ci sono stati in alcuni momenti sono stati poi composti prima di giungere alla soluzione finale. Sulle linee generali continua ad esserci un fondamentale appoggio delle parti sociali, delle grandi organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori e poiché, diceva ancora Frattini, è non solo una sfida sul terreno istituzionale ed amministrativo, ma anche una sfida culturale, è importante che vi sia una condivisione dell’opinione pubblica sulle linee fondamentali, quali la semplificazione della regolazione dei carichi burocratici, la sussidiarietà, il decentramento e l’evoluzione dei poteri, le risorse, gli strumenti di intervento a regioni ed enti locali, il riorientamento dell’amministrazione ai risultati, alla qualità dei servizi e delle prestazioni, la valutazione e misurazione delle performances delle amministrazioni, l’organizzazione finalizzata al miglioramento della qualità dei risultati, la crescita professionale dei dirigenti e dei dipendenti pubblici per ottenere maggiore produttività, maggiore efficacia, maggiore qualità di prestazioni e di risultati dalle amministrazioni pubbliche.

Tuttavia, mi spiace dover nuovamente citare Frattini, per altro assente in questo momento: le attese dell’opinione pubblica sono molto forti e se la riforma non si realizza – egli diceva - le attese viaggiano più rapidamente della riforma medesima. Allo stesso modo, ma con altre parole, vorrei dire che se la riforma non si realizza rapidamente, non passa rapidamente dalla definizione ormai compiuta del disegno, del progetto e dalla sua approvazione legislativa alla sua esecuzione, consentendo di misurare gli effetti in termini di miglioramento della qualità dei servizi e delle prestazioni delle pubbliche amministrazioni, il rischio è che l’eccesso di attese si converta nell’opposto del consenso e del sostegno, in un effetto di delusione e frustrazione che potrebbe, se non ricacciarci indietro in condizioni peggiori di come eravamo tre anni fa, rappresentare un problema molto serio; soprattutto, se torniamo al punto fondamentale da cui è partita la riforma, che nel processo di modernizzazione del nostro paese è essenziale per affrontare le sfide del 2000. Queste sfide, rappresentate dalla globalizzazione, dalla rivoluzione digitale e demografica, che caratterizzano questo passaggio di secolo e di millennio, da un forte miglioramento della qualità ed efficacia dei servizi e delle prestazioni pubbliche rese dal nostro sistema, sono assolutamente necessarie, altrimenti rischiamo di pagare un handicap non facilmente superabile.

E’ necessario, quindi, accelerare fortemente ed il fatto che sia un percorso largamente condiviso dalle forze politiche, dalle diverse istituzioni e livelli di governo, dalle istituzioni, dalle parti sociali e dall’opinione pubblica, è importante; tuttavia, per la ragione che ho detto, può non essere sufficiente se accumuliamo ritardi e dal momento che questi ci sono è necessario fare i conti con una forte esigenza di accelerazione che richiede forte determinazione da parte di tutti e non solo del Governo.

Personalmente condivido al cento per cento ciò che è stato fino ad ora detto dai Presidenti delle Camere, dal Presidente Cerulli Irelli, dal consigliere Pajno e da Frattini. Non vedo una contrapposizione tra semplificazione e revisione della regolazione, in quanto si tratta di due strumenti diversi. La deregolazione è la migliore regolazione, nel senso che si può deregolare, non si può togliere qualunque regola, ma trovare una regolazione più snella, più efficace, che imponga meno rigidità, che crei meno vincoli, meno invasiva delle scelte dei cittadini, delle famiglie, delle imprese, delle stesse amministrazioni pubbliche, garantendo la stessa tutela agli interessi generali della collettività o ai diritti e alla libertà dei cittadini, con minor costi burocratici.

Naturalmente è vero che quando la regolazione non appare effettivamente orientata, necessaria per garantire diritti, libertà, interessi generali della collettività, la soluzione migliore è eliminarla e il disegno di legge di semplificazione del 1999 all’esame del Senato, segue questa strada, usa il doppio pedale, prevede materie, procedimenti con i quali si va alla soppressione pura e semplice dei procedimenti, delle autorizzazioni o degli interventi delle autorità amministrative e non, e materie nelle quali la soluzione è quella della semplificazione, dello snellimento, della revisione, della migliore regolazione.

Ragioni logistiche impediscono di completare la composizione del nucleo, creato nei mesi scorsi sulla base della legge n. 50, nucleo che può contare su poco più della metà dei suoi effettivi, perché se non si può assegnare un tavolo ad un esperto a tempo pieno, è bene rinviare anche la nomina dell’esperto. L’osservatorio per la semplificazione, sul modello inglese, è uno strumento di promozione sollecitazione e prospettazione di idee nuove, utilizzando il raccordo parti sociali, istituzioni regionali e locali, ministeri, Governo.

L’osservatorio ha cominciato a lavorare nel corso del 1999 con interessanti risultati, concentrandosi su quattro tematiche, quali lo sportello unico, la revisione delle norme sulla conferenza dei servizi, l’applicazione delle tecnologie informatiche alla reingegnerizzazione delle pubbliche amministrazioni e dei processi amministrativi, il monitoraggio della semplificazione della documentazione amministrativa e delle certificazioni. Su ciascuno di questi quattro temi ha fornito dei contributi che hanno avuto un output interessante. Dall’intesa Governo-regioni-enti locali e relativa direttiva del Presidente del Consiglio sugli sportelli unici, che hanno finalmente convinto alcune amministrazioni locali molto caute che la disciplina dello sportello unico si applica a tutte le attività di produzione di beni e servizi e non solo alle attività industriali e allo start-up di impianti industriali, cominciano a vedersi i primi risultati sugli sportelli unici attualmente esistenti in circa un terzo dei comuni che coprono oltre il sessanta per cento della popolazione nazionale. Non dobbiamo dimenticare che gli sportelli unici servono anche come sportelli associati, magari gestiti dalle comunità montane e nei piccoli comuni dove esiste un tessuto di attività di produzione di beni e servizi a volte importanti per delocalizzare le aree metropolitane più congestionate.

Ci sono esempi di eccellenza che, nonostante il breve periodo di vita dall’entrata a regime delle norme ad oggi siamo in grado di monitorare, dimostrano che ormai si tratta di diffondere queste best-practices di applicazione integrale della nuova normativa. Ci sono comuni nei quali i tempi medi del complesso del procedimento per la localizzazione e realizzazione di nuovi impianti produttivi sono scesi sotto i tre mesi. Ricordo che nell’indagine sulla Federchimica di quattro anni fa i tempi erano stimati tra i due e i cinque anni. Il procedimento è unico (desidero ribadire che questa è l’unica interpretazione coerente con l’articolo 112 del decreto legislativo n. 112) e non la semplice sommatoria sul tavolo di un ufficio comunale di vari procedimenti autonomi. La legge è chiarissima al riguardo. Il procedimento è unico, il provvedimento è unico ed unifica fino a quarantatré provvedimenti amministrativi necessari per lo start-up di impianti di produzione di beni e servizi. Ci sono comuni che l’hanno sfruttato per unificare in un unico sportello tutte le pratiche, provvedimenti autorizzatori nei confronti di attività economiche produttive. A Bologna, nei mesi tra il 25 maggio e il 31 dicembre, 4.000 pratiche avviate, 3.500 concluse con tempi medi inferiori a due mesi; a Mantova 3.820 pratiche trattate, 3.600 concluse; a Palermo più di 1.000 le pratiche trattate, il 96 per cento già definite. Quindi, il sistema funziona anche se avere scelto la strada della necessaria informatizzazione dello sportello unico, che deve essere accessibile per via telematica, ha rappresentato probabilmente una delle ragioni del ritardo che una parte dei comuni ancora registrano nell’attivare la nuova struttura. Tuttavia, questa scelta consente poi di avere risultati molto più interessanti, perché oggi si sta diffondendo l’idea che gli imprenditori o gli investitori sono in grado di fare un primo giro di informazioni sulle possibilità di localizzazione di nuovi impianti produttivi utilizzando internet e non necessariamente dovendo cominciare a fare il giro degli sportelli unici sul territorio e questo lo posso fare anche stando a Seattle o a Tokyo perché la rete gli consente di farlo. Ho in mente siti internet di sportelli unici in cui è possibile vedere le fotografie delle aree disponibili per l’insediamento di nuovi impianti produttivi oltre che le cartine topografiche che indicano tutti i dati necessari, come la disponibilità di acqua, la distanza dall’aeroporto e quant’altro. Si tratta solo di organizzare bene questi strumenti di comunicazione e di informazione. Tuttavia, su questo terreno c’è ancora molto lavoro da fare per accelerare la produzione dei decreti, dei regolamenti di delegificazione e la semplificazione delle normative.

L'onorevole Frattini poneva il problema del rapporto certificazione-autocertificazione ed eliminazione della certificazione. Come sapete i dati cominciano ad essere interessanti anche se diseguali: abbiamo un dato di diminuzione del 49,71 per cento dei certificati tra il 1996 e il 1999. Siamo arrivati a dimezzare i certificati. Si tratta di 36 milioni di certificati in meno l’anno. Il dato però è talmente diseguale da far pensare che si possa ottenere, anche con l’attuale normativa, un risultato enormemente migliore. Se Bari, Novara, Padova, Potenza e Siena, come vedete nord-centro-sud, sono stati in grado di superare il 70 per cento di tasso di sostituzione dei certificati con l’autocertificazione, eliminando così tre certificati su quattro di quelli che c’erano tre anni fa, vuol dire che lo possono fare anche le altre città. Non c’è una ragione convincente per cui non si possa arrivare ad un risultato di questo genere. Città diverse in diverse regioni italiane del nord e del sud lo hanno ottenuto. So anch'io che la sostituzione dei certificati con l’autocertificazione non è obiettivo finale, ma intermedio.

L’obiettivo finale è l’eliminazione sia dei certificati, sia dell’autocertificazione e per far questo è necessario che le amministrazioni siano in rete e che attraverso la rete siano in grado in tempo reale di poter raccogliere tutte le informazioni, i dati richiesti per l’espletamento di una pratica e che siano in possesso delle varie banche dati, registri, anagrafi del sistema delle amministrazioni pubbliche. Questo risultato ulteriore si collega ai progressi sulla costruzione della rete unitaria delle pubbliche amministrazioni; argomento sul quale tornerò tra poco. Se invece Frattini con quella affermazione poneva il problema, perché in realtà anche questo era implicito nel suo rilievo, della eliminazione vera e propria di alcune procedure burocratiche, allora ricordo che nell’ambito della riforma con gli articoli 112 e 114, in molti casi, così si è operato. E’ chiaro che nel momento in cui si sopprime un’autorizzazione e una licenza nello stesso istante non solo si sopprime tutta l’attività di certificazione e di autocertificazione connessa a quel tipo di intervento dell’amministrazione di richiesta di attività autorizzatoria nei confronti di una iniziativa del cittadino, delle imprese, ma si ottengono anche altri risultati non secondari. Come tutti sanno molte di quelle procedure amministrative erano in realtà a tutela di mercati protetti. Con la eliminazione delle autorizzazioni amministrative si è effettuata anche un’operazione di liberalizzazione estremamente importante.

Sul terreno dell’attuazione del federalismo amministrativo e del principio di sussidiarietà, Alessandro Pajno ha detto che questo è un campo nel quale il consenso dichiarato di fondo e culturale delle forze politiche e delle parti sociali sul processo di federalizzazione, di devoluzione, di riordinamento secondo il principio di sussidiarietà, è in concreto a corrente alternata allorché dai principi si scende alle realizzazioni concrete. Si è a favore di una riforma federale, anzi si auspica che la si faccia anche sul terreno costituzionale, poi molto spesso si è contro le sue concrete e coerenti applicazioni, si tratti del Corpo forestale dello Stato o dell’attuazione della legislazione di incentivazione alle attività economiche o quant’altro. Tutto ciò in realtà pone il problema di una forte coerenza. Non so se gli strumenti in nostro possesso siano adeguati; ovviamente sono tentato di dare ragione a Frattini quando sostiene la necessità di rafforzare il coordinamento dell’attività di Governo per mantenere la coerenza della riforma. Ovviamente non può essere sufficiente sotto questo profilo una delega del Presidente del Consiglio al ministro della funzione pubblica, che c’è stata, dei compiti di coordinamento dell’attuazione della riforma, perché di altro si tratta. Sicuramente viene in rilievo il ruolo della Commissione bicamerale, presieduta dal Presidente Cerulli Irelli, come possibile cabina di regia del monitoraggio parlamentare dell’attuazione della riforma.

E’ vero che noi sotto questo profilo abbiamo vari problemi, tra cui quello della legislazione di settore. Ovviamente il Parlamento è sovrano e la legislazione di settore non può essere fermata in quanto elaborata e prodotta nelle Commissioni parlamentari, che sono in un rapporto molto intenso (in ogni democrazia ciò avviene) con gli interessi dei diversi settori produttivi e della società civile. Tuttavia, questa legislazione di settore fino a quando non si rimette in discussione la riforma nel suo complesso, i suoi obiettivi, i suoi principi, deve essere armonizzata, deve essere messa in un rapporto di coerenza con le linee della riforma. Tutto ciò riguarda le Commissioni parlamentari, il Governo, i singoli ministeri. Credo che bisognerebbe organizzare un monitoraggio più efficace e continuo tra Presidenza del consiglio e Commissione per la riforma amministrativa, magari anche con la Commissione per le questioni regionali, presieduta dall’onorevole Pepe affinché sia possibile intervenire non "a babbo morto". Molte volte mi avvedo di provvedimenti legislativi che sono in chiaro contrasto con le linee della riforma nel momento in cui sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, quando ormai è troppo tardi, anche se ovviamente si possono correggere con altri provvedimenti. Evidentemente sarebbe meglio evitare.

C’è tuttavia un terzo versante critico della riforma. Tutti abbiamo detto, ed è una delle relative novità di questa riforma, che c’è una connessione molto stretta tra l’azione di revisione della regolazione, di snellimento delle procedure, di sburocratizzazione, l’attuazione del principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale, sul quale i passi fatti sono abbastanza modesti, e la riorganizzazione delle amministrazioni dello Stato, che attiene non solo agli aspetti strutturali, ma anche alla reingegnerizzazione dei processi decisionali e gestionali.

Credo sia giusto dare atto al Governo di avere esercitato, anche se non era semplice, sotto questo profilo tutta la delega, al contrario di quanto era stato fatto in passato. La delega è stata esercitata tutta, è stata rivista l’architettura del Governo, come progetto approvato legislativamente anche se non ancora realizzato, l’architettura dell’amministrazione periferica dello Stato, i meccanismi di valutazione strategica, di controllo di gestione, di valutazione delle performances delle amministrazioni e dei dirigenti. Tuttavia, anche in questo caso si tratta di passare dalle leggi alla loro attuazione concreta, sia pure in presenza di resistenze culturali e di problemi gestionali. In questi giorni abbiamo avuto due segnali fortissimi che vorrei ricordare: il primo, è scaturito dalla relazione del Procuratore generale della Corte dei conti nel momento in cui ha contrapposto la cultura della legalità a quella del risultato ed ha fatto un’affermazione che respingo totalmente e cioè che la cultura del risultato, che sul modello dei paesi più avanzati stiamo cercando di far entrare nel funzionamento delle nostre amministrazioni, possa ledere il principio di legalità. La legalità dell’amministrazione si raggiunge quando si riesce a dare servizi e prestazioni di miglior qualità ai cittadini nel rispetto delle leggi che rappresentano il presupposto non il fine. Non va dimenticato che il fine è il miglioramento della qualità dei servizi e delle prestazioni, un miglior rapporto tra costi e benefici per i cittadini. E’ questa la legalità profonda del lavoro delle amministrazioni. Se si pensa di regredire ad una fase nella quale le amministrazioni si misuravano unicamente sul rispetto delle leggi e tutto il resto era secondario e non rilevante, allora noi compiamo passi indietro e non ci poniamo in condizioni di reggere al confronto e alla competizione con gli altri paesi.

In questi anni le grandi organizzazioni sindacali hanno condiviso la riforma ed hanno compiuto una vera rivoluzione culturale; tuttavia, esistono ancora settori del pubblico impiego e settori anche dei sindacati del pubblico impiego, in cui si continua a pensare che i meccanismi di incentivazione devono essere finti. Per questi settori gli incentivi, le parti variabili delle retribuzioni, che devono essere legate alle effettive responsabilità, professionalità, ai risultati e ai veri incrementi di produttività, devono essere distribuiti a pioggia e se possibile devono entrare a far parte della retribuzione, in presenza addirittura di meccanismi di galleggiamento. Nelle regioni e negli enti locali ci sono esperienze importanti e significative a questo riguardo. Nello Stato e negli enti pubblici ci sono ancora forti resistenze culturali. Dobbiamo riuscire, come nel settore privato, a fare entrare nella testa di tutti che i dirigenti e i dipendenti pubblici hanno diritto di essere pagati meglio, in relazione e proporzione all’effettivo miglioramento della qualità delle prestazioni e dei risultati da parte di ciascuno e solo in questo caso devono essere pagati meglio, mentre nei casi gravi deve essere prevista anche la risoluzione del rapporto di lavoro e certamente non incrementi retributivi per chi non se li merita.

Mi fa piacere che dopo di me intervenga il Ministro del tesoro. Penso che dopo una lunga fase, durata dal 1992 ad oggi, come dimostrano inequivocabilmente le statistiche OCSE, le spese per il personale delle amministrazioni pubbliche nel loro insieme si sono consistentemente ridotte di oltre due punti rispetto al PIL e siamo ormai scesi nettamente sotto la media dei paesi OCSE. Visto che il percorso di risanamento della finanza pubblica va proseguito, non possiamo certo permetterci di riprendere una fase di incremento delle spese per le pubbliche amministrazioni. E’ arrivato il momento di cominciare a destinare in tutto o almeno in una parte consistente le ulteriori riduzioni che derivano dai processi di razionalizzazione in corso per reinvestire nelle pubbliche amministrazioni in modo selettivo, per migliorare la qualità dei servizi e delle prestazioni. Tutto ciò vuol dire formazione, informatizzazione e reclutamento selettivo di professionalità, essenziali al miglioramento della qualità delle prestazioni e che non è possibile trovare nelle pubbliche amministrazioni, neanche attivando adeguati processi di formazione. Si tratta di un investimento essenziale per il paese che va fatto nell’ambito della quota di risorse attualmente destinato alle pubbliche amministrazioni, altrimenti una serie di processi di innovazione rischiano di fermarsi nella fase più delicata. Alcuni di questi credo siano irreversibili e faccio un esempio solo perché ho davanti il nuovo Presidente dell’Unione delle province italiane. La provincia sta cambiando completamente faccia ed il suo profilo funzionale nel 2001 sarà completamente diverso da quello che era dieci anni fa in conseguenza della riforma, del trasferimento diretto di funzioni, delle deleghe che alcune regioni sono state costrette a dare in virtù della riforma, mentre altre lo hanno fatto in maniera più convinta.

Ci troviamo in presenza di un problema importantissimo costituito dalla gestione di questa nuova amministrazione provinciale che richiede anche investimenti qualitativi sul suo personale. Lo stiamo vedendo fin da ora con il trasferimento dei vecchi servizi per l’impiego. O riusciamo a fare ciò o altrimenti la riforma rischia di bloccarsi in mezzo a quel guado perché ahimè ormai non si usano i cavalli ma i mezzi meccanici che in mancanza di carburante si fermano.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Ringrazio il ministro Bassanini, che con il suo intervento ha ampliato il nostro orizzonte problematico, affrontando tutto l’insieme della riforma, che è indispensabile per ancorare anche il nostro tema di oggi.

Se il ministro Amato è d’accordo darei la parola al Presidente Chiti, nella sua veste non solo di Presidente della regione Toscana, ma anche in quella di Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni italiane. Ricordo che l’anno scorso anche con il Presidente Chiti facemmo il punto della situazione ed oggi ci ritroviamo avendo fatto qualche piccolo passo avanti.

 

Vannino CHITI, Presidente della Conferenza dei Presidenti delle regioni e delle province autonome. Ringrazio il Presidente Cerulli Irelli non solo per questa iniziativa che nella sua continuità e scadenza annuale ritengo molto utile ed importante per fare il punto ed avere uno scambio di valutazioni di tutti i soggetti impegnati nell’attuazione di quello che abbiamo chiamato federalismo amministrativo.

Desidero affrontare, sia pure in modo schematico, soltanto tre punti rinviando per la restante parte al testo scritto ( allegato ). Dopo aver detto che condivido molti degli interventi svolti e sottolineato i passi avanti che indubbiamente sono stati fatti, al di là della stessa attuazione del federalismo amministrativo, tuttavia più di altri sono dell’avviso di non ignorare la complessità e la forte preoccupazione, che avverto, sulle ombre e su alcuni punti ancora da affrontare. Mentre per un verso sono ottimista per alcuni risultati già raggiunti, per un altro verso sono preoccupato per gli interventi che ho ascoltato su temi che ancora devono essere affrontati, tutt’altro che banali. Considero un fatto molto importante, che per altro lo scorso anno avevo posto a nome delle regioni, che ci sia stata la riforma costituzionale per l'elezione diretta dei presidenti delle regioni, che rappresenta un salto di qualità nell’istituzione regionale. Tra pochi mesi l’Italia avrà quindici presidenti di regione eletti direttamente e ciò darà stabilità, in un diverso rapporto con i cittadini ed una maggiore autorevolezza delle istituzioni.

L’attuazione del federalismo amministrativo, nei rapporti sia pure differenziati, ha innescato una ricerca di cooperazione di unità, che da decenni non era presente nel nostro paese, tra regioni, province e comuni. Tutto ciò potrebbe fin d’ora farci comprendere cosa sarà tra alcuni mesi l’apertura di una fase costituente in quindici regioni italiane; una fase con un forte peso nazionale e regionale, perché i rapporti tra enti locali e regioni devono consentire che ci sia una presenza da co-protagonisti, insieme ai consigli regionali, delle province e dei comuni e dei soggetti fondamentali della società.

La seconda considerazione molto positiva si riferisce alla proposta sul federalismo fiscale approvata dal Consiglio dei ministri. Anch’io mi auguro che in futuro questa riforma, che spero venga oggi approvata dalla Commissione parlamentare per poi proseguire il suo cammino, possa avere momenti di ulteriori rafforzamenti. Penso, ad esempio, ad un tributo che sia maggiormente nelle mani delle regioni di quanto sia oggi l’IVA, così come penso che la compartecipazione a grandi tributi erariali ponga una questione, in termini positivi, che affronterò nel terzo punto. Quando tra lo Stato centrale, i governi regionali e le altre autonomie, si cominciano ad avere meccanismi di compartecipazione nell’ambito dei sistemi fiscali, è del tutto evidente la necessità di porre in essere qualche trasformazione nel sistema parlamentare per poterla governare positivamente.

La differenza tra riforme e sogni miracolistici sta nel fatto che mentre le prime risolvono i problemi, i secondi li creano; tuttavia, questa riforma è più importante della stessa elezione diretta dei presidenti delle regioni in ordine al cambiamento che determinerà nell’assetto del paese. Quello raggiunto è un risultato importante ed è in questa direzione che dobbiamo muoverci. Ritengo si debba esprimere un giudizio positivo sul meccanismo emerso e sui risultati ottenuti, non solo perché rende trasparenti le risorse a disposizione, ma perché obbliga all’efficienza. In futuro le regioni saranno in grado di conoscere le risorse a disposizione per un certo numero di anni ed i cittadini potranno rendersi conto dei motivi per i quali mentre alcune regioni sono autosufficienti altre non lo sono.

Accanto all’elezione diretta dei presidenti delle regioni si determina non solo un circuito virtuoso nella democrazia, ma l’impossibilità di giungere a delle semplificazioni facili del tipo "il nord aiuta il sud" o cose di questo genere. Tra le cinque regioni più vicine all’autosufficienza, che prevedibilmente saranno in grado di raggiungere nell’arco di dieci anni, tranne la Campania, la Puglia e la Calabria, ce ne sono alcune del sud che sia pure aiutate sono vicine all’autosufficienza, quali l’Abruzzo, il Molise, la Basilicata ed altre del nord, quali la Liguria e l’Umbria. Ci troviamo quindi in presenza di una riforma giusta che non consente semplificazioni negative.

Un terzo aspetto del problema che considero positivo è che con la nomina del consigliere Pajno a commissario straordinario per l’attuazione del federalismo amministrativo dopo cinque mesi questo processo si è rimesso in moto. Anche se soltanto alcuni DCPM sono stati realizzati ed altri non meno rilevanti sono da affrontare, almeno il percorso è stato individuato ed ora siamo in presenza di un’ipotesi di tempificazione finale. In verità è stata avanzata anche un’ipotesi di tempificazione parziale e mi auguro che almeno quella molto impegnativa di febbraio sia possibile rispettare.

Le ombre, una delle quali ricordata dal ministro Bassanini, riguardano alcuni atteggiamenti del Governo e del Parlamento, spesso impegnati a rallentare questo cammino; devo dire che mi è piaciuta la gara tra l’onorevole Frattini ed il ministro Bassanini sul di più di federalismo, ma spesso in Parlamento si assiste ad una gara tra chi frena di più e ciò crea dei problemi, anche nei rapporti con il paese. Nei primi giorni di agosto, dopo quattordici mesi di ritardo e nonostante la base di un’intesa chiara e limpida, il Ministero delle regioni, interpellato in proposito, ci ha assicurato che il DPCM sull’agricoltura sarebbe giunto in Parlamento, mentre la segreteria del ministro Cerulli Irelli, non più tardi di quarantotto ore fa sosteneva che non era ancora arrivato alla "bicameralina".

Ribadisco un punto sul quale mi sono soffermato anche lo scorso anno. E’ tanto il valore degli impegni assunti ed il valore emblematico di questo aspetto (non dimentichiamo che sull’agricoltura c’è stato un referendum) che se non dovesse essere approvato il DPCM o venisse modificato il meccanismo di competenze del Corpo forestale dello Stato, lo stesso giorno il federalismo amministrativo dovremmo considerarlo morto e sepolto. Tra persone che seguono questi problemi, mi sia consentito dire che è inammissibile invocare i sacri confini e l’unità della patria quando si discute dell’utilizzazione del Corpo forestale dello Stato, perché credo che la patria sia una cosa seria al pari della sua unità e della sua coesione se si vuole contare in Europa. Cerchiamo di non usare argomenti dietro i quali nascondere qualche problema sindacale e centralistico, perché altrimenti cinque regioni a statuto ordinario senza colpo ferire avrebbero già disgregato, senza che nessuno se ne accorgesse, l’unità della patria.

In materia di ristrutturazione dei ministeri noi eravamo più d’accordo con la proposta del Governo che non su quella scaturita dal Parlamento, di cui poi l’esecutivo ha preso atto. Non si può sostenere che un ministero può rappresentare il nostro paese in Europa e svolgere un’attività di indirizzo, di coordinamento e di controllo, solo se possiede una struttura pesante o pesantissima. Non possiamo dimenticare che in futuro, in base alle leggi vigenti, non per quelle che dovranno venire, ci saranno ministeri magari meno "pesanti" di altri ma con una maggiore importanza politica in virtù di competenze dislocate altrove.

Il terzo punto riguarda non solo il Governo, se è vero che dobbiamo registrare un ritardo di cinque mesi nell’attuazione del DPCM in materia di federalismo amministrativo, ma anche il consiglio di amministrazione del credito sportivo. In collegamento con l’articolo 112 nel consiglio di amministrazione doveva esserci la presenza degli enti locali e delle regioni. Il regolamento dipendeva dal Governo, ma non essendoci dei termini e nonostante sollecitazioni, incontri e riunioni, alla scadenza il consiglio di amministrazione fu rinnovato in base alla vecchia legislazione.

In questo modo riteniamo sia stato leso il principio di leale cooperazione tra organi dello Stato e per questo, in rappresentanza anche di province e comuni, che non possono, presenteremo un ricorso con questa motivazione alla Corte costituzionale.

Penultima considerazione. Sul processo di attuazione del federalismo amministrativo a me pare che i dati riferiti dal Presidente Violante e Cerulli Irelli corrispondano alla realtà. C’è stato un grande sforzo legislativo da parte dei consigli regionali perché dietro i numeri di cui si parla e dietro un’altra legge di recepimento della normativa sul commercio per diciannove regioni, c’è un fortissimo sforzo legislativo delle assemblee regionali. Anch’io so bene che all’interno di questo ci sono aspetti più convincenti di altri; ma contemporaneamente quattordici regioni su quindici, tranne la Puglia, hanno istituito un consiglio regionale per i rapporti con le autonomie locali. Anch’io ho fatto alcune domande sul funzionamento, sulle velocità differenziate e ritengo sia un fatto molto importante. Nella mia regione, la Toscana, ho potuto rendermi conto cosa ha significato avere da anni esperienze di compartecipazione e responsabilità con gli enti locali. Lo considero un risultato importante da ascrivere anche a quel clima di collaborazione e di patto di lavoro tra comuni, province e regioni che è andato avanti, sia pure tra luci e ombre, in modo irreversibile negli ultimi anni.

Ho sentito il Presidente Cerulli Irelli ricordare con particolare forza il problema dell’esercizio delle deleghe che in moltissimi casi è stato risolto con accordi stipulati tra gli enti locali sul modo in cui procedere; laddove non si risponde ad un ambito ottimale, in una fase transitoria, le funzioni vengono intestate alla provincia oppure in taluni casi ad un comune di riferimento individuato dagli stessi enti locali.

Il principio, richiamato dal consigliere Pajno, della codeterminazione delle risorse, implica necessariamente il raggiungimento di un’intesa, in assenza della quale non è possibile andare avanti stante la sua obbligatorietà. Del resto, abbiamo detto chiaramente che non vogliamo funzioni e competenze a cui non corrispondano risorse e personale. Nei DPCM richiamati dal consigliere Pajno ci sono molte questioni rilevanti che devono essere ancora affrontate, quali quelle relative ai lavori pubblici, alla viabilità con l’ANAS, all’ambiente, alla difesa del suolo, alla protezione civile e all’istruzione scolastica. C’è ancora molto lavoro da fare ed in tal senso il ministro Bassanini sottolineava la necessità di non diminuire la concentrazione per non correre il rischio di far tornare indietro il processo messo in moto. Siamo tutti consapevoli del fatto che non stiamo più sulla sponda; anzi, spero che si sia passata la metà del guado. Il solo metodo, in assenza di una forte volontà unitaria tra maggioranza ed opposizione, non è sufficiente per raggiungere risultati soddisfacenti.

Come ultima considerazione, vorrei formulare due auspici che spero il Parlamento riesca a fornirci come atti legislativi (in un anno se c’è un’ampia intesa è possibile approvare la riforma costituzionale): un provvedimento unitario sulle autonomie speciali, su cui ricordo c’era un testo già votato dalla Camera, per non dover sempre inseguire le emergenze ed una legge elettorale.

Mi sono battuto per l’elezione diretta del Presidente della regione e sono lieto che sia stata conquistata. Se nel 2001, con qualunque vincitore alle elezioni, dovessimo avere un Parlamento che esprime maggioranze deboli e governi che non sono dei governi forti, di legislatura per attuare la riforma e per le competenze rilevanti che i governi hanno, allora di fronte a sindaci, presidenti delle province e presidenti delle regioni, eletti direttamente, l’equilibrio non ci sarebbe, per un motivo diverso dal passato, ma comunque non ci sarebbe. Su questo punto spero invece che ci sia un atto di volontà e di responsabilità da parte delle forze presenti in Parlamento.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Do ora la parola al Ministro del tesoro, professor Amato.

 

Giuliano AMATO, Ministro del tesoro, bilancio e programmazione economica. Da ministro del tesoro dico una cosa sola a Vannino Chiti prima che ci lasci; riprendiamo in mano la questione del Credito sportivo, però vorrei ricordare che è una materia da trattare con grande cautela, perché con tutta probabilità è illegittima dal punto di vista della legislazione comunitaria. Lo sappiamo, anche se facciamo finta di non saperlo e se la questione non era stata toccata fino ad ora, era anche per evitare che ci esplodesse in mano. Cercheremo di porre rimedio al problema della rappresentanza nel consiglio. In realtà, il regolamento era stato ipotizzato per trasformarlo in società per azioni; se ora diventa un normale istituto bancario, e qui faccio appello al professor Chiti, non si vede perché debba avere il monopolio di queste agevolazioni pubbliche, che in questo modo diventerebbero una forma di aiuto dello Stato nei confronti, in primo luogo, di questa banca erogatrice. Se è un ente pubblico è difficile capire perché debba svolgere attività bancaria sottraendosi al mercato. Comunque lo si guardi, lo dico con tutta tranquillità, appare un difficile problema di riassetto. Nel momento in cui riusciremo ad inserire al suo interno i rappresentanti delle regioni ci accorgeremo che non potrà più svolgere la sua attività. Esiste questo problema e noi non possiamo ignorarlo; dovunque vi sono o vi erano gestioni che godevano di agevolazioni monopolistiche, queste hanno finito per entrare nel sistema ed essere accessibili a tutti, come il credito cinematografico. L’economia di mercato è bella ma in genere esclude i monopoli, esclude la gioia di gestire i monopoli.

