Commissione parlamentare per l'infanzia

 

MISSIONE A TORINO IL 15 NOVEMBRE 1999

RESOCONTO STENOGRAFICO

Mariella CAVANNA SCIREA, Presidente della Commissione parlamentare per l'infanzia. Vorrei ringraziare la Direttrice e tutti gli operatori, che ci hanno così ben accolti e hanno accettato questa nostra visita. Credo di dover dire che questo oggi, è l’inizio del nostro percorso, della settimana dedicata ai problemi dell’infanzia, che noi come Commissione abbiamo in qualche modo istituito, e che si concluderà il giorno 20 novembre, sabato, in una riunione istituzionale a Roma, presso la Sala della Lupa, a Montecitorio, dove saranno presenti i Presidenti di Camera e Senato, il Ministro Livia Turco e il Professor Alfredo Moro, che sarà il relatore della giornata. Proprio oggi abbiamo iniziato questa nostra settimana, con la visita qui a Torino, al Ferrante Aporti per introdurre, tra l’altro, un tema importantissimo, quello della giustizia sui minori, argomento che la Commissione sta sviluppando nell'ambito di un’indagine conoscitiva. Devo dire che oggi noi siamo qui, più che per rispondere alle vostre domande, per ascoltare, essendo la nostra una Commissione con poteri di indirizzo e di controllo di quello che si sta facendo a livello nazionale e territoriale, per quanto riguarda i problemi dell’infanzia e dell’adolescenza.

Credo che attraverso il dibattito, che abbiamo avviato prima con i ragazzi di questo Istituto, siano stati evidenziati dei grandissimi problemi e ho trovato interessantissimo, ma soprattutto sono rimasta meravigliata della capacità di questi ragazzi, che hanno un’età compresa tra 11 e 15 anni, della loro grande capacità di interpretazione, e soprattutto della loro vivacità intellettuale. Credo che dare delle risposte a loro in questo momento sia difficile, perché, come voi sapete, stiamo lavorando in questa prospettiva. I tempi non saranno sicuramente brevi e non possiamo dare delle risposte effettive e delle promesse. La nostra promessa è quella che noi, come Commissione bicamerale per l’infanzia, ci impegneremo (e lo stiamo già facendo) affinché queste problematiche vengano riconosciute, perché questo è il nostro compito: controllare che tutto funzioni, che le leggi vengano rispettate, e se qualcosa effettivamente non va, dobbiamo interessarne il Governo. Io non ho potuto dare una risposta effettiva a questi ragazzi, anche se le loro domande sono state reali, vere. Il fatto che attraverso la comunicazione, attraverso le televisioni, noi diamo l’idea di un’Italia del Bengodi, di un’Italia dove si guadagna facilmente, attraverso le lotterie o attraverso lavori molto veloci, da a questi ragazzi l’opportunità di illudersi che scappando dai loro paesi, e venendo, magari come clandestini, in Italia, ci sia davvero l’opportunità di trovare la soluzione ai loro problemi. Non è così, e credo sia stata anche questa la difficoltà in cui si è trovato il Governo in occasione dei primi arrivi in Italia dei giovani albanesi, prima che scoppiasse la guerra. Noi ci stiamo occupando di questi problemi. Ci daremo sicuramente una metodologia e soprattutto sarà predisposto un documento finale. In questo momento, però, siamo qui per ascoltare da voi quali possono essere i percorsi che dobbiamo seguire. Grazie.