La questione mi interessa, ma i miei interessi tendono a coincidere con quelli del ministro del tesoro, almeno in questa materia. A questo proposito vorrei riprendere un punto già toccato da Frattini e Bassanini, cioè il rapporto tra decentramento-federalismo e riforma della regolazione. A me il decentramento è sempre interessato ed infatti ho un curriculum forte di non centralista e comunque venga il federalismo amministrativo a me sta bene. Del resto, sono stato il promotore anche di questo federalismo fiscale, che poi ancora tanto fiscale non è, se è vero che l'IVA è risorsa statale. Oggi c’è una ragione in più che domina i miei pensieri: il regionalismo è un eccellente modo per attivare la competitività tra le regioni, per stimolare la sperimentazione, che a sua volta attiva una pluralità di operatori giuridici, per stimolare significativamente la regolazione, riducendola quando inutile con la deregolazione, rendendola migliore, rendendola meno costosa, rendendola meno intrusiva. Questo è il tema che a me sta più a cuore. Lo vedo come un passaggio importante, in primo luogo perché crea una maggiore consapevolezza nei cittadini del costo dello Stato. Teoricamente questa consapevolezza avremmo dovuto realizzarla con la riforma del bilancio, ma dal momento che il bilancio lo leggiamo in sei o sette in Italia, siamo gli unici ad essere consapevoli di quanto costa lo Stato realmente, salvo i termini aggregati. Il punto che prima Pajno ha messo in evidenza, cioè spostare le risorse in relazione alle funzioni, rende i vari cittadini consapevoli, all’interno delle loro regioni, di quanto costa ciascuna funzione, stimolando in ognuno la domanda: come farebbe a costarmi meno? Questa è la domanda cruciale. Alla sinistra si attribuiscono molte più colpe di quante ne abbia e di quante lei stessa se ne attribuisca, ma è lo Stato amministrativo del continente europeo, questa è la vera matrice, che ha reso innaturale ciò che invece è naturale. La regolazione serve solo quando è in grado di ridurre i costi di transazione che i privati non sono in grado di gestire, ovvero quando è in grado di farsi carico di costi che comunque ci sono e che i privati non sono in grado di sopportare. A volte è la sinistra che reagisce male a questo principio definendolo liberismo selvaggio. Questa è una delle sciocchezze più tremende che abbia mai sentito dire, dalla quale cerco di difendermi dicendo che Ronald Coase, teorico di questa linea politica, era socialista, era un laburista inglese degli anni trenta.

Soltanto la cultura dello statalismo continentale europeo ha fatto pensare che in principio era lo Stato, ma non è affatto vero, perché in principio erano i privati che si arrabattavano. Tutto ciò è stato spiegato molto bene da Douglas North nei suoi primi libri; un’economia rurale, con scambi di merci che avvenivano in ambiti geografici molto ristretti, non aveva bisogno di particolari forme di tutela, in quanto tutti i traffici si basavano sulla conoscenza e la fiducia tra venditore ed acquirente. Le cose cominciarono a cambiare quando la vendita delle merci si spostò su mercati più ampi dove i rapporti personali non potevano più garantire la sicurezza del commercio, facendo nascere l’esigenza di avere un soggetto super partes che garantisse il buon esito delle obbligazioni. Ecco quindi i certificati, i tribunali dei mercati e la nascita delle istituzioni. Dopo alcuni secoli lo stiamo finalmente riscoprendo e ciò ci sta portando ad un riesame analitico delle nostre normazioni per verificare se si tratti veramente di normazioni che servono a smaltire i costi che i privati non sono in grado di smaltire da soli, oppure se creano costi ulteriori irragionevolmente superiori rispetto a quelli che hanno il compito di ridurre. Un processo questo che ovviamente si può fare in qualunque tempo, su qualunque legislazione, ma che è tanto più necessario oggi quando con i mutamenti di cultura individuale, di tecnologie disponibili, ci si accorge che buona parte delle normazioni, frutto dell’esistenza spesso di pure asimmetrie informative, di cui sono vittime consumatori, cittadini, eccetera, possono essere tranquillamente sostituite oggi dall’erogazione e dalla disponibilità delle informazioni e dalle contrattazioni tra i privati. In fondo, la contrattazione collettiva è figlia di questo processo, quando ha ridotto il bisogno di leggi a carico della parte debole del rapporto di lavoro perché i privati potevano fare da soli in forma collettiva anziché in forma individuale. L’ordinamento autonomo di Gino Giugni è figlio di tutto ciò.

Di revisioni se ne possono fare veramente tante nei diversi campi di cui abbiamo parlato; ad esempio, la materia ambientale è nata come materia ad altissimo tasso di regolazione perché i privati, che possono essere vittime del danno ambientale, non sono in condizioni di farsi valere ed è troppo complicato per lo stesso autore del danno ambientale andarli a cercare uno ad uno per indennizzarli. Se tutto ciò era vero fino ad alcuni anni fa, adesso comincia ad essere vero il contrario ed attraverso forme di autoregolazione anche la disciplina di questa parte può avvenire direttamente. Questa è la regolazione che può essere abbattuta perché molto spesso quella ambientale è frutto del lobbismo di imprese che producono dispositivi anti-inquinamento e che in nome dell’ambiente riescono a piazzare le loro macchine col favore della legge che identifica esattamente i loro processi produttivi dicendo: questo fa bene all’ambiente, ma in realtà fa bene alla Mannesmann o a qualcun altro e non è detto che faccia bene all’ambiente. Il fatto è che nessuno conosce l’effettiva riduzione del grado di inquinamento che si può conseguire utilizzando quelle macchine; si conosce solo il numero di macchine vendute in più. Ci sono quindi forme migliori di tutela dell’ambiente, forme più autoregolatrici, meno intrusive, meno lobbisticamente parlamentari.

Relativamente alla protezione civile, abbiamo qualche difficoltà ad ammetterlo, ma chi l’ha detto che un sistema di assicurazioni multiple non costerebbe molto meno alla collettività ottenendo risultati migliori? Oggi è blasfemo dirlo, soprattutto perché la protezione civile si offenderebbe e potrebbero venire meno le risorse per mantenerla nel bene e nel male. Da anni diversi di noi stanno valutando, ed esistono studi al riguardo che lo dimostrano, la possibilità di usare tranquillamente le assicurazioni private, come le si usano nel caso della responsabilità civile. Naturalmente queste ipotesi vengono fatte cadere perché poi c’è sempre l’interesse della patria, che in verità raramente è della patria ma è di qualcuno che si nasconde dietro la bandiera e che costa, come prima diceva giustamente Vannino Chiti, costa molto. Figuriamoci in materia di polizia amministrativa quante autorizzazioni si possono far venir meno. Dobbiamo accertare la qualità! Quanti angeli custodi pubblici a spese del contribuente devono accertare la qualità di ciò che si dà al cittadino! Il sistema del rating che è nato in campo finanziario si può tranquillamente diffondere senza alcun costo per il contribuente. Ci sono una pluralità di erogatori, alcuni dei quali hanno la tripla "A", altri hanno la tripla "Z" ed i consumatori sono in grado di distinguere. Gli incentivi alle industrie rappresentano un altro campo nel quale la legislazione costosa può essere sostituita da altre forme; se riusciamo a portare avanti la riforma del TFR si vedrà in quale modo si possono aiutare le piccole e le medie imprese senza mettere in campo incentivi o legislazioni di tipo amministrativistico.

Domandiamoci perché è necessario il federalismo amministrativo anche in funzione di tutto ciò; la risposta è che mette sotto stress le regioni, che hanno risorse limitate, a differenza dello Stato che le ha potenzialmente illimitate perché purtroppo dispone del potere fiscale che è per natura un potere illimitato, il più illimitato che esista, anche se evidentemente viene limitato dai politici. In questo modo le regioni possono essere indotte a ricercare quelle forme di regolazione che più di altre inducono a risparmiare le risorse di cui dispongono. Non tutte le regioni la penseranno in questo modo, ma è possibile che almeno alcune lo pensino e che facciano scattare un meccanismo che con il centralismo non scatta mai. Con il centralismo purtroppo o tu entri in una testa o altrimenti è la tua fine, perché continua ad andare per conto suo. Venti regioni, da una parte o dall’altra, possono far emergere l’innovazione che serve e per questo il federalismo è veramente bello. Infatti, in genere cento persone sono meglio di due e non perché debbano fare un’orgia collettiva, ma perché sono cento cervelli ed è probabile che diano più idee di quanto siano in grado di darne due.

Tutto ciò dimostra, spero in modo sufficientemente chiaro, il nesso inscindibile tra federalismo amministrativo e federalismo istituzionale. Bisogna fare in modo che acquisite queste funzioni le regioni siano anche in grado di acquisire la competenza costituzionale a regolarle interamente. Fino ad ora, in mancanza di una riforma istituzionale, abbiamo seguito inesorabilmente la strada che i vincoli costituzionali imponevano ed obiettivamente Bassanini più di così non poteva fare, nel senso che avere trasformato le deleghe in conferimenti è una cosa molto spinta, di cui io da cittadino italiano gli sono grato. Francamente più di così non poteva fare, a fronte di un Parlamento che ne fa di cotte e di crude, con ministri che se si perdono d’occhio combinano cose assolutamente non riferibili nelle rispettive Commissioni di merito.

E’ assolutamente necessario avere questa garanzia costituzionale, che non significa soltanto rispetto del federalismo amministrativo, ma che attiva il federalismo della regolazione e permette una riforma plurima del sistema della regolazione di cui Coase, socialista, laburista degli anni trenta, sarebbe finalmente contento.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Ringrazio il ministro Amato. Do ora la parola al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, onorevole Caveri, per poi entrare nella parte più specificamente locale.

 

Luciano CAVERI, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Rinviando ad un testo scritto (allegato), dico subito che dopo tre ore di interventi parlerò pochissimi minuti, anche perché mi sento come un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro e quindi il mio intervento sarà sicuramente meno interessante.

Per amore di verità e per rispondere anche a quanto detto da Chiti, nel corso del suo intervento, vorrei ricordare che il celebre DPCM sull’agricoltura è realmente partito dagli affari regionali.

Naturalmente porto anche i saluti del ministro Bellillo.

Per anni ho lavorato all’interno della "bicameralina" e ci tengo a dire che questa Commissione ha lavorato seriamente per molti anni in maniera anche oscura e che il suo ruolo è stato più importante di quanto si possa immaginare, naturalmente a Costituzione invariata e con i limiti che ben conosciamo.

A nome degli affari regionali vorrei brevemente fare solo alcune annotazioni: l’accelerazione c’è stata sia sul versante dello Stato, sia su quello delle regioni, che giustamente hanno reclamato le risorse conseguenti. Sono stati avviati i processi complementari, quali la semplificazione, il federalismo fiscale. Non solo leggi ma nuova filosofia delle amministrazioni; questo è stato un altro tema costante del dibattito svoltosi in questi mesi. Sussidiarietà significa più centri di competenza e di responsabilità e quindi il raccordo deve avvenire con vari strumenti. Ricordo che lo scorso anno sono state stipulate nuove intese istituzionali. Centrale è il ruolo rinnovato Stato-regioni, ed è importante che il modello sia stato ripreso dalle regioni nel rapporto con i propri sistemi autonomistici.

E’ essenziale che questa logica di dialogo riguardi anche le competenze che sono rimaste allo Stato. Le conferenze rappresentano il cuore del sistema con il ruolo centrale della Presidenza del Consiglio per evitare che si ripetano le mille moltiplicazioni del passato. Le dinamiche delle relazioni tra regioni ed enti locali rappresentano un oggetto autonomo di negoziazione, ma certo nell’alveo dei principi della riforma. Tutto ciò è molto importante, visto che siamo sicuramente alla vigilia di un’epoca costituente all’interno delle regioni. Sul ruolo delle autonomie speciali è in corso una negoziazione che riguarda le norme di attuazione-applicative. Infine, visto che ho ottenuto questo coordinamento, consentitemi di dire che non dimenticheremo i problemi della montagna che sono specifici rispetto ad alcune norme applicative.

Concludo con quattro osservazioni più propriamente personali, anche sulla base dell’esperienza accumulata in questi anni. La prima questione riguarda il ruolo del Parlamento, a fronte della logica delle deleghe e alla luce dell’affermarsi dello Stato-regioni. Credo che quando torneremo a discutere dell’ordinamento federale dello Stato, dovremo capire esattamente dove si situi questo ruolo di negoziazione alla luce dei sistemi federali esistenti nel mondo. La seconda questione si riferisce all’identità regionale come motore del processo cui deve corrispondere una classe politica ed un apparato locale che siano in grado di gestire ogni innovazione. Il terzo argomento riguarda l’Europa visto che come è noto è in fase di riscrittura la legge La Pergola. Credo che ciò rappresenti uno dei temi principali su cui dovremo lavorare nei prossimi anni. Infine, i dubbi e le perplessità, nate in fase applicativa, quando si è trattato di smantellare per spostarsi su un livello regionale. All’interno della "bicameralina" questo è stato uno degli argomenti più dibattuti perché è sempre scattato l’allarme quando si è cercato di spostare con serietà qualcosa dal centro a quella che impropriamente viene definita la periferia. Tutto ciò evidentemente nella logica delle diverse velocità che talvolta abbiamo registrato nell’esaminare alcune problematiche.

Erano queste le brevi considerazioni che volevo esporre anche se consegnerò alla Presidenza un testo scritto molto più diffuso, ma vista l’ora mi sembrava corretto riassumere in maniera sintetica le diverse questioni.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Do ora la parola al prof. Vandelli.

 

Luciano VANDELLI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Bologna. Pur nella sua specificità, il tema delle nuove dimensioni del governo locale e dell'associazionismo comunale si presenta, nella fase attuale, determinante nell'attuazione delle riforme locali.

Merita, dunque, tentare di inquadrarlo cercando di individuarne le linee di fondo e le prospettive, tenendo conto dell'evoluzione del sistema amministrativo italiano, così come di altre esperienze europee; esperienze che possono risultare, anche e particolarmente a questo proposito, di precisa utilità.

Una prima considerazione che discende dall'osservazione delle esperienze comparate riguarda le finalità stesse dell’associazionismo comunale; finalità che si presentano assai diversificate, dando luogo ad una conseguente ampia varietà di moduli e assetti istituzionali.

In sostanza, gli obiettivi perseguiti possono ricondursi ad esigenze, da un lato, di ricomposizione territoriale, dall’altro, di semplice gestione in comune di attività o servizi determinati. Una gestione in comune di affari di competenza propria che, del resto, corrisponde per gli enti locali all'esercizio di un diritto alla cooperazione ed all'associazione che trova un preciso riconoscimento nella Carta europea dell'autonomia locale (art.10).

Alla diversità di obiettivi, si collega la varietà dei modi con cui, nei diversi Paesi, si sono impostate le riforme del governo locale, in questi decenni. Fondamentalmente, si trattava di affrontare quattro blocchi di argomenti: il territorio, le funzioni, le risorse, l’organizzazione.

L'Italia appartiene al gruppo di Paesi che hanno inteso partire da questi ultimi tre blocchi (funzioni, risorse, organizzazione), mentre altrove ci si è mossi decisamente, talvolta pressoché esclusivamente, sul primo aspetto, puntando anzitutto ad un ridisegno territoriale.

In estrema sintesi, può ricordarsi che questa è la via seguita dai Paesi del nord, dalla Norvegia alla Svezia, dalla Danimarca all'Inghilterra, dalla Germania al Belgio; riducendo, prevalentemente nel corso degli anni settanta, il numero dei municipi dalla metà fino ad un settimo. Ad esempio, il Belgio ridimensiona questo numero portandolo a meno di un quarto (da 2.669 a 596), mentre la Svezia arriva addirittura ad un ottavo (da 2.281 a 278). Si tratta di risultati spettacolari, molto spesso ottenuti in tempi abbastanza rapidi.

Non senza critiche: e dal Belgio alla Gran Bretagna, la politica delle fusioni non ha mancato di sollevare un dibattito molto vivace, in cui l'impostazione data dai Governi veniva accusata di una sorta di "determinismo strutturale". In realtà, il riordino territoriale venne attuato, in questi Paesi, non come obiettivo fine a se stesso, ma come elemento destinato a produrre una rilevante serie di conseguenze positive sul funzionamento complessivo del sistema o, comunque, come premessa imprescindibile per poter affrontare le riforme delle funzioni, delle risorse, dell'organizzazione.

Prospettiva, questa, tutt’altro che estranea al dibattito italiano; ove basti ricordare, per tutti, il nome di Massimo Severo Giannini.

Nel dibattito che precedette l'approvazione della legge n. 142, posizioni di questo tipo non mancarono neppure nell'ambito del Parlamento; dove, in definitiva, la stessa posizione prevalente non negava l’esigenza che le ispirava, ma intese invertire la cadenza temporale: puntando ad approvare prima la riforma dell'ordinamento, senza tuttavia rinunciare ad inserire in questa elementi che potessero innescare dinamiche nuove anche sotto il profilo territoriale.

Così, nella legge n. 142 non si rinunciava a ridisegnare la mappa comunale, ma si rinviava questo ridisegno ad una seconda fase. In sostanza, si intese intervenire anzitutto sugli altri versanti del sistema locale (l'ordinamento), ma avviando contestualmente una serie di processi di aggregazione, in un disegno incrementale che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto portare in tempi brevi e medi al risultato voluto. Così, significativamente nella legge n. 142 del '90 venne inserita una gamma estremamente ampia di strumenti finalizzati a questo risultato, dal programma di riordino territoriale elaborato dalle regioni alla previsione di contributi sia statali sia regionali, dal municipio -come forma di mantenimento di una identità della comunità corrispondente al piccolo comune che si fonde- alle unioni, strumento associativo specificamente finalizzato alla fusione in un tempo determinato (dieci anni).

Il fallimento di quel disegno può essere sintetizzato con un semplice dato: nel 1990 i comuni erano 8.088, oggi sono 8.104; in sostanza, non solo non c’è stato quel processo di fusioni, ma addirittura si è registrata una tendenza ad un leggero ma costante incremento.

Rispetto a questa impostazione la legge n. 265 del 1999 rappresenta una svolta radicale. Questo, anzi, è probabilmente il punto in cui più nettamente la legge del 1999 si distanzia dalle impostazioni del 1990.

D’altronde nell’adottare questa nuova prospettiva la legge n. 265 non manca di basi nella evoluzione legislativa recente Il riferimento più immediato e rilevante si trova, come è noto, nella legge 59 del '97 e nel conseguente decreto 112, nel quadro di un processo di decentramento di vasto respiro che, nell'applicare in termini sostanziali il principio di sussidiarietà, pone in primo piano - come è avvenuto e sta avvenendo diffusamente, in Europa- la questione dell’adeguatezza e dunque del ripensamento delle strutture e del funzionamento degli enti locali.

In questo quadro, il decreto già con nettezza delineava un impianto distante da quello della 142: lasciando ai margini ogni ipotesi di fusione dei comuni minori; per perseguire la più modesta e realistica finalità di "favorire l'esercizio associato delle funzioni".

La tecnica seguita riprende qualche esperienza di settore (applicata, in particolare, in materia di acque e rifiuti, dai provvedimenti noti come legge "Galli" e decreto "Ronchi"), estendendola al complesso delle funzioni conferite, e si articola in: a) individuazione di ambiti ottimali di esercizio delle funzioni, ad opera delle regioni secondo forme di concertazione con gli enti locali; b) autonoma scelta, da parte dei comuni, di soggetti, forme e metodi di esercizio associato a tali livelli; scelta da compiere entro un termine fissato dalla legge regionale; c) in caso di inutile decorso del termine, la regione esercita il potere sostitutivo, nelle forme previste dalla legge stessa; d) la regione, del resto, favorisce l'esercizio associato attraverso appositi strumenti di incentivazione.

Nella legge n. 59, quindi nel decreto n. 112, il sistema sembra portato a strumento generale. Anche se non mancano, rispetto ai precedenti di settore, novità rilevanti: particolarmente nella sostituzione dei riferimenti ad "aree" o "ambiti" di esercizio delle funzioni con la previsione di "livelli" minimi.

La differenza assume significati sostanziali: e se non mancano letture tendenti a negare particolare rilievo alla diversità, un’interpretazione diffusa - e sostenuta particolarmente dalle rappresentanze degli stessi enti locali- considera che si tratti di un disegno profondamente diverso, che lascerebbe pienamente liberi i comuni stessi di definire, nelle singole situazioni, con quali altri comuni associarsi, definendo dunque essi stessi l'ambito territoriale, con il solo vincolo di rispettare i criteri (ad esempio, di dimensione demografica), predeterminati dalla regione, in sede di concertazione con le rappresentanze delle autonomie locali.

Queste vicende pongono efficacemente in rilievo le caratteristiche di fondo della questione dei comuni minori, in Italia; e inducono ad una attenta valutazione delle impostazioni e delle esperienze dei Paesi che hanno puntato particolarmente sulle forme associative intercomunali, anche come modalità di ridisegno del territorio, di quei Paesi che hanno inteso affrontare il problema della inadeguatezza del governo locale perseguendo -per utilizzare un'espressione di studiosi tedeschi- una "alternativa dolce alle fusioni".

Il riferimento di maggiore interesse, rispetto a questa prospettiva, è rappresentato dal sistema francese; e certamente i motivi di attenzione e di riflessione non mancano, dato che in materia di "intercomunalità" la Francia ha dimostrato una vivacità progettuale e di realizzazione che non ha paragoni.

Nel prendere in considerazione la Francia, anche come sistema affine al nostro, pare opportuno valutarne anche le sostanziali differenze; differenze che operano ad almeno quattro livelli: il ruolo delle regioni, che -prive di poteri legislativi- presentano in Francia una vocazione essenzialmente orientata agli investimenti ed allo sviluppo economico; i livelli intermedi, ove -pur radicate nella medesima concezione storica- le province sono distanti dal dipartimento francese; non solo quanto ad entità di risorse, funzioni, peso politico, ma anche per una connotazione che, in Italia, va sempre più rafforzandosi sul versante del governo del territorio e della pianificazione di area vasta, con proiezioni verso lo sviluppo economico, mentre in Francia invece il dipartimento è orientato anzitutto alla gestione di servizi sociali, strettamente legati, nella nostra tradizione, al comune; il cumulo dei mandati, che in Francia connette solidamente, mediante l'unione personale di incarichi, i vari livelli, particolarmente negli ambiti locali; sistema che -si noti- non è stato neppure scalfito dalle critiche e contestazioni che pure hanno coinvolto vivacemente, in anni recenti, il principio in rapporto al livello nazionale; il prefetto, come centro di gestione di risorse, animazione, mediazione, punto di riferimento quotidiano del piccolo sindaco; ruolo che, nel suo concreto atteggiarsi, allontana notevolmente il prefetto francese dal suo omologo italiano.

Pur tenendo pienamente conto di queste diversità, il caso francese si presta effettivamente ad una analisi e ad una riflessione di particolare interesse e di utilità.

Anche per la varietà e le dimensioni che l'esperienza della cooperazione intercomunale ha raggiunto.

Qualche dato può risultare, al proposito, significativo.

In Francia si contano oggi 19.286 associazione intercomunali, di vario tipo, su 36.664 comuni, vale a dire quasi una associazione ogni due comuni.

Questa situazione, che si è sviluppata fortemente negli anni '80 e '90, ha sollevato varie questioni, critiche, polemiche. Particolarmente significativo è, ad esempio, il rapporto di una Camera regionale dei conti (del Midi-Pyrénées, di cui riferisce Le Monde del 7 febbraio 1999) che ha costituito un atto di accusa nei confronti della "palude inestricabile, poco trasparente e poco democratica", delle strutture intercomunali; sollevando problemi variamente riprese, del resto, da voci diverse nel dibattio francese (cfr., ad esempio, l'intervento svolto, su questi temi nell'aprile '98 dal Presidente dell’Assemblea nazionale Laurent Fabius); e -riferendosi a questa cooperazione "à la carte", in cui "ognuno sceglie quello che vuole, si associa con chi vuole, nei modi che preferisce"- con accenti fortemente critici si sono usate espressioni quali "balcanizzazione della cooperazione" o "poligamia comunale".

Da questa situazione nasce una recentissima riforma (legge 12 luglio 1999, n.586), che punta ad alcuni obiettivi fondamentali: 1) rafforzare la solidarietà ed il riequilibrio nei contesti particolarmente urbani; 2) semplificare la cooperazione intercomunale e ridurne le forme; 3) rinvigorirla attraverso un nuovo sistema finanziario e di legittimazione democratica. Un punto importante è anche quello di evitare una intercomunalità "di facciata" (aspetto, questo, che merita particolare attenzione anche e particolarmente nella situazione italiana).

Con la riforma, l'associazionismo intercomunale si incentra su tre forme: 1) la comunità urbana, per ambiti al di sopra dei 500.000 abitanti (9 aree urbane raggiungono questa dimensione demografica); 2) le comunità di agglomerazione, al di sopra dei 50.000 abitanti, con un comune di almeno 15.000; 3) una forma residuale, la comunità di comuni.

La costituzione di una di queste forme implica comunque uno spostamento rilevante di funzioni, in parte direttamente stabilito, per ciascuna categoria, dalla legge (particolarmente nell’ambito della pianificazione e dello sviluppo economico), in parte in attuazione dell'obbligo di inserire un certo numero di materie tra quelle indicate espressamente dal legislatore (ad es. viabilità, ambiente, campi sportivi), in parte, ancora, determinato volontariamente, in base alla possibilità di aggregare ulteriori funzioni che vengano ritenute di interesse comunitario dal consiglio della comunità (con delibera adottata a maggioranza qualificata).

Quanto alla composizione degli organi, respinte le proposte -che avevano trovato vari, significativi sostegni- di elezione diretta, ed accantonate le soluzioni a rappresentanza paritaria degli enti, prevale una soluzione che garantisce un rappresentante ad ogni comune, mentre i rimanenti sono ripartiti tenendo conto delle dimensioni demografiche.

Ad accomunare, poi, in maniera importante, queste tre forme, è l'attribuzione di una "fiscalité propre", di una autonomia fiscale che comporta la determinazione e dunque l'uniformazione delle aliquote (particolarmente: della "taxe professionnelle") nell'intero territorio associato, cancellando in quest'ambito le disparità e rinforzando la solidarietà tra comuni (e particolarmente tra centri urbani e zone rurali circostanti). Del resto, alle entrate derivanti dalla taxe professionnelle unica, si affiancano specifici contributi statali (variamente rapportati alla popolazione interessata, al coefficiente di integrazione delle imposte comunali, a meccanismi di perequazione)

Su un piano più generale, a specifici riferimenti alle soluzioni adottate dai vari Paesi europei sembra preferibile, in questa sede, qualche richiamo a problemi e linee di tendenza che si presentano comuni o, quanto meno, diffusi.

Così, diffuse si presentano, anzitutto, le questioni di equilibrio, o tensione tra le forme associative e gli enti territoriali fondamentali. A questo proposito, sembra ormai prevalere decisamente l'orientamento ad accorpare in capo all'ente territoriale di secondo livello (provincia, dipartimento, contea, ecc.) le funzioni di area vasta. Le oscillazioni, che anche in Italia si sono sviluppate negli anni '80 con la sperimentazione di varie forme intermedie (comprensori, circondari, associazioni intercomunali, ecc.), sembrano ormai abbandonate in quasi tutta l’Europa. In questo, fa eccezione la Catalogna, che ha utilizzato un tradizionale livello intermedio, la "comarca" come alternativa decisa alla provincia, incappando dapprima in una censura da parte del Tribunale costituzionale -che ha escluso la legittimità di ogni legge regionale volta a sopprimere un soggetto costituzionalmente garantito- e conseguendo poi il riconoscimento della possibilità, invece, di allocarne le funzioni in capo ad altri soggetti; pervenendo, in sostanza, ad una situazione di precaria convivenza tra i due livelli che attende una soluzione stabile, sul piano politico e su quello costituzionale.

Del resto, l'ente di secondo livello presenta talora una natura ambigua; come si verifica per il Kreis tedesco, che non a caso in dottrina viene talora accostato alla nostra provincia, talora al nostro consorzio. La stessa traduzione è incerta, dato che si tratta di un soggetto dalla natura associativa, e oltretutto presenta la forte peculiarità di non configurarsi come ente necessario in tutto il territorio dello Stato, mancando (secondo una soluzione accolta, nell'ambito dei lavori di revisione costituzionale del '97-98, su proposta delle autonomie locali) nelle zone di grandi città, che godono della peculiare condizione di "Kreis frei"..

Per altro verso, le esperienze comparate evidenziano l'esigenza di prestare grande attenzione alle sovrapposizioni di competenza e, in particolare, a possibili fenomeni di attrazione di funzioni sovracomunali in capo ad "agenzie" che costituiscono emanazione di poteri superiori, presentandosi come forma distinta e autonoma rispetto ai soggetti del governo locale. In questa direzione, il caso più significativo è rappresentato dalla Gran Bretagna, ove una fitta rete di Quangos ha finito per porsi -quanto meno in alcune fasi- in una posizione di alternativa o concorrenza.

Sotto il profilo delle materie interessate, poi, la panoramica europea sembra evidenziare una tendenziale ricorrenza di temi, dalla gestione dei rifiuti ai trasporti, dall'energia alle risorse idriche. Ma su questi versanti, la questione della cooperazione intercomunale interseca quella (che va affermandosi in tutti gli ordinamenti, in attuazione -più o meno determinata e rapida- dei principi comunitari ) delle privatizzazioni e dell'apertura alla concorrenza, con effetti di profondo mutamento di ruolo del sistema del governo locale nel suo insieme.

Quanto al rapporto tra scelte degli enti locali interessati ed esigenze di ricondurre ad un quadro coerente una cooperazione che sempre soggetta a rischi di frantumazione, moltiplicazione e irrazionalità (la "balcanizzazione" cui si è accennato), vari Paesi prevedono interventi di livelli superiori. Così, il tema di "aree di cooperazione" è ben presente nell'ordinamento olandese, ove (secondo la legge del 1985) è demandato alle province il compito di delimitarle, su dibattito con le autorità comunali e l'amministrazione centrale.

In Francia, al prefetto -e alla specifica Commission départementale de cooperation intercommunale, composta da amministratori comunali, provinciali, ecc.- il Code général des collectivités territoriales affida un ruolo di coordinamento, anche con compiti di approvazione della lista dei comuni interessati, su iniziativa di un certo numero dei relativi consigli (cfr. artt L.5211-16, 5213-2,5214-2, ecc.).

Nel sistema spagnolo, questa prospettiva riguarda particolarmente la comarca (cui già si è fatto riferimento in relazione al caso catalano); la cui disciplina (ambito territoriale, organi -comunque rappresentativi dei comuni-, competenze, risorse) è demandata a leggi delle comunità autonome (ley de base de régimen local 7/1985, art.42)

Nella situazione italiana, la questione della "intercomunalità" si pone con particolare urgenza, precisamente in questa fase: in cui l'evoluzione dell'ordinamento mette in particolare evidenza le inadeguatezze dei comuni piccoli (e soprattutto piccolissimi: ben diversa è la situazione sostanziale di enti che non raggiungono i 100 abitanti da quella di realtà tra 10 e 15.000 ).

Inadeguatezze evidenziate ed accentuate, anzitutto, dai processi di decentramento di funzioni; ma anche, per altro verso, dalla stessa evoluzione del sistema finanziario. La quale, come è noto, tende in misura crescente ad incrementare l'incidenza delle entrate proprie, particolarmente tributarie, in rapporto a quelle da trasferimento. E se la percentuale delle prime è ormai giunto -come ricordava il Presidente Cerulli Irelli- al 67% delle risorse complessive a disposizione dei comuni, non è agevole comprendere come si reggano i 2.000 comuni che, in Italia, non raggiungono i 1.000 abitanti, o a quali livelli di contribuzione siano costretti i cittadini che risiedono in comuni di poche decine di abitanti (30, ad esempio, sono gli abitanti di Morterone), perché il comune possa disporre di un minimo di struttura.

In realtà, l'ipotesi che comuni di questo tipo non siano minimamente in grado di ricevere nuove funzioni -oltre che di esercitare una gran parte di quelle già attribuite dall'ordinamento- e, per altro verso, si trovino in una situazione di pesante e perdurante dipendenza finanziaria dai trasferimenti erariali, si presenta più che attendibile.

Del resto, lo stesso principio di distinzione tra funzioni di indirizzo e funzioni di gestione, tra competenze degli organi di governo e competenze dei responsabili di uffici e servizi, risulta, in queste realtà, di ardua applicazione; e, non a caso, le rappresentanze degli stessi enti locali insistono nel richiedere nuove regole di maggiore flessibilità.

In definitiva, sembra plausibile che, in questa fase, la costituzione di una rete di forme associative solide e funzionali si presenti come condizione imprescindibile per evitare una fuoriuscita dei piccoli-piccolissimi comuni dal quadro complessivo delle riforme.

In questo contesto si pongono i problemi puntuali di attuazione del disegno dei livelli minimi.

Una attuazione che si presenta generalmente ispirata, in questa prima fase, ad una notevole flessibilità. E mentre in un numero rilevante di regioni, la concertazione tra amministrazione regionale e rappresentanza degli enti locali per la individuazione dei "livelli minimi di esercizio associato delle funzioni" indugia, senza aver ancora prodotto risultati precisi, in altre (come in Emilia-Romagna) si è optato per un diverso percorso, che lascia in concreto agli stessi enti locali interessati le scelte relative alla individuazione degli ambiti associativi; mentre ogni intervento "dall'alto" (da parte della regione, ancora su concertazione con l'organo rappresentativo delle autonomie locali) è rinviato ad una (eventuale) seconda fase.

La forma associativa su cui punta la legge 265 del '99 è l’unione, affiancata dalla comunità montana, configurata (con varie difficoltà interpretative, come si vedrà) come "unione montana". Su un secondo piano, si collocano forme di carattere più flessibile; articolate secondo una gamma alquanto variegata, che si estende dalle convenzioni di carattere esclusivamente funzionale, alle convenzioni con contenuti (anche) organizzativi (uffici comuni), fino a convenzioni cui qualche legge regionale riconosce la personalità giuridica. I consorzi, che pure permangono, appaiono in questa fase assolutamente recessivi. Del resto, le loro prospettive, in attesa della approvazione della riforma dei servizi locali, permangono profondamente incerte.

Nella prassi sin qui sviluppata, le unioni si trovano ancora in una fase di prima esperienza. In concreto -a quanto risulta dai dati del Ministero dell’interno- sono 14 le unioni formalmente istituite e destinatarie di contributi statali (di durata decennale, per importi annui che oscillano tra 45 e 950 milioni). Di queste, ben cinque si trovano in Lombardia, tre nel Veneto, due rispettivamente in Emilia e Lazio, una in Toscana e Molise. Progressivamente questa forma, dunque, inizia ad affermarsi; anche se le cifre segnalano dinamiche da non trascurare, ma certamente ben distanti dal delineare un movimento di grande riordino del governo locale.

Del resto, centrale in questo processo di riordino è la collocazione che verranno ad assumere le comunità montane, nelle quali è ricompresa la gran parte dei comuni minori.

A questo proposito, il nuovo testo dell'art.28 della legge 142, come modificato dalla 265 del '99, ha posto consistenti problemi interpretativi, nell'affermare, anzitutto, che le comunità montane "sono unioni montane" (comma 1); dedicando, peraltro, una specifica disposizione all'ipotesi in cui il territorio dell'unione di comuni "coincide con quello di una comunità montana" (comma 7).

Questa antinomia ha dato luogo ad almeno tre tipi di interpretazione: secondo una impostazione tutte le comunità montane sono da ritenersi unioni montane ope legis, avendo dunque mutato natura, avendo assunto sin dall'entrata in vigore della 265 quella di unione, ferme restando le deroghe espressamente previste dalla legge; con la conseguenza che anche le comunità montane potrebbero considerarsi destinatarie delle relative incentivazioni; una opposta interpretazione ritiene che, in realtà, la disposizione che attribuisce alle comunità montane natura di unione si configuri come norma a carattere meramente programmatico, e che dunque anche i comuni ricompresi in comunità montane -laddove intendano perseguire le finalità proprie dell'unione e concorrere ai relativi incentivi- debbano istituire una ben distinta, nuova unione; avviando in questo modo il prodursi degli effetti previsti dal comma 7, vale a dire lo scioglimento della comunità montana coincidente e l’assorbimento delle relative funzioni in capo alla unione stessa; la terza interpretazione (accolta dallo stesso Vincenzo Cerulli Irelli nel suo contributo al commento alla legge n.265), considera che la comunità montana sia in sostanza una variante dell’unione, della quale non presenta però tutte le caratteristiche proprie, essendo in quanto tale priva di ogni posizione garantita nei confronti degli incentivi.

E' precisamente il tema dell'accesso agli incentivi a connotare l'esito della vicenda; che non può non considerare la preoccupazione -ben presente alle cauteli francesi nei confronti della "intercomunalità di facciata"- di evitare finanziamenti a soggetti che, qualunque forma assumano, non danno alla cooperazione una reale sostanza.

A questo scopo, mi pare essenziale provvedere sulla base di precisi parametri e soglie al di sopra delle quali il conferimento di funzioni in comune dà luogo all’accesso a certi livelli di finanziamento, oppure di indicatori anche più precisi, incentrati sulla quantità di risorse finanziarie e di personale che vengono messe in comune.

Del resto, lo stesso riferimento all'una o all'altra materia, in sé considerato, può risultare ben poco significativo: così, ad esempio, il riferimento all'esercizio associato delle funzioni in materia di polizia locale può alludere, da un lato, a forme di cooperazione diffuse che consentono ai vigili di un comune di elevare contravvenzioni anche nel territorio degli altri comuni convenzionati, oppure, dall'altro, alla costituzione di un unico corpo dei vigili urbani, alle dipendenze di un solo comandante.

Complessivamente, i criteri di incentivazione dovrebbero, a mio avviso: in primo luogo, individuare una serie di funzioni ritenute rilevanti e prioritarie, ai fini di un esercizio comune; valutare quindi i casi in cui effettivamente questo esercizio sostituisce ed assorbe interamente l'esercizio da parte dei singoli comuni, concentrando le relative risorse.

Del resto, occorre evitare che il sostegno alla cooperazione intercomunale mediante specifici meccanismi incentivanti proceda su canali indipendenti da quelli del disegno della finanza locale. Tra i due percorsi possono prodursi distorsioni e incongruenze; e il mantenimento di una coerenza di fondo può corrispondere ad importanti esigenze sostanziali.

D'altronde, l'attuazione del disegno tracciato dalle leggi 59/97, da un lato, e 265/99, dall'altro, pone ulteriori problemi non secondari. A partire da quello che concerne i possibili rimedi in caso di mancata costituzione, nelle concrete realtà locali, di qualunque forma di cooperazione.

Mi pare che, in questo caso, siano teoricamente percorribili quattro vie; nessuna delle quali, peraltro, si presenta priva di problemi applicativi: la prima soluzione è il ricorso ai poteri sostitutivi attribuiti alla regione; la quale, a fronte di una inerzia degli enti locali, scaduti i termini, è legittimata ad inviare un commissario, per sostituire i consigli comunali nell’adottare una forma associativa o collaborativa, decidendo la natura di questa forma, le funzioni da esercitare in comune, i conferimenti delle relative risorse, ecc. Probabilmente una soluzione di questo tipo si presenta non solo poco realistica, anche perché si tratterebbe non solo di assumere delicate decisioni nel momento iniziale (e già è arduo), ma anche di garantire una effettiva e funzionale gestione in comune; la seconda – se ne è già accennato – fa riferimento ad un comune capofila, immaginando cioè che il conferimento venga fatto nei confronti di un comune per un’area più vasta. Una soluzione di questo genere presenterebbe pregi di semplicità, ma anche inconvenienti non secondari, supponendo che gli organi di un comune adottino atti che incidono direttamente su altri territori comunali; che un sindaco, ad esempio, emani provvedimenti che riguardano una collettività amministrata da un diverso sindaco. Il rischio di disfunzionalità e di tensioni pare, anche in questo caso, molto elevato; una diversa via può essere quella di attribuire le funzioni direttamente a soggetti di dimensione più ampia rispetto al singolo comune. Il riferimento può riguardare la provincia, secondo il modello spagnolo. In effetti, la Ley de régimen local del 1985 (art.26) articola le funzioni per dimensioni comunali: fissando il nucleo di funzioni che debbono essere esercitate da tutti i comuni, ed aggiungendo ulteriori funzioni graduate in base alle dimensioni demografiche (rispettivamente: oltre i 5.000, i 20.000, 50.000 abitanti). Al di fuori dei comuni tenuti, all'esercizio delle diverse funzioni provvede la provincia. Soluzione interessante, ma che presuppone una provincia a geometria variabile, dotata di apparati di settore idonei a svolgere certe funzioni in determinati ambiti, altre funzioni in aree soltanto parzialmente coincidenti con i primi, ecc.; il meccanismo ora accennato può, del resto, essere esercitato in riferimento, ancora, alla comunità montana. Soluzione, questa, che mi pare maggiormente percorribile, ma che richiede alcune premesse e precisazioni. La comunità montana è contrassegnata da una grande ambivalenza: configurandosi talora come un soggetto di area vasta, come una sorta di "para-provincia", ricomprendente un numero assai elevato di comuni, con assemblee che superano il centinaio di membri, funzioni essenzialmente programmatorie, ecc.; talora atteggiandosi, invece, come una sorta di "para-comune", che ricomprende un numero assai limitato di comuni minori, operando concretamente per gestire le funzioni comunali che questi -singolarmente- non sono in grado di esercitare adeguatamente.. L’evoluzione sembra pendere decisamente a favore di questo secondo tipo di soggetto; quanto meno nelle previsioni del legislatore, che frequentemente, nella fase recente, ha fatto riferimento alla comunità montana come centro di esercizio di funzioni comunali. Tendenza, questa, che da un lato aiuta a risolvere un'ambiguità, però dall’altro presuppone anche che concretamente le regioni ridisegnino e le comunità montane si attrezzino in una maniera del tutto nuova rispetto a tradizionali assetti e abitudini di funzionamento..

Questa probabilmente è la via che può risultare più percorribile; scontando però che le resistenze non mancheranno, che occorre puntare fortemente anche su una professionalizzazione dal punto di vista gestionale delle comunità montane e che, anche a questo proposito, si presenta di grande importanza una efficace politica di incentivazione.

Una riflessione richiede, infine, il tema delle garanzie e delle cautele di carattere democratico. Nei vari paesi, quando si parla di forme associative, c’è una grande attenzione a due fenomeni contrapposti: l’aumento dei livelli elettivi; tema sul quale il Parlamento italiano ha ormai compiuto una scelta netta, eliminando la elezione diretta delle unioni, e rendendola facoltativa nei municipi, oltre che nei consigli circoscrizionali (in sostanza, sembra che la moltiplicazione dei livelli elettivi sia ormai vista, in Italia, con una cautela ben superiore a quanto non si facesse dieci anni fa); l preoccupazione (opposta) di evitare che i meccanismi di rappresentanza indiretta di una pluralità di enti produca circuiti decisionali e di responsabilità complessi e incomprensibili, sì che il ricorso alla forma associativa si traduca in mancanza di trasparenza e di responsabilizzazione delle amministrazioni locali nei confronti dei cittadini.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Grazie, professor Vandelli. Siamo entrati nel vivo, finalmente, dopo due anni che stiamo girando intorno a questo tema, e spero che questa sia la prima di una serie di occasioni in cui gli enti locali saranno fortemente coinvolti. Finché non ne parliamo approfonditamente e non vediamo tutte le implicazioni della questione, queste associazioni – sulle quali noi puntiamo in maniera assoluta per il successo della riforma – non partono.

Ringrazio molto il Vice Presidente Susta, qui, a nome dell’ANCI. Il Presidente Domenici ieri ci ha telefonato. L’ANCI ovviamente ci è molto vicina, e puntiamo moltissimo sull’apporto associativo dell’Associazione per la risoluzione dei nostri problemi pratici, che passano in larghissima misura per le iniziative che dal mondo comunale provengono. Prego, Presidente Susta.

 

Gianluca SUSTA, Vice Presidente ANCI. Anzitutto, grazie per l’invito. Vi assicuro brevità, anche perché i temi sono entrati nel vivo, e alcune indicazioni sono già state date. Lo stesso intervento del Presidente Chiti ha fissato alcuni punti che sono essenziali anche per noi.

Il mio intervento non può che essere di valutazione – se possiamo definirla così – a doppio binario, sottolineando da un lato il grande sforzo intellettuale, politico e legislativo di questi anni, la grande mole di attività che è stata realizzata per la predisposizione dei decreti delegati, dei regolamenti di semplificazione, dei decreti di trasferimento delle risorse; sottolineando inoltre come questo lavoro del Governo sia stato integrato da quello della Commissione bicamerale, presieduta dall’on. Cerulli Irelli. Il problema vero è che noi ad un certo punto abbiamo avuto la sensazione che questo processo si arrestasse, che all’interno del Governo non si parlasse la stessa lingua. Non possiamo quindi non sottolineare come estremo fatto positivo da un lato una riconduzione ad unità delle competenze della politica, dall’altro il lavoro enorme che sta facendo il commissario straordinario Pajno, con il concorso delle forze rappresentative del mondo delle autonomie locali, che speriamo raggiunga questo obiettivo.

Questo è il bicchiere mezzo pieno. Non possiamo tuttavia non sottolineare gli aspetti del bicchiere mezzo vuoto. Io non voglio entrare tanto in una risposta politica ad osservazioni che sono state fatte dal punto di vista della organizzazione degli enti locali e della preoccupazione che comunque questi ultimi ancora rappresentano i comuni, in particolare i comuni piccoli, perché non voglio togliere spazio a Torchio, ma tutti insieme uno sforzo per superare una mentalità secondo la quale i comuni rappresentano più un problema che una risorsa credo che dovremmo farlo, e credo che si debba dirlo con estrema franchezza anche nel contesto molto autorevole nel quale siamo ospitati.

Noi a che punto stiamo? Da un lato, la fase di conferimento ha raggiunto il momento più delicato, ma il lavoro del commissario straordinario ci conforta; dall’altro la fase di semplificazione vive con il secondo disegno di legge annuale un momento particolarmente rilevante: vicenda sulla quale mi limito a sottolineare che è positivo il testo, ed abbiamo espresso anche il nostro parere positivo all’interno della Conferenza unificata. Oserei dire che alcune osservazioni fatte dal ministro Bassanini sulla funzionalità del nucleo tutto sommato rappresentano un eufemismo, perché è un lavoro impostato più che avviato, e da questo punto di vista registriamo ancora qualche difficoltà, che non credo sia attribuibile solo a fattori di tipo logistico. Comunque l’impianto è positivo, ed io credo che ormai siamo in una fase nella quale la legge n.50 in qualche modo va a maturazione e diventa davvero un momento di attuazione di questa importante parte della Bassanini che riguarda la semplificazione.

Sul tema del conferimento, però, consentiteci qualche manifestazione di preoccupazione, non tanto sul piano formale, perché anche noi registriamo che tutto sommato l’autocompiacimento per aver rimesso in moto la macchina, per attendere alle procedure così come voleva non soltanto la lettera ma piuttosto la spirito della legge, è in qualche modo contraddetto quando andiamo a vedere davvero i contenuti di sostanza, che al sistema delle autonomie locali interessano in modo particolare; nel senso che, o questa è l’occasione affinché nelle maglie e nelle pieghe del bilancio dello Stato noi andiamo davvero a tentare di recuperare tutte le risorse disponibili per correlarle alle funzioni, in termini di trasferimento di risorse, di uomini, di personale e di soldi, per poterle esercitare, o non facciamo altro che demandare agli enti locali in modo formale funzioni che spesso, soprattutto nei servizi alla persona, di fatto già svolgono e integrano le attività dello Stato. Il commissario straordinario Pajno sa benissimo a cosa mi riferisco, perché abbiamo parlato qualche giorno fa dei problemi relativi all’istruzione, ad esempio, dove la quantificazione delle risorse è estremamente limitata, e mi auguro che nell’incontro che abbiamo oggi sui problemi della protezione civile, per capire quale tipo di risorse e di uomini sia possibile trasferire da questo punto di vista, anche lì tutto non si risolva nella stesura di decreti che dal punto di vista formale e di impostazione rientrano certamente in quella auspicata riforma generale dello Stato con cui ha esordito il commissario straordinario Pajno nel suo intervento di questa mattina, ma che poi non si traducono in null’altro che la ratifica di ciò che già gli enti locali fanno.

In altre parole, io credo che riforme senza costi sia difficile farne. Governo e Parlamento devono esserne consapevoli, e se non ci sono poste di bilancio specifiche, dentro le pieghe del bilancio, sia nei fondi ordinari sia in quelli straordinari, devono essere trovate le risorse perché quelle tre aree su cui si sta lavorando – territorio, ambiente, servizi alla persona e sviluppo economico – trovino, soprattutto le ultime due, veramente una puntuale attuazione.

Allora la nostra preoccupazione è di tipo, di contenuti e di sostanza, e apprezzando lo sforzo sulla forma chiediamo un supplemento di impegno sulla sostanza. Cito due vicende. Una la commento, perché l’ha ricordata il ministro Bassanini, e l’altra la invoco, e chiedo veramente che la autorevolezza del Presidente della Commissione bicamerale possa essere di supporto alla nostra attività.

La vicenda che commento è quella sullo sportello unico. Lo sportello unico è decollato, e la ricerca del FORMEZ lo dimostra, là dove sono state investite le risorse, dove si è messo in condizioni il sistema delle autonomie locali di godere di risorse aggiuntive (ma questo ha riguardato realtà limitate e sperimentali), ed ha funzionato là dove i comuni autonomamente hanno investito ingenti risorse. Mi si può rispondere che lo sportello unico è un fatto che attiene più alla semplificazione che non al trasferimento di poteri di accentramento, ma è altrettanto vero che va ad incidere sulla struttura organizzativa dell’ente, quindi sulla efficacia di un servizio che viene reso ai cittadini. Pensare di fare questo senza risorse è impossibile.

L’altra questione per noi irrinunciabile è quella del catasto. Qui abbiamo fatto una grande operazione con il decreto n.112. Tutti ricordiamo in Conferenza Stato-Città, in Conferenza unificata, l'allora Presidente del Consiglio, onorevole Prodi, e il ministro Bassanini sottolineare l’importanza di correlare il titolare dei tributi patrimoniali principali, che sono i comuni, ICI e via dicendo, alla gestione dello strumento fondamentale. Mi sembra di poter dire che la legge con la quale si va alla riorganizzazione dei ministeri e alla riforma della Presidenza del Consiglio abbiano tutto sommato introdotto degli elementi che rischiano di vanificare la portata di questa riforma.

Allora, in occasione di un confronto come questo, il sistema delle autonomie locali non può non rilevare le due grandi questioni che attengono ai comuni all’interno della Bassanini, che sono lo sportello unico ed il catasto: 1) se si fa, e viene fatto, con un investimento di risorse autonome dei comuni, spesso si è tradotto in un aumento della pressione fiscale, gestita dai comuni e non dal Governo centrale; 2) è rimasta lettera morta, anzi c’è una grande contraddizione di norme tra quelle derivanti dalla Bassanini e le nuove che sono andate avanti. Su questo credo che un chiarimento si renda necessario.

Sono questi gli aspetti del bicchiere mezzo vuoto, che il sistema delle autonomie locali comunque non può non rilevare. Credo che l’impegno nostro, così come quello dell’ANCI, dell’UPI, dell’UNCEM, delle regioni, in modo molto unitario e con un lavoro positivo e propositivo nei confronti del Governo e all’interno della Conferenza unificata, sia stato essenziale perché si arrivasse a ciò che di positivo c’è all’interno di questo processo fondamentale di riforma dello Stato. Penso che sarà ancora fondamentale il nostro concorso, spero unito e unitario come è stato fino adesso, per raggiungere gli ulteriori obiettivi, portare cioè a compimento il processo di varo dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri ed arrivare al 31 dicembre 2000 finalmente con la riforma compiuta. Dopodiché c’è l’altra fase che insieme dobbiamo gestire, ed è la vigilanza affinché non si torni indietro; vigilanza che significa individuare attraverso la Conferenza unificata un modo di monitoraggio costante sul territorio di come poi viene vissuta la fase di attuazione da parte delle regioni, nel rapporto tra regioni e autonomie locali all’interno delle conferenze, e se mi consentite anche da parte di altri poteri dello Stato. Mi riferisco in particolare alla magistratura amministrativa, che con interventi di questi giorni in situazioni di particolare difficoltà (penso alla Puglia, per esempio) certamente non sta dando segnali di condivisione di un progetto di riforma dello Stato, che forse necessita di ulteriori interpretazioni dal punto di vista legislativo o comunque di una risposta politica forte, perché diventano inaccettabili certe censure che sono state fatte al sistema delle autonomie locali.

Questo è il quadro che riteniamo di poter delineare, sia come impegno sia come valutazione. Siamo in un processo aperto, e non possiamo non rilevare la grande funzione che il Ministero della funzione pubblica sta svolgendo in questa fase con la Presidenza del Consiglio dei ministri. Ci auguriamo che tutti i ministeri lavorino con lo stesso spirito e con la stessa capacità di intervento sulla sostanza e non solo sulla forma. Qualche segnale di contraddizione forte rispetto a questo auspicio c’è, però noi crediamo che la forza del commissario straordinario, la forza del ministro Bassanini e – speriamo – del Presidente D’Alema vadano in quella direzione. Grazie.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Grazie, Presidente Susta. Rivolgo un caloroso saluto agli amici dell'ANCI. Vorrei adesso sentire il nuovo Presidente dell’UPI, al quale facciamo i più vivi rallegramenti.

Presidente Ria, la provincia esce tutto sommato rafforzata da tutta questa vicenda, per una serie di ragioni, alcune delle quali emerse questa mattina. Guardiamo al mondo delle province e all’UPI con particolare fiducia. Prego, Presidente.

 

Lorenzo RIA, Presidente UPI. Più che in mezzo al guado, secondo l’immagine che ci ha voluto lasciare questa mattina l’onorevole Frattini, mi sembra che il processo di riforma avviato dalla pubblica amministrazione con la legge n. 59 sia un grande cantiere aperto. Mi sento di definirlo così perché anche gli interventi di oggi ci hanno dato conto di questa idea, di questo lavoro che c’è a tutti i livelli istituzionali, a partire appunto dai "rami bassi" delle istituzioni. Si tratta però, appunto, di lavori in corso, e in questi lavori – lo ricordava un attimo fa il prof. Cerulli Irelli – la provincia vuol essere protagonista, assicurando il suo impegno.

Mi si perdoni questa punta polemica, ma nel saluto, nella introduzione del Presidente della Camera Violante c’è stato più di un passaggio nel quale il riferimento era a regioni-comuni, al sistema di autonomie, che vedono comunque e solo al centro l’ente comune. Il ministro Bassanini ha poi voluto ricordare che invece proprio questa riforma, la legge n.59, ha rappresentato per la provincia una svolta fondamentale, determinando indubbiamente un salto di qualità e un effettivo rafforzamento dell’ente intermedio. Questa considerazione di carattere generale la voglio fare, perché non è paradossale affermare che le trasformazioni avvenute nell’ordinamento delle autonomie locali, a partire dalla legge n.142 in poi sino alla legge n.59, pongono la provincia al centro dei nuovi assetti istituzionali. Qui non si tratta di rivendicare ruoli o funzioni in più rispetto agli altri livelli istituzionali, ma sicuramente al centro dei nuovi assetti istituzionali vi è questo ente intermedio, questo ente di governo di area vasta e di coordinamento del territorio e dello sviluppo locale.

Richiamo questi punti, che per noi sono importanti, perché tutta questa riforma, tutto questo processo di trasferimento di competenze e di funzioni, deve avere un obiettivo; e l’obiettivo secondo noi è che l’adeguamento degli apparati burocratici, istituzionali e amministrativi è necessario per rendere capaci questi soggetti di sostenere le sfide competitive del sistema paese. Quindi non vi è dubbio che il ruolo della provincia è quello di una componente necessaria nella impostazione delle strategie dello sviluppo, che oggi sono soprattutto basate sul localismo, sui sistemi locali, sulla concertazione, sia pure nel contesto globale. Quali sono secondo noi i nodi ancora da sciogliere, i punti critici, ai fini della implementazione del federalismo amministrativo? Non c’è dubbio che – e sono state richiamate questa mattina – alcune resistenze vi sono da parte di certi settori, di certi organi dello Stato, ancora favorevoli ad un residuo di concentrazione di poteri anziché ad una loro definitiva dismissione. I ritardi – che pure ci sono e che qui sono stati richiamati – si spiegano anche con questa azione di rallentamento. Non vi è dubbio comunque che la questione più spinosa e delicata è quella cui faceva riferimento il VicePresidente dell’ANCI, ed è quella del trasferimento delle risorse finanziarie e del personale necessari per il concreto esercizio delle funzioni conferite. Vi è cioè un rischio che per le nuove funzioni non vi sia la necessaria copertura finanziaria.

È questo un rischio che intendiamo qui sottolineare, perché rispetto ai necessari approfondimenti di livello istituzionale ed anche normativo, noi portiamo qui la voce di chi invece deve confrontarsi con i problemi concreti, che sono poi quelli relativi all’effettivo funzionamento della macchina burocratica.

Il disegno normativo istituzionale è stato completato, ma la questione centrale rimane quella delle risorse. Le risorse sono scarsissime, rispetto invece ad una esigenza avvertita di miglioramento dei servizi. Facciamo riferimento, più che alla scuola, ai centri per l’impiego, anche per la funzione che essi possono svolgere, soprattutto in alcune regioni dove ancora molto forte è il problema della disoccupazione. Per i centri per l’impiego noi non possiamo proporre pari pari nel funzionamento delle province quelli che erano gli uffici di collocamento, che non funzionavano, che non erano dotati di attrezzature, che non erano in rete tra di loro, che non offrivano servizi adeguati al disoccupato o a chi è in cerca di prima occupazione.

Un dato voglio qui riferire: rispetto ai trasferimenti di risorse che ci sono stati, le province mediamente hanno dovuto attingere al proprio bilancio per coprire almeno in misura pari alle risorse che sono state trasferite. Questo chiaramente ci motiva ancora di più, ci spinge a fare meglio, ma dobbiamo poi fare i conti con le esigenze di un bilancio che a sua volta deve fare i conti con il patto di stabilità a cui siamo chiamati come enti locali, per mantenere il deficit pubblico nei limiti che ci sono imposti dalla necessità di rimanere nell’Unione Europea.

Vi sono quindi molti tavoli tecnici che ancora sono fermi per queste ragioni di natura molto concreta: quello relativo alla pubblica istruzione, cui faceva riferimento un momento fa il Presidente Cerulli Irelli, quello dei trasporti, quello della viabilità, quelli relativi all’energia. Vi è ancora una sottostima di risorse, vi sono funzioni relative a questi settori, che le province dovrebbero poter esercitare con due unità soltanto. Qui non si tratta solo di un problema di risorse finanziarie che non vengono trasferite, ma vi è anche un problema di trasferimento di personale, per cui tutte le funzioni che erano per esempio della Motorizzazione, alcune province dovrebbero esercitarle con una-due unità, stando alle ipotesi, al vaglio dei tavoli tecnici che stanno lavorando su questi DPCM ancora da approvare. Ci sono poi i beni strumentali, che pure fanno parte dell’insieme delle risorse che devono essere trasferite e che vengono sottaciuti, per non dire occultati, nella visione cui prima facevo riferimento in base alla quale occorre mantenere quanto più possibile al centro quelli che sono beni strumentali che devono far parte dell’insieme delle risorse da trasferire.

Non è d’altra parte soltanto un problema di responsabilità da attribuire ad altri. Vedo che c’è ancora uno scarso impegno tra regioni ed enti locali alla partecipazione dei processi decisionali. Anche nella attuazione delle leggi regionali che pure ci sono, il metodo della concertazione è ancora ad un livello molto basso.

Allora, le soluzioni possibili sono quelle a cui molti hanno fatto riferimento: creare la cultura del decentramento, per esempio. Questi incontri, peraltro previsti dalla legge, ovviamente vanno bene, perché bisogna fare il punto, perché bisogna far crescere e migliorare sul piano normativo anche le tecniche di trasferimento, attraverso appunto i decreti, però la cultura del decentramento deve crescere anche in periferia. Credo che dobbiamo porci anche questo problema, per attenuare i difficili rapporti che ci possono essere e che ci sono ancora tra livello regionale e livello delle autonomie. Il Presidente Mancino questa mattina faceva riferimento alla dicotomia Stato-regioni, che negli anni settanta non fece decollare il decentramento del decreto n.616, ed oggi rischiamo che a quella forma di centralismo si sostituisca una sorta di tanti centralismi regionali. Vorrei, come auspicava questa mattina il ministro Amato, che venti sistemi regionali potessero produrre molto di più di quello che può produrre il centro, però qui è stato fatto riferimento anche a regioni che sono inadempienti, ed anche da parte mia lo voglio sottolineare: la regione Puglia, la mia regione, è sicuramente tra quelle inadempienti, ma non è la sola, vi sono dei ritardi anche in questo processo e c’è il rischio che negli anni duemila si ripeta quella dicotomia che vi era negli anni settanta fra centro e periferia e che oggi può essere fra il centro di potere regionale e gli enti locali.

È cultura del decentramento quindi preparare personale specializzato e qualificato. È il tema della formazione. Gli enti locali possono crescere, ed è stato qui fatto riferimento alla funzione che possono svolgere le province, se c’è una dirigenza qualificata, se c’è complessivamente una burocrazia locale molto più preparata rispetto al passato; perché è insieme alla burocrazia che gli amministratori possono vincere la sfida del decentramento amministrativo, del federalismo amministrativo.

Infine, le riforme. La cartina di tornasole sono le riforme finanziarie e quelle fiscali, perché in questo processo di riorganizzazione un passo avanti c’è stato (verrà nei prossimi giorni esaminata la legge sul federalismo fiscale), ma anche qui dobbiamo andare di pari passo, per giungere ad un risultato che sia complessivo, perché è solo una reale autonomia finanziaria che costituisce sicura garanzia per l’attuazione del processo in atto di riforma della pubblica amministrazione; un processo di riforma rispetto al quale il Paese non può tornare indietro, e sicuramente non vi tornerà, perché c’è questo sforzo comune tra province e comuni per una concordanza di intenti. Io leggo una concordanza di intenti anche tra le forze politiche, una concertazione tra le forze sociali, e sarà questo sforzo che potrà portarci al traguardo definitivo di questo impianto, che una volta completato potrà poi dare dei risultati nei prossimi anni. Grazie.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Grazie, Presidente Ria. Invito ora a prendere la parola il Presidente Gonzi dell’Unione comunità montane.

Mi permetto soltanto di dire un paio di cose. La provincia deve adesso, in questi mesi, svolgere un ruolo essenziale. Certo, ha i suoi problemi, conosco bene quello dell’edilizia scolastica e so bene in quali guai si trovano i poveri amministratori provinciali in questi mesi, però – ripeto – essa deve svolgere un ruolo politico importante, proprio per attuare questo processo di cui ci stiamo occupando. Non so come nei prossimi mesi, con Pajno, con il ministro Bassanini, questa cosa riusciremo a risolverla, però ci troveremo sicuramente al 31 dicembre 2000 con i decreti di trasferimento fatti (mi fido di Pajno, perché senza di lui secondo me non si sarebbero fatti), ma con tutta probabilità ci troveremo invece con le associazioni non fatte. E questo non tanto per cattiva volontà, ma perché la questione è difficile, in Italia è nuova. La Francia gode di quella situazione che ci ha descritto il professor Vandelli, ma ha cominciato trent’anni fa! Il problema è difficile, quindi, e al 31 dicembre sicuramente ci troveremo con qualche associazione fatta in giro per l’Italia, ma il grosso non sarà fatto. A quel punto, come faremo fronte?

Una risposta un po’ salomonica il legislatore l’ha data, buona o cattiva che sia: là dove ci sono le comunità montane, in attesa di soluzioni definitive operano le comunità montane, e questa è comunque una risposta, anche se necessita poi delle misure richieste da Vandelli. Il Paese è montano, quindi il grosso dei piccoli comuni è dentro la montagna, ma non tutti: l’Emilia Romagna ha una grande pianura, la Val Padana pure, nella stessa mia regione abruzzese (c’è qui il Presidente Di Stanislao) hanno già costituito una città territorio di 60 mila abitanti, una iniziativa nata dal basso e che opera tutta in zona di pianura, ma c’è soltanto lì, nelle altre parti della regione non c’è.

La situazione è insomma difficile, e al di fuori delle zone montane io credo che alla fine dovremo trovare un’altra soluzione salomonica e dire che là dove non ci sono le associazioni operano le province. Mentre, a mio giudizio, non si può condividere la soluzione data al problema dalla regione Lazio e dalla regione Molise, secondo me illegittime, che se le associazioni non si costituiscono comunque operano i comuni. Questo non si può dire, perché vìola un principio della delega: se la regione afferma che tutti i comuni sono adeguati, va bene; ma se afferma che non lo sono, e in conseguenza impone la costituzione dell’ambito nella forma associativa, non può poi affermare: se questa non si forma, non importa, comunque operano i singoli comuni. Questo, a mio giudizio, vìola un principio della delega.

E non funziona l’altra soluzione, che stamattina è stata oggetto di esame o comunque di citazione, e cioè che in questi casi opererebbe un comune di riferimento. È previsto sì in qualche legge regionale, ma mi sembra alquanto strano che un comune possa gestire funzioni degli altri!

Allora, se entrambe le vie sono sbagliate, o addirittura una è illegittima, non resta che la provincia. Ecco quindi che questa viene a giocare un grossissimo ruolo. Noi vorremmo anche che la provincia in questi mesi (per meglio dire in questi giorni, visto che la questione è all’esame) svolgesse un ruolo di promozione, cosa che può fare molto più facilmente rispetto alla regione, perché conosce meglio la situazione; promozione nel senso che convoca i comuni, gli fa anche un po’ di scuola, rappresentando la realtà della situazione normativa, in molti casi non da tutti conosciuta, e prospetta delle soluzioni progettuali. Ecco, credo che questo ruolo la provincia lo debba svolgere, e debba svolgerlo, da qui alla fine dell’anno; così come credo che un ruolo di coordinamento generale lo possa svolgere l’UPI con il suo nuovo Presidente.

La parola al Presidente Gonzi, che ringrazio particolarmente per esserci stato molto vicino in questo periodo.

 

Guido GONZI, Presidente UNCEM. Ringrazio il Presidente Cerulli Irelli, perché a meno di un anno di distanza dal primo appuntamento ci ritroviamo qui a fare ulteriormente un esame della situazione della legge n.59; esame che non è diventato di routine, perché si riferisce ad una serie di tematiche che il Parlamento ha già affrontato con la legge n.265 e che quindi vedono coinvolte da un lato l’attuazione della legge dello Stato, dall’altro l'attuazione dei decreti delegati, che ancora sono in fase di attuazione regionale oppure sono ancora pendenti a livello nazionale.

Scusatemi se prima di entrare nel merito di quanto mi ha chiesto il Presidente farò un riferimento all’importante lavoro svolto dalla Commissione bicamerale, perché chi come me sta nella Conferenza unificata ha potuto valutare contemporaneamente il lavoro del Governo, il lavoro della Conferenza e il lavoro di questa Commissione. Qui c’è una attività sui provvedimenti specifici, ma c’è anche di più una tenuta di un quadro complessivo dei mutamenti del sistema pubblico sul monitoraggio, e c’è uno sprone, una promozione sotto il profilo politico ed un incalzamento della attività del Governo. Questi elementi sono stati tutti svolti da questa Commissione bicamerale, e significativo è il fatto stesso che questa mattina da due punti di vista politici opposti l’on. Frattini ed il ministro Bassanini abbiano auspicato da questo tavolo una ulteriore possibilità di impiego della Commissione per coordinare la legislazione ordinaria. Credo che questo sia stato il più ampio riconoscimento che si potesse dare a questa Commissione e al suo Presidente, perché hanno saputo svolgere un ruolo effettivamente di grandissimo rilievo.

Secondo la nostra posizione, per trarre ora un consuntivo della attuazione sin qui realizzata della legge n.59, ne vanno evidenziati anzitutto quegli esiti, che discendono direttamente dalle sue scelte più innovatrici, e dirò che io sono soddisfatto per come tutto sommato le cose sono andate e stanno andando. Ci sono sì alcuni ritardi, ma non siamo ad una interruzione del movimento, che invece si sta realizzando. Se riusciremo a bypassare la fase della elezione delle regioni a Statuto ordinario, portando a casa sostanzialmente un pacchetto consistente di attuazione da parte delle regioni delle norme di loro competenza, credo che il traghettamento alla futura fase dell’altro mandato regionale ci consentirà di operare senza ritardi esageratamente pericolosi.