Rosalia DI CHIARA, Direttore del Centro di Giustizia minorile di Torino. Come avevo detto all’apertura, io ringrazio il Presidente Cavanna Scirea e la Commissione, che è venuta qui oggi molto numerosa, rappresentativa ed autorevole. È stato molto significativo l’incontro avvenuto con i ragazzi, perché prima che noi fossimo in questa sala, nell’andare a visitare la struttura, c’eravamo fermati a riflettere rispetto al senso della "struttura chiusa", mentre qui a Torino vorremmo attivare un modello di sperimentazione che possiamo definire una sezione di accoglienza, una sezione "protetta". Probabilmente, alcune mie affermazioni, alcuni miei dire, cioè che questi ragazzi sono portatori di grandi risorse, potevano sembrare le aspettative di un direttore che spesso può anche non dare una lettura attendibile. È stato molto bello, secondo me, l’incontro con i ragazzi proprio per la loro grande capacità di espressione, perché questi giovani sono realmente portatori di grandi risorse, perché infondo è proprio nella diversità che si cresce. Io vi posso dire che stiamo apprendendo tutti da loro, è una grande lezione anche per noi. Quando affermiamo che siamo tutti uguali, non siamo razzisti, siamo disponibili e solidali, anche in buona fede, con onestà intellettuale, poi, nel momento in cui ci si confronta con la diversità, probabilmente dobbiamo educarci anche noi a questo nuovo modello culturale di comprensione. Certo, la giustizia minorile sta vivendo in tutta Italia un momento di grande trasformazione, di grandi cambiamenti. I tempi sono rapidissimi. Spesso non abbiamo occasione di riflettere sulle cose che facciamo, per capire se sono quelle più giuste. Però, ovviamente, noi dobbiamo dare delle risposte. La sfida del 2000 è verso quali valori ci vogliamo orientare. E allora la giustizia minorile, rispetto a questo, interviene perché tante cose non sono successe. Però noi dobbiamo tentare al meglio di far sì che il nostro lavoro sia funzionale a qualcuno e non a noi stessi e certamente abbiamo bisogno di grandi alleanze esterne. Abbiamo la necessità che questa parentesi, per i ragazzi, che si apre e si chiude in questa fase dell’adolescenza, possa essere un’occasione per quanto possibile, con tutti i limiti del nostro modo di esistere, un’occasione di scoperta di un altro sé, di altri valori di cui questi ragazzi sono fortemente portatori, e per questo ci serve veramente un impegno del Governo. Rispetto a tutti i problemi, quello dell’adolescenza forse per troppo tempo non ha ricevuto l’attenzione dovuta. Ho sentito che è in esame la legge sull’assistenza, dopo tantissimi anni. Meno male, perché senza quello strumento avevamo tantissime cose scollegate. Noi siamo un servizio della giustizia minorile, un IPM, e assolviamo al ruolo che ci è demandato dalle istituzioni e dalla legge rispetto a quei ragazzi che non hanno altre opportunità, quali, prima dell’esecuzione della pena, la permanenza in casa o nella comunità, e nell’esecuzione della pena la possibilità di offrire misure alternative. Ma siamo un piccolo segmento. La giustizia minorile non è IPM, perché altrimenti sarebbe sproporzionato l’istituendo dipartimento rispetto a una realtà. Tanto che spesso ci sentiamo dire: "Ma per 400-500 ragazzi che avete dentro, cosa state a cercare?". Io rispondo che si tratta di scelte politiche. Se si va in direzione della costruzione dell’uomo, certe cose sono necessarie. Poi, ognuno fa le sue scelte, fa le proprie riflessioni. Indubbiamente, noi facciamo un grande sforzo, come Ministero della Giustizia, per avere i mezzi e le risorse. Noi siamo nati solo nel 1992. A causa di varie leggi finanziarie, abbiamo gli organici completamente scoperti. Allora, anche in questo scusatemi, la finanziaria attualmente in corso di approvazione non sta consentendo le assunzioni dei concorsi espletati, e soprattutto degli assistenti sociali. Ci si dice che non ci sono soldi. Ma noi siamo un dipartimento nuovissimo. Stiamo venendo fuori adesso, con la riforma Bassanini. Eravamo un ufficio. Chiaramente questo significa: "Sì, esistete". Ma la sfida è sul territorio. Senza assistenti sociali, non so come potremmo fare. Noi abbiamo degli organici completamente scoperti nei civili, anche se fortunatamente abbiamo la Polizia Penitenziaria, cui devo un grande ringraziamento. Per quanto mi riguarda, io parlo della mia esperienza e non generalizzo, io ho trovato degli alleati negli operatori della Polizia Penitenziaria. Li ho visti per quello che dovrebbero essere. Ma anche in questo, il nostro organico dipende dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. E allora dovremmo avere un organico nostro, una nostra autonomia, i nostri uomini da professionalizzare, da sperimentare sul territorio, perché trattare con i giovani non è come trattare con gli adulti. Abbiamo una deficienza di risorse. Consentitemi questo spaccato. Io vengo da altri territori. Io vengo dalla Calabria. Quando sono venuta a Torino, mi sono trovata dinanzi ad un impulso diverso, rispetto ai finanziamenti dati dal Ministero, perché qui c’è un grosso impegno rispetto al limitato budget della giustizia minorile. Chiaramente il Ministero ha fatto delle scelte territoriali. A Roma mi dicevano: "Dottoressa, non gridi!". Eh no, scusate. A Torino mi ritrovo 700 milioni. In Calabria 30. Certo che grido. Ma voglio dire che non è un problema di "non scelta" da parte del Ministero. È che proprio non si può fare diversamente. Allora questa è l’occasione perché voi ci possiate aiutare. Noi siamo troppo soli. Non abbiamo voce. Forse la nostra voce sono i ragazzi. Ma tante volte anche i media non ci aiutano, perché pensano solo allo scoop se c’è un ragazzo che commette qualcosa. Ma poi dobbiamo chiederci cosa c’è dietro quella vita, cosa ci si può attendere da un ragazzo che è venuto qui in Italia a nove anni, senza affettività, senza avere nessuno. Quando ci sono i colloqui non viene nessuno a trovarli, non c’è nessuno che venga a portargli un pacco. Quando mi si chiede: ma se sono cattivi, utilizza le commissioni disciplinari? Cosa devo fare? Inibirgli le telefonate? Ma a chi devono telefonare? Inibirgli le visite? Ma quali visite, se non c’è nessuno? Allora dobbiamo, partendo da qui dentro non fermarci qui dentro. Tutto infatti si gioca fuori. Però a noi servono strumenti. A partire dai mediatori culturali, dagli etnopsichiatri, dagli etnopsicologi. Perché alcuni atteggiamenti di questi ragazzi possono essere fraintesi. Perché noi li leggiamo con in nostri modelli culturali, con i nostri parametri. Per esempio, noi abbiamo anche ragazzi che provengono da altri territori e i ragazzi che provengono da altri parti d’Italia: dove inserirli? Rispetto a quali percorsi, se sono tanto distanti? Io però vi prego con il cuore. Già c’è una forte denatalità. Qui ci giochiamo veramente il futuro. Dobbiamo aver l’umiltà di sederci, di ascoltarli molto, di ascoltare i loro linguaggi e soprattutto la voglia di costruire insieme. Non credo che da soli potremo costruire nulla. Ognuno di noi può avere la fede politica che vuole, ma questi sono luoghi dove i partiti non devono entrare, perché qui deve entrare solo la politica dell’uomo. Io leggo in questo modo la vostra venuta e vi ringrazio a nome del Direttore Generale, degli operatori e degli educatori, dei mediatori, di tutti, a testimonianza di questo grande sforzo. Una cosa bella ho scoperto venendo dal Sud. È molto bella questa nostra Italia. Io mi sento fortemente italiana e qui ho trovato molti italiani e una grande rete di solidarietà. Dobbiamo avvicinarci all’Europa, portandoci le nostre tradizioni e i nostri valori, e questa cultura greco-latina che è grande, che è questa umanità. Forse qualcosa possiamo dare all’Europa. Forse non tante cose come la Germania, ma questa ricchezza, che si gioca sulla cultura, sui valori, sulle forti idealità e sui forti credo. Ma dobbiamo crederci insieme.