Se teniamo presente che nel frattempo la legge n.265 ha secondo noi attuato quello che il primo capo della legge n.59 aveva sancito, in larga parte e pur con tutte le perplessità che ciascuno di noi può avere, se facciamo una valutazione d’insieme ci rendiamo conto che l'autonomia dei comuni, delle province, delle comunità montane in campo statutario, normativo, organizzativo e finanziario ha avuto degli spazi crescenti. E ci sono state anche risposte più precise e puntuali con le crescenti esigenze di adeguamento della loro organizzazione.

Venendo al tema della montagna: se guardiamo al riordino del sistema autonomistico delle zone di montagna, che coprono oltre il 50 per cento della superficie nazionale, è chiaro che dovremmo dire che la sollecitazione del libero e volontario associazionismo dei piccoli comuni, e la essenzialità delle comunità montane, che sono state confermate e rafforzate nella duplice prospettiva di ente locale e di momento di aggregazione funzionale e di cooperazione dei comuni montani, fa fare un passo avanti al disegno che era stato visto in precedenza. E questo è un dato positivo, perché se noi partiamo dall’esame dell’art. 1 della legge n.59, da lì andiamo al decreto legislativo n.112 e andiamo a individuare quella che io leggo come una vera e propria istituzione, o prefigurazione di un sistema comuni montani/comunità montane, e andiamo oggi ai provvedimenti di cui stiamo parlando, vale a dire la legge n. 265 del 1999, vediamo che per l’area montana c’è uno sviluppo che sarà certamente ancora piuttosto anomalo, che è però abbastanza coerente rispetto al dato di partenza costituito dall’art. 1 della 59. Se il Parlamento con la legge n.265 avesse inteso cassare, o modificare o ridefinire, l'indicazione che aveva già espresso con la prima legge Bassanini, ne avrebbe avuto tutte le facoltà; ha voluto invece operare in coerenza con l’art. 1 della legge n.59, e da questo punto di vista spero che terremo presente il fatto che facilmente il Parlamento sarà chiamato a ridefinire il quadro in tempi brevi, ma che la approvazione della 265 possa essere un momento nel quale la situazione si stabilizza per un certo periodo di tempo, e semmai le incongruenze o le cose che non vanno verranno modificate dalla regia che sostanzialmente le varie parti del sistema cercheranno di avere in modo coordinato tra di loro.

Io sono del parere che oggi, più che ad una fase di ripensamento, dobbiamo andare ad una fase possibilmente di attuazione. L’anno scorso in questa stessa sede sottolineavo l’esigenza che vi fosse, in assenza di difficoltà create dalla legislazione regionale, l’attenzione verso le comunità montane come una risorsa già esistente nella montagna per l’associazionismo, mentre in altre zone non montane dovranno essere trovate altre soluzioni.

Vediamo un attimo il quadro, così come io l’ho sempre pensato. Quando si cominciarono a discutere le modifiche della legge n.142, il disegno di legge Napolitano-Vigneri, io feci saltare sulla sedia il Presidente della I Commissione del Senato, Villone, perché all’udienza conoscitiva, prima ancora di parlare delle comunità montane, proposi che le unioni dei comuni venissero tolte da quella indicazione legislativa della legge n.142 nel senso di essere l’obitorio dei comuni che vi facevano ingresso, per diventare uno strumento di cooperazione tra i comuni; così come in montagna in effetti erano, o dovevano essere, le comunità montane. Le cose sono andate in un modo leggermente diverso, comunque lungo questa linea, perché non ci si è più orientati verso la soppressione, verso la fusione, verso i provvedimenti di eliminazione dall’alto dei piccoli comuni.

Sono solito ripetere una frase, e mi scuso con chi l’ha già sentita: i comuni sono come degli esseri viventi, non si possono uccidere. Si prende atto che sono morti, quando sono morti o quando decidono di togliersi di mezzo in qualche modo, ma non possiamo immaginare che qualcuno surrettiziamente pensi che un comune possa essere eliminato; questo per la ragione che molto spesso per chi opera da una visuale diversa rispetto a quella di chi sta in quel comune possono esserci delle ragioni, che da un punto di vista generico portano alla idea della eliminazione di esso, mentre per ragioni di carattere estremamente concreto e specifico (la vastità territoriale, la collocazione, il fatto di essere un comune di confine di Stato, centomila ragioni insomma…) quel determinato comune fintanto che è possibile lo si deve mantenere. Questo è il punto.

Oggi noi siamo nella condizione di poter svolgere una operazione di tipo diverso. C’è un processo volontaristico… Attenzione, è un fatto di cultura, e la cultura non si trasforma da un modo in un altro per legge nel giro di pochi momenti, cancellando la cultura del campanile, che è stata esasperata dalla legge n.81 sulla elezione del sindaco, in un momento in cui sono venute meno anche le mediazioni che i partiti politici facevano sul territorio, soprattutto là dove i comuni sono piccoli e dove quindi c’è un conflitto almeno apparente di interessi tra i comuni contermini. Tutto questo, che le leggi n. 265 e n. 59 intendono superare, va superato nel tempo, creando un fenomeno che prima di tutto deve essere appunto di tipo culturale.

C’è poi il problema dell'incentivazione. Non credo che l’incentivazione vada data all’unione dei comuni perché sorge o alle comunità montane perché esistono. Credo invece che vada data a chi associ le funzioni e i servizi, e lo dimostra; altrimenti rischiamo da un lato di essere prigionieri di nominalismi, dall’altro di fare quello che è stato detto stamattina in ordine al salario di incentivazione, che finisce per venir dato poi a tutti.

Il problema è molto semplice. Noi abbiamo recentemente condotto, in modo artigianale, un secondo esame della situazione delle comunità montane, che operano su deleghe dei comuni associando funzioni e servizi (ne ha dato qualche notizia sabato scorso il Sole 24 Ore). Questa segue una prima analisi che facemmo tre anni fa su input del ministro Bassanini. Non esiste in tutto il Paese una legge statale o regionale che dia ai comuni o alle comunità montane che associano servizi e funzioni, né una lira né un vantaggio; vi sono anzi delle leggi che in molte regioni cercano di impedire che le comunità montane associno funzioni e servizi comunali, privilegiando altri soggetti che evidentemente poi non sono scelti dai comuni. Se questo è vero, come è vero, credo che noi dovremmo nel prossimo periodo cercare da un lato di costruire quello che i comuni hanno cominciato a costruire da soli in montagna e che le comunità montane nel tempo hanno favorito, e dall’altro di governare il sistema. Ha ragione il prof. Vandelli, quando stamattina sosteneva che esiste una certa ambiguità nell'istituto delle comunità montane, perché questo può essere una para-provincia o un para-comune; dirò anzi di più: era un para-ente locale, quando nel 1971 venne immaginato dal legislatore, tant’è che la comunità montana diventa ente locale per pronuncia della Corte costituzionale, e tra l’altro in modo indiretto, per cui a un certo punto è solo dal 1990 che la comunità montana diventa ente locale, con la legge n.142.

Circa l’ambiguità della comunità montana, credo quindi che non esista ente più ambiguo, perché l’ente dipende non tanto dalla concezione generale degli enti locali, quanto dall’art. 44 della Costituzione, secondo cui la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane. Per un certo periodo di tempo, negli anni dell’immediato dopoguerra, i provvedimenti erano difesa del suolo, incentivazione all'agricoltura di montagna, forestazione; a un certo punto poi il Parlamento ha pensato che era meglio procedere con uno strumento che aveva la montagna, vale a dire da un lato la programmazione territoriale socio-economica dell’area di montagna, e dall’altro l'istituzione delle comunità montane; la quale ultima è così diventata lo strumento della politica della montagna. Se riteniamo che debba esserci ancora uno strumento per una politica per la montagna, questo c’è già: giustamente la legge n.265 ha inteso utilizzare la comunità montana, anche con la finalità di procedere a sistemare le operazioni dei servizi e delle funzioni, che altrimenti i piccoli comuni delle aree montane avrebbero avuto difficoltà a sistemare.

Questa è a nostro avviso, con molta modestia ma con altrettanta convinzione, la linea che dovrebbe essere portata avanti per non perdere ulteriormente del tempo. Questa mattina è stata fatta dal ministro Bassanini – e lo ringrazio - una valutazione in ordine allo sportello unico per le imprese. Penso ad alcune ragioni per cui, nel momento in cui doveva partire questo sportello, invece di favorire i processi di concentrazione nel modo più rapido e semplice possibile nella periferia più modesta dal punto di vista organizzativo ed economico, quali potevano essere le zone montane, ci si è premurati di creare delle istituzioni o dei raggruppamenti, studiati a tavolino, che poi non hanno funzionato, per cui queste zone, che più di tante altre avrebbero bisogno dello sportello unico delle imprese – che oltre all’aspetto autorizzativo ha anche quello di natura conoscitiva e per certi versi direi promozionale della capacità territoriale – a questo punto invece non l’hanno avuto.

Concludo, Presidente. Ritengo di poter ulteriormente ringraziare per questa possibilità di approfondimento che con il lavoro di oggi ci è stata offerta, dicendo che noi dovremmo cercare di utilizzare gli strumenti esistenti e quelli già operanti. Lungo la strada, se avremo modo di trovare delle altre soluzioni che ci consentano di migliorare o di ritoccare quello che il legislatore ci ha dato, lo faremo certamente; credo però che non dovremmo andare oggi alla ricerca del perfezionismo, altrimenti si rischia il grosso guaio che proprio là dove, come nei piccoli comuni, c’è un maggior bisogno di essere concreti e rapidi, ci troveremmo, data la larghissima entità che la montagna ha in questo Paese, nella situazione di non risolvere affatto i problemi.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Grazie, Presidente Gonzi. Mi sembra che a questo punto queste regioni occorra – come posso dire? – "stressarle" un po’! L’assetto del governo territoriale, insomma, è ormai definito: è dato dal comune e dagli enti associativi di comuni, e per le zone montane dalle comunità montane. Poi c’è la provincia, e basta: questo è l’assetto. Lo sportello unico nelle zone montane lo deve fare la comunità montana. È pacifico, il legislatore lo ha detto. Poi, certo, se c’è un comune particolarmente significativo, lo potrà fare da solo; i piccoli comuni, però, si aggregano per lo sportello unico attraverso la comunità montana, ed anche su questo forse dovremmo un po’ monitorare tutto quanto l’andamento, forse dovremmo monitorare meglio le stesse leggi regionali e l'attuazione di esse, forse occorre utilizzare questa sede – anche perché questa è una sede parlamentare, e come tale del tutto al di sopra delle parti – per seguire l’andamento dell'attuazione della riforma a livello periferico, utilizzando come terminali proprio le associazioni di categoria, guidate dagli amici che sono qui presenti.

Debbo adesso scusarmi con gli amici e colleghi, perché il lavoro è molto affollato, ma d’altra parte dobbiamo utilizzare il tempo al meglio. Fermo restando che potremmo organizzare un incontro più specifico e magari più tecnico (oggi era un incontro anche politico, con i Presidenti delle Camere, i ministri), specificamente per studiare le realtà associative, vorrei che la mia Commissione si facesse portatrice di un messaggio nazionale, su questa questione, a tutti i livelli territoriali; e poi, ognuno si assumerà le proprie responsabilità. Adesso vorrei utilizzare quest’ora e mezzo che ci resta per sentire il Presidente Torchio, che ringrazio molto cordialmente, e poi i rappresentanti delle diverse realtà associative.

Noi abbiamo ritenuto di compiere una scelta. È evidente che i piccoli comuni fanno parte dell’ANCI, di cui anzi sono parte essenziale, però presentano una serie di specificità, tra le quali una in questi mesi è all’ordine del giorno. Mi riferisco alla necessità di associarsi, al fine di risolvere i problemi organizzativi, che in parte abbiamo affrontato, al fine di attuare la riforma. Ho pregato il Presidente Torchio di portarci qui per un primo contatto alcune realtà associative che via via si vengono formando in giro per il paese, per dar loro già qui in Parlamento una voce, anche perché resti una prima traccia nei nostri lavori parlamentari di questo primo incontro con queste realtà che hanno tanto futuro, con le massime istituzioni del Paese.

Vorrei quindi che il Presidente Torchio ci facesse una rapida introduzione sui problemi pratici di fronte ai quali ci troviamo, poi vorrei sentire i rappresentanti delle diverse associazioni, che possono portarci la loro specifica esperienza. Mi riferisco ad esempio a come si è arrivati alla definizione degli ambiti nelle diverse realtà, quindi in maniera spontanea, senza l’intervento della regione: questa è cosa che ci interessa fortemente. Quali criteri sono stati seguiti? Quale forma associativa è stata prescelta? Il consorzio? Perché il consorzio? La legge n.265 dà un largo spazio (credo che il legislatore sia stato lungimirante) all’utilizzo dello strumento convenzionale, che consente di creare uffici comuni senza impegnarsi nella costituzione di un nuovo ente: chi l’ha seguito? E quali sono i problemi?

Queste questioni pratiche ci interessano fortemente; così come naturalmente ci interessa il messaggio politico, insito in questa nostra seduta, che credo sia il primo incontro nella storia d’Italia del Parlamento con la nuova dimensione del governo locale. Questa è infatti la nuova dimensione del governo locale.

La parola all’amico Torchio.

 

Giuseppe TORCHIO, Presidente della Consulta dei piccoli comuni. Grazie, Presidente. In primo luogo desidero ringraziare, e davvero con sincerità, il Presidente Cerulli Irelli per questa attenzione. È evidente che in questo Parlamento, magari non lontano da qui, c’era un’altra sala dove - dapprima alla nostra sinistra e in un tempo successivo alla nostra destra – si riuniva l’altra Bicamerale, e penso ciascuno di noi che vive nelle autonomie avesse posto buona parte dei nostri sogni rispetto ai bisogni di un federalismo più forte. Oggi però resta questa possibilità, attraverso appunto la verifica di quello che il Parlamento ha fatto, anche nelle cose "minori" rispetto al grande processo riformatore, per trarre le conseguenze, monitorare quello che va, imprimere magari una accelerazione rispetto ad alcune cose possibili.

È evidente che il legislatore ha iniziato gli approcci in termini molto decisi. Bisogna fondere, bisogna unire (più fondere che unire), vi è una situazione di comuni medio-grandi in regioni centrali, una situazione di comuni-polvere in altre regioni, soprattutto al nord ma anche al sud, quindi occorre indicare come porre mano attraverso uno strumento unitario. È questa una grande difficoltà, non tutti riescono a partire con la quinta… Vi è una questione federale che per molti aspetti in questo paese trae origine anche dal campanile, è inutile nascondercelo. Non vorrei continuare a citare Alexis de Tocqueville sulla questione oramai veramente stancante dei comuni che vengono da Dio, ma in effetti, se noi oggi andiamo a riferirci alla gente, quando qualche cosa non funziona, con tutta l’assistenza domiciliare e i servizi diffusi, va dal sindaco. Allora, come arrivare a questa integrazione di servizi? Noi abbiamo immaginato che se andassimo a fotografare quello che già oggi avviene, ci troveremmo di fronte di fatto ad alcune centinaia di unioni in essere, che non lo sanno, perché hanno già messo insieme – e non da oggi, ma forse dallo stesso momento istitutivo – una serie di servizi e di iniziative di attenzione alla persona, all’economia, al territorio, senza però avere utilizzato lo strumento che è oggi codificato dalla legge. Sono convinto che ne scaturirebbero delle grandi sorprese. Probabilmente nessuno di noi ha fatto un’azione certosina: invece di fare ogni decennio un censimento dell’agricoltura o tutte le altre cose che stiamo facendo, dovremmo forse – magari insieme – promuovere una sana Commissione di indagine, e con l’impegno delle associazioni e delle autonomie penso che troveremmo un grande giacimento di iniziative già operative: manca solo il timbro e la sanzione ufficiale da parte del livello territoriale del riconoscimento. Non dico che non si debba andare in direzione di una integrazione, però non mi nascondo che nell’ambito di questo lavoro che tu, Presidente, e la Commissione state facendo, sia necessario fare alcune verifiche.

La prima, riguarda la possibilità di immaginare che questo decentramento federale avvenga senza una più marcata attenzione verso un decentramento di natura finanziaria. Già è stato compiuto il passaggio regionale, ma noi immaginiamo una "repubblica dei tre terzi", dove appunto quel terzo che manca è quello che noi aspettiamo. Naturalmente dico questo in modo provocatorio, perché in questa fase siamo ancora molto lontani. Anche coloro che volevano la secessione probabilmente rinunceranno alla loro bandiera.

Si tratta di una rivendicazione che penso rafforzerà il sistema-paese, e viene anche da una parte politica che ha sempre immaginato di salvare l’equilibrio economico-finanziario facendo il proprio dovere. Dico anche che gli ultimi governi hanno ampliato l’area dei doveri, dalle tesorerie a tutte le altre diavolerie. Voglio dire che abbiamo fatto anche noi il nostro sforzo, tuttavia immaginiamo che ci sia questa necessità: quale che sia la forma di maggioranza, di alleanze politiche, è necessario per il bene della struttura federale del Paese.

Allora, io trovo dentro questi passaggi, anche nelle traduzioni regionali delle Bassanini, degli avverbi che sono preoccupanti. Trovo nella legge 1/2000 della mia regione l’avverbio "gradualmente", riferito alle risorse, che – per citare il mio vecchio amico Mino Martinazzoli – ricorda l’aneddoto di quel prefetto che rendicontava il suo ministro con un telegramma: "Urge procrastinare"! Questo "gradualmente" è appunto la fotografia di questa urgenza di tirare i tempi lunghi per arrivare alla soluzione del problema, ed è proprio di tutti coloro che evidentemente immaginano un meccanismo costellato di crisi di governo, di salti e di cambi di corsia, di ribaltini e di ribaltoni, che alla fine impedisce poi ad un processo di andare avanti.

Nel monitoraggio della applicazione della legge n.59, cerchiamo quindi anche di individuare alcuni elementi di ambiguità.

Vengo subito al punto della materia, perché non desidero far perdere altro tempo. Immaginiamo che il chiamarci qui oggi, magari approfondendo con un’altra sessione quando e se si potrà per entrare nel vivo, significa davvero far parlare una serie di amministratori, di amici, che si sono impegnati su questi aspetti in maniera volontaria. Aggiungo che non è immaginabile che questo processo avvenga senza un impegno di natura economica. La leva incentivante non può essere un manganello coattivo, ma è legata anche alla necessità di superare una serie di contraddizioni. Questo è già avvenuto: un comune superiore ai cinquemila abitanti può mettersi insieme con altri comuni più piccoli, come uno che è in una provincia con quello della provincia accanto, e devo dare atto che tutta una serie di limature è già stata fatta. Il problema a questo punto però è anche, a mio avviso, di trovare un meccanismo incentivante di natura economica, e questo è di fatto previsto nella legge n.265, così come c’è nell’impegno di alcune regioni, probabilmente non tutte. Mi ha fatto piacere trovare la comparazione delle varie Bassanini regionali e l’ingresso come movimento di studio che avete fatto, che sarà molto utile anche per noi per un approfondimento.

Deve esserci questa sinergia, diversamente ci si perde nel sentiero delle buone intenzioni, soprattutto in questo momento fondante. Immagino che quando la locomotiva sarà avviata vi saranno anche delle modalità da parte nostra per rimettere in discussione, per trovare nuovi parametri. Oggi abbiamo visto comunque un testo, che proviene dal Ministero dell’interno. È una bozza, che con molta umiltà è stata anche divulgata, e attorno a questo testo si stanno raccogliendo delle notizie, dei pareri. Immagino quindi che nei tre momenti che il testo contempla per quanto riguarda le unioni sovracomunali occorra apportare alcune necessarie correzioni. Noi abbiamo predisposto una nota, attraverso un incontro della Consulta tenutosi in dicembre in Campidoglio, che riguarda per esempio una correzione per quanto attiene ai dati demografici. Qualcuno ha fatto osservare che se un comune capoluogo di provincia si unisse a quello più vicino, sarebbe un modo per falsare tutti i parametri quello di attribuire un peso eccessivo al dato demografico. Un peso invece più forte va dato al numero dei comuni, anche se piccoli, che si mettono insieme.

Occorre una valutazione graduale più spinta rispetto ad un processo di integrazione dei servizi, per cui più elevata è la qualità e la quantità dei servizi, più evidentemente questo livello incentivante deve scattare.

Personalmente sono anche convinto che in corso d’opera potremo trovare dei parametri di correzione, ma vi deve essere una umiltà di fondo, almeno per quanto riguarda le richieste che l’ANCI ha fatto al Parlamento, sulle quali si sono già impegnati il ministro Bassanini e il ministro Piazza. Questo riguarda la struttura stessa del comune e la sua possibilità di rispondere anche in questo momento per quanto riguarda le unioni. Una correzione, in sostanza, legata anche a momenti economici e finanziari degli assetti dei comuni, dove, lasciando la legge Bassanini come momento cardine, si affronti il problema delle difficoltà insorte nei piccoli comuni, in primo luogo per sistemare tutti gli eventuali abusi di potere che si sono riscontrati in questi anni, in cui i sindaci hanno continuato a firmare le licenze e a fare cose che erano escluse dalla legislazione. Bisognerà infatti non pensare soltanto alle amnistie per Tangentopoli, perché può anche darsi che la magistratura vada a prendere costoro per abuso d’ufficio… Noi lo chiediamo per la definizione del pregresso. So bene che qualcuno, sull’onda di queste emozioni, ha firmato anche licenze per due o tre centri direzionali o commerciali, ed anche per queste cose occorrerà chiaramente porre dei limiti. Là dove però la struttura ridotta non può compensare le esose richieste di incremento retributivo o sindacale per i responsabili dei servizi, dell’ordine di 15-20 milioni annui pro-capite, se vogliamo mantenere in vita le autonomie locali per andare verso questi processi di rete, dobbiamo anche permettere in questi casi, sicuramente limitati, di poter esercitare, per una motivazione di natura economica e finanziaria, ancora eccezionalmente le funzioni da parte degli amministratori locali.

È un emendamento preciso, su cui si gioca il mantenimento in vita delle autonomie locali.

Questo non significa che tutti i cinque o seimila piccoli comuni vogliono questo. Il problema è che la grande maggioranza ha accettato e ha fatto proprio questo momento di separazione, ma spesso le dimensioni a livello della struttura organizzativa e, ripeto, di natura economica dell'ente locale sono tali che non hanno consentito di procedere.

Circa poi i livelli dì intervento per realizzare il discorso delle unioni, sento sempre più parlare di sinergie e di sussidiarietà (forse negli ultimi tempi sento meno quest'ultima parola) e sono convinto che è impossibile immaginare che tutto spetti alla regione o tutto competa alla provincia, senza che l’entità comunale svolga comunque un ruolo attivo in questo processo. Sono i comuni che vogliono entrare nell'unione.

Vogliamo individuare a questo punto una forma di arbitro in un'operazione di questa natura, così complessa. Le associazioni delle autonomie, che sono coinvolte in prima persona nella Conferenza Stato-regioni, di fronte a un processo come questo non possono esse stesse esercitare quella funzione di veicolo?

Non voglio fare un discorso totalitario - siano gli uni, siano gli altri - ma voglio pensare però che, come avviene in mille procedure che abbiamo instaurato, ci saranno delle stanze di compensazione, dei momenti di integrazione. Mi si dirà che pecco di consociativismo. Forse è però meglio che gli attori siano messi nella condizione di parlarsi tra di loro, perché in questo modo sicuramente alla fine verrà fuori qualcosa di piacevole. Immagino che alla fine di questo percorso non sarà soltanto la tragedia. Certo, la provincia è un’occasione. Debbo dire al Presidente Ria, che in questi anni ho messo a punto delle convenzioni con l'UPI a proposito di piccoli comuni in cinque o sei settori, ma poi non vi è stato lo slancio e il trasporto che ci si attendeva. Rispetto alla distinzione che avviene all'interno dell'ente provincia fra il momento politico e quello amministrativo, non siano i funzionari che in maniera becera impongono sulla carta unificazioni, di cui non esistono poi i connotati demo-socio-economici e territoriali e purtroppo di queste programmazioni a cerchietti variamente colorati, noi che abbiamo un po’ di storia amministrativa alle nostre spalle, ne abbiamo già viste troppe. Tutto questo non può diventare un momento per alimentare i centri studi di qualche realtà o associazione, ma deve essere qualche cosa che sia vissuto, quindi richiedendo una consulenza della docenza, dell'università, in modo che, insieme agli amministratori del posto e all'ufficio studi della provincia ci si possa calare nella concreta realtà fattuale del territorio e non imponendo o predeterminando, come avviene nella mia provincia, dieci, venti o trenta unioni intercomunali.

Occorre uscire da questo determinismo, anche perché abbiamo visto che agendo eccessivamente sull'uso del Politecnico di Milano, qualcuno ha perduto la provincia di Milano! Non vorremmo che a catena tutto questo meccanismo si riverberasse in una forma coercitiva, che poi sfuggirebbe agli stessi amministratori locali.

Voglio ringraziare il Presidente per questa occasione e lasciare anche questo momento di valutazione che abbiamo fatto, che è ovviamente aperto ad ogni contributo.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Presidente Torchio, siamo d'accordo su tutto. Vorrei soltanto una piccola precisazione: dev'essere chiaro che l'unione non è l'unico strumento a disposizione. L'unione è il modello più avanzato, più aggregato, più strutturato di associazionismo comunale, ma siamo ben consapevoli che l'approdo verso le unioni sarà lungo e per adesso ci accontentiamo anche di forme associative più flessibili, più elastiche. Lo stesso legislatore prevede anche la semplice convenzione per la costituzione di uffici comuni. Se ci sono appunti da rivolgere a quella bozza di regolamento del sottosegretario Adriana Vigneri, accennerei soltanto a questo: che il testo fa riferimento soltanto alle unioni, mentre noi vogliamo che siano finanziate tutte le forme associative, sia pure con modalità e intensità diverse, secondo i principi della legge n. 265 del 1999.

 

TAVOLA ROTONDA SULLE ESPERIENZE DI ASSOCIAZIONISMO COMUNALE A CONFRONTO.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Diamo ora inizio alla tavola rotonda sulle esperienze di associazionismo comunale a confronto. Avverto che abbiamo pochissimo tempo, ma vorrei che la Commissione potesse ascoltare tutti.

Vorrei pubblicare nel nostro Quaderno, che vi sarà inviato in tempi rapidissimi, anche i documenti di base di ciascuna di queste realtà associative, a titolo di esempio per le altre.

Coordinerà il dibattito il professor Vandelli, che al termine trarrà rapidamente le conclusioni.

 

Eugenio CROTTI, Sindaco di Vigano San Martino (Bergamo) e Presidente dell'Unione Media Val Cavallina. Sono il Presidente di questo fantasma, così cominciate a conoscere il Presidente di una Unione dopo un'esperienza che dura ormai da quasi due anni e mezzo. Debbo fare qualche premessa in considerazione del fatto che è una novità anche per me esprimermi in una platea di questo genere.

La motivazione in base alla quale noi siamo partiti per fare l’unione parte nel mio consiglio comunale nel 1996.

Le motivazioni come sempre sono quelle tradizionalmente date dalla dimensione del comune, che ha mille abitanti, analoga a quella dei comuni limitrofi; i problemi analoghi: la ovvia e scontata scarsità di risorse e di personale, con competenze minime. L'iniziativa viene proposta ai quattro comuni limitrofi e in considerazione della stessa problematica viene istituita una conferenza dei sindaci, che studia in pratica per i primi sei mesi l'operazione da fare fra i cinque comuni della nostra Media Valle Cavallina. Dopo sei mesi due delle amministrazioni rinunciano in sostanza al progetto di formare un’unione. Tenete conto che siamo nel 1996, quindi ancora in pendenza della vecchia legge n. 142, cioè con l'articolo 26 non ancora rinnovato; pertanto una delle problematiche che i colleghi mettevano in rilievo era la considerazione che c'era quel limite dei dieci anni, dopo i quali si sarebbe dovuto intervenire sciogliendo o andando alla fusione dei comuni. Questo aspetto, che era in una qualche maniera ostativo, veniva considerato dalle due amministrazioni praticamente preclusivo nell'andare avanti nell'esperienza. Arriviamo alla fine del 1997, dopo aver formato un gruppo di studio tra gli amministratori e i consulenti della regione Lombardia, a formulare una ipotesi di regolamento per i tre comuni e qualche altro comune, che viene approvato il 14 dicembre 1997; vengono eletti gli organi sostanzialmente il 2 febbraio 1998. Cominciamo ad operare il 2 febbraio 1998. Queste sono le considerazioni preliminari per capire l'obiettivo. L'unione è formata da tre comuni, complessivamente 2.590 abitanti al 31 dicembre 1999, su meno di 9 chilometri quadrati di territorio.

Debbo illustrare ora qualche obiettivo. Gli obiettivi e le finalità da sempre ribaditi dalle amministrazioni dei tre comuni aderenti, inseriti al primo punto dello statuto e ribaditi nei documenti di programmazione economica e finanziaria allegati ai bilanci di previsione, oltre che risiedere nella comune volontà di una gestione unitaria dei servizi e funzioni, ha come riferimento fondamentale non sottovalutabile, nell'impostazione della nostra azione amministrativa nel nuovo ente-unione, la volontà di perseguire e di indicare ai cittadini l'obiettivo della fusione dei comuni originari mediante la creazione di un unico nuovo comune. La nostra esperienza parte da questo dato di fatto. Noi, come amministratori, abbiamo scelto questo percorso, che è particolare, che nessuno ci ha obbligato a fare e che riteniamo importante, anche perché dal punto di vista, sia fisico, sia morfologico, del territorio i tre comuni sono strettamente connessi, vicinissimi fra loro e le tre comunità sono praticamente un tutt'uno e questo ci facilita nel proporre praticamente questa soluzione. Del resto non è che i tre paesi non abbiano una loro indipendenza come caratterizzazione sociale e come "campanile", che qui è stato richiamato. Ci sono queste diversità, queste peculiarità presenti in ogni comune e nessuno vuole né uniformarle, né eliminarle; anzi, lo sforzo intrapreso va inteso come qualcosa di più, un valore aggiunto di un tentativo generoso, per dimostrare che insieme si può fare di più e meglio, pur senza perdere la propria identità, razionalizzando le nostre scarse risorse umane e finanziarie, di cui ciascun comune dispone mediante il trasferimento all'unione delle competenze amministrative e gestionali riguardo ai servizi fondamentali, quali ad esempio quelli in ambito scolastico, assistenziale e di gestione del territorio, che più coinvolgono la collettività, e per dimostrare che la gestione unitaria consente non tanto di pervenire a una riduzione delle spese, che, come abbiamo già verificato in questi due anni, è impossibile (le spese e le imposte ai cittadini non si riducono assolutamente), quanto di dare qualche servizio efficiente ed efficace in più o meglio di come veniva dato prima, con una economicità di gestione complessiva. Se nei prossimi anni questa scommessa avrà maturato risultati soddisfacenti, sarà in grado di rendere partecipi all'idea di un comune unito quella parte di collettività, che, lo riconosciamo, esiste e che ancora fatica a riconoscere positivamente tale futura evenienza. Sicuramente il fatto che alle elezioni amministrative dello scorso 13 giugno 1999 le liste dei candidati che hanno partecipato alla competizione elettorale abbiano confermato nel loro complesso, nel proporre il proprio programma, il proseguimento dell'unione e che gli elettori tra queste liste e candidature a sindaco abbiano riconfermato come primi cittadini le stesse persone, che per prime hanno creduto in questo nuovo ente e lo hanno creato, è di buon auspicio per il proseguimento dell'azione intrapresa per il raggiungimento della meta finale. Nei prossimi anni è prevedibile un complesso lavorio di organizzazione e di attenzione nel favorire la crescita e la condivisione del progetto associativo e di cooperazione dell'Unione Media Val Cavallina sia nella parte politica rappresentata dagli amministratori, sia nella cittadinanza. La gestione unitaria di tutti i servizi, oltreché una programmazione degli investimenti da realizzarsi su tutto il territorio dell'unione, consentirà domani un passaggio in modo naturale alla fase finale del nuovo comune unito.

Vi illustrerò ora brevemente alcuni limiti e difficoltà che abbiamo avuto e che tuttora abbiamo. Finora le principali difficoltà incontrate non sono state tanto di ordine politico, in quanto le singole amministrazioni sono state sempre coerenti con quanto deciso nel 1997, quanto invece di ordine organizzativo, con particolare riferimento alla gestione del personale e alla carenza di una prassi amministrativa consolidata alla quale fare riferimento. La mancanza - almeno quando siamo partiti noi - di esperienze similari in regione (siamo ancora l'unica unione in provincia di Bergamo), i rari contatti possibili con altre realtà di unioni nel resto d'Italia e la mancanza di una bibliografia consolidata sull'argomento non consentono utili riferimenti di paragone e di confronto ai quali attingere. L'emanazione della legge n. 265 del 1999 ha però contribuito a rendere più chiara la situazione, esplicitando il ruolo dell'unione quale ente locale. Ancora oggi alcune importanti istituzioni, fra le quali la stessa regione Lombardia e il Ministero dell'interno, che contribuiscono entrambe al bilancio dell'Unione, paradossalmente faticano a riconoscere l'unione stessa come ente locale a tutti gli effetti, con le stesse prerogative e finalità.

Un'altra importante constatazione è il fatto - è una deduzione di quello che dicevo prima - che tutte le informazioni contenute - sembra una banalità - in circolari, norme regionali e statali, giungono all'unione sempre di seconda mano: non abbiamo corrispondenza né con il ministero, né con la regione, né con la prefettura. L'informazione proviene da parte degli amministratori, che puntualmente trasmettono all'ente per opportuna conoscenza copia di quanto perviene ai comuni. Quasi mai esiste corrispondenza fra gli enti che dicevo prima.

Per quanto riguarda il discorso del personale, dovendo l'unione fare sempre i conti, finché esiste, e questo è un suo limite, con l'eventuale suo scioglimento, la gestione del personale deve essere disciplinata in un modo molto accorto, sia per l'eventuale assunzione di personale nel proprio organico a tempo indeterminato, sia per l'utilizzo di quello in servizio presso i comuni. Per ora, salvo l'esperienza temporanea a breve scadenza dei lavoratori socialmente utili, di cui abbiamo usufruito in questi due anni, l'unica figura di ruolo individuata all'interno della dotazione organica del personale dell'unione è il direttore. Tutto il resto del personale è quello dei tre comuni, ma esso è diretto e coordinato dall'unione in base alle convenzioni stipulate per il trasferimento dei singoli servizi o funzioni. Ciò nonostante, si è dedicata una particolare attenzione alla formazione del personale dei tre comuni, che gradualmente si sta trasferendo alla diretta gestione dell'unione pur rimanendo nei ruoli organici degli stessi comuni.

Infine un altro limite importante dell'azione amministrativa dell'unione risiede attualmente nei tempi necessari per il coordinamento delle iniziative e per la conclusione dell'iter procedimentale. Questo è anche ovvio, ma va rammentato. Alcune decisioni importanti, ad esempio la contrazione di un mutuo - noi abbiamo già ottenuto tre mutui con la Cassa depositi e prestiti - devono prima evidentemente passare correttamente al vaglio delle singole amministrazioni comunali, che debbono pronunciarsi in modo positivo e uniforme. Ciò deve avvenire proprio per il fatto che, non essendo l'unione un comune unito ed essendoci sempre l'eventualità di un suo possibile scioglimento, i comuni singolarmente devono provvedere a garantire gli impegni finanziari assunti dall'ente unione anche per il futuro.

Il Presidente Torchio ha già illustrato molto bene le carenze finanziarie. Esporrò ora alcuni cenni storici brevissimi dalla mia unione. Nella mia realtà questa operazione era già stata sperimentata nel ventennio fascista: i nostri comuni all'epoca del ventennio fascista erano uniti sotto il nome di Borgo Unito e pertanto è un'esperienza che in qualche maniera viene riproposta in modo molto diverso, non coercitivo, ma come scelta presa dagli amministratori, che speriamo sia confermata dai cittadini. Siamo fra le altre cose un comune inserito nella comunità montana.

Ometto tutto il discorso della valutazione organica dei servizi, che siamo riusciti a mettere insieme. Tanto per avere un'idea, si tratta dei seguenti servizi: rete idrica e fognaria, depurazione, raccolta e smaltimento rifiuti, piattaforma di secondo livello per la raccolta differenziata, rete del gas metano, formazione dei dipendenti e delle attività culturali, tutte e quattro le scuole (materna, elementare e media), manutenzioni stradali e cimiteriali, impianti sportivi (stiamo realizzando una palestra), servizi alla persona, assistenza domiciliare, centro aggregativo, biblioteca e segreteria comunale. È di questi giorni la convenzione per il servizio di ragioneria, l'ufficio tecnico e la vigilanza urbana. Dopo quest’ulteriore delega ai comuni non rimane altro che la parte degli investimenti.

Per ricordare qualcosa della mia regione, la Lombardia, in questo momento abbiamo tredici unioni costituite, pertanto il dato che dà il Ministero dell'interno è in qualche maniera falsato. Infatti tredici unioni sono già costituite soltanto nella regione Lombardia e ce ne sono altre nove in attesa di essere ratificate. Questo lo dico per dare il segno che nella nostra regione nell'ultimo anno, nel 1999, vi è stato un incremento notevole di questa esperienza amministrativa.

 

Luciano VANDELLI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Bologna e coordinatore della tavola rotonda. Ringrazio molto il sindaco Presidente dell'Unione Media Val Cavallina. È particolarmente da sottolineare e tenere in memoria questo aspetto della sensazione di abbandono, che hanno molto spesso i sindaci che tendono a realizzare queste esperienze. Davvero sarebbe da meditare su una forte azione di supporto.

Do ora la parola al sindaco Di Stanislao della Città-territorio di Val Vibrata in provincia di Teramo. Fra l'altro anche su questo andrebbe meditato: la provincia, ormai per legge, dovrebbe avere un ruolo di ausilio supporto anche tecnico. Questo andrebbe attivato e anche sanzionato.

 

Augusto DI STANISLAO, Sindaco di Colonnella e Presidente della Città-territorio di Val Vibrata. Ringrazio il professor Vandelli e il Presidente Cerulli Irelli per l’invito, soprattutto perché mi hanno dato la possibilità di capire alcune questioni che si muovono nel panorama italiano, e come altri livelli istituzionali si muovano spesso a prescindere dai bisogni del territorio.

Porto un’esperienza che nasce direttamente dal territorio, dal quotidiano come una volontà precisa di sviluppare una politica di rete sul nostro territorio e soprattutto di prendersi cura la dignità di un’intera popolazione, quella della Val Vibrata. È un territorio che è al confine con le Marche. Siamo dodici comuni per 66 mila abitanti e rappresentiamo il trenta o il quaranta per cento della forza produttiva della provincia di Teramo.

Rappresentiamo un dato economico estremamente rilevante per l'intera regione Abruzzo e abbiamo scelto di metterci insieme attraverso un'azienda consortile, perché abbiamo capito che non si poteva più andare avanti in termini di isole più o meno felici, ma bisognava mettere insieme una capacità di associazione e di aggregazione partendo dai reali bisogni del territorio. Per darvi un flash, sono stato eletto nel 1993 e quando partii con l'iniziativa della Città-territorio diffusi in tutta la Valle Vibrata quattrocento manifesti, peraltro a mio spese perché la ragioneria non mi dava i fondi in quanto a livello burocratico questa iniziativa al di fuori del territorio del comune non aveva senso. Detto questo, iniziammo con un incontro pubblico. C'erano sindacati, imprenditori, associazioni, altri sindaci, tutti molto scettici, però anche molto affascinati dall'idea. A quel tempo, nel 1993, la gente della Val Vibrata era molto più avanti delle istituzioni rispetto al bisogno di servizi, che fossero più efficaci ed efficienti e costassero molto meno.

Abbiamo continuato a lavorare in questo modo sul percorso dell'azienda consortile, perché ci consentiva a quel tempo, nel 1993, di cogliere il meglio dell’azienda e del consorzio, quindi l’abbiamo sviluppata al massimo, ma abbiamo fatto alcuni passaggi intermedi che ritengo estremamente educativi per i nuovi sindaci che si affacciavano in quella stagione politica e istituzionale. Per arrivare al compimento all'utilizzo dell'azienda consortile abbiamo infatti avviato alcuni elementi forti, che passavano attraverso la convenzione e i comuni capofila. Questo faceva sì che ogni comune non si sentisse espropriato di alcune funzioni e fosse valorizzato al massimo in alcune esperienze territoriali. Questo significa che quando facevamo iniziative di tipo culturale, sociale ed anche economico cercavamo di assegnare ad ogni comune una iniziativa, di modo che l'intero consiglio comunale si sentisse protagonista della scelta.

Se noi avessimo affidato le iniziative ai comuni più grandi o al comune che aveva portato l'idea, probabilmente ci sarebbe stato il fallimento dell'intera iniziativa. Invece in questo modo siamo riusciti negli anni a dare ad ogni comune la responsabilità, la consapevolezza di cosa significasse trainare gli altri, preparare anche gli atti da un punto di vista dell’apparato burocratico, quindi riuscire in tempi brevi a produrre una serie di atti, altrimenti altri comuni non avrebbero potuto partire ad esempio per la stagione teatrale, per quella culturale, per il piano sociale. Questo è tanto vero, che noi abbiamo continuato a sviluppare in maniera esasperata, per quello che dicono gli altri, tale progetto, ma io ritengo in maniera adeguata, perché, come diceva il professor Vandelli, è vero che è una proposta eccessiva, anche perché in qualche modo è stata probabilmente superata dagli eventi, però affermo che non c'è un modello giusto in assoluto. Questo modello ha fatto in modo che in Val Vibrata si costruisse una generazione di nuovi amministratori. In altri termini si è affermata una cultura di governo istituzionale, che ha superato gli ambiti politici perché nella prima stesura nella prima proposta, nella prima fase del governo locale i dodici comuni erano più o meno assimilati politicamente; nella seconda parte, in quest'altra legislatura, ci sono comuni di centro destra, di centro sinistra ed esperienze di liste civiche; alcuni sindaci sono cambiati, ma tutti sono rimasti dentro questo progetto, perché tutti hanno sposato l'idea del territorio da valorizzare e da tutelare.

Credo che il messaggio sia passato fortemente, come si usa dire, in maniera trasversale, ma che questo sia avvenuto perché era altrettanto fortemente radicato sul territorio. In altri termini la gente ha assimilato il progetto e nessuno si è sognato di alzare il prezzo della presenza, nel senso di dire:" Noi usciamo perché non la pensiamo come voi ". Stiamo andando avanti in questo modo.

Vi do ora altri due o tre elementi importanti.

In questa fase i dodici comuni hanno elaborato il piano sociale, lo hanno consegnato alla regione, lo hanno strutturato, hanno lavorato insieme. Debbo dire che hanno lavorato in una prima fase i sindaci, ma poi essi hanno assegnato i compiti agli assessori, che hanno lavorato in équipe con i tecnici locali dell'intero comprensorio e hanno consegnato, attraverso una vera e propria economia di scala, il piano sociale alla regione Abruzzo, che in questa fase lo sta finanziando. È stato un lavoro che ritengo eccezionale, perché tutti hanno capito il sistema di rete che si è creato e tutti hanno sposato la causa, dal consigliere all'assessore che ha recepito le indicazioni del sindaco.

L'elemento importante e da sottolineare dell'azienda consortile, che può essere anche datata come strumento, ma che ha un valore nell'impostazione che io ad essa detti a suo tempo, era il seguente: intanto ci si preoccupava di soddisfare le esigenze della comunità, ma era anche molto chiaro che non venivano espropriate le funzioni del consiglio comunale, perché ogni proposta doveva passare attraverso l’esame di quest’organo, che era dunque reso protagonista delle scelte da compiere dal punto di vista delle priorità culturali, economiche o di diverso tipo, ambientali, per poi tornare in campo per elaborare questo processo di costruzione anche economica. Il consorzio si è dotato di un’assemblea dei sindaci, della quale io sono il Presidente, ma c'è anche il consiglio di amministrazione, in cui ci sono il direttore generale e vari componenti, che sono quelli che debbono cogliere gli obiettivi finali dell’impostazione che ci si è dato.

Al momento abbiamo non solo redatto il piano sociale, ma anche portato a termine una realizzazione ancora più importante. Siccome qualche tempo fa d’imperio la regione fece un consorzio di rifiuti obbligatorio fra gli stessi dodici comuni che compongono la Città-territorio, noi abbiamo compiuto un doppio passaggio: prima ci siamo riuniti nel consorzio dei rifiuti e ci siamo sciolti, poi ci siamo riuniti nella Città-territorio e abbiamo soppresso e assorbito il consorzio dei rifiuti e le quote che si pagavano in quel contesto oggi sono patrimonio della Città-territorio. Il dato importante è che oggi siamo noi autonomamente responsabili, non essendo più in vigore la legge che impone il consorzio obbligatorio; noi siamo rimasti comunque in questo contesto e l'unico problema che oggi abbiamo di fatto è se dobbiamo strutturarci, come stabilisce la legge, per consorzi di servizi o di funzioni. Questo è il grande problema che abbiamo esaminato anche con l'onorevole Cerulli Irelli.

L’ultimo dato in ordine di tempo è che abbiamo affidato alla Città-territorio la realizzazione dello sportello unico. Abbiamo bruciato i tempi e le tappe, poi la regione Abruzzo è intervenuta dicendo:" Voi siete arrivati a questo punto, adesso ci penseremo noi, vi daremo il sostegno, le risorse e quant'altro. Fermatevi dunque a questo punto". Noi ci siamo fermati in quel punto, le risorse non sono arrivate e noi siamo fermi a quel dato. Con questo chiudo, anche perché avete gli atti a disposizione e se ne potrà ragionare anche in seguito.

Queste sono le ragioni per le quali non sono d'accordo per l'unione comunale, vale a dire perché questa in un modo o nell'altro propone nuovamente la dipendenza dei comuni, come se si trattasse della vecchia dipendenza dalle prefetture, nel senso che, se non arrivano le risorse, non si può lavorare. L'azienda consortile, che è un ente economico territoriale, ha invece la grande capacità di produrre ricchezza, ma anche di rischiare sul mercato e può essere premiata non con gli incentivi, ma per i progetti che fa sul territorio.

Dico di più: l'azienda consortile può anche interagire con altri enti, ma può anche rivolgersi alla Comunità Europea per acquisire le risorse necessarie per realizzare, ad esempio, un grande centro sportivo per la vallata, o altri interventi importanti di grande rilievo. Essa può essere veramente contrattuale, altrimenti, se rimanessimo nell'ambito degli incentivi, del sostegno delle regioni e delle province sicuramente vi sarebbe un utilizzo in termini politici e strumentali, nel senso deleterio della parola, di questo strumento, che invece tende ad esaltare le ragioni del territorio.

L’azienda consortile nella nostra realtà ed esperienza serve ad abbassare il baricentro delle decisioni, ma soprattutto a farci valere e a rovesciare il dato relativo al rapporto con lo Stato e le regioni, che spesso sono neocentraliste.

Credo che oggi siamo ad un punto tale in cui questo dato è stato riconosciuto a tutti i livelli, tanto è che nel quadro di riferimento regionale dopo tutte queste iniziative è stata accolta la nostra richiesta, per cui siamo ambito ottimale della regione Abruzzo soltanto come Val Vibrata e ci è stato riconosciuto un dato, che va anche a merito dell'onorevole Cerulli Irelli, vale a dire quello di essere stati riconosciuti come polo vitivinicolo. Stiamo lavorando per far affermare questo dato come entità territoriale e come Val Vibrata.

Credo che sia un dato estremamente importante e confortante e mi auguro che non ci si possa fermare qui, se c'è la possibilità, come oggi è avvenuto, di potersi confrontare e andare avanti .

 

Luciano VANDELLI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Bologna e coordinatore della tavola rotonda. Ringrazio il sindaco. Speriamo di poter verificare la bontà di questi prodotti nella prossima occasione!

 

Luciano DEL FRE, Sindaco di San Vito al Tagliamento e Presidente dell'ANCI Friuli. Ringrazio per l'opportunità che ci è offerta. Voglio esporre al Presidente della Commissione la preoccupazione che vivono le nostre comunità friulane, ma credo che sia la stessa di quelle venete, dato che l’ANCI Friuli e l’ANCI Veneto hanno messo un’esperienza comune: le nostre comunità hanno questo forte senso di appartenenza. In altri termini i comuni sentono fortemente la loro identità e si può pensare con grandi difficoltà ad una qualche forma aggregazione in qualche modo imposta. Questa va costruita attraverso forme, soprattutto di natura finanziaria perché l'esperienza che stiamo vivendo dimostra chiaramente che le forme di aggregazione finanziarie sono le più opportune nel senso che possono dare più risultati.

Nel merito l’ANCI Friuli e l’ANCI Veneto, utilizzando un finanziamento che le ANCI regionali avevano a disposizione sulla base di progetti, hanno messo in piedi alla fine dell'anno scorso appunto un progetto, che dovrebbe costituire un punto di riferimento e di ausilio per tutti i comuni italiani che vogliano avviare il processo dell'unione.

E’ stato infatti verificato in passato che quando uno dei comuni comincia questo percorso, dopo un poco può trovarsi solo, isolato, di fronte ad una popolazione contraria: in questo caso immediatamente si blocca tutta l'iniziativa, che è stata magari idealmente voluta, ma che non ha dato poi alcun risultato.

Il prossimo 3 febbraio a Villa Manini di Passariano si svolgerà un convegno organizzato insieme dalle due ANCI, a cui sono invitati tutti i piccoli comuni, per mettere insieme un sistema che possa essere in qualche modo di aiuto a questo processo di unione.

Per quello che riguarda il Friuli-Venezia Giulia, l'esperienza consortile sui servizi risale addirittura al 1968: praticamente tutti i comuni del Friuli hanno forme di consorzi per quanto concerne i servizi, soprattutto nella raccolta e smaltimento dei rifiuti e nella gestione delle fognature. Attualmente la regione, con norme secondo il nostro parere poco approfondite , ha avviato un processo di convenzionamento generalizzato dei piccoli comuni, prevedendo incentivazioni finanziarie appunto al convenzionamento per quanto concerne la gestione dei servizi, però non ponendo limiti né al numero delle convenzioni o dei servizi da convenzionare e lasciando quindi liberi i comuni di convenzionarsi anche per un solo servizio. Anche in questo caso infatti si accederebbe alle incentivazioni economiche. Ciò naturalmente ha provocato che l'anno scorso quasi tutti i comuni si sono convenzionati, però di fatto senza dare risultati.

Questo è uno degli elementi da prendere in considerazione: occorre che la legislazione stabilisca punti e obiettivi precisi, altrimenti si attua soltanto una grande azione promozionale di altra natura.

La stessa vicenda si ripete quest'anno perché la nostra regione nella legge finanziaria ha previsto una incentivazione del 30 percento per i comuni che approvano un atto di unione, però sotto i 10 mila abitanti, quindi ha posto un limite anche questo criticabile, comunque anche in questo caso senza porre limiti al tipo di servizi che si mettono insieme nell'unione. Per questo immediatamente - è stato fissato il termine del 31 marzo per produrre queste iniziative - è successo che già con il 6 febbraio tre comuni si sono messi insieme unicamente con tre servizi e a questi seguiranno altri comuni, che intendono mettersi insieme per un unico servizio, per cui alla fine avremo parecchie unioni di comuni, senza però aver conseguito l'obiettivo, che è invece quello di dare ai cittadini un servizio migliore e soprattutto a un minor costo, quindi con risultati concreti e verificabili. Solo in questo caso si dovrebbero dare risorse e incentivazioni.

Anche per questo motivo come associazione dei comuni porteremo avanti un'azione nel senso di sensibilizzare in questo caso la nostra regione, che ha la competenza primaria in materia, affinché faccia le cose in un certo modo. Allora, Presidente, piuttosto che pensare a livelli come le province, la cui funzione non è ancora chiaramente definita (avrebbero dovuto essere eliminate, si discuteva se servissero o meno), piuttosto che sostituire l'autonomia comunale dando compiti ad un ente di secondo livello, a livello sovrapposto, è più opportuno utilizzare le associazioni dei comuni, come le nostre. Coadiuvando questo processo sicuramente otterremmo dei risultati positivi, ponendo però obiettivi chiari dal punto di vista normativo, con risultati verificabili da raggiungere. Soltanto a queste condizioni dovrebbero essere date incentivazioni, perché, lo ribadisco, soltanto le incentivazioni economiche al procedimento, almeno stando alla nostra esperienza, fanno sicuramente muovere, come suole dirsi, le montagne. Noi friulani siamo alquanto legati all'economia, però in questo modo si va: si tratta di dare la giusta misura alle questioni.

 

Luciano VANDELLI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Bologna e coordinatore della tavola rotonda. Mi pare che sia piuttosto diffusa la convinzione e che ci sia una buona convergenza circa la necessità di evitare associazioni di facciata, dunque c'è un clima che consente di lavorare seriamente su questo versante.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Vorrei svolgere alcune considerazioni in relazione a quest'ultimo intervento. Prendiamo per esempio due funzioni, che già il decreto n.112 attribuisce ai comuni e che non sono disponibili da parte delle regioni. Mi riferisco alle funzioni amministrative in materia di controllo sul risparmio energetico e di uso razionale dell'energia e funzioni connesse. La norma stabilisce che esse sono attribuite agli enti locali, in conformità a quanto disposto dalle norme sul principio di adeguatezza, il che significa proprio quello che stiamo dicendo. Prendo un altro esempio: il catasto. In questo caso la norma è molto ambigua e scritta molto male, ma si capisce che il catasto va gestito in una certa dimensione organizzativa. Ne posso citare qualcun'altra. Voglio dire che si tratta di funzioni che a partire dall'1 gennaio 2001 devono essere trasferite. A quel momento, laddove non ci sia l'associazione o una forma associativa qualsiasi - non è che deve trattarsi per forza di una unione già strutturata di comuni, ma potrebbe trattarsi del consorzio della Val Vibrata, di un'associazione intercomunale, di una forma meramente convenzionale - a chi dovrebbe essere imputata la funzione? Io ho suggerito che debba essere la provincia, ma non avevo e non ho certamente l'intenzione di conculcare l'autonomia comunale.

 

Lamberto GRILLOTTI, Sindaco di Rivolta D'Adda. Quale sarebbe la funzione che secondo lei rimarrebbe scoperta in funzione della dimensione del comune?

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Ne ho citate alcune. Possono essere molteplici. Mi riferisco ad esempio alla gestione del catasto e al controllo delle fonti dell'energia, ma ognuno di voi ne ha sicuramente in mente molte altre.

 

Lamberto GRILLOTTI, Sindaco di Rivolta D'Adda. Noi gestiamo l'ICI. Qualcuno mi dica quale complicazione potrebbe derivare dalla gestione eventuale del catasto e dall'applicazione del reddito erariale agli immobili di un comune, in relazione alle dimensioni di questo. Non esiste un problema che sia dipendente dalla dimensione: un piccolo comune accatasterà 50 case, un grande comune 5000, una città 5 milioni.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Su questo non c'è dubbio, ma un piccolo comune non ha i funzionari per portare avanti questo lavoro.

 

Lamberto GRILLOTTI, Sindaco di Rivolta D'Adda. In molti casi si può far ricorso allo strumento informatico. A livello dei comuni non è assolutamente vero che possono sorgere problemi relativamente alle dimensioni. A livello di comune riteniamo che la dimensione abbia poca attinenza con quello che dovrebbe essere il riordino del sistema. Faccio parte dell'ANCI, sono Presidente della Consulta dei piccoli comuni della Lombardia, siamo 1.400 comuni: è da anni che ripeto che qualcuno deve stabilire quale sia lo standard minimo di qualità, lo standard massimo del prezzo dei servizi eventuali che non saremmo in grado di gestire. Qualcuno quanto meno dovrebbe presentare uno studio dove si dimostri, almeno, cosicché io possa capire, che la cosiddetta economia di scala si realizza in un certo bacino o ambito di riferimento. Pretendo che mi si diano almeno due dati per dimostrare che economicamente queste strutture funzionino. Non ce n'è neanche uno, perché tutti suppongono che il bacino e l'ambito ideale per un servizio sia pari a seicentomila abitanti, per un altro servizio a un milione, ma non ho una valutazione oggettiva che mi dimostri la veridicità di questo assunto. Non esiste neanche una valutazione in tal senso.

Recentemente ne ho fatta una delle mie: faccio parte della Commissione Galli in regione Lombardia, sul circuito integrato delle acque. Ho domandato perché dobbiamo subire un ambito con un numero di riferimento inventato da qualcuno e contraddittorio rispetto a due questioni. Mi riferisco alla gestione integrata delle acque , che comprende la captazione, la distribuzione, la depurazione. Sebbene l'economia di scala sia eventuale, più l'acquedotto è piccolo, meglio è ( i pozzi privati che non hanno problemi), mentre la depurazione, se non supera certe dimensioni, non può funzionare. Allora qualcuno osserva: "Perché mi dovete dire che il dimensionamento degli acquedotti e delle centrali deve essere parametrato su 600 mila utenti? ". Questo non è vero, perché il risultato è che si dovrà praticare una tariffa d'ambito sei volte maggiore rispetto a quella di oggi perché bisognerà andare a prendere l'acqua al lago, costruire una stazione di pompaggio e di distribuzione, nonché di ripompaggio per coprire quell'area che qualcuno si è inventato come ottimale, mentre nel mio comune con tre pozzi tiro su l'acqua, la do a tutti, non ho nessun problema e questo costa molto meno.

Tra l'altro sono un esempio negativo in questa discussione, perché a casa mia ho fatto esattamente il rovescio: sono stato eletto il 6 giugno 1993, il 7 giugno sono uscito da qualsiasi tipo di consorzio. Gestisco metano, acqua, depurazione, rifiuti, tutto autonomamente, non con l'azienda municipalizzata che abbia un direttore amico, ma con gli uffici comunali e con la convinzione che il mio dipendente il 27 di ogni mese è retribuito e quindi può benissimo redigere anche la bolletta del metano e dell'acqua, non vedo uno scandalo in questo, con la differenza che con questo sistema si ottengono costi minori rispetto a tutti i consorzi che ci sono in giro, conseguendo peraltro avanzi di amministrazione, quindi nessuno mi dica che nascondo i costi del servizio nel bilancio.

Per alcuni servizi siamo tutti d'accordo. Io stesso ho fatto delle convenzioni con due microcomuni, che non potevano gestire l'ufficio tecnico.

Noi abbiamo un problema a cui ha accennato il Presidente Torchio prima: sono emerse irregolarità poste in essere dai colleghi, del 17 maggio 1995, quando essi non potevano firmare degli atti, che pertanto erano illegittimi e non sono più sanabili.

È giusto in questi casi fare la convenzione, perché consente di nominare un solo tecnico che porta avanti più uffici tecnici comunali. Questo è valido, mentre molti nostri colleghi hanno convenzioni esterne con il tecnico, quindi se firma il tecnico esterno o il sindaco, in tutti e due i casi l'atto è illegittimo. Per questo interveniamo su questo versante, perché ci teniamo a che l'ente locale funzioni, però quando si parla di servizi, di comuni, di dimensioni, una volta tanto vorrei qualche parametro certo che mi dica che a una certa dimensione non è giusto che un comune gestisca direttamente certi servizi. Questo è quello che a noi serve per convincere i nostri colleghi che effettivamente non possono gestire direttamente un servizio.

In realtà, se ho un ente con una dimensione media in rapporto a tutti consorzi che sono in giro, nonostante tutte le economie di scala a cui spesso si fa riferimento, da una parte c'è un costo di mille lire, dall'altra di seicento, per di più con un avanzo di amministrazione. Non posso dire ai miei cittadini che qualcuno mi ha detto che è meglio che l'ambito sia il doppio, ma che in tal caso essi dovrebbero pagare la bolletta due volte: in queste condizioni è alquanto difficile che un sindaco riesca a convincerli che c'è un principio economico di ambito da rispettare!

 

Luciano VANDELLI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Bologna e coordinatore della tavola rotonda. Questo intervento è molto importante. Io vorrei veramente sottoporre ad un check-up completo il suo comune. Lei parla di un comune di 7000 abitanti, che è circondato da comuni molto più piccoli che sono in difficoltà. È questa la situazione?

 

Lamberto GRILLOTTI, Sindaco di Rivolta D'Adda. Quelli che sono vicini al mio sono uguali, quelli con cui ho fatto la convenzione sono in provincia di Milano.

 

Luciano VANDELLI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Bologna e coordinatore della tavola rotonda. Questi comuni sono addirittura lontani e sono in difficoltà in quanto piccoli, quindi mi pare di capire che anche lei ammette che per una serie di funzioni ci sono delle soglie nella dimensione dei comuni, oltre le quali non si può scendere.

Diciamo che è ragionevole la dimensione che lei conosce, diventa difficile sostenere una soluzione più piccola. C'è un altro profilo importante: lei ha mai pensato alle possibilità di sviluppo della professionalità del suo personale? A lei non è capitato, come capita a tanti sindaci, che nel momento in cui ha qualche tecnico che impara a fare bene qualche mestiere, questo se ne va, abbandona il suo comune? Non le è mai capitato di avere dei tecnici tuttofare, che vorrebbero specializzarsi e che avrebbero quella possibilità su un arco più ampio? Potrebbe anche essere assunto un ingegnere, cosa che non può normalmente avvenire in un piccolo comune, oppure un tecnico potrebbe dedicarsi a un certo tipo di progettazione, cosa che non può fare un piccolo comune, dove per forza tecnici e personale in generale sono costretti a fare un po' di tutto, il che è professionalmente dequalificante e non è il massimo dal punto di vista della funzionalità. Faccio soltanto alcuni esempi, però per risponderle bisognerebbe effettuare una analisi documentata e precisa di un comune come il suo.

Quello che le posso dire è che per le esperienze che ho verificato, per i dati che ho io, in casi analoghi risultano dei vantaggi per i comuni dal mettere insieme delle funzioni. Naturalmente può capitare benissimo che un servizio costi pochissimo e che dopo che ci si mette insieme con qualche altro sopravvengano delle disfunzioni. È possibile, però normalmente si riscontrano dei vantaggi, nel senso che si fanno più cose, a costi minori e in maniera di utilizzare meglio il personale che si ha o che si può acquisire. Dico una banalità: normalmente aggregando i servizi del personale, si liberano delle unità di personale e queste diventano preziose per essere formate in altri modi ed essere utilizzate su altri servizi. Questa ad esempio è un'operazione che si può compiere.

 

Luciano DEL FRE, Sindaco di San Vito al Tagliamento e Presidente dell'ANCI Friuli. E' importante avere il tempo per produrre quell'unione. Se questa non si fa, poi a chi diamo certi compiti? Occorre stabilire dei tempi congrui per potere costituire l'unione attraverso le associazioni.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Questo è un problema molto delicato. Effettivamente anche questa potrebbe essere una linea: quanto tempo ci mettiamo a percorrere questo cammino? Credo che prima di due o tre anni non ci riusciamo, ne sono convinto. Le realtà di cui ci stiamo occupando sono pionieristiche. Quanto tempo ci vuole? Sentiamo anche il Governo, il dottor Pajno, consultiamoci. Vogliamo fare un pochino macchina indietro e su questo versante prenderci un tempo più lungo; e intanto facciamo il trasferimento regionale? Questo però è pericoloso, perché dalle regioni non recuperiamo più le funzioni e le risorse! Io invece vorrei che quest'anno dessimo un'accelerazione al trasferimento diretto verso gli enti locali. Osservo con grande preoccupazione - parlo a nome della Commissione - il fatto che a fronte del decreto sulle strade, che interessa ben 30 mila chilometri di strade nazionali, alcune regioni non di poco conto, invece di affidare la gestione per esempio alle province o ai grandi e medi comuni, comunque agli enti locali, stanno organizzando delle agenzie regionali, con i funzionari, il direttore, il Presidente: quale senso ha tutto questo? Allora era meglio tenersi l'ANAS!

 

Luciano DEL FRE, Sindaco di San Vito al Tagliamento e Presidente dell'ANCI Friuli.È ovvio!

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Il versante regionale è fonte di preoccupazioni. In molte realtà regionali sta prevalendo una gestione burocratica, che noi certamente non vogliamo. Per questo vogliamo privilegiare i poteri locali, voi insomma, però dobbiamo trovare una soluzione adeguata.

 

Luciano DEL FRE, Sindaco di San Vito al Tagliamento e Presidente dell'ANCI Friuli. Quando pensavo al tempo necessario, avevo in mente l'anno. Lei prima ci diceva che il trasferimento può avvenire nel 2001.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Vorrei dire a Grillotti, sindaco di Rivolta D'Adda, che 7 mila abitanti nella realtà italiana è già una dimensione adeguata. Se avessimo tutti comuni di 7 mila abitanti, non staremmo neanche qui a discutere: certo, ci sono funzioni che richiedono altre più ampie dimensioni, però con 7 mila abitanti si può andare avanti. Il problema non è costituito dai 7 mila abitanti, ma dai centoventi abitanti del sindaco che le sta a fianco, un dato che interessa 2 mila comuni italiani. Questo è il principale problema. Certamente ci sono ulteriori problemi, ma il principale è questo: anche la Francia ha decine di migliaia di comuni sotto i mille abitanti e per questo ha dovuto affrontare di petto il problema. Se la Francia avesse avuto tutte situazioni come la sua, probabilmente sarebbe andato avanti in quel modo. La questione grave non è data da casi come il suo, ma da tutte le altre migliaia di casi di comuni nei quali lavora una persona, due persone al massimo!

 

Berlato SELLA, Sindaco di Schio e Presidente dell'ANCI Veneto. Anche se non fossi stato presentato, dalla pronuncia avreste capito da quale regione provengo, però avrei preferito che non capiste, in quanto voglio fare due o tre riflessioni, che non hanno alcun riferimento politico, ma sono delle semplici testimonianze. Devo ringraziare chi mi ha forzato a venire qui. Sono sindaco di una cittadina di 37 mila abitanti, con una situazione ancora più bella e stimolante di quella a cui faceva riferimento Grillotti e ho sofferto in questi anni quando in ambito ANCI si contestavano le Bassanini, soprattutto la terza. Non riuscivo a capire più di tanto l'esasperazione di piccoli comuni ma, al di là di questo atteggiamento, sono contento oggi di essere stato qui, perché ho ascoltato interventi importanti, di persone che hanno dei ruoli, in un momento in cui, pur avendo favorito come ANCI la diffusione di questi concetti da anni e addirittura finanziato la ricerca e lo studio di fattibilità di un potenziale matrimonio di alcuni comuni, si sostiene da più parti che non sia questa la strada vincente e che le Bassanini siano state un bidone, eccetera.