Giulia DE MARCO, Presidente del Tribunale per i minorenni di Torino. Ringraziamo indubbiamente la Commissione per l’attenzione che ha dedicato all’IPM Ferrante Aporti. Credo che l’attenzione al Ferrante Aporti sia solo uno dei momenti del lavoro della Commissione, che è a trecentosessanta gradi sui problemi dell’infanzia. L’IPM è fortunatamente un’esperienza nella vita di pochi ragazzi. Ci dobbiamo impegnare affinché sia un’esperienza da evitare, anche per chi delinque, o che sia un’esperienza che non li segni per tutta la vita. Quindi, dobbiamo batterci prevalentemente perché ci siano alternative al carcere. Alternative che prevedono delle nuove forme di giustizia, una giustizia riparatrice, una giustizia che possa consentire al ragazzo di responsabilizzarsi senza vivere un’esperienza carceraria. Ma se l’esperienza carceraria deve continuare ad esistere, perché vi sono dei casi in cui il carcere è inevitabile, è necessario che diventi un luogo di formazione, un luogo di coscienza e di ripensamento ai valori sociali che sono stati violati. Questo significa che tutto il personale deve avere una formazione particolare. E quindi è necessario che si viva con molta attenzione il momento della scelta del personale penitenziario e del personale che deve prendere contatto con i ragazzi. È vero che i ragazzi possono pensare a un carcere più duro di quello che in realtà è. Però secondo me il carcere non deve essere una prosecuzione, neanche minima, di quello che è la violenza che trovano fuori. E quindi è necessario che tutte le persone che trovano siano persone che tendono a dare dignità ai ragazzi che vivono questa esperienza. Come magistrato minorile torinese penso veramente che noi abbiamo fatto nostro il principio costituzionale di considerare il carcere per i minorenni come ultima ratio. Facciamo di tutto per non mandarli in carcere. L'alternativa che oggi abbiamo, che possiamo utilizzare come misura cautelare e poi, nella sperimentazione, come misura alternativa al carcere, è quella della comunità. Tuttora le comunità con i ragazzi magrebini non funzionano, perché le comunità di cui oggi ci serviamo non sono organizzate, non sono funzionali per quello. Quindi i ragazzi magrebini scappano, non tanto perché non trovano l’affettività che cercano, ma perché hanno un concetto di ospitalità che non coincide con il modo con cui viene organizzata la comunità. E quindi bisogna pensare a questo. Un’altra cosa importantissima oramai è che in tutti gli enti locali, ma forse anche a livello ministeriale, bisogna pensare alla presenza di personale oltre che altamente professionalizzato, che abbia radici culturali, morali e religiose della terra di provenienza di questi minori. Altrimenti il dialogo diventa molto difficile mentre è quanto mai necessario per realizzare il processo di risocializzazione.

Ci sono stati esempi di questo genere al Ferrante Aporti, ma sono troppo pochi. So che la Direttrice Pesarin e la Direttrice del Centro hanno inoltrato delle richieste per un aumento di ore. La magistratura non vuole interferire in queste decisioni che sono di carattere puramente amministrativo, ma credo, anche a nome della Procura della Repubblica, che è qui rappresentata, e della Magistratura di Sorveglianza, che la richiesta debba essere caldeggiata.

Essendo questi ragazzi sprovvisti di documenti, uno dei presupposti per determinare la competenza è l’età dell’indagato, e quindi se sia nella fascia d’età 14-18, o se sia ultra diciottenne. Il metodo che viene usato dai consulenti tecnici per determinare l’età è un metodo di scienziati americani e quindi è adattato su parametri di ragazzi americani, con una calcificazione delle ossa che presumibilmente è diversa da quella dei popoli del Nord Africa. Conseguentemente, è stata fatta presente questa esigenza da parte della Procura della Repubblica, da parte della Dott.ssa Calcagno, alla Direttrice del Centro di Giustizia Minorile, la quale si è fatta parte attiva per disporre una consulenza tecnica molto più ampia rispetto alle consulenze che possiamo disporre all’interno dei processi. Perché bisogna testare almeno 1000 ragazzi per avere dei parametri obiettivi da utilizzarsi.

Dino SCANTAMBURLO, membro della Commissione parlamentare per l'infanzia. Sono rimasto colpito dal dialogare dei ragazzi e anche dalla competenza e vivissima sensibilità dimostrate dagli operatori. Io, da scarsissimo conoscitore di questa realtà, sono arrivato ritenendo che qui ci fossero molti più ragazzi, e pensavo che ci fossero più italiani che stranieri. Mi sembra di capire che le misure alternative, le misure sostitutive, vengono applicate al massimo e presumo anche con efficacia, con risultati immagino validi: è una domanda che pongo.

C’è poi una seconda questione sul bisogno di figure di riferimento, sul bisogno della famiglia, su quel rapporto che prima, durante la visita, i ragazzi lamentavano. Qual è la vostra sensazione? E quanto e come il legislatore potrebbe contribuire a configurare a livello normativo qualcosa che andasse in questa direzione? Ho letto sul progetto Gruppo Accoglienza delle cose che mi paiono di grande interesse e che ritengo siano innovative. Dico anche che dopo aver visitato questo Istituto vorrei che avessimo contatti con altri istituti, perché presumo che qui siamo in fasi molto avanzate, mentre altrove questi percorsi non sono ancora attivati. Quindi potremmo operare un raffronto ed essere di stimolo per altre realtà, affinché si inseriscano in percorsi simili o comunque affini. Credo che sul tema della prevenzione, la legge 285, che si riferisce agli enti esterni all’istituto penale, agli enti locali, ma anche a realtà riconosciute e organizzate dell’associazionismo e del volontariato, preveda finanziamenti consistenti, nell'ambito del triennio, che devono essere utilizzati, anche in collaborazione con gli operatori che qui si interessano dell’inserimento all’esterno, una volta che il ragazzo si introduce nel mondo del lavoro e nella vita relazionale e sociale. La collega prima accennava alla legge quadro per la riforma dell’assistenza, che stiamo riformando e che spero approveremo presto, e c’è un passaggio specifico, riferito a misure volte a venire incontro a una serie di situazioni anche di minori che sono in difficoltà e che sono detenuti. Sulle prime questioni gradirei avere qualche elemento di ulteriore chiarezza. Grazie.


Giulia DE MARCO
, Presidente del Tribunale per i minorenni di Torino. Credo che la mia spiegazione debba partire da quello che ho detto in premessa, ossia che la magistratura minorile tende ad evitare l’esperienza carceraria ai ragazzi. Naturalmente, nel rispetto del codice e di quanto sia attuabile in concreto.

E quindi la misura cautelare per il ragazzo straniero finisce per coincidere, quasi sempre ed esclusivamente, con il carcere. Misura cautelare della custodia in carcere. Questo spiega la presenza di molti ragazzi magrebini, spiega la presenza di alcuni albanesi, spiega la presenza di alcuni ragazzi nomadi, e di pochi italiani. Anche se i media non lo colgono, la delinquenza minorile italiana è molto calata, di questo il Procuratore della Repubblica, Dott.ssa Calcagno, potrà anche fornirvi i numeri. Non so se perché diventata meno visibile, o se perché, almeno in Piemonte, l’opera di prevenzione che è stata fatta in tanti anni dall’Ente locale non cominci a dare i suoi frutti. C’è da considerare anche questo: la struttura dei servizi socio-assistenziali in Piemonte è una struttura molto radicata, molto presente sul territorio e comincia a produrre effetti. Per quanto riguarda l’altra sua domanda, come si può fare per dare una famiglia a questi ragazzi, uno degli strumenti che il Tribunale per i Minorenni, d’accordo con la Procura della Repubblica sta attuando – ne avevamo già parlato con l’Onorevole Scirea – è quello di attuare dei rimpatri assistiti, cioè il ricongiungimento familiare rimpatriando il ragazzo, ricongiungendolo con i suoi genitori. Lo facciamo per i ragazzi che si trovano in una situazione di grave, manifesto e ripetuto pregiudizio. Quindi per i ragazzi che hanno avuto molteplici esperienze carcerarie, che ci sembrano coinvolti nelle associazioni delinquenziali – spaccio, per quanto riguarda i magrebini; sfruttamento della prostituzione, per quanto riguarda gli albanesi – tentiamo il ricongiungimento con la famiglia d’origine nel paese di provenienza. Naturalmente, questo funziona molto bene con l’Albania. Ne abbiamo avuto conferma in un ultima riunione a cui è intervenuto un rappresentante del Ministro. Funziona molto bene con l’Albania, c’è un accordo di riammissione e il Governo italiano ha speso dei fondi, ha investito in Albania. Un po’ meno bene con il Magreb, anche se i mediatori culturali vi potranno dire, e del resto ne parlano anche i giornali, del cambiamento che si è verificato in Marocco con la figura del nuovo re, molto più sensibile e attento ai problemi sociali. Bisognerebbe avviare degli accordi bilaterali o intergovernativi con tutta l’area del Magreb per una migliore collaborazione e per una migliore individuazione di come sostenere e aiutare questi ragazzi. Mentre sappiamo che i ragazzi albanesi lì trovano dei sacerdoti, trovano degli assistenti sociali, trovano delle scuole, trovano degli aiuti economici forniti dall’Italia, nel Magreb questo non è avvenuto. Quindi sarebbe molto interessante poter prendere dei contatti con i governi di quei paesi: Algeria, Tunisia e Marocco. Il gruppo famiglia che qui si è avviato va sostenuto, secondo me credendoci e facendo una politica di informazione più estesa, perché mi pare di capire che è sorto spontaneamente e non come iniziativa dell’Ente locale. Forse varrebbe la pena di coinvolgere di più l’Ente locale in questo progetto e ricordarsi che il Piemonte non è solo Torino. Ci sono tante altre provincie in cui questi progetti non funzionano.


Dott.ssa Serenella PESARIN,
Direttrice dell'Istituto penale per i minorenni di Torino. Sarò molto breve e riprenderò il discorso fatto dal Presidente del Tribunale, partendo dalla realtà che è viva in Piemonte. L’utenza è particolare e l’Ente locale deve rifare per l’utenza magrebina tutti gli sforzi che ha già fatto per l’utenza italiana. Per cui, l’intervento di cui si è fatta promotrice l’assessore Artesio ci vede tutti coinvolti nel creare con l’Ente locale un rapporto con l’esterno. Questa è la filosofia che dovrebbe sottendere il progetto dell’accoglienza, che dovrebbe eliminare o ridurre al massimo i tempi di permanenza dei minori magrebini all’interno della struttura, ipotizzando progetti che li possano vedere immediatamente all’esterno, come accade per gli italiani. Per cui dovremo andare a creare all’esterno tutta una serie di supporti, che servano a questi ragazzi. Per rispondere alla necessità dell’identificazione dell’età, sto compiendo questo percorso non solo con i presidi ospedalieri, ma soprattutto con la Regione e l’Assessorato alla Sanità, al fine di stabilire un protocollo d’intesa sperimentale per trovare i presidi ospedalieri che ci possano essere d’aiuto, in modo tale che tutti i minori che vengano segnalati da quel momento abbiano una loro identità. In questo modo si cerca di dare un minimo di gratificazione personale, in quanto il messaggio che si trasmette al ragazzo è: ti diamo questa possibilità, e ti diamo anche la possibilità di vedere che la città del Bengodi esiste e non esiste solo lo spaccio. Si può vivere dignitosamente e mandare i soldi alla famiglia senza alti guadagni nella legalità, nell’accettazione del Paese. Queste secondo me sono le due grosse sfide che oggi il Piemonte, trovandosi in una situazione di utenza multietnica, deve cambiare, creando a supporto delle strutture minorili tutte quelle figure di riferimento multietniche, che servono per creare dei percorsi all’esterno. A questo punto, si deve dare atto della bontà del progetto Itaca, che è stato promosso dal Comune, su iniziativa del Ferrante Aporti, e ha risolto buona parte dei problemi dei piemontesi che "trasgredivano", si dovrà quindi prima o poi sedersi intorno a un tavolo e prospettare dei microprogetti sperimentali che diano indicazioni su come ci possa allargare all’interno del Piemonte questa iniziativa. Grazie.