Ho la disgrazia di essere consigliere provinciale di minoranza e la settimana scorsa la maggioranza ha approvato un ordine del giorno in cui si sostiene che le Bassanini sono tutte una fesseria, invitando nel contempo la Giunta e il consiglio regionale a non passare all'approvazione delle relative delibere. Nella conferenza permanente sono il rappresentante di uno dei cinque comuni, in questi anni ho sempre partecipato alle riunioni, però, eccetto il buon rapporto che abbiamo consolidato con l'assessore delegato, non abbiamo mai avuto un interlocutore e un referente negli approfondimenti nemmeno nei rappresentanti del consiglio regionale, di maggioranza e di minoranza, ci siamo sempre e soltanto confrontati con la spigolosità dei dirigenti regionali e quindi è logico che la legge regionale, preparata nell'indifferenza generale del consiglio regionale e dintorni, è stata sofferta. Ieri sera ho preso in esame la copia delle leggi, che non guardavo da sei mesi, avevo dimenticato quasi tutto in termini emotivi e psicologici perché non se ne parla più. Addirittura nel 1995, ma è successo anche nel 1999, per due comuni avevamo finanziato uno studio di fattibilità, che era stato pubblicato in un fascicolo molto interessante in cui si dimostrava che c'erano effettivamente le precondizioni per addivenire a delle collaborazioni di un certo tipo, ma è cambiato uno dei due sindaci, dello studio non se ne parla più, lo hanno buttato via. Non dico niente di nuovo se affermo che, per come vengono vissute spesso le competizioni elettorali anche nel piccolo, in cui si "pappagalla", si ripetono confronti e scontri cosiddetti all'americana come avviene in televisione, se vince uno che ha una maggioranza diversa rispetto a quella di prima, anche se si confrontano due cosiddette liste civiche, si ritiene in dovere di fare tutto il contrario di quello che si faceva prima, raffredda la propria presenza in alcuni consorzi e se addirittura in corso di opera deve effettuare degli approfondimenti rispetto ad un fidanzamento che potrebbe consentire di arrivare successivamente al matrimonio e alla fusione, abbandona questo iter per pregiudizi. Questo vuol dire la cultura della fusione, degli oggettivi vantaggi che si possono conseguire senza perdere niente della peculiarità della contrada, del campanile, non sono così diffusi perché alcune forze politiche hanno cavalcato queste tematiche in certi momenti per motivi polemici in occasione della discussione delle leggi, però in periferia non è ancora arrivato il " contrordine compagni! ". Per questo la giornata di oggi è stata importantissima: in un certo senso mi ha ricaricato.

Ultima notazione: è bene approfondire questa cultura, ma ci sono anche dei meccanismi il cui corretto funzionamento deve essere aiutato. Porto un disagio che secondo me esiste. Io sindaco mi presento con programma elettorale, vengo eletto, lo voglio realizzare, mi attrezzo all'interno e all'esterno (dipendenti e consulenze esterne). Posso centrare meglio alcune indicazioni di questo programma in una dimensione sovracomunale, non ci sono dubbi. Allora debbo avere la possibilità e la certezza che io riesca a lavorare nell'ambito di un progetto sovracomunale, ma per realizzare gli obiettivi del mio programma.

In pratica che cosa è successo? Ricordo all'ANCI le proteste del sindaco di Bormio, ma è successo anche da noi. Oggi ho sentito che vi è una nuova versione delle comunità montane, ma come si fa ad eleggere i membri nell'ambito del consiglio comunale? Per fortuna debbono essere consiglieri comunali, due di maggioranza, uno di minoranza; succede però che in due o tre situazioni c'è stato il furbone di turno, che, facendo la somma di quelli della minoranza e di due o tre trasformisti, si è fatto eleggere Presidente. Nel mio comune, in cui sono maggioranza, ad esempio, sono risultati nominati due di minoranza: come faccio a realizzare il mio programma se in quella sede prende l'avvento un'altra impostazione e ci fanno i dispetti? E' vero che occorre tutelare il diritto delle minoranze, ma gli organismi di secondo livello mi debbono aiutare per realizzare i miei progetti, dunque non posso che nominarli io nella mia responsabilità. La trasparenza si garantisce in altro modo, ma non ammettendo che il meccanismo elettorale in condizione di fare questi cocktails o potages.

Questo è un inconveniente che intendo sottolineare. Per il resto debbo segnalare un altro aspetto, emerso nelle riunioni dell'assemblea sovracomunale che si sono svolte in questi quattro mesi e in cui ci troviamo ancora più a disagio rispetto alla volta prima, quando eravamo già a disagio. Purtroppo sono stato eletto sindaco nel 1987, assessore nel 1975, quindi sono fuori coalizione , sono fuori corso, sono fuori tutto, sono un dinosauro, ma facciamo ancora fatica a raggiungere il numero legale, perché i sindaci tendono a non partecipare; se possono e l'organismo lo permette, delegano l'assessore o qualche altro. Insomma, c'è una deresponsabilizzazione generale, non si appassionano: come si fa allora a portare avanti un'attività sovracomunale in cui io credo? Ho dal 1970 un consorzio di vigili perfetto, meraviglioso, che funziona, ma quando andiamo in questa assemblea si verifica che arrivano queste persone sparse, di buona volontà, che dopo due o tre settimane essere stati eletti, se potessero tornerebbero indietro, perché a quel punto hanno capito che hanno preso la fregatura; non essendoci filtraggi, uno arriva lì in buona fede e scopre che è tutto diverso rispetto a quello che si credeva.

Progetti e obiettivi debbono essere di un certo livello e di un certo spessore, ma devono esserci supporti, tutto non può essere affidato alla casualità. I nuovi sindaci che sono arrivati in queste nuove assemblee in questi mesi hanno solo il problema di votare contro perché hanno una finanza così tirata, che non accettano più una proposta, anche quella concernente l'aumento dell'indennità per i rifiuti, che è scandalosa tanto è bassa, quindi è da portare da 25 a 28 mila per abitante. Essi sostengono che non hanno soldi e quindi debbono dire di no, ma noi siamo stati eletti per gestire e governare i processi, per far politica.

In conclusione voglio dire che la disperazione mi può anche spingere a mettere in comune il geometra o il segretario comunale, ma ci vuole ben altro per supportare un progetto sovracomunale formidabile, in cui credo. Non sempre e non solo le piccole botteghe politiche ci aiutano, perché ci appesantiscono con indicazioni strane rispetto a questo, ma neanche l'applicazione del singolo regolamento ci aiuta a volare ai livelli che abbiamo raggiunto oggi, che siamo stati a bagno sull'Arno. Ho volato, ma non so quanto riuscirò a trasferire questi punti e riferimenti che ho sentito, cioè che ci sono degli step precisi. Nelle riunioni che si sono svolte in consiglio regionale ho sentito chiedere: " Sì, va bene, facciamo questa cosa, ma a cosa serve? I soldi non ci sono ". E avanti a spiegare che poi arriveranno, ma con questa storia che i soldi non ci sono, molte fasce di amministratori di livello medio alto hanno demolito l'idea di queste riforme, appunto perché tanto i soldi non ci sono e quando arriveranno i soldi, come è stato spiegato bene questa mattina, non sapranno cosa farne perché non abbiamo stabilito bene come dividere le competenze ed i ruoli. È stato ottimistico per me, ma vi ho portato uno spaccato di questioni abbastanza pesanti.

 

Luciano VANDELLI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Bologna e coordinatore della tavola rotonda. La ringrazio, Presidente. Anche questi sono elementi di riflessione estremamente utili .

 

Giorgio FORTI, Sindaco di Pietracamela. Il Presidente con gli occhi mi invita ad intervenire. Già questa mattina mi ha domandato quanti fossero gli abitanti effettivi del mio comune: sono centoventi. Questo significa che su 260-270 iscritti all'anagrafe comunale, la verità è che sono espatriati tutti nei comuni vicini, nella provincia o in altre località; non nasce un bambino da sei anni; non si celebra un matrimonio da sei anni, tranne due amici che ho portato da fuori; ogni anno muoiono cinque o sei persone, il che significa che fra dieci-quindici anni il paese non esisterà più.

A questo punto la prima domanda che pongo è la seguente: ha senso il permanere di un'amministrazione comunale che costa un miliardo l'anno per centoventi abitanti? Per fortuna c'è un grande insediamento dell'ENEL, che ci dà un' ICI robusta che ci consente di sopravvivere, altrimenti saremmo in dissesto finanziario. Tuttavia questo comune insiste su un territorio molto grande e straordinario dal punto di vista naturalistico, completamente inserito in un parco nazionale, con le opportunità e i vincoli che ovviamente questo comporta. Non vi è alcuna disponibilità dei cittadini, vecchi, quindi chiusi a qualsiasi novità, ad intraprendere operazioni insieme con i comuni limitrofi.

Allora la seconda domanda che intendo rivolgere è la seguente: ce la faremo a sopravvivere? Sul piano economico sì, sul piano operativo no, perché questo comune ha un numero eccedente di dipendenti rispetto alle dimensioni umane del comune stesso. Abbiamo infatti nove dipendenti, che in teoria non servono a nulla, però me li sono ritrovati: io sono arrivato da pochissimo tempo all'amministrazione comunale. L'unica cosa da fare è consorziarsi o affidare ad altri organismi sovracomunali le competenze di questo comune. Naturalmente esso appartiene ad una comunità montana: questa dovrebbe supplire alle esigenze del mio comune ed a quelle dei comuni limitrofi, che hanno esattamente gli stessi problemi. Non lo può fare la comunità montana? Non so bene quali siano i compiti, quali siano le disponibilità finanziarie: la verità è che non abbiamo un supporto in questo senso. Lo deve fare la provincia? Benissimo, qualcuno lo deve fare, altrimenti, nella prospettiva di non più di cinque anni, l'unica soluzione è sciogliere il comune e farlo confluire, insieme con altri comuni dello stesso livello di montagna e grosso modo della stessa consistenza anagrafica, in un comune di fondo valle, che manderà una volta alla settimana un suo dipendente a sbrigare le pratiche relative all'anagrafe, alle carte di identità, ai certificati, ahimè solo di morte nel nostro territorio. Questo sembra un discorso disperato sul piano gestionale.

Così non è perché naturalmente noi abbiamo la speranza, viste le qualità di natura del luogo, di richiamare della gente, probabilmente non più gli emigrati, perché sono disamorati, non hanno più interesse e iniziativa, ma altra imprenditoria, altri microoperatori economici, perché si sostituiscano ai vecchi che se ne sono andati.

Il problema vero non è né di natura economica, né di natura funzionale, il problema vero è quello della risorsa umana che non c'è e, andando avanti così le cose, non ci sarà più tra pochissimi anni. Nove mesi fa un assessore aveva proposto di costruire dei garage privati, sbancando una collina. Ho fatto notare che non potevamo sbancare alcunché, perché siamo inseriti un parco nazionale; che non potevamo nemmeno installare su una collina quindici porte basculanti; che dunque non se ne parlava proprio. Poi mi è venuto in mente di dire: " Vi rendete conto che fra quindici anni nessuno avrà la patente, quindi i garage evidentemente non serviranno a nessuno! ".

Queste sono le necessità di una marea di piccoli comuni. Ho appreso oggi che vi sono circa 2 mila comuni, che sono sotto i 500 abitanti e non hanno la possibilità di sopravvivere, soprattutto per carenza di forza umana, di giovani, di qualcuno che prenda iniziative, che li faccia appunto sopravvivere sul piano meramente operativo.

L'appello è: organismi sovracomunali di coordinamento, di supporto e di fornitura dei servizi, nel nostro caso la comunità montana, altrove, se necessario, la provincia o qualcun altro.

 

Luciano VANDELLI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Bologna e coordinatore della tavola rotonda. Mi piacerebbe molto ragionare su questo intervento, anche se ormai non c'è più il tempo, ma spero che avremo altre occasioni per farlo, perché la situazione che lei ha descritto è comune a molti microcomuni, nel senso che molti dei comuni che si collocano tra i 30 e i 200-300 abitanti sono in zone a forte abbandono o a forte invecchiamento, per cui lei fa una previsione a quindici anni, ma in realtà ce ne sono alcuni che si sono dimezzati nel giro di dieci anni, come quello a cui alludevo prima, che deve essere il più piccolo d'Italia e che ha dimezzato gli abitanti negli ultimi dieci anni, ne sono rimasti 30 rispetto ai 60 che erano ed essi sono piuttosto anziani, quindi la previsione di consunzione che riguarda vari comuni è in termini ancora più brevi e più drammatici, soprattutto in alcune zone.

Mi domando se non sia il caso di esaminare veramente in maniera accurata i meccanismi di presenza istituzionale e di incentivo in queste realtà. Dico soltanto una cosa che può essere una provocazione, ma pensateci: ci sono delle realtà abbandonate o in corso di abbandono, che sono prive di interventi sostanziali, quindi non sono privilegiate semplicemente perché sono situate in zone che per tradizione storica hanno avuto dei comuni di carattere ampio. La logica che induce a questo è che ci sono delle zone d'Italia spesso molto povere, che per tradizione hanno comuni ampi: tutti i meccanismi che in questo momento tendono a sostenere i piccoli comuni per le rigidità della spesa, per il fondo investimenti e via dicendo, in sostanza si estrinsecano in flussi di denaro che vanno normalmente a zone ricche, che rispetto alle prime a cui facevo riferimento hanno il grande vantaggio di una tradizione storica parcellizzata. Non so se sono stato chiaro.

Bisognerebbe mettere meglio in fila i meccanismi di incentivo-disincentivo tra il carattere sostanziale e il carattere formale istituzionale, poiché ad esempio abbiamo dei problemi sostanziali di servizi alle popolazioni, di presenza non dico soltanto di servizi pubblici, ma anche, faccio un esempio, del piccolo negozietto, che in montagna rappresenta una risorsa importante.

 

Giorgio FORTI, Sindaco di Pietracamela. Dare a questo negozietto l'incentivo di rottamazione è una follia!

 

Luciano VANDELLI, Professore di diritto amministrativo presso l'Università di Bologna e coordinatore della tavola rotonda. La legge sulla montagna sembrava voler favorire certi processi, adesso succede che con la rottamazione si azzerino dei poli di riferimento, quindi credo che sarebbe importante un check-up dei meccanismi che favoriscono le istituzioni e di quelli che favoriscono le presenze sostanziali, i servizi che tendono ad animare le realtà periferiche marginali. Mi pare che questo possa essere un punto di riflessione importante per la Commissione.

Le cose da dire sarebbero tante, ma le cose dette sono state anche molte. Vi ringrazio molto perché, per il piccolo ruolo che ho svolto, ho seguito con molta attenzione i lavori e ne ho tratto vari insegnamenti.

Ringrazio molto il Presidente, onorevole Cerulli Irelli, per aver organizzato questo incontro e per avermi invitato.

 

Vincenzo CERULLI IRELLI, Presidente della Commissione. Possiamo a questo punto concludere i lavori della tavola rotonda e della Conferenza.

 

Allegati

 

Relazione del Presidente della Conferenza dei Presidenti delle regioni, Vannino Chiti

Questa importante iniziativa, ormai annuale, consente di fare il punto a tutto tondo, con tutti i soggetti coinvolti, sullo stato di attuazione del cosiddetto federalismo amministrativo. Lo scorso anno in questa stessa sede sostenevo come il decreto sull’agricoltura fosse uno dei punti forti del «paradosso italiano»: eravamo allora al quattordicesimo mese di ritardo per l’adozione del DPCM conseguente. L’impressione delle regioni era che la questione stesse ruotando attorno al Corpo forestale dello Stato e come ciò avesse un significato emblematico. In altri termini, ribadivo che se i contenuti del DPCM non avessero rispettato l’accordo raggiunto con il Governo sul Corpo forestale dello Stato, in quel momento sarebbe stata decisa l’archiviazione di tutto il processo di attuazione delle leggi sul federalismo amministrativo. E’ appunto trascorso un anno e, purtroppo, quelle parole valgono ancora. Allora lamentavo la mancata predisposizione del DPCM in materia di agricoltura, oggi lamento il fatto che pur essendo stato acquisito il parere della Conferenza unificata nello scorso mese di agosto, il DPCM non è ancora approdato in Parlamento. Sappiamo tutti, in questa sede, a cosa è dovuto tale ritardo, ma, a mio avviso, ciò costituisce un fatto gravissimo che rischia di pregiudicare tutto il processo in corso. Le regioni a statuto ordinario non possono accettare di essere considerate inadeguate nella gestione - addirittura parziale - delle funzioni relative al Corpo forestale dello Stato, di fronte al fatto che le regioni a statuto speciale hanno ottenuto da tempo la regionalizzazione integrale del Corpo.

Apparentemente si potrebbe pensare che da un anno a questa parte non sia cambiato nulla. Sono invece contento di affermare che non è così.

Voglio portare all’attenzione di tutti voi due esempi particolarmente significativi. Un anno fa, sempre in questa sede, mi preoccupavo del fatto che la modifica costituzionale per l’elezione diretta del presidente della regione tardava ad arrivare. Ora noi tutti sappiamo che questa importantissima riforma è legge (legge costituzionale 1/99). In questo modo si è consentito di votare già dalle prossime elezioni con le nuove regole, garantendo ai futuri Governi regionali maggiore stabilità. Sin dai prossimi mesi si darà avvio in quindici regioni ad una «nuova fase costituente» che ci permetterà di compiere un ulteriore passo verso la modernizzazione delle istituzioni del nostro Paese.

Anche l’altro tassello della riforma in senso federalista a Costituzione vigente è stato portato in porto. E’ recentissimo il provvedimento approvato dal Governo che dà attuazione alla delega sul federalismo fiscale. Mi preme sottolineare anche la svolta intervenuta nei rapporti con il Governo sulla questione sanità, che ha portato all’azzeramento dei debiti pregressi, consentendoci di partire con il piede giusto nell’attuazione del nuovo sistema di finanza regionale.

Passando più propriamente al merito della Conferenza odierna per verificare «a che punto siamo arrivati», vi ricordo che il 1999 è stato un anno che ha visto purtroppo accumularsi tutta una serie di ritardi e che solo negli ultimi quattro mesi, a seguito della nomina a commissario straordinario del consigliere Pajno, il processo ha subito una forte accelerazione. Il 2000, che doveva rappresentare l’anno di concreto esercizio delle funzioni, ci vedrà ancora impegnati nella stesura dei primi DPCM. Bisogna però fare una precisazione sulla natura dei ritardi. Mentre alcuni di essi, a mio avviso, sono ingiustificati, e penso ad esempio alla mancata attivazione del tavolo di confronto presso la Presidenza del Consiglio per circa cinque mesi del 1999, altri sono imputabili alla concreta difficoltà di trovare le necessarie intese sulla quantificazione delle risorse finanziarie, umane e strumentali nei tavoli di confronto. Ciò soprattutto in relazione alle forti resistenze degli apparati dell’amministrazione centrale, la cui mancanza di collaborazione molte volte si traduce nella difficoltà di reperire i dati conoscitivi necessari per la formulazione di proposte concrete da parte delle regioni e degli enti locali circa la stima di fabbisogni adeguati per l’esercizio delle funzioni trasferite. La preoccupazione delle regioni, quali enti destinatari delle funzioni, è quella di riuscire a garantire, soprattutto in settori particolarmente rilevanti per la collettività, livelli adeguati di servizi. Mi riferisco nello specifico a quelle competenze trasferite che riguardano il settore sociale (invalidi civili), le infrastrutture (viabilità), l’ambiente, la difesa del suolo e la protezione civile. Non è tollerabile neanche la mera ipotesi che a scontare sulla propria pelle il costo dei ritardi nell’attuazione del federalismo siano i cittadini! Nei casi in cui non si riesce a raggiungere un’intesa sulla base delle procedure individuate nel cosiddetto accordo Pajno, a mio avviso, è opportuno spostare il confronto alla sede politica al fine di attivare meccanismi alternativi che permettano di reperire i fondi necessari per l’esercizio di tali funzioni, in attuazione del principio di congruità del trasferimento sancito dalla stessa legge Bassanini.

Dal punto di vista dell’attuazione del federalismo amministrativo in sede regionale, posso dire che si può considerare sostanzialmente completato il processo di adozione delle leggi regionali. Questo è il quadro: tutte le regioni hanno adottato le leggi in materia di agricoltura; quattordici su quindici hanno adottato le leggi in materia di mercato del lavoro; tredici su quindici le leggi regionali in materia di trasporto pubblico locale; dieci su quindici hanno adottato le leggi regionali in attuazione del decreto legislativo n. 112; diciotto su ventuno quelle sul commercio. Le regioni che ancora non hanno provveduto sono state commissariate. Si può quindi sostenere che tutte le regioni sono in condizioni di recepire i trasferimenti dello Stato centrale. Si è colta l’occasione per definire tutto l’assetto delle funzioni e per procedere contestualmente alla abrogazione, in alcuni casi anche cospicua, di leggi regionali. Tutte le regioni hanno introdotto forme di concertazione con gli enti locali o confermato gli organismi già operanti: quattordici regioni su quindici hanno istituito un organo permanente di concertazione con le autonomie locali, assumendo così la concertazione quale metodo consolidato di governo. Questa scelta è anche frutto dell’intesa tra ANCI-UPI e Conferenza delle regioni. Il processo di applicazione delle leggi Bassanini a livello territoriale ha visto la partecipazione attiva di numerosi soggetti istituzionali e non: circa 350 a riprova dello sforzo che gli enti territoriali hanno fatto per scongiurare qualsiasi ipotesi di neocentralismo regionale e per progettare insieme nuove regioni e nuovi sistemi delle autonomie locali. Gli stessi organismi di raccordo istituzionale, previsti in tutte le regioni e già operativi da qualche anno in alcune realtà, testimoniano di un superamento radicale dello «storico» conflitto fra regioni ed enti locali verso una nuova stagione di cooperazione e di codecisione. Credo, quindi, che si possa trarre dal nostro punto di vista un bilancio sostanzialmente positivo: tutte le giunte si sono impegnate attivamente per portare a termine il dettato delle leggi Bassanini. Le Giunte di tutte le quindici regioni hanno approvato infatti il progetto di legge in ottemperanza al decreto legislativo n. 112.

Credo inoltre che gli sforzi di tutti debbano ora essere concentrati nella definizione, nel più breve tempo possibile, dei DPCM attuativi. Al riguardo, ribadisco la massima disponibilità delle regioni.

Qualche segnale di preoccupazione sulla riuscita di tutta l’operazione è rappresentato dalle spinte neocentraliste che da più parti si registrano e che rischiano di farci fare un passo indietro rispetto allo spirito della riforma. E non mi riferisco soltanto a quanto succede in Parlamento ma, cosa più preoccupante, ad interventi dello stesso Governo. Anche qui due esempi concreti.

Penso in primo luogo al decreto di riforma dei ministeri. In questa vicenda la Commissione dell'onorevole Cerulli Irelli ha determinato, con il proprio parere, la ricostituzione del Ministero dell’agricoltura, in netta contrapposizione con il processo di riforma avviato e contro la volontà degli stessi cittadini che in un referendum si erano pronunciati per la sua soppressione. Anche le disposizioni contenute nello stesso decreto relative alla costituzione delle agenzie in alcuni casi (agenzie dei trasporti, della protezione civile e del demanio) non possono trovare una condivisione da parte delle regioni, in quanto ci si riappropria di competenze già trasferite ad esse.

Il secondo esempio riguarda la mancata emanazione da parte del Governo del regolamento dell’Istituto per il Credito Sportivo. Il decreto legislativo n. 112 prevede la presenza nel consiglio di amministrazione dell’istituto di rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali. Nonostante il dettato della legge, il Governo ha ritenuto, alla scadenza del consiglio di amministrazione uscente, di procedere alla nomina di un nuovo consiglio sulla base delle vecchie norme. Quest’ultimo fatto penso si commenti da solo!

Questi esempi sono la «spia» dei rischi che si corrono, di vanificare quanto fatto fino ad oggi! E’ necessaria una maggiore coerenza se si vuole proseguire secondo lo spirito di leale collaborazione che ha ispirato i nostri lavori sino ad ora. Resta il fatto che, pur ritenendo questa riforma estremamente importante, non possiamo rassegnarci all’idea che il Parlamento non riesca ad utilizzare questo anno e mezzo che ci separa dalla fine della legislatura per dare un nuovo slancio al cammino delle riforme costituzionali. Visto che tutti si dichiarano federalisti è possibile sperare che le forze politiche raggiungano un accordo per far seguire alle parole i fatti. Pur riconoscendo che qualche ulteriore passo in questa direzione è stato fatto, ciò non è comunque sufficiente. Occorre sottolineare che il testo in discussione alla Camera - come abbiamo fatto presente - risulta lacunoso (non è previsto il Senato delle autonomie) e per alcuni versi arretrato rispetto alla stessa legislazione vigente (riforma dell’articolo 117 della Costituzione quando riattribuisce ad esempio allo Stato le competenze in materia di tutela ambientale o la stessa soluzione indicata per gli statuti di autonomia speciale). C’è il rischio che pur avendo registrato, da tempo, la comune volontà delle forze politiche e socio-economiche sulla riforma federalista dello Stato, questa legislatura, per motivi non sempre nobili, non riuscirà ancora una volta a darla al Paese. Le regioni in questi anni (e non suoni come un consuntivo!) hanno, in accordo con le rappresentanze nazionali dei comuni e delle province, sostenuto con vigore il testo delle riforme, stimolando il Parlamento ed il Governo con proposte puntuali ed innovative sulla sussidiarietà, sulle competenze, sulle forme di autonomia speciale, sulle città metropolitane, sul federalismo fiscale, sul Senato delle autonomie. Su questi temi, pur avendo governi diversi come coalizioni politiche, le regioni e le città hanno ritrovato le ragioni dell’unità, hanno fatto prevalere gli obiettivi di riforma alle logiche di parte. Ci aspettiamo con fiducia che anche il Parlamento agisca in questa direzione. In conclusione ritengo che alcuni passi avanti significativi sono stati fatti. Non siamo più in mezzo al guado (come sosteneva alcuni mesi fa il ministro Bassanini) ma non siamo ancora approdati sulla sponda del federalismo amministrativo. Resta ancora molto da fare. Da parte nostra, nella direzione dello snellimento delle procedure, sottolineo come particolarmente importante l’intesa raggiunta fra regioni, comuni e province sull’attribuzione diretta di risorse e personale agli enti locali destinatari finali delle funzioni, nonostante le singole leggi regionali prevedano procedure diversificate per l’adozione degli atti di attribuzione agli enti locali stessi. Ringrazio la Commissione Bicamerale che ha con continuità saputo sollecitare e contribuire a quelle riforme istituzionali necessarie per ammodernare il nostro Paese e preparare il futuro.

 

Relazione del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio,
Luciano Caveri

Sono lieto di questa occasione di confronto e vi partecipo anche per conto del ministro Katia Bellillo che, impossibilitata di essere presente, mi prega di salutarvi con molta cordialità.

Riprenderò io stesso, nella seconda parte, una serie di punti che le stavano a cuore e li porrò in evidenza a dieci mesi da un analogo incontro cui il ministro prese parte.

Dal punto di vista personale, mi sia consentito dire che due sono le ragioni per le quali prendo volentieri la parola.

La prima, più affettiva, è che della "Bicameralina" (come è stata vezzosamente chiamata per distinguerla dalla Bicamerale per le riforme) è stata in questi anni la "mia" Commissione, di cui sono stato Vicepresidente. Posso perciò testimoniare di quanto il ruolo consultivo che le è stato assegnato per legge sia stato svolto con grande impegno dai commissari di tutte le parti politiche. Ciascuno schema di parere è stato approfondito con grande attenzione e sono certo che i Governi hanno potuto contare su proposte di correzione e di precisazione sempre migliorative nello spirito delle leggi "Bassanini".

La seconda ragione è proprio che ho avuto l'onore, in diversi ruoli, di seguire in prima persona dalla metà degli anni Ottanta ad oggi i processi riformatori di diversa taglia, arrivati alla fine o solo sperati. Posso di conseguenza testimoniare quanto le riforme siano entrate nel cuore del linguaggio parlamentare. E nel cuore di questo strano mondo che è il Parlamento, sempre più alla ricerca di un ruolo e di una identità. Consiglio, a questo proposito, di leggere un bel libro uscito di recente in Francia e intitolato "Un ethnologue à l'Assemblée" delle Editions Odile Jacob. L'autore, l'ntropologo Marc Abélès, non solo ricostruisce, col metodo del lavoro sul campo, avendo realmente frequentato e per lungo tempo il Palais Bourbon, dove siede l'Assemblée Nationale, l'attività parlamentare, ma ne ricostruisce anche nevrosi e prospettive, finendo per proporre temi di diritto costituzionale.

Sarebbe molto interessante se un analogo lavoro venisse svolto anche a Montecitorio e a Palazzo Madama. Allora, già solo con uno studio sui discorsi parlamentari, potremmo apprezzare come nel tempo certe parole abbiano assunto e poi modificato i propri significati. Decentramento, autonomia, regionalismo, sussidiarietà, federalismo: per ciascuna di esse si potrebbe scrivere un piccolo trattato e con tutte, nel loro incrociarsi, una sorta di enciclopedia. Prepariamoci, ad esempio, ad apprezzare il termine devolution che forse dominerà i prossimi mesi.

Prima di fornire le indicazioni del Dipartimento "affari regionali", che ho l'onore di rappresentare, consentitemi di aggiungere ancora alcune impressioni.

La prima, quasi conseguente all'osservazione sul Parlamento, riguarda proprio il ruolo della Bicameralina rispetto all'affermarsi della logica delle deleghe come modo di sveltire la legislazione. Ciò è reso ancora più interessante se pensiamo al ruolo della Conferenza Stato-Regioni (e a quella unificata con la presenza delle Città). E' utile notare come questo tema del rapporto fra deleghe e legislazione delegata e fra parere parlamentare e affermarsi di un ruolo consultivo esterno alle Camere finirà per essere, nella chiave delle riforme costituzionali, uno dei temi da approfondire maggiormente, perché si evince come l'assenza di una Camera delle regioni tende a spostare fuori dal parlamento una serie di passaggi.

La seconda riguarda l'identità regionale come "motore" dei processi di cambiamento. Noto come questo fenomeno abbia peso e corrisponda alle aperture parlamentari solo se si registrerà sempre più sia una forte azione propulsiva di una reale classe politica regionale (è difficile, invece, pensare ad una reale regionalizzazione dei partiti), che possa contare su un apparato regionale dimensionato e su un uso innovativo di tutte le nuove tecnologie, che favoriscono ormai ogni processo di modernizzazione.

La terza è la prospettiva europea, vista non come un richiamo retorico di prammatica, ma come una sfida che consenta anche una seria comparazione della legge "La Pergola" e gli indirizzi di piccola politica estera provenienti, ad esempio, dall'aggiornamento della Convenzione di Madrid e dunque dalle nuove prospettive della cooperazione transfrontaliera.

La quarta, ancora più vicina al tema odierno, è come il processo di smantellamento e di trasferimento delle Bassanini crei una serie di "allarmi". Che siano i cantonieri, i pompieri, i forestali o gli insegnanti, spesso ci si trova di fronte alla parola "emergenza" a caratteri cubitali, come se solo lo Stato fosse il garante di certe categorie e di certe funzioni e ciò è accentuato dalla persistente esistenza delle "due velocità" del regionalismo italiano, che spesso crea effetti paradossali e distorsioni difficili da sanare.

Ma eccoci, a questo punto, alle posizioni, per così dire, ufficiali del nostro dipartimento.

Condividiamo, anzitutto, la generale considerazione che siamo di fronte, negli ultimi mesi, ad uno sblocco reale della situazione sia sul versante nazionale che regionale e giustamente le regioni hanno preteso che l'esercizio delle funzioni non fosse disgiunto dalla disponibilità delle risorse. Qualche ritardo si registra, per ora, per le regioni a statuto speciale e le province autonome, che devono disciplinare molte materie attraverso apposite norme di attuazione degli statuti.

Il quadro si arricchisce attraverso una serie di processi complementari. Mi riferisco, ad esempio, al disegno di legge di semplificazione e al federalismo fiscale. Ci sono stati importanti atti amministrativi (si pensi ai decreti dell'articolo 7, alla riorganizzazione dei ministeri e alla creazione delle agenzie). Ma segnalo anche nuovi e concreti comportamenti delle amministrazioni. Pensiamo ai rapporti tra l'amministrazione e i propri dipendenti, ma anche verso i cittadini e fra le amministrazioni centrali e quelle locali. C'è nell'aria una nuova filosofia che, pur fra difficoltà, tende ad imporsi anche al senso comune e non solo nell'operare pubblico.

A segnare come il superamento di un confine certe novità interviene proprio la logica della collaborazione, concertazione e raccordo raggiunti, intrapresi e talvolta avviati tra Stato, regioni ed enti locali e tra regioni e propri sistemi autonomistici. Il principio di sussidiarietà, su cui ormai tanto inchiostro è stato adoperato, tende ad avere un suo reale dinamismo attraverso la concreta moltiplicazione dei centri di competenza e di responsabilità. Entrano in gioco strumenti per la partecipazione attiva di tutti i livelli di governo alle scelte complessive di cui i decreti sono costellati e ai quali, pur con ritardi e titubanze, ci si sforza coralmente di dare operatività.

Un esempio che ci riguarda: sono nove le intese istituzionali di programma, approvate nel corso dello scorso anno, con il parere della Conferenza Stato-regioni e che richiedono un'azione di partenariato fra Stato e regioni su investimenti di interesse comune. Con le intese istituzionali, che rispondono all'impegno assunto dal Governo nel "patto sociale" del dicembre 1998, si semplificano le procedure contabili e raccordo fra soggetti istituzionali titolari della funzione di programmazione degli interventi.

Il meccanismo "concertativo" è stato ripreso dagli ordinamenti regionali nell'attuazione/recepimento dei decreti di conferimento. Ormai il modulo delle conferenze regionali con le autonomie locali è presente in più di una delle leggi regionali di attuazione della legge 59/97.

Questo stesso modello della collaborazione/concertazione deve costituire supporto anche per l'esercizio delle funzioni rimaste allo Stato. Infatti, uno degli aspetti che più dovrebbe caratterizzare il decentramento riguarda la "trasfigurazione" delle competenze "rimaste" allo Stato. Sarebbe errato e fuorviante considerarle solo nel loro aspetto quantitativo, per consolarsi su quanto esse siano diminuite rispetto al passato. E' la loro intima natura ad essere mutata. Non si tratta più di compiti di "amministrazione attiva" disgiunta; l'amministrazione deve programmare, coordinare, supportare la normazione di vasta area ed operare in ambito locale con la logica dell'intesa. Proprio per la natura dei nuovi compiti dell'amministrazione statale, questa non può più fare a meno della collaborazione delle autonomie territoriali.