Eleonora ARTESIO
, Assessore al decentramento del Comune di Torino. Come sapete, viene detto che l’Ente locale deve occuparsi del prima e del dopo la permanenza in carcere. Io sono assolutamente d’accordo con questa impostazione e vorrei subito porre una questione. Le testimonianze che abbiamo ascoltato prima ci servono per una riflessione. Una prima questione è emersa in modo assolutamente evidente: esiste una dimensione di minori stranieri assolutamente invisibili prima che incorra nel cosiddetto bisogno qualificato. Purtroppo, questo bisogno qualificato molto spesso è l’azione di reato con la permanenza in carcere. Questa è chiaramente una questione di politiche territoriali. La mia prima osservazione è questa. Il nostro Paese e i nostri rappresentanti politici hanno predisposto una legislazione sull’immigrazione. Sicuramente, le condizioni dei minori sono quelle maggiormente tutelate sul piano dell’accesso ai diritti fondamentali. Esiste, però, assolutamente connesso al dato dell’invisibilità la possibilità di esercitare realmente questi diritti. Allora la prima questione è questa: può essere impegno della Commissione parlamentare per l’infanzia adoperarsi al fine di un intervento di sostegno progettuale ed economico alle politiche degli enti locali, che si occupino di interventi sul problema dei minori erranti e quindi tentino di costituire un aggancio a questa loro situazione di invisibilità, quando ancora non si è tradotta in una situazione di illegalità? I servizi delle città in questo campo hanno fatto molta storia. Credo che questa storia possa essere fatta emergere correttamente e inserita in un filone, quello della prevenzione, di cui si parlava prima.

Seconda questione: i ragazzi ci hanno parlato di un bisogno di normalità. Abbiamo visto come in realtà noi non stiamo esercitando una procedura normale nei loro confronti. Perché ci troviamo di fronte, nonostante gli sforzi della giustizia minorile, a un sistema di giustizia duale, in cui chi va in carcere in attesa di giudizio è soltanto il minore straniero. Per tutte le ragioni che il Giudice De Marco ci spiegava prima. Da questo punto di vista, credo che se l’obiettivo è effettivamente rendere la struttura carceraria per i minori uno strumento residuale, il pensiero vada immediatamente spostato all’individuazione di qual è quella risorsa a cui il Tribunale dei Minori può fare riferimento rispetto all’accoglienza durante la fase di identificazione e poi per gli eventuali interventi che è il caso di mettere in atto. Propongo qui la questione che altri hanno posto prima delle comunità. Abbiamo detto: i nostri strumenti ordinari, ancorché si fondino su professionalità chiare, non sono quelli adeguati. Presumibilmente va studiata, ma credo che questo non possa che passare attraverso un esplicito rapporto con le comunità esistenti nel nostro territorio, una modalità intermedia di questo tipo, in cui le conoscenze della cultura, dei modi di fare relazione, dei modi di accogliere, muova dalle esperienze che questi ragazzi hanno vissuto nel loro Paese. C’è anche un elemento che credo vada ricordato molto realisticamente, ossia che c’è un problema di aiuti per il mantenimento dei minori stranieri nel nostro Paese. So bene che questo problema si scontra con la filosofia complessiva della legislazione rispetto all’immigrazione, ma credo che non ci sia soltanto la questione di chi deve guadagnare per mantenere le proprie famiglie. C’è chi ha esplicitamente sottolineato che i nostri strumenti non sono concorrenziali rispetto a quello che trovano fuori, ma dobbiamo anche riconoscere che molto spesso i minori che arrivano qui, giungono per conseguenza di una situazione di abbandono nel paese d’origine, e quindi la difficoltà di identificarli e fare gli accompagnamenti per il rientro non è soltanto una questione di indisponibilità diplomatica tra due paesi, ma è anche una questione di oggettiva situazione di abbandono nel Paese di provenienza. Quindi si tratta di un problema oggettivo di qualificazione della loro vita qui. Da questo punto di vista, la cosa che mi viene di dire in conclusione è che se vogliamo dare coerenza e continuità alle dichiarazioni che facciamo, ancorché tutti qui abbiamo cercato di ricostruire una condizione di normalità, e anche la città ha cercato di ricreare una città all’interno del carcere, oltre a creare i ponti con l’esterno, come la biblioteca, i percorsi di formazione professionale e così via, credo che la giustizia debba proporre interventi significativi per questi ragazzi. In altri termini il carcere deve essere il momento in cui capitalizziamo al massimo l’attimo fuggente della visibilità di questi ragazzi, che altrimenti sono sommersi. E capitalizzarlo vuol dire proprio cercare di indirizzarlo verso percorsi di normalità, come quelli che loro ripetutamente ci chiedevano. Non credo, peraltro, che possa essere considerato ininfluente, rispetto ai profili complessivi della giustizia in Italia, il fatto che il carcere minorile possa diventare una significativa struttura di accoglienza anche di giovani adulti questione che il nostro Paese ha sempre visto con una sottolineatura particolare e più attenta. Grazie.


Graziana CALCAGNO
, Procuratore generale presso il Tribunale per i minorenni di Torino. In questa veste avrei tantissime cose da dire, ricordando prima di tutto, anche se siamo in questa sede, che i problemi dell’infanzia e degli adolescenti vanno ben oltre gli istituti penitenziari per i ragazzi. Però, proprio perché voglio dare forza all’argomento che voglio porre alla loro attenzione, mi riferisco esclusivamente a questo: i nomadi mandati a rubare. Loro avranno notato che non c’era un nomade in carcere. Ci sono delle ragazzine. Normalmente le ragazze sono solo nomadi. Il problema è: si parla tanto di sicurezza sociale, le persone non si sentono sicure. Soprattutto negli ultimi mesi, questo tema è stato sulla bocca di tutti. C’è un fenomeno quantitativamente molto rilevante, ed è quello dei furti in alloggio. I furti in alloggio in Piemonte sono commessi da bambini, non da adolescenti. È un fenomeno recentissimo. È un dato che conoscevo già. Ma confrontando la mia relazione sulla delinquenza minorile in Piemonte al Procuratore Generale, per il discorso inaugurale, con quella che mi ha mandato per conoscenza il centro per la giustizia minorile, sono rimasta sbalordita da come la realtà possa avere facce diverse, perché secondo le notizie date dal centro è diminuita moltissimo la presenza dei nomadi. Certo, è diminuita moltissimo. In carcere non li vedono più perché da due anni e mezzo a questa parte vengono mandati gli infraquattordicenni a rubare. Io chiedo una legge nuova. Normalmente, i problemi non si risolvono con leggi nuove. Leggi ne abbiamo tante, si tratta di avere gli strumenti per applicarle. Abbiamo cercato di inventare tante strade. Nulla è arrivato in porto. Quali potevano essere le strade. Noi pensiamo che questi bambini, di nove, dieci, undici anni, siano mandati a rubare dagli adulti con cui vivono. Non è pensabile che un bambino di nove anni vada a comprare il cacciavite e scelga di andare a rubare in un appartamento. Dal punto di vista delle sue capacità intellettive, non ci arriva. Il bambino ruba le cose che vede a portata di mano. Sono sicuramente manovrati da altri. Sembra una verità elementare, ciononostante non si riesce, nonostante la disponibilità dei colleghi delle procure ordinarie, a perseguire genitori e parenti che sfruttano i bambini. Non si riesce non per cattiva volontà, ma per ragioni tecniche. Non si riesce a dare la prova in un processo penale che il papà o la mamma hanno mandato quel bambino. Quindi non si riesce a provare il concorso nel furto. È difficile ipotizzare il reato di abbandono, perché l’abbandono è un’altra cosa rispetto al mandare un bambino a rubare. Non si è riusciti ad ipotizzare un caso di maltrattamento, perché per la fattispecie del nostro codice i maltrattamenti devono essere protratti nel tempo. E non è detto che il bambino percepisca questa sua condizione di vita come vittima di maltrattamenti. Io sono arrivata alla conclusione che l’unica possibilità sia quella di immaginare di costruire un’apposita fattispecie di reato che consenta di perseguire gli adulti. Quello che trovo sorprendente è che questo fenomeno venga totalmente dimenticato a tutti i livelli. E le preoccupazioni sono di vario tipo. Per i bambini, che vengono mandati a rubare. Perché solo un mese fa un bambino si è letteralmente fracassato la faccia per scappare. I bambini, evidentemente, di fronte a fatti improvvisi reagiscono in maniera sconsiderata. Abbiamo anche una ragazzina in coma perché si è buttata dal secondo piano. Questi bambini sono destinati all’emarginazione totale. Perché cominciano da piccini e continueranno. Gli adulti non traggono solamente mezzi di sostentamento, perché questo lo potrei accettare. Io ho fatto fare delle indagini economiche su questi nuclei, peraltro senza poi avere la possibilità d’intervenire. Ci sono nuclei familiari che hanno fuori dalla porta quattro Mercedes da 85 milioni. Non sono uno, due o tre esempi. Sono sistemi di vita. E naturalmente nessuno lavora in quelle famiglie. I bambini vanno a rubare. E vi sarà sicuramente altro dietro queste ricchezze spropositate. Quello che non posso tollerare è che tutto rimanga immutato. Qui siamo impotenti rispetto ai bambini, e ci mancherebbe che punissimo loro. Sono sempre più abili, questi nuclei. Sono sempre più capaci di sottrarsi ai controlli. Quando hanno scoperto che mandavamo notizie di reato a carico dei genitori, quando erano bambini infraquattordicenni a commettere il fatto, i genitori sono letteralmente spariti. Non c’è più un genitore che vada a ritirare un bambino. Sono sempre morti, a un funerale, a un matrimonio, a Roma, o sono momentaneamente rientrati al loro Paese. Non è un fenomeno da poco, perché nel corso di un anno in Piemonte sono oltre un migliaio i furti in alloggio. Rientrano nelle categorie dei comportamenti illeciti e delinquenziali che più disturbano i cittadini e più aumentano il senso di insicurezza. Io non so più a chi dirlo, ma bisogna fare qualche cosa. Questo lo dico a questa Commissione per l’infanzia.

Occorre una fattispecie di reato apposita. È difficile da immaginare. È difficile da costruire. Parliamo tutti di sfruttamento. Abbiamo lo sfruttamento dei nomadi che mandano a rubare i bambini, abbiamo lo sfruttamento dei minori che vanno a chiedere l’elemosina. Ma non esiste un reato di sfruttamento.

Il Comune di Torino, per fortuna, è molto collaborativo e sensibile a questi problemi. Ho ottenuto una squadra di Vigili Urbani per andare a cercare i bambini che vendono agli angoli delle strade. Ma non posso fare solo l’attività dell’acchiappacani. A questo punto non si tratta solo di proteggere i bambini, ma di trovare anche quelli che li sfruttano. Ma non esiste un reato di sfruttamento. Esiste solo il maltrattamento. Se però il bambino se ne sta lì tutto sorridente a chiedere l’elemosina o vendere spugnette, è difficile costruire un reato di maltrattamento, anche se tutti i giorni vengono mandati a fare questo tipo di lavoro. Grazie.