Di questo ruolo delle Conferenze, prototipo degli strumenti di raccordo, è dato riscontro anche nella fase di attuazione della riforma. Pensiamo appunto al ruolo collaborativo della Conferenza unificata nel procedimento di adozione del provvedimento (statale) di individuazione delle risorse per l'esercizio dei compiti e funzioni conferite (parere sugli schemi di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri), ora di supplenza (promuove gli accordi tra Governo, regioni ed enti locali per la sua predisposizione).

In pratica, il recente riavvio della fase di individuazione delle risorse per l'esercizio delle funzioni conferite si basa proprio sullo straordinario impegno della Presidenza del Consiglio (tramite la nomina di un Commissario governativo) e sulla forte collaborazione tra Governo ed autonomie nella determinazione dei contenuti dei provvedimenti previsti dall'articolo 7 della legge n. 59, preceduta da un accordo quadro, metodologico, sempre frutto di un'intesa in Conferenza unificata.

Attiene ancora al metodo dell'esercizio delle competenze dell'amministrazione centrale l'ampio e qualificato coinvolgimento delle Conferenze che i decreti legislativi adottati ai sensi del Capo I della legge n. 59 prevedono. Si tratta di un ruolo centrale dato agli strumenti di raccordo/collaborazione nella riforma nonché di una puntuale individuazione del luogo in cui tale raccordo va cercato e realizzato: la Presidenza del Consiglio ove le Conferenze sono collocate per evitare certe moltiplicazioni del passato.

In questa prospettiva si colloca la ricerca, da parte del legislatore regionale, di strumenti di dialogo/collaborazione tra regione ed enti locali sia nella redazione dei nuovi statuti che nella legislazione regionale di interesse per gli enti locali. Deve finire l'attuale configurazione di rapporti separati di regioni, da un lato, ed enti locali dall'altro, con il Governo. Unica deve essere la sede di confronto dell'esecutivo nazionale con il sistema delle autonomie. La Conferenza unificata è strumento utile anche alla creazione di un nuovo clima di collaborazione tra gli enti regionali e locali, uno stimolo a dar vita ad una nuova stagione di integrazione e sinergie tra regioni, comuni, province e comunità montane.

Mi sia consentito di concludere con un cenno su materie di cui ho la responsabilità e che si incrociano con le riforme. Mi riferisco anzitutto alle regioni a statuto speciale e alle province autonome: è necessario emanare tutte le norme di attuazione necessarie e in questo senso è avviato il lavoro nelle Commissioni paritetiche. C'è poi l'attenzione particolare nei confronti dei problemi della montagna e delle popolazioni che la abitano.

Infine, un cenno alla necessità di applicare la nuova legge sulle minoranze linguistiche, che investe significativamente anche il sistema autonomistico.

Il lavoro da fare è ancora molto: confido in una generale presa di coscienza sulla necessità di fare presto e bene.

 

Relazione dell'onorevole Mario Pepe, Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali

Questa seconda conferenza sullo stato di attuazione del decentramento previsto dalla legge n. 59 del 1997 interviene in una fase in cui ormai il quadro degli adempimenti regionali è pressoché completato nei vari settori (agricoltura, mercato del lavoro, trasporto locale, rete carburante).

Deve essere ancora definito l'iter di approvazione consiliare per i progetti di legge di attuazione del decreto legislativo n. 112 del 1998 in cinque regioni (Calabria, Campania, Piemonte, Puglia e Veneto). Vi sono dunque stati ritardi da parte di talune amministrazioni, ma essi trovano spiegazione in diversi fattori: il breve termine di adempimento (sei mesi) concesso alle regioni; la crisi di alcune giunte regionali; la complessità intrinseca del lavoro, che ha costituito lo spunto per procedere - contestualmente all'attuazione del decentramento - al riordino dell'organizzazione amministrativa regionale (diretta e indiretta) e/o alla riforma delle materie interessate; la necessità di coinvolgere le autonomie locali in coerenza con quanto previsto dal documento unitario di intenti Regioni, Anci, Uncem, Upi, sottoscritto il 9 luglio 1998.

Anche se non è possibile un'analisi di insieme, si può affermare che la ripartizione delle funzioni da parte delle diverse regioni appare complessivamente rispettosa dei principi di sussidiarietà, differenziazione, omogeneità e autonomia organizzativa.

Le regioni mantengono le funzioni di programmazione, di indirizzo e coordinamento, e quelle normative, mentre agli enti locali è affidata la generalità dei compiti di gestione. Su quest'ultimo punto si deve osservare però che in talune leggi regionali manca una clausola riferita ai poteri residui (quelli cioè non espressamente collocati a nessun livello di governo, né presso le autonomie funzionali); in altre leggi tali poteri spettano ai comuni (art. 11 l. r. Emilia-Romagna n. 3/1999 e articolo 43 l. r. Abruzzo n. 11 del 1999), oppure alle province (articolo 4, comma 5, l. r. Toscana n. 87/1998), o anche - e ciò è meno coerente con il principio di sussidiarietà - alla regione stessa (articolo 121, comma 5, l.r. n. Umbria 34/1998).

Uno degli aspetti certamente più delicati, su cui abbiamo oggi come relatore il professor Vandelli, è quello dei livelli ottimali di esercizio delle funzioni e quindi dell'esercizio associato di funzioni tra Comuni, momento di sintesi tra i due principi di sussidiarietà (verticale) e di adeguatezza. Su questo aspetto la legge Bassanini ha trovato il suo completamento nella riforma della legge sulle autonomie locali, la recente legge n. 265 del 1999, che demanda alle regioni l'elaborazione - concertata con i comuni - di un programma territoriale di individuazione degli ambiti per l'esercizio associato di funzioni e servizi.

Quanto alle forme giuridiche dell'associazionismo intercomunale si riscontra una grande varietà di soluzioni nelle diverse regioni: accanto alle unioni tra comuni e alle unioni montane, l'Emilia-Romagna promuove le cosiddette associazioni intercomunali e la Toscana rivitalizza i circondari, organismi strumentali delle province per l'esercizio di funzioni amministrative regionali delegate.

Al di là del dato formale, però, quello dell'esercizio associato rappresenta uno dei problemi realmente più seri da risolvere, perché manca in Italia una vera cultura di aggregazione intercomunale e le iniziative normative (e men che meno i poteri sostitutivi) non possono certamente surrogare la volontà dei comuni interessati.

Il rilancio del regionalismo passa dunque, potremmo dire, attraverso un nuovo e più forte ruolo delle municipalità e degli enti intermedi. Questo dato si percepisce anche dal peso che assume la concertazione tra regioni ed enti locali attraverso le consulte regioni-enti locali. Voglio ricordare che l'idea non è nuova, dato che le prime conferenze regione-enti locali trovano il proprio fondamento normativo nell'articolo 11 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, che collocava il loro ruolo nell'ambito della programmazione. Oggi l'idea viene rilanciata con forza nella convinzione che comuni più efficienti nella gestione delle funzioni amministrative e coinvolti nelle decisioni a livello regionale consentiranno alle regioni di svolgere meglio e più incisivamente il ruolo di programmazione e normazione; così come il decentramento di poteri dallo Stato alle regioni deve segnare da parte dello Stato un più efficiente esercizio delle funzioni più strettamente connesse alla sovranità. Un problema però che nel processo di decentramento e di costruzione del federalismo non può essere sottaciuto è quello dei diritti sociali, perché certamente il modello del decentramento dei poteri porta ad accentuare e premiare le differenze e le disomogeneità, mentre lo Stato ha un compito di compensazione delle situazioni di ritardo di sviluppo. In questa prospettiva si deve guardare con grande attenzione al problema delle risorse e in particolare al decreto sul federalismo fiscale, attualmente all'esame delle Commissioni finanze di Camera e Senato, risultando estremamente delicata l'elaborazione di un modello in cui la competizione tra le regioni non vada a scapito delle esigenze di solidarietà e di perequazione. D'altra parte il sistema che si va delineando nello schema di decreto di cui sopra, prima ancora di venire alla luce, già viene considerato un modello di transizione. Un voto al Parlamento approvato dal Consiglio regionale della Lombardia lo scorso 14 dicembre chiede che sia fissato nella misura del 70 per cento il rapporto tra le risorse tributarie che devono restare sul territorio e l'ammontare del prelievo tributario complessivo, nell'auspicato ordinamento federale della Repubblica.

 

Dati relativi ai Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all'articolo 7 della legge 15 marzo 1997, n. 59

DECRETI DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DI INDIVIDUAZIONE DEI BENI E DELLE RISORSE FINANZIARIE, UMANE, STRUMENTALI E ORGANIZZATIVE DA TRASFERIRE ALLE REGIONI ED AGLI ENTI LOCALI AI SENSI DELL'ARTICOLO 7 DELLA LEGGE 59/97

1) DPCM già pubblicati:

DPCM 9 ottobre 1998

Individuazione, in via generale, delle risorse da trasferire alle regioni, in materia di mercato del lavoro

(G.U. 5.1.99, n. 3)

DPCM 6 luglio 1999

Individuazione dei beni e delle risorse degli uffici metrici provinciali da trasferire alle camere di commercio

(G.U. 6.12.99, n. 286)

DPCM 7 luglio 1999

Disposizioni per gli enti fieristici a norma dell'art. 7 della legge 15 marzo 1997, n. 59

(G.U. 29.7.99, n. 176)

DPCM 5 agosto 1999

Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri concernenti l'individuazione delle risorse in materia di mercato del lavoro, da trasferire alle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria, Veneto

(G.U. 25.11.99, S.O. n. 206)

DPCM 6 agosto 1999

Identificazione delle attività relative alla concessione di agevolazioni, contributi, sovvenzioni, incentivi, benefici di qualsiasi genere all'industria conservate allo Stato

(G.U. 30.10.99, n. 256)

 

DECRETI DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DI INDIVIDUAZIONE DEI BENI E DELLE RISORSE FINANZIARIE, UMANE, STRUMENTALI E ORGANIZZATIVE DA TRASFERIRE ALLE REGIONI ED AGLI ENTI LOCALI AI SENSI DELL'ARTICOLO 7 DELLA LEGGE 59/97

2) schemi di DPCM sul quale è stato espresso il parere favorevole della Conferenza unificata

- Individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative in materia di agricoltura da trasferire alle regioni ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 112/98

- Individuazione dei beni e delle risorse umane, finanziarie, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni per l'esercizio delle funzioni in materia di incentivi alle imprese di competenza del Ministero dell'industria, del Ministero del commercio con l'estero e del Ministero del tesoro-Dipartimento tesoro

- Individuazione delle risorse degli Uffici provinciali dell'industria, commercio e artigianato da trasferire alle Camere di commercio

- Individuazione di risorse strumentali, umane, finanziarie e organizzative da trasferire alle regioni in tema di salute umana e sanità veterinaria

- Individuazione di risorse strumentali, umane, finanziarie e organizzative da trasferire alle regioni in tema di funzioni di concessione dei trattamenti economici a favore degli invalidi civili

- Individuazione, ai sensi dell'articolo 145 del decreto legislativo 112/98, dei beni e delle risorse da trasferire alle regioni per l'esercizio delle funzioni connesse agli istituti professionali trasferiti ai sensi degli articolo 144 e 141

 

DECRETI DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI DI INDIVIDUAZIONE DEI BENI E DELLE RISORSE FINANZIARIE, UMANE, STRUMENTALI E ORGANIZZATIVE DA TRASFERIRE ALLE REGIONI ED AGLI ENTI LOCALI AI SENSI DELL'ARTICOLO 7 DELLA LEGGE 59/97

3) schemi di DPCM in via di elaborazione sui tavoli tecnici da sottoporre, presumibilmente, alla Conferenza unificata nei mesi di gennaio-febbraio 2000

- Individuazione dei beni e delle risorse umane, finanziarie, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni per l'esercizio delle funzioni in materia di lavori pubblici

- Individuazione dei beni e delle risorse umane, finanziarie, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni per l'esercizio delle funzioni in materia di incentivi alle imprese di competenza del Ministero del tesoro-Dipartimento per le politiche di viluppo e di coesione

- Individuazione delle risorse connesse alle competenze collegate alla cessazione del soppresso intervento nel Mezzogiorno

- Individuazione dei beni e delle risorse umane, finanziarie, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni per l'esercizio delle funzioni conferite dall'articolo 105 del decreto legislativo 112/98 in materia di trasporti

- Individuazione dei beni e delle risorse umane, finanziarie, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni per l'esercizio delle funzioni in materia ambientale

- Trasferimento alle regioni di beni e risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative in materia di energia e risorse minerarie di competenza del Ministero dell'industria

- Individuazione di risorse strumentali, umane, finanziarie e organizzative da trasferire alle regioni e agli enti locali per l'esercizio delle funzioni conferite dagli articoli 138 e 139 in materia di istruzione scolastica

- Individuazione dei beni e delle risorse da trasferire alle regioni o agli enti locali per l'esercizio delle funzioni conferite dall'articolo 99 del decreto legislativo 112/98 in materia di viabilità

  

PROVVEDIMENTI SPECIALI PER IL COMPLETAMENTO
DEL FEDERALISMO AMMINISTRATIVO

1) provvedimenti già pubblicati:

Delibera CIPE contenente i criteri e le modalità per il trasferimento alle regioni delle risorse collegate alla cessazione dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno (G.U. 10.12.99, n. 289)

2) schemi di provvedimento sui quali è stato espresso il parere favorevole della Conferenza unificata o della Conferenza Stato-Regioni:

Criteri per il riparto delle risorse relative agli incentivi alle industrie (art. 19, c. 8, decreto legislativo 112/98)

Determinazione delle percentuali di riparto delle risorse relative agli incentivi alle industrie (art. 19, comma 8 del decreto legislativo 112/98)

Individuazione e trasferimento alle regioni, ai sensi dell'articolo 144, comma 2, del decreto legislativo 112/98, degli istituti professionali di cui all'articolo 141

Trasferimento, ai sensi dell'articolo 101, comma 1, del decreto legislativo 112/98, delle strade di interesse regionale non comprese nella rete autostradale e stradale nazionale

3) schemi di provvedimento in via di elaborazione

EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA

Intesa della Conferenza Stato-Regioni. Su proposta del Ministero dei lavori pubblici, su criteri, modalità e tempi per il trasferimento, ex articolo 60, delle competenze alle regioni

PARCHI E RISERVE NATURALI

Atto di indirizzo e coordinamento che individui, sulla base dei criteri stabiliti dalla Conferenza Stato-Regioni, le riserve statali, non collocate nei parchi nazionali, la cui gestione è affidata a regioni ed enti locali

Fonte: Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle attività di identificazione dei beni e delle risorse da trasferire alle regioni e agli enti locali, Consigliere di Stato avv. Alessandro Pajno

 

Dati relativi al riordino di strutture amministrative interessate dal conferimento di funzioni, ai sensi dell'articolo 7, comma 3, della legge 15 marzo 1997, n. 59

Riordino di strutture amministrative interessate dal conferimento di funzioni, ai sensi dell'articolo 7, comma 3, della legge 15 marzo 1997, n. 59.

Norma di riferimento
decreto legislativo 112/98

Struttura da riordinare

art. 58

Direzione generale del coordinamento territoriale presso il Ministero dei lavori pubblici

art. 62

Sezione autonoma per l'edilizia residenziale pubblica della Cassa depositi e prestiti

art. 75

Consiglio nazionale per l'ambiente

Consulta per la difesa del mare

Commissione scientifica sul commercio internazionale di specie selvatiche di cui all'articolo 4, comma 2, della legge 7 febbraio 1992, n. 150

Consulta tecnica per le aree naturali protette di cui all'articolo 3, comma 7 e 8, della legge 6 dicembre 1991, n. 394

art. 92

Uffici del Ministero dei lavori pubblici competenti in materia di acque e difesa del suolo

Magistrato per il Po e Ufficio del genio civile per il Po di Parma

Ufficio per il Tevere e l'Agroromano

Magistrato delle acque di Venezia con definizione delle funzioni in materia di salvaguardia di Venezia e della sua laguna

Organismi e strutture operanti nel settore della difesa del suolo nonché adeguamento delle procedure di intesa e leale cooperazione tra lo Stato e le regioni previste dalla legge 19 maggio 1989, n. 183, in conformità ai principi e obiettivi nella stessa stabiliti

art. 96

Uffici centrali e periferici dell'amministrazione dello Stato competente in materia di opere pubbliche, e in particolare:

- dipartimento per le aree urbane presso la Presidenza del Consiglio dei ministri;

- consiglio superiore dei lavori pubblici;

- direzione generale delle opere marittime del Ministero dei lavori pubblici;

- uffici del genio civile per le opere marittime;

- direzione generale dell'edilizia statale e dei servizi speciali;

- provveditorati regionali alle opere pubbliche

art. 100

ANAS

art. 106

Uffici centrali e periferici dell'amministrazione dello Stato competente in materia di trasporti e demanio marittimo, e, in particolare:

- comitato centrale e comitato provinciale per l'albo degli auto-trasportatori;

- uffici della Motorizzazione civile e centri prova autoveicoli;

- direzione generale del lavoro marittimo e portuale;

- direzione generale del demanio marittimo

art. 109

Consiglio nazionale per la protezione civile

Comitato operativo della protezione civile

art. 127

Istituto superiore di sanità, Consiglio superiore di sanità, Istituto superiore di prevenzione e sicurezza del lavoro

art. 146

Strutture ministeriali interessate dal conferimento di funzioni in materia di formazione professionale

 

Dati relativi alla soppressione di strutture interessate dal conferimento di funzioni, ai sensi dell'articolo 7, comma 3, della legge 15 marzo 1997, n. 59

Soppressione di strutture interessate dal conferimento di funzioni, ai sensi dell'articolo 7, comma 3, della legge n. 59 del 97

Norma di riferimento
decreto legislativo 112/98

Struttura da sopprimere

art. 62

Comitato per l'edilizia residenziale pubblica (CER) presso il Ministero dei lavori pubblici e relativo comitato esecutivo

Segretariato generale del Comitato per l'edilizia residenziale pubblica (CER) e il centro permanente di documentazione

art. 96

Sezione autonoma del genio civile per le zone terremotate di Palermo, Trapani e Agrigento, istituite con la legge 5 febbraio 1970, n. 21

art. 106

Servizio escavazione porti

art. 134

Servizio assistenza economica alle categorie protette presso la direzione generale dei servizi civili del Ministero dell'interno

 

Tabella relativa al procedimento di definizione degli ambiti territoriali per l'esercizio associato di funzioni nelle regioni a statuto ordinario

Regione

Soggetto titolare della definizione degli ATO

Termine per la definizione degli ATO

Termine per l’attivazione dell’esercizio associato (ovvero per l’individuazione di soggetti, forme e metodologie per l’esercizio associato

Potere sostitutivo per la definizione degli ATO

Ente chiamato all’esercizio delle funzioni In sostituzione delle forme associative

Potere sostitutivo per la costituzione delle forme associative

Abruzzo

Regione

180 giorni dall’entrata in vigore della legge

90 giorni successivi al termine dei 180 giorni

 

Provincia o comunità montana

 

Basilicata

Consiglio regionale su proposta della Giunta

90 giorni dall’entrata in vigore della legge

Un anno (per l’attivazione dell’esercizio associato)

 

Provincia

 

Emilia Romagna

Comuni

Sei mesi dall’entrata in vigore della legge

 

Provincia

Provincia

 

Lazio

Consiglio regionale su proposta della Giunta

120 giorni dall’entrata in vigore della legge

Il termine per l’organizzazione dell’esercizio associato è fissato dalla delibera di individuazione degli ATO

   

Giunta regionale

Marche

Consiglio regionale su proposta della Giunta

4 mesi dall’entrata in vigore della legge

I 4 mesi successivi alla determinazione degli ATO

   

Consiglio regionale su proposta della Giunta

Molise

Intesa proposta ai comuni con meno di 2.000 abitanti o in particolari condizioni interessati dalla Giunta regionale; gli altri comuni decidono autonomamente

90 giorni dall’entrata in vigore della legge per l’intesa; 120 giorni per i comuni che decidono autonomamente

   

Comunità montane per i comuni montani; negli altri casi, il Consiglio regionale, su proposta della Giunta, determina le forme e le metodologie ed eventualmente i soggetti affidatari per conto dell’esercizio associato delle funzioni comunali

 

Piemonte

Consiglio regionale con legge

90 giorni dall’entrata in vigore della legge

90 giorni dall’entrata in vigore della legislazione di settore

   

Giunta regionale

Toscana

Consiglio regionale su proposta della Giunta

 

Termine stabilito nella sede di concertazione o comunque entro 120 giorni dalla deliberazione del Consiglio regionale per l’organizzazione dell’esercizio associato delle funzioni

   

Il Consiglio regionale determina, su proposta della Giunta, le modalità transitorie di esercizio nel livello ottimale individuato

Umbria

Consiglio regionale

60 giorni dall’entrata in vigore della legge

180 giorni dalla data di pubblicazione nel Bollettino ufficiale della regione della deliberazione per l’esercizio delle funzioni in forma associata

   

Giunta regionale

 

UNIONI DEI COMUNI COSTITUITESI PRIMA DELL'ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE N. 265 DEL 1999 (*)

Denominazione ente

Importo

Durata contributo

Unione della Valvarrone (LC)

45.648.591

1996-2005

Unione della Valconca (RN)

314.260.722

1996-2005

Unione dei Navigli (MI)

204.846.928

1997-2006

Unione dei Cinque Comuni (VR)

583.486.439

1997-2006

Unione della Media Valle Cavallina (BG)

274.400.150

1998-2007

Unione di Ceto, Cimberto e Paspardo (BS)

298.365.394

1998-2007

Unione dei comuni di Civitella, Galeata e Santa Sofia (FO)

380.072.682

1998-2007

Unione dei comuni dell'Adige Guà (VR)

496.146.978

1998-2007

Unione dei comuni della Bassa Sabina (RI)

514.013.274

1998-2007

Unione dei comuni di Sant'Anna D'Alfaedo ed Erbezzo (VR)

181.530.064

1998-2007

Unione dei comuni di Piadena e Drizzona (CR)

116.241.489

1998-2007

Unione dei comuni dell'Alta Valle Versa (PV)

45.755.424

1999-2008

Unione dei comuni della Valle Dell'Olio (RI)

952.459.677

1999-2008

Unione dei comuni Medio Sannio (CB)

in fase di definizione

1998-2007

Fonte: Ministero Interno
Ultimo aggiornamento 23/12/99
(*) Unioni che ricevono il contributo statale.

 

UNIONI DEI COMUNI COSTITUITESI DOPO L'ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE N. 265 DEL 1999 (*)

Unione dei comuni di Montecerignone, Montegrimano e Mercatino Conca (PS);

Unione dei comuni di Roverè, Veronese, Vela Veronese e San Mauro di Saline (VR);

Unione dei comuni dall'Adige al Fratta (VR) (comuni di Bevilacqua, Bonavigo Boschi, San'Anna Minerbe, Terrazzo);

Unione dei comuni di Sassocorvaro e Lunano (PS);

Unione dei comuni di Calvatone e Tornata (CR);

Unione dei comuni dell'Alto Appennino Reggiano (RE) (comuni di Busana, Collagna Ligonchio e Ramiseto);

Unione dei comuni di Molino dei Torti e Alzano Scrivia (AL);

Unione dei comuni Pandosia (CS) (comuni di Castrolibero, Marano Marchesato e Marano Principato);

Unione dei comuni Cinquecittà (FR) (comuni di Roccasecca, Aquino, Piedimonte San Germano, Piedimonte San Germano, Pontecorvo, Villa Santa Lucia);

Unione dei comuni di Cedegnolo, Berzo Demo Cevo, Saviore dell'Adamello (BS)

Fonte: Ministero Interno
(*) Unioni che non usufruiscono dei contributo statale in attesa della emanazione del regolamento ex articolo 6, comma 8, della legge n. 265/1999.

 

Dati relativi alla finanza regionale e locale

La finanza regionale e locale.

Regioni (dati relativi al 1998).
(vedi Relazione generale sulla situazione economica del Paese)

Incassi correnti: 162.396 mld
Trasferimenti di parte corrente dal settore statale: 89.815 mld (da 123.450 mld nel 1997); 55,8% degli incassi correnti (l’83% nel 1997)
Incassi tributari: 70.664 mld (da 24.277 mld nel 1997)
Incassi in conto capitale: 8.453 mld (per il 90% trasferimenti dal settore statale).
Pagamenti correnti: 148.016 mld (circa il 72% nel settore sanità)

 

Pagamenti in conto capitale: 26.229 mld (circa il 77% trasferimenti; gli investimenti diretti sono pari a 4.661 mld)

Comuni e Province (dati relativi al 1998)

Incassi correnti: 85.112 mld
Aumento dei trasferimenti: +18,7%
Diminuzione dei tributi: -4,2%
Incassi in conto capitale: 19.949 mld (circa il 78% trasferimenti)
Prestiti obbligazionari: 1.150 mld
Pagamenti correnti: 82.808 mld
Pagamenti in conto capitale: 26.448 mld

BILANCI DI PREVISIONE REGIONI A STATUTO ORDINARIO (dati tratti dalle Relazioni previsionali e programmatiche per gli anni 1991, 1998, 1999 e 2000)

1990 – Entrate tributarie: 1.356
            Quote di tributi statali: 14.722
            Trasferimenti dallo Stato: 62.341
            1996 – Entrate tributarie: 7.532
            Quote di tributi statali: 5.814
            Trasferimenti dallo Stato: 79.062

1998 – Entrate tributarie: 60.267
            Quote di tributi statali: 6.158
            Trasferimenti dallo Stato: 59.393

1999 – Entrate tributarie: 69.367
            Quote di tributi statali: 5.028
            Trasferimenti dallo Stato: 53.873

Proiezioni a legislazione vigente per l’anno 2001 (dati del Governo in accompagnamento allo schema di decreto legislativo sul federalismo fiscale)

Tributi propri: 77.768 (di cui nuovi tributi propri: 3.763)
Compartecipazione IVA: 35.936
Soppressione dei trasferimenti statali: - 39.698

 

Nel processo di attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di risorse proprie (e contestuale riduzione dei trasferimenti erariali), si individuano questi momenti di particolare rilievo:

1990 – attribuzione alle Regioni di:

  1. l’addizionale regionale all’imposta erariale di trascrizione (ARIET, poi soppressa nel 1995);

  2. l’addizionale regionale sull’imposta erariale di consumo del gas metano;

  3. l’imposta regionale sulla benzina per autotrazione.

1992 – riordino e attrib
zione alle Regioni dell’intero gettito della Tassa automobilistica (di nuovo ridisciplinata nel 1997);
riforma del sistema sanitario: alle Regioni viene attribuito il gettito dei contributi sanitari.

1995 – soppressione dei "fondi storici" di cui alla legge 281/1970 e attribuzione alle Regioni di una compartecipazione all’accisa sulla benzina per autotrazione.

1997 – viene istituita l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e l’addizionale regionale all’IRPEF; contestualmente sono soppressi i contributi sanitari.

2000 – vengono soppressi trasferimenti erariali (tra cui il Fondo Sanitario Nazionale) per 39.720 miliardi e:

-    viene incrementata l’addizionale regionale all’IRPEF dello 0,4% (gettito presunto di 3.587 mld);
-    viene incrementata la compartecipazione regionale all’accisa sulla benzina di 8 £ al litro (gettito presunto di 176 mld);
-    viene attribuita alle Regioni una compartecipazione all’IVA pari al 25,7% del gettito complessivo (35.958 mld).

CONTO CONSOLIDATO DI CASSA (da Relazione generale sulla situazione economica del Paese)

REGIONI

1990 – Incassi correnti: 96.460
            Incassi tributari: 9.170
            Trasferimenti dal settore statale: 85.429

            Incassi in conto capitale: 8.010
            Trasferimenti dal settore statale: 7.838

1998 – Incassi correnti: 162.396
            Incassi tributari: 70.664
            Trasferimenti dal settore statale: 89.815

            Incassi in conto capitale: 8.453
            Trasferimenti dal settore statale: 7.620

Accertamenti di entrata (Corte dei conti: Relazione al Parlamento sui risultati dell’esame della gestione finanziaria e dell’attività degli enti locali)

 

COMUNI

Accertamenti entrate correnti

1990 – entrate tributarie: 20,06%
            entrate extratributarie: 14,41%
            trasferimenti: 65,53%

1997 – entrate tributarie: 42,24%
            entrate extratributarie: 20,16%
            trasferimenti: 37,60%

 

PROVINCE

Accertamenti entrate correnti

1990 – entrate tributarie: 8,70%
            entrate extratributarie: 5,95%
            trasferimenti: 85,35%

1997 – entrate tributarie: 21,31%
            entrate extratributarie: 4,90%
            trasferimenti: 73,79%

 

CONTO CONSOLIDATO DI CASSA (da Relazione generale sulla situazione economica del Paese)

COMUNI E PROVINCE

1990 – Incassi correnti: 59.290
            Incassi tributari: 10.830
            Trasferimenti dal settore statale: 34.254

            Incassi in conto capitale: 11.790
            Trasferimenti dal settore statale: 4.180

1998 – Incassi correnti: 85.112
            Incassi tributari: 31.720
            Trasferimenti dal settore statale: 26.087

            Incassi in conto capitale: 19.949
            Trasferimenti dal settore statale: 6.451

 

ENTRATE TRIBUTARIE DELLE REGIONI

  1. imposta sulle concessioni statali - L. 281/1970

  2. tassa sulle concessioni regionali - (L. 281/1970 e D. lgs. 230/1991)

  3. tassa automobilistica regionale (prima del 1993, tassa di circolazione) - D. lgs. 504/1992 e L. 449/1997

  4. tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche - (L. 281/1970, poi soppressa con D. Lgs. 446/1997);

  5. addizionale regionale all’imposta erariale di trascrizione (ARIET) – D. lgs. 398/1990, soppressa con D. lgs. 549/95

  6. addizionale regionale all’imposta erariale di consumo del gas metano – D. lgs. 398/1990

  7. imposta regionale sulla benzina per autotrazione – D. lgs. 398/1990

  8. tassa regionale per il diritto allo studio universitario – L. 549/1995

  9. tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi – L. 549/1995

  10. tributo speciale per i rifiuti smaltiti negli impianti di incenerimento, senza recupero di energia – L. 549/1995

  11. quota di compartecipazione al gettito dell’accisa sulla benzina e sulla benzina senza piombo per autotrazione (determinata originariamente in 350 lire al litro; ridotta a 242 lire a litro a seguito del riordino della tassa automobilistica regionale) – D. lgs. 549/1995 e L. 449/1997

  12. imposta regionale sulle attività produttive, IRAP – D. lgs. 446/1997

  13. addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche, IRPEF – D. lgs. 446/1997: l’aliquota dell’addizionale è fissata tra lo 0,5% e l’1%; l’aliquota erariale è corrispondentemente ridotta dello 0,5%.

Schema di decreto legislativo di attuazione della delega di cui all’articolo 10 della L. 133/1999:

  1. compartecipazione delle regioni a statuto ordinario all’IVA (dal 2001) nella misura del 25,7% del gettito IVA complessivo realizzato nel penultimo anno precedente quello considerato;

  2. aumento dell’aliquota dell’addizionale regionale all’IRPEF (dal 2000), da fissare tra lo 0,9% e l’1,4%; l’aliquota erariale è ulteriormente ridotta dello 0,4%;

  3. aumento della compartecipazione regionale all’accisa sulle benzine (dal 2001) a 250 lire al litro;

  4. abolizione (dal 2001) della compartecipazione dei comuni e delle province al gettito dell’IRAP; integrazione di pari importo del fondo ordinario per il finanziamento dei bilanci degli enti locali iscritto nello stato di previsione del Ministero dell’Interno.

 

ENTRATE TRIBUTARIE DEI COMUNI

  1. addizionale comunale sul consumo dell’energia elettrica – L. 20/1989

  2. imposta comunale sugli immobili, ICI – D. lgs. 504/1992

  3. imposta comunale sulla pubblicità e diritto sulle pubbliche affissioni – D. lgs. 507/1993

  4. tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, TOSAP – D. lgs. 507/1993; facoltà di abolire la TOSAP o di sostituirla con un canone di concessione determinato in base a tariffa – D. lgs. 446/1997 e s.m.

  5. tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, TARSU – D. lgs. 507/1993; è prevista l’abrogazione dell’imposta e la sua sostituzione con una tariffa a copertura dei costi di gestione dello smaltimento dei rifiuti – D. lgs. 22/1997

  6. addizionale comunale all’IRPEF – D. lgs. 360/1998; l’addizionale è costituita di una quota base, fissata dallo Stato e uguale per tutti i comuni (con equivalente diminuzione dell’aliquota erariale), e di una quota aggiuntiva, facoltativa, determinata da ciascun comune entro i limiti stabiliti dalla legge: la variazione non può superare lo 0,5%, con un incremento annuo non superiore allo 0,2%

  7. compartecipazione all’IRAP dei comuni – D. lgs. 446/1997; ne è prevista l’abolizione dalla L. 133/1999

 

ENTRATE TRIBUTARIE DELLE PROVINCE

  1. addizionale provinciale sul consumo dell’energia elettrica – L. 20/1989

  2. compartecipazione delle province al tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (di spettanza delle regioni) – L. 549/1995

  3. compartecipazione all’IRAP delle province – D. lgs. 446/1997; ne è prevista l’abolizione dalla L. 133/1999

  4. imposta provinciale di trascrizione, iscrizione e annotazione dei veicoli al pubblico registro automobilistico – D. lgs. 446/1997

  5. attribuzione alle province del gettito dell’imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore – D. lgs. 446/1997

  6. addizionale provinciale all’IRPEF – L. 133/1999

 

II^ Conferenza sullo stato di attuazione del capo I° 1. n. 59/97
A che punto siamo con il federalismo amministrativo?
L’esperienza di un Amministratore Comunale nelle forme associative
Roma 25 GENNAIO 2000

PREMESSA

In considerazione della costante scarsità di risorse finanziarie oltre che di personale con adeguate professionalità, di cui i nostri piccoli comuni dispongono e constatato il diffondersi di una nuova consapevolezza, sulla estrema necessità di rapporti di collaborazione sempre più stretti tra i vari enti, per trovare soluzione alle tante esigenze e problematiche comuni; su iniziativa del Comune di Vigano S.M. si promuoveva un percorso di studio per verificare le condizioni per dar vita ad una forma di collaborazione stabile, nella gestione dei servizi comunali.