Maria BURANI PROCACCINI,
membro della Commissione parlamentare per l'infanzia. Vorrei porre una domanda al Direttore del Centro di Prima Accoglienza, focalizzando l’attenzione sul problema dell’alfabetizzazione e della scolarizzazione. Sottolineando preventivamente che il problema dell’alfabetizzazione è un problema di tutta l’emigrazione, perché purtroppo esistono poche scuole che insegnano la nostra lingua, all’immigrazione regolare, e tantomeno ai clandestini. Questo fa sì che venga sottovalutata l’importanza della lingua, cosa che invece è emersa questa mattina durante il colloquio. Questa mattina si è detto a questi ragazzi che se vogliono cambiare il loro futuro, avere delle speranze lavorative, o comunque cambiare la loro vita, devono imparare la lingua. Venendo qui guardavo il programma della giornata di questi ragazzi e non sono riuscita a trovare nell’arco della giornata, peraltro così puntualizzata – ad esempio dalle 14 alle 15,30: ritorno alle proprie stanze e momento di riposo – cosa che di norma i ragazzi non fanno più, non sono riuscita a trovare nell’arco della giornata il tempo dedicato all’alfabetizzazione. A questi ragazzi abbiamo provveduto ad insegnare la lingua. Ho visto la loro difficoltà di esprimersi. Soltanto uno conosceva l’italiano. C’è un programma in questo senso? Credo che la riabilitazione vada anche nel senso del reinserimento nel nostro Paese, affinché il loro progetto di vita si realizzi nel nostro Paese.


Marcellina LONGHI
, Direttrice didattica Circolo "Dogliotti" di Torino. Penso di essere la persona più indicata per rispondere alla domanda posta nel precedente intervento. Da anni, infatti, mi dedico con grande interesse ai progetti sull’accoglienza dei ragazzi in condizioni di disagio. Alla Dott.ssa Pesarin e alla Dott.ssa Di Chiara mi accomuna lo stesso percorso di formazione, avendo realizzato insieme un importante progetto intitolato: "Da adolescenti senza futuro al futuro per gli adolescenti", che ha visto il concorso sia del Ministero della Pubblica Istruzione, sia del Ministero di Grazia e Giustizia. Il maggior problema che grava sulla scuola istituita all’interno del Ferrante Aporti è la ridotta frequenza dei ragazzi e la loro discontinua permanenza a scuola. Con gli insegnanti stiamo lavorando e continuiamo a lavorare per far sì che i percorsi scolastici siano quanto più individualizzati. Stiamo cioè strutturando tutta una serie di percorsi indirizzati alle diverse tipologie di utenza che accedono alla scuola stessa. Crediamo che la scuola debba dare una prima risposta alle molteplici necessità cui vanno incontro i ragazzi. In questo senso non ci limitiamo ad impartire un insegnamento secondo il classico sistema, ma intendiamo altresì fornire ulteriori strumenti, ad esempio come compilare un modulo dell’ASL, come leggere gli orari dei treni, come spostarsi da una parte all’altra della città. Questa filosofia sta anche alla base del progetto dell’accoglienza, il cui successo deriva proprio dal fatto che tutte le istituzioni, quali la scuola, il Ministero della Pubblica Istruzione, il Ministero di Grazia e Giustizia e l’Ente Locale lavorano insieme; e gli operatori svolgono inoltre un ruolo che, pur essendo prettamente istituzionale, risulta fortemente incentrato sulle specifiche richieste del ragazzo seguito. Si vuole cioè creare una metodologia improntata soprattutto al rispetto e all’ascolto di questi ragazzi, riuscire ad interpretare i loro bisogni e costruire insieme una rete che li accolga quando saranno fuori dall'istituto per evitare che cadano in pericoli circuiti. Questa è la politica che sottende questo discorso, l’unica strada che porta a un successo.


Nicola Giuseppe IAVAGNILIO
, Direttore del Centro di Prima Accoglienza di Torino. Credo ci sia poco da aggiungere a quanto è stato sinora rappresentato, se non spiegare molto velocemente cos’è il centro di prima accoglienza, come vi si opera all'interno e qual è la sua funzione. Il centro di prima accoglienza è una struttura voluta dal legislatore ed entrata in funzione con il nuovo codice di procedura penale per i minorenni, con il quale si è invertito il precedente sistema che prevedeva per qualsiasi infrazione dei minori, anche lieve, un'identica risposta del sistema giudiziario. Il minore veniva arrestato dalle forze dell’ordine e tradotto in carcere. Viene in mente Pinocchio tra i due carabinieri. Il legislatore, mutuando quello che era il percorso scientifico e culturale del nostro Paese e dei paesi democratici in genere, ha compreso che la privazione di libertà è estremamente nociva e non potrà mai essere educativa; si è allora deciso di cambiare sistema, con lo stabilire l’ingresso in carcere di un minore solo a seguito di un ordine del suo giudice naturale, che nella fattispecie è il giudice minorile, in particolare il giudice delle indagini preliminari. Naturalmente, in tutti i casi di arresto di un ragazzo minorenne, occorre procedere ad un attento esame della tipologia del reato commesso, atteso che per il minore non è mai obbligatorio l’arresto. Laddove le forze di polizia intendano comunque procedere all’arresto del minore, questi non può essere tradotto in carcere, ma se denunciato a piede libero, viene affidato alla famiglia o ad altra struttura, cioè ad un referente che possa esercitare la potestà e si ponga a disposizione del giudice in attesa di eventuali provvedimenti. In mancanza dei suddetti interventi, il centro di prima accoglienza è tenuto ad accogliere questi giovani e a tenerli a disposizione del giudice, il quale deve adottare le proprie decisioni entro i brevi termini stabiliti dalla legge. Non appena il giovane viene accolto in tale struttura incontra subito gli operatori che lo informano sul luogo in cui si trova e sui compiti che il centro svolge nel suo interesse. Nel centro di accoglienza il giovane rimane finché il giudice non adotta nei suoi confronti una decisione di convalida o meno dell’arresto e di eventuale applicazione, se necessario, di una delle misure cautelari che il codice mette a disposizione del giudice. Mentre in passato la misura cautelare era solo la custodia in carcere, attualmente il giudice ha un ventaglio di strumenti da poter applicare, che sono sempre in funzione di una possibile futura rimessione in libertà, ciò in quanto non ci può essere educazione senza l’esercizio della libertà, senza aver la possibilità di sbagliare. Questo è il principio di fondo che ispira il sistema dell'esecuzione della pena nel caso di reati commessi da minori. È chiaro che il centro di prima accoglienza rappresenta la prima forma di contatto tra il ragazzo responsabile di un reato e la struttura minorile. Il tentativo è fare in modo che il ragazzo non ne tragga alcun trauma, semmai accentuare la consapevolezza della sua situazione. Molte volte si scoprono in tale contesto situazioni veramente drammatiche, spesso sconosciute agli stessi ragazzi e alle loro famiglie, ciò può tuttavia facilitare un maggiore approfondimento della condizione del giovane, spesso con indubbi benefici per lo stesso giovane. E' così che può infatti avere inizio un percorso che aiuti il giovane a riappropriarsi del suo posto all'interno della società.

In conclusione, richiamo la vostra attenzione su un particolare aspetto che riguarda i ragazzi più poveri, più diseredati, quelli di cui avete discusso finora, cioè gli stranieri. Gli stranieri sono spesso privi di punti di riferimento familiare, sociale, ambientale, vivono quasi come randagi. Anche questo problema merita quindi tutto l'interesse che noi abbiamo oggi manifestato per le diverse tematiche affrontate. Grazie.


Vittorio PARAGGIO
, Vice Direttore generale dell'Ufficio Centrale per la giustizia minorile. Porto innanzi tutto il saluto del Presidente Magno e del Direttore dell’Istituto Centrale della Giustizia Minorile, che si duole per non poter essere oggi presente a ricevere, come era sua intenzione, la Commissione parlamentare per l'infanzia a causa di impegni sopravvenuti. D’altra parte, quale sia l’attenzione che il mio ufficio e il suo direttore abbiano verso questa Commissione penso ne abbiate avuto testimonianza attraverso l’audizione che è stata fatta, di cui ho preso conoscenza attraverso il resoconto. Dal lavoro della predetta Commissione, ci attendiamo in particolare un forte stimolo ed un rilancio dell’azione normativa nonché una sempre maggiore sensibilizzazione di tutte le componenti del Parlamento verso le tematiche oggi dibattute. Faccio parte di questo ufficio da poco tempo e da non molto mi sto occupando di queste tematiche, però già in diverse occasioni, in particolare quella di oggi, ho potuto constatare quanto sia difficile ed impegnativo, malgrado l’entusiasmo che anima ciascuno degli operatori qui presenti, realizzare quella sorta di rivoluzione copernicana che sta portando avanti il mio ufficio. Intendiamo infatti individuare una categoria nuova di destinatari del trattamento offerto dagli istituti di accoglienza. Vorremmo infatti rivolgere la nostra attenzione non solo nei confronti dei circa 450 giovani collocati nei detti istituti ma anche verso i 25-30.000 giovani oggetto di trattamento penale, per i quali bisogna trasferire il trattamento nel territorio, coinvolgendo tutte le istituzioni e le articolazioni locali in questa attività. Questo è l’impegno precipuo che ci aspetta, come illustrato dal Direttore dell'Ufficio in modo molto efficace, per realizzare il quale sono importantissimi alcuni interventi normativi già previsti, in parte, nel Decreto Legislativo che ha disposto l'istituzione del Dipartimento della giustizia minorile. Questa è una premessa necessaria per dare forza all’impegno di ciascuna delle componenti che qui sono oggi presenti. Mi permetto di richiamare l’attenzione su un importante aspetto: solo se il Dipartimento sarà rapidamente costituito, come del resto auspica lo stesso Ministro; solo attraverso la tempestiva emanazione del regolamento che dovrà dar vita al suddetto Dipartimento, sarà possibile realizzare gli obiettivi da noi perseguiti in tal senso. Oltre l’impegno per la costituzione del Dipartimento, oggetto principale degli sforzi dell’ufficio centrale, vi è da realizzare una riconversione delle formazioni professionali, necessarie per spostare gradualmente l’ottica del trattamento dagli istituti al territorio. Anche questo obiettivo passa attraverso la costituzione del Dipartimento; occorre altresì evidenziare che l’Ufficio per la giustizia minorile registra il maggiore tasso di mancata copertura di organico in proporzione alle altre istituzioni dello Stato. Si parla, se non sbaglio, del 52% di carenza di organico. Considerato che già l'attuale assetto delle risorse è da rivedere nella sua composizione totale, il citato tasso del 52% di scopertura di organici costituisce un dato incompatibile con l’idea di dar vita a un vero e proprio Dipartimento. Un accenno è già stato fatto al problema dei concorsi per i quali pur essendo ormai definitivamente espletate le procedure previste, risultano inspiegabilmente bloccate le relative assunzioni. Si spera che gli auspicati interventi possano essere realizzati quanto prima al fine di dare maggiore forza all’azione della nostra Amministrazione. Tra i problemi che ci vedono attualmente impegnati in modo prioritario si pone quello delle iniziative di prevenzione sul territorio. E' noto che la Legge 216, che prevedeva primi interventi di prevenzione delle devianze minorili nelle regioni meridionali, ha portato alla forte valorizzazione delle attività svolte dalle autonomie locali, coadiuvate e sostenute dall’ufficio centrale della giustizia minorile. La Legge Finanziaria, all’esame del Parlamento, non solo estende all’intero territorio nazionale le predette iniziative, ma ha previsto altresì un correlativo adeguamento dei fondi, aumentati dagli originari 10 miliardi annui