In questa iniziativa furono coinvolti i comuni limitrofi della media Val Cavallina, Borgo di Terzo, Luzzana, Berzo S.F. e Grone che formano con Vigano San Martino una omogenea entità territoriale e geografica, tramite una serie di incontri consultivi con i rispettivi amministratori.

All’inizio del 1997 la conferenza dei sindaci prendeva atto che non sussistevano le condizioni sufficienti e necessarie per l’immediata adesione all’Unione da parte di tutti e cinque i comuni interessati, rimandando Berzo S.F. e Grone ad un momento successivo l’eventuale adesione.

I lavori di approfondimento procedono con i soli rappresentanti degli altri tre comuni e la formale costituzione di un gruppo intercomunale di studio.

Le deliberazioni che i Consigli comunali di Vigano San Martino, Borgo di Terzo e Luzzana assumono il 13 e 14 Dicembre 1997, costituiscono per questi tre Comuni il punto di inizio di un percorso istituzionale, nuovo e sperimentale. Il successivo 02 febbraio 1998 con l’elezione del Presidente e della Giunta inizia il percorso operativo e gestionale di questo nuovo organismo associativo.

 

OBIETTIVI E FINALITA’

Gli obiettivi e le finalità da sempre ribadite dalle Amministrazioni dei tre Comuni aderenti ed inserite al primo punto dello statuto e ribadite nei documenti di programmazione economica finanziaria allegati ai Bilanci di Previsione, oltre che risiedere nella comune volontà di una gestione unitaria dei diversi servizi e funzioni, ha come riferimento fondamentale e non sottovalutabile nella impostazione dell’azione amministrativa del nuovo Ente "Unione" la volontà di perseguire e indicare ai cittadini l’obbiettivo della fusione dei Comuni originari, mediante la creazione di un unico nuovo Comune.

Se attualmente dal punto di vista fisico e morfologico del territorio è difficile individuare i confini dei tre Comuni, per diverse ragioni, prime fra tutte di tipo storico , la distinzione fra le tre comunità è presente in modo nitido e palpabile.

Del resto ognuno dei tre paesi è cresciuto nei secoli intorno alla propria Parrocchia e il legame al campanile come senso di appartenenza a questo territorio e alla sua comunità, rimane forte e intatto. Questa condizione è considerata una valenza positiva, da riconoscere e valorizzare al meglio. Nessuno intende o vuole comprimere o annullare le caratteristiche peculiari presenti in ogni comune e tantomeno uniformarle.

Lo sforzo intrapreso vuole essere un qualcosa in più, un valore aggiunto di un tentativo generoso, per dimostrare che insieme si può fare di più e meglio senza perdere la propria identità; razionalizzando le scarse risorse umane e finanziarie di cui ciascun Comune dispone mediante il trasferimento all’Unione delle competenze amministrative e gestionali riguardo a servizi fondamentali quali ad esempio quelli in ambito scolastico, nel settore socio assistenziale, in ambito di gestione del territorio, etc. che più coinvolgono la collettività e dimostrando che la gestione unitaria consente non tanto una riduzione delle spese o delle singole imposte, ma servizi più efficienti ed efficaci oltre che una economicità di gestione complessiva.

Questa scommessa se nei prossimi anni avrà maturato risultati soddisfacenti sarà in grado di rendere partecipi all’idea di un Comune unito, quella parte di collettività che ancora fatica a riconoscere positivamente tale futura evenienza.

Sicuramente il fatto che alle elezioni amministrative dello scorso 13 giugno 1999, le liste di candidati che hanno partecipato alla competizione elettorale abbiano nel loro complesso tutte confermato nel loro programma il proseguimento dell’esperienza della Unione e che gli elettori abbiano tra queste liste e candidature a Sindaco riconfermato come primi cittadini le stesse persone che per prime hanno creduto e creato questo nuovo Ente è di buon auspicio per il proseguo dell’azione intrapresa ed il raggiungimento della meta finale.

I prossimi anni fanno prevedere un complesso lavorio di organizzazione e di attenzione nel favorire la crescita della condivisione sul progetto associativo e di cooperazione dell’Unione Media Val Cavallina sia nella parte politica rappresentata dagli amministratori che nella cittadinanza.

La gestione unitaria di tutti i servizi, oltre che una comune programmazione degli investimenti da realizzarsi su tutto il territorio dell’Unione consentirà domani un passaggio in modo naturale alla fase finale del nuovo Comune unito.

 

LIMITI E DIFFICOLTA’

Finora le principali difficoltà incontrate non sono state tanto di ordine politico in quanto le scelte operate dalle singole Amministrazioni sono state sempre coerenti con quanto deciso nel dicembre 1997, quanto invece di ordine organizzativo, con particolare riferimento alla gestione del personale e alla carenza di prassi amministrativa consolidata al quale fare riferimento.

La mancanza di esperienze similari in Provincia e i rari contatti possibili con altre realtà di Unioni, nel resto d’Italia e di bibliografia consolidata sull’argomento, non consentono utili riferimenti di paragone e confronto alle quali attingere.

L’emanazione della legge 265/99 di revisione della legge 142/90, ha però contribuito a rendere più chiara la situazione esplicitando il ruolo dell’Unione quale Ente Locale.

Ancora oggi paradossalmente, alcune importanti istituzioni fra le quali la stessa Regione Lombardia e il Ministero dell’Interno, che contribuiscono al Bilancio dell’Unione, faticano a riconoscere l’Unione stessa come "ente locale" a tutti gli effetti con le stesse prerogative e finalità.

Un’altra importante constatazione è il fatto che tutte le informazioni contenute in circolari, norme regionali e/o statali, etc. giungono all’Unione sempre "di seconda mano" e ciò per merito della buona volontà ed accortezza degli Amministratori che puntualmente trasmettono all’Ente, per opportuna conoscenza copia di quanto perviene ai Comuni; quasi mai esiste corrispondenza tra Regione, O.RE.C.O, Prefettura, Ministeri etc. e l’Unione se non per iniziativa dell’Ente stesso.

Per quanto riguarda il discorso del personale, dovendo l’Unione fare sempre i conti finché esiste, con il problema del suo eventuale scioglimento, la gestione del personale deve essere disciplinata in modo molto accorto sia per le eventuali assunzioni di personale nel proprio organico a tempo indeterminato, che nell’utilizzo di quello in servizio presso i comuni.

Per ora, salvo l’esperienza temporanea ed a breve scadenza dei lavoratori socialmente utili, l’unica figura di ruolo, individuata all’interno della dotazione organica del personale dell’Unione è il Direttore. Tutto il resto del personale è dei tre comuni, ma viene diretto e coordinato dall’Unione in base alle convenzioni stipulate per il trasferimento dei singoli servizi o funzioni

Ciò nonostante si è riservato ampio rilievo alla formazione del personale dei tre Comuni, che gradualmente si sta trasferendo alla diretta gestione dell’Unione pur rimanendo nei ruoli organici degli stessi.

Infine, un altro limite importante all’azione Amministrativa dell’Unione risiede attualmente nei tempi per il coordino delle iniziative e per la conclusione dell’iter procedimentale.

Alcune decisioni importanti (ad esempio la contrazione di un mutuo) devono prima passare correttamente al vaglio delle singole Amministrazioni Comunali, che in modo positivo ed uniforme devono pronunciarsi. Ciò deve avvenire, proprio per il fatto che non essendo ancora l’Unione un Comune unito ed essendoci sempre l’eventualità di un suo possibile scioglimento, i Comuni singolarmente devono provvedere a garantire gli impegni finanziari assunti dall’Ente Unione anche per il futuro.

 

CARENZE FINANZIARIE

Il legislatore con la l. 265/99, è stato oltremodo preciso e coerente nell’indicare i principi con cui graduare le contribuzioni finanziarie atte a favorire ed agevolare i percorsi associativi dei comuni.

Massima contribuzione alle esperienze associative in cui più alto è il numero e la complessità dei servizi e funzioni messi in gestione comune.

Pertanto il massimo delle contribuzioni alla FUSIONE e poi decrescendo alle UNIONI con una alta complessità di funzioni, tino ad arrivare alle CONVENZIONI e alle altre forme minori.

Sulle fusioni, (ben conoscendo la difficoltà per arrivarci) è chiaro l’obbiettivo e il risultato che si determina nella gestione dei servizi unificati e il relativo incentivo è correttamente individuato al massimo possibile.

Nelle Unioni, (fase di uno stadio intermedio verso la possibile fusione) si ottiene uno spazio di tempo per sperimentare, verificare e aggiornare con prove e tappe successive durante il percorso l’evolversi dell’esperienza. Una sorta di FIDANZAMENTO " tra comuni, che può essere di pochi o molti anni, che può concludersi o meno con la fusione, senza pregiudicare in questo ultimo caso il proseguo della collaborazione instaurata con l’Unione. Con il vantaggio di aver creato una esperienza di collaborazione complessiva molto importante, che potrà essere confermata nel proseguo degli anni a venire anche in forme diverse. La programmazione e la gestione dei singoli comuni aderenti ne è permeata in modo massiccio ed inevitabile, perché tanti sono gli aspetti correlati tra l’Amministrazione dei Comuni e dell’Unione. Nasce l’esigenza e la necessità di valutare i problemi e le soluzioni in una ottica complessiva, già da comune unificato, gestore e rappresentante delle varie parti aderenti.

Ecco l’importanza di graduare i contributi alle singole Unioni in base a un principio che dia maggiori fondi alle Unioni che associano più comuni e di piccole dimensioni e nel contempo assicurano la gestione unificata di un alto numero di servizi e funzioni. (Allego proposta modifica alla bozza ministeriale sugli incentivi alle forme collaborative).

Cosa ben diversa è la gestione di servizi tramite la convenzione, con la quale uno dei contraenti fungendo da capo convenzione assume tutto l’onere della gestione del servizio. Procedura snella, efficace e molto valida, con pregevoli caratteristiche di versatilità (si possono avere più convenzioni con contraenti diversi tra di loro),ma che ha il limite di non creare nessun legame forte tra i contraenti, ma solo una utile e importante intesa limitata a quel singolo servizio.

Questo giustifica verso l’istituto Convenzione, un sostegno contributivo diverso e fortemente decrescente rispetto a Unioni e Fusioni di comuni.

Una ulteriore misura di sostegno che sottopongo all’attenzione in quanto finora inesistente e dato dal porre in tutte le leggi e o provvedimenti di spesa per opere pubbliche, una qualche priorità per le forme associative, sia da parte delle Regioni che dallo Stato.

Realizzare una OO. PP. a beneficio di più comuni e poi doverla gestire e mantenere efficiente è un collante straordinario, che più di tante altre iniziative avvicina e consente ai comuni di porre in essere esperienze di collaborazione che durano nel tempo.

 

CENNI STORICI (su percorsi associativi precedenti)

Nella Media Val Cavallina già nel ventennio fascista si sperimentò una forma di gestione associata. In quel periodo vi fu una fusione forzosa dei piccoli comuni e nello specifico caso nostro vi fu la formazione di un unico comune chiamato Borgo Unito che raggruppava 4 dei cinque comuni, mentre Luzzana veniva fuso con Entratico.

Al ritorno della democrazia nel 1948 si tornò immediatamente alla situazione antecedente la fusione coatta.

I tre comuni fanno parte della Comunità Montana della Vai Cavallina, che è formata da 16 comuni. Ulteriori esperienze associative tra i tre comuni aderenti preesistenti all’Unione si riducono solo alla gestione della locale scuola media inferiore, con sede a Borgo di Terzo.

 

INDICATORI TERRITORIALI - DEMOGRAFICI - ECONOMICI

L’Unione Media Val Cavallina si sviluppa su di una superficie complessiva di 8,89 Kmq. ed ha una altitudine variabile da una minima di mt. 300 ad una massima di circa mt. 1099 del Monte Pranza.

L’Unione è caratterizzata dai tre nuclei abitati, corrispondenti ai tre Comuni aderenti. Essi sono situati nella parte centrale della Val Cavallina, sulla sponda orografica destra del fiume Cherio, che ne costituisce a Sud, per un lungo tratto il confine amministrativo.

Tutti e tre i comuni aderenti, sono classificati montani e inseriti nella Comunità Montana Val Cavallina.

La popolazione residente dell’Unione, ammonta a 2590 abitanti al 31 dicembre 1999.

Nell’ambito dell’Unione non vi sono insediamenti produttivi di particolare rilevanza.

Vi sono alcune attività artigianali nel comparto tessile, plastico ed edilizio; sono inoltre presenti piccole attività commerciali intese come negozi e bar.

Gran parte della popolazione attiva, lavora in ambiti esterni all’Unione.

 

DOTAZIONE ORGANICA

L’Ente ha in servizio un dipendente proveniente dal Comune di Borgo di Terzo con Lauree in Economia e Commercio e in Scienze Politiche, di ampia e comprovata esperienza. Nel dicembre 1998 questo dipendente è passato mediante trasferimento per mobilità volontaria alla diretta dipendenza dell’Unione Media Val Cavallina e dal 01.01.1999 svolge le funzioni di Direttore.

Dagli inizi dell’anno sono transitati all’Unione 14 lavoratori a tempo determinato occupati tramite progetti di Lavoro Socialmente Utili (L.S.U.) che hanno svolto un ottimo lavoro in diversi ambiti dei servizi in gestione all’Unione Media Vai Cavallina: dalla Biblioteca alla riqualificazione urbana, al settore boschivo e montano, etc..

Attualmente sono ancora in servizio e lo saranno fino al 30 aprile 2000, grazie ad una proroga al primo progetto concessa dalla competente Commissione Regionale per l’impiego, quattro unità e precisamente:

• Ufficio Tecnico        1 Architetto
                                        2 Geometri

• Ufficio Tributi Unione 1 Ragioniere

Alle altre dieci persone non è stato possibile proseguire nel rapporto in quanto una norma recente prevede l’utilizzo di soli lavoratori che possano maturare al 31.12.1999 dodici mesi di servizio in l.s.u.; da qui la difficoltà a reperire tali unità non solo in ambito circoscrizionale ma a livello provinciale non avendo altri Enti locali sperimentato tali iniziative.

Dal mese di maggio 1999 è entrata in funzione la convenzione per la gestione associata di tutto il personale operante nei servizi esterni dei Comuni: manutenzioni stradali, verde pubblico, cimiteriali e raccolta RSU e differenziata.

Dal prossimo mese di febbraio anche tutto il rimanente personale dei comuni sarà coordinato e gestito unitariamente tramite l’Unione.

 

SERVIZI DELL’UNIONE MEDIA VAL CAVALLINA

L’Ente gestisce ormai buona parte dei servizi dei singoli Comuni aderenti.

Allo stato attuale sono delegati con apposite convenzioni i seguenti servizi o funzioni:

• Rete idrica

• Rete fognaria

• Depurazione

• Raccolta e smaltimento rifiuti RR. SS .UU.

• Piattaforma di II° livello e raccolta differenziata

• Rete gas metano

• Formazione dipendenti e gestione rete informatica

• Attività e manifestazioni culturali

• Scuole - diritto allo studio, manutenzioni e relativi investimenti programmati (Scuole Materne - Statale e Parrocchiale -, Scuola Elementare e Scuola Media inferiore)

• Manutenzioni stradali, cimiteriali e verde pubblico

• Impianti Sportivi (gestione e investimenti)

• Servizi alla persona: S.A.D., centro aggregativo, C.R.E., Biblioteca, O.d.c.

• Segreteria comunale

Sono stati predisposti gli schemi di convenzione da sottoporre all’approvazione dei rispettivi Consigli Comunali che riguardano i rimanenti servizi:

• Servizio ragioneria/contabilità/bilancio

• Ufficio Tecnico

• Servizio vigilanza urbana

• Uffici amministrativi, anagrafe - stato civile - leva - statistico.

Dopo questa ulteriore delega che entrerà a regime con l’approvazione dei bilanci di previsione dell’anno 2000 al singolo Comune rimarrà sostanzialmente la politica degli investimenti nei settori di esclusivo interesse del singolo comune; potendo l’Unione garantire una gestione completa ed uniforme di una molteplicità di servizi e funzioni prima in capo al singolo ente, con l’intendimento di migliorarne la qualità e la fruibilità da parte delle tre comunità amministrate.

 

PRINCIPALI INTERVENTI PROGRAMMATI

Per quanto concerne la parte relativa agli investimenti i tre Comuni aderenti all’Unione Media Val Cavallina decidono volta per volta un piano di investimenti comuni, delegando alla stessa la ricerca e/o l’acquisizione dei finanziamenti oltre che la loro gestione.

In sintesi i più importanti già realizzati sino ad oggi:

• Acquisto quote capitale Società Val Cavallina Servizi srl

Acquisto autovettura

• Acquisto spazzatrice professionale compatta

• Acquisto arredi sede Unione

• Realizzazione sistema informativo Unione/Comuni

• Cablatura e telefonia Unione/Comuni

• Assunzione da parte dell’Unione dell’investimento nel Comune di Borgo di Terzo per la palestra comunitaria

• Acquisizione FRISL decennale piattaforma ecologica di II° Livello realizzata a Vigano San Martino

In sintesi invece quelli per i quali L’Unione Media Val Cavallina ha prodotto già una progettazione o uno studio di fattibilità, formalizzando dove possibile la domanda di contributo alla Regione Lombardia:

• Realizzazione pista ciclo-pedonale

• Ampliamento impianti sportivi

• Ampliamento e Ristrutturazione Scuole Elementari

• Realizzazione struttura di collegamento Scuole/Palestra

• Nuovo progetto informatico territoriale integrato

• Realizzazione nuovo P.R.G. dell’Unione M.V.C.

Queste poche indicazioni parlano da sé riguardo alla complessa e molteplice attività che l’Unione Media Val Cavallina sta realizzando ed intende perseguire al fine di soddisfare al meglio i bisogni delle comunità "oggi" ancora distinte ma che già possono riconoscersi nell’unicità di un Ente promotore e gestore come l’Unione.

Il PRESIDENTE
EUGENIO CROTTI

ALLEGATO PER IL CONVEGNO DEL 25 GENNAIO 2000

OGGETTO: Criteri per incentivi UNIONI

Facendo riferimento alla bozza ministeriale, sono a esporre una proposta di emendamento ai criteri per il finanziamento delle UNIONI.

1) Emendamento all’art. n. 2

Un elemento certo importante è costituito dal numero degli abitanti. Ma ben inteso che la contribuzione per tale parametro debba essere inversamente proporzionale al crescere del numero degli abitanti.

I Comuni piccoli, cosiddetti polvere si uniscono per istituire o attivare la funzione o il servizio mancante. I Comuni di 3 —5 -- 10.000 abitanti si uniscono con l’intento di migliorare e razionalizzare lo stesso servizio. Ben si capisce che altra cosa in fatto di spesa è creare un servizio ex novo che genera una nuova spesa e altra cosa implementarlo o razionalizzarlo.

Un esempio pratico di un ufficio tecnico:

1° Esempio

Comune di 5.000 ab. Comune di 6.000 ab.
1 Architetto Cat. D        1 Architetto Cat. D
1 Geometra Cat. C        1 Geometra Cat. C
1 Applicato Cat. B        1 Applicato Cat. B

Questi due Comuni, anche solo mettendo insieme queste preziose risorse umane avranno sicuramente un più razionale ed efficiente servizio con limitati aumenti di costi.

Esempio della nostra Unione Media Val Cavallina

LUZZANA 690 ab

BORGO di TERZO 900 ab.

VIGANO S. MARTINO 1.000 ab.

1 Tecnico incaricato esterno per 4 ore settimanali 1 Tecnico incaricato esterno per 6 ore settimanali 1 Geometra Cat. C

Necessita come minimo l’assunzione di almeno una figura tecnica per aprire un ufficio tecnico territoriale dignitoso, con notevole incremento di spesa.

E’ pertanto illogica la proposta che dà la metà del contributo alle UNIONI sotto i 5.000 abitanti rispetto alle UNIONI con 30.000 abitanti.

Si propone di invertire le percentuali da applicare; 10% alle UNIONI sino a 5.000 abitanti e 5% a quelle sino a 30.000 abitanti.

 

2) Emendamento all’art. n. 4

Il parametro del numero di servizi o funzioni che i Comuni aderenti all’Unione hanno attivato in gestione associata è importante e giusto.

E’ altrettanto chiaro che la legge 265/99 al comma 1 dell’art. 6 indica che le UNIONI si costituiscono per esercitare una pluralità di funzioni. E’ pertanto improponibile il criterio che assegna un contributo del 10% ad una UNIONE che gestisce in forma associata un solo servizio.

E’ poco credibile pure un’UNIONE che gestisce solo 2 o 3 servizi. Ma qualora si volesse considerare anche tale evenienza, la misura del ventaglio di contributi deve essere molto più accentuata a vantaggio di chi ha messo in gestione associata un alto numero di servizi o funzioni.

Non può essere valutata allo stesso modo un’Unione che gestisce due - tre servizi e una Unione che gestisce 15 servizi o funzioni come la nostra Unione M.V.C..

Questo parametro deve essere preponderante rispetto ai primi due, in quanto il principio a cui noi proponiamo far riferimento, consiste nel dare di più a chi mette nella gestione associata più servizi, coinvolge più Enti e questi sono di piccole dimensioni.

Si propone pertanto al comma 4 dell’art. 4 di:

- eliminare il contenuto della lettera A perché è una possibilità non contemplata nella l. 265/99

- alla lettera B sostituire 14% con 5%

- alla lettera C sostituire 16% con 10%

- alla lettera D inserire più di 5 servizi con sino a 8 servizi

- (inserire una nuova lettera), ogni servizio aggiuntivo oltre l'8° aumento del contributo del 3% con un massimo contributivo totale del 35%.

Questo io credo sia il criterio ispiratore del legislatore nel promuovere le Unioni che sono molto di più di una semplice convenzione o di un consorzio di gestione servizi.

Nella speranza di essere stato utile alla predisposizione di nuovi criteri per le contribuzioni alle Unioni porgo i migliori auspici di buon lavoro.

IL PRESIDENTE
(Crotti Eugenio) 

 

ELENCO DELLE UNIONI DI COMUNI COSTITUITE IN LOMBARDIA

N.

UNIONI

PROV.

DATA DI COSTITUZ.

PRESIDENTE

SEGRETARIO

1

UNIONE DELLA VALLE MEDIA CAVALLINA
Via Castello, 1 - 24069 Luzzana

BG

16/12/1997

Crotti Eugenio
(Sindaco del Comune di Vigano S. Martino)

Lazzarini G.

2

UNIONE DEI COMUNI DI CETO CIMBERGO E PASPARDO
Via Otto Marzo, 1 - 25040 Ceto

BS

02/01/1998

Gaudenzi Pietro
(Sindaco del comune di Ceto)

Marangoni

3

UNIONE DEI COMUNI DI CEDEGOLO, BERZO DEMO, CEVO E SAVIORE DELL’AMADELLO
Piazza Roma, 1 - 25051 Cedegolo

BS

07/05/1999

Mottinelli Pierluigi
(Sindaco del comune di Cedegolo)

Orizio F. A.

4

UNIONE DEI COMUNI DI PIADENA E DRIZZONA
Piazza Garibaldi, 3 - 26034 Piadena

CR

25/11/1998

Rovigatti Giancarlo
(Sindaco del comune di Drizzona)

Ghisleri B.

5

UNIONE DEI COMUNI DI CALVATONE E TORNATA
Via Umberto I, 134 - 26030 Calvatone

CR

12/10/1999

Sirini Pia
(Sindaco del comune di Tornata)

Scoma M.

6

UNIONE DEI COMUNI DELLA VALVARRONE
Via Roma, 6 - 23835 Introzzo

LC

21/06/1996

Adamoli Ferruccio
(Assessore del comune di Tremenico)

Parente G.

7

UNIONE DEI COMUNI DI VERMEZZO E ZELO SURRIGONE
Piazza Roma, 2 - 20080 Zelo Surrigone

MI

26/11/1997

Guerra Giancarlo
(Consigliere comunale)

Spata S.

8

UNIONE DEI COMUNI DELL’ALTA VALLE VERSA
Frazione Crocetta, 18 - 27047 Montecalvo Versiggia

PV

16/01/1999

Rampuzzi Roberto
(Consigliere del comune di Golferenzo)

Polizzi C.

9

UNIONE DEI COMUNI DI PIEVE DEL CAIRO E GAMBARANA
Piazza Paltieri, 9 - 27037 Pieve del Cairo

PV

30/09/1999

Sonvico Mario
(Consigliere del comune di Pieve del Cairo)

Ruspa B.

10

UNIONE DEI COMUNI DI CASEI GEROLA, BASTIDA DE’ DOSSI E CORNALE

PV

   

 

11

UNIONE DEI COMUNI DI CORANA E SILVANO PIETRA

PV

   

 

12

UNIONE DEI COMUNI DI CORVINO SAN QUIRICO, OLIVA GESSI, MORNICO LOSANA E TORRICELLA VERZATE

PV

   

 

13

UNIONE DEI COMUNI DI LENNO

CO

     

 

UNIONE DELLA MEDIA VALLE CAVALLINA
(Provincia di Bergamo)

COMUNI

POPOLAZIONE

SUPERFICIE
Kmq.

DENSITA’
Ab./Kmq.

VIGANO SAN MARTINO

986

3,65

270,14

BORGO DI TERZO

875

1,86

470,43

LUZZANA

649

3,38

192,01

TOTALI

2510

8,89

282,34

 

Piccoli Comuni
Documento XVI Assemblea Generale ANCI
Catania 17-20 novembre 1999

Una realtà di grande valore per l’intero Paese è rappresentata dai Comuni di minore dimensione demografica in cui il tessuto della rappresentanza democratica trova il più forte e più diretto riscontro, dove la tutela ed il governo del territorio hanno più forte controllo sociale, dove in sostanza, si esalta un modello di autogoverno e di partecipazione che sta sempre più entrando in crisi nei "sistemi della grande politica."

E.’ anche il luogo nel quale, pur con le grandi differenze che caratterizzano il nostro Paese, si manifestano in modo più stridente le contraddizioni ed i limiti di una organizzazione e gestione delle funzioni amministrative e dei servizi che scontano la carenza di economie di scala, della disponibilità dì strumenti tecnologici, professionali e di risorse, con il risultato di penalizzare i cittadini che in queste Comunità vivono e rimanendo così ai margini delle opportunità di. crescita e di sviluppo del Paese.

E per questo che l’ANCI, anche attraverso la Consulta nazionale Piccoli Comuni, intende sempre più farsi carico della definizione di una proposta forte per una politica nazionale di sostegno al sistema dei piccoli Comuni, in grado di far evolvere il loro assetto organizzativo-funzionale senza mortificare la rappresentanza democratica.

In tal senso dovrà continuare e rafforzarsi il confronto nelle varie sedi regionali per una efficace e concertata applicazione delle innovazioni introdotte sia dalle leggi "Bassanini" (anche prevedendo una sanatoria per le ripercussioni giudiziarie di questa prima fase applicativa) che dalla legge 265/99, di riforma della 142/90. In particolare, occorre una presenza più capillare e propositiva. dei coordinatori delle Consulte regionali dei piccoli Comuni negli organi di rappresentanza politica esistenti a livello locale per consentire una partecipazione attiva nella fase di definizione degli ambiti per la gestione associata di funzioni e servizi e nella determinazione degli incentivi atti a consentire la realizzazione delle unioni fra Comuni. L’ANCI ha sempre sostenuto l’urgenza di incentivare tali unioni e, nella legge Finanziaria 2000, ha chiesto che venga previsto uno stanziamento di 100 miliardi finalizzato a sostenere anche le convenzioni per la gestione dei servizi, a fronte degli attuali 30 previsti solo per le unioni; riscattando inoltre anche i fondi pregressi finora previsti ma mai utilizzati, si renderebbero disponibili circa 140 miliardi. Sempre nella Finanziaria, l’Associazione ha proposto una concreta soluzione per i gravosi oneri posti a carico dei bilanci comunali dalla nuova disciplina concernente i rimborsi per le assenze dal servizio di tutti i lavoratori dipendenti pubblici o privati che siano chiamati a svolgere funzioni pubbliche; disposizione che colpisce in maniera particolare i piccoli Cornuni Inoltre, al fine di tutelare gli stessi in caso di carenza di figure professionali idonee per la gestione dei servizi pubblici e per l’esercizio delle funzioni amministrative di cui sono titolari (legge 127/97), l’ANCI ha recentemente chiesto al Governo ed al Parlamento che sia tenuto conto dell’esigenza di poter adottare disposizioni regolamentari organizzative anche in deroga a quanto disposto in materia di organizzazione degli uffici e del personale attribuendo all’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare anche atti di natura tecnica e gestionale consentendo conseguentemente un contenimento della spesa per il personale.

Continuerà, altresì, a rimanere elevata l’attenzione per quanto riguarda l’insieme dei servizi pubblici essenziali che qualificano la realtà dei piccoli Comuni e che costituiscono una imprescindibile premessa per una fase evolutiva delle specificità locali. Nei processi di privatizzazione in atto occorre, quindi, affermare la priorità "sociale" di alcuni servizi a livello territoriale come unica garanzia dì esercizio di funzioni pubbliche che si porrebbero, altrimenti, in contrasto con lo stesso diritto di cittadinanza

Da tempo si assiste ad una fredda razionalizzazione dei servizi che, nell’ottica, delle economie di scala, ha prodotto tagli inesorabili in settori vitali per la vita dei Comuni di minore dimensione, come il settore dei trasporti, quello delle telecomunicazioni, quello dell’energia elettrica - il processo di privatizzazione dell'ENEL e la nascita della società Sole non deve annullare quanto, in termini di miliardi di investimenti, i Comuni hanno prodotto per realizzare, con risorse proprie, reti di illuminazione pubblica con mutui che saranno a carico dei bilanci comunali per ancora 10/15/20 anni.

Inoltre, sul riordino del settore Poste, l’ANCI, attraverso la Consulta dei piccoli Comuni, ha rappresentato in ogni sede competente come, in particolare nelle piccole comunità, l’Ufficio Postale rappresenti un irrinunciabile baluardo della presenza dello Stato, vicino al cittadino nel momento di erogazione di tale servizio. Nel contempo, costituisce altresì un elemento strategico (considerando la forte e radicata attitudine al risparmio di tali comunità) del sistema postale per la raccolta degli oltre 230 mila miliardi annui di risparmio che realizzano importanti provviste per il Tesoro ed alimentano, in maniera quasi esclusiva, la stessa Cassa Depositi e Prestiti, vera e propria Banca degli Enti Locali. Le relative norme comunitarie, inoltre, affermano la rilevanza del principio della garanzia del servizio postale universale che altro non è che una più capillare ed efficiente penetrazione nel territorio di un servizio pubblico senza dubbio essenziale. Per questi motivi i Comuni guardano con simpatia alla possibilità di partecipare in forma privilegiata alla sottoscrizione di quote azionarie del gestore del servizio postale, anche in sinergia con il personale, sul modello della Public Company. Lo stesso potrebbe essere positivamente considerato in ordine ad una partecipazione azionaria degli Enti locali nella Cassa depositi e Prestiti.

Solo se non si ripeteranno gli errori del passato, come quello di voler imporre limiti dimensionali nei piccoli Comuni e forme coattive in capo alle Regioni e solo attraverso una modulazione legislativa differenziata, si realizzeranno le condizioni per un effettivo ammodernamento dello Stato ed il pieno successo della riforma dell’ordinamento federale della Repubblica attualmente in discussione in Parlamento. Non va dimenticata la progressiva uscita dalla Tesoreria Unica, comunque dolorosa, che ha contribuito a consentire l’entrata in Europa del nostro Paese, lo stesso però che, riguardo ai piccoli Comuni, adopera ancora parametri storicamente "ingessati" su anacronistici dati non rapportati al nuovo ruolo assunto nel tempo dagli stessi.

È necessario, quindi, assumere come riferimento i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza perché l’insieme dei provvedimenti, definiti e in via di definizione, possa rappresentare una grande occasione per qualificare la funzione di governo dei territori amministrati, per oltre l’80%, da piccoli enti, con oltre i due quinti della popolazione nazionale.

In questi anni sta. emergendo con forza la rilevanza nazionale del ruolo che gli Enti di minore dimensione demografica svolgono nel sistema complessivo degli Enti locali.

Tuttavia si sono determinate, in alcune realtà del paese, posizioni di esasperata difesa dell’esistente e spinte alla separazione dall’ANCI e dal movimento unitario; iniziative che non solo non possono tutelare l’interesse degli Enti che rappresentano ma producono, inoltre, effetti certamente negativi per la credibilità della strategia riformatrice del sistema dei piccoli enti.

In questo senso è necessario sviluppare uno sforzo più incisivo perché la voce dei piccoli Comuni abbia riscontro non solo nella Casa comune dell’ANCI, ma anche a livello di Governo, Parlamento e Regioni, per un’eco sempre maggiore e proporzionato al molo che le piccole comunità rivestono.

Lo sviluppo in senso federato dell’Associazione comporta la crescita del modello provinciale e regionale e, nel contempo una più forte articolazione delle rappresentanze dei piccoli Comuni con le loro peculiarità, da affrontare in relazione alla fase attuativa del processo riformatore.

Questi temi posti all’attenzione dell’Assemblea costituiscono i punti di riferimento dell’azione della Consulta nazionale dei Piccoli Comuni e devono divenire patrimonio dell’insieme delle Autonomie locali.

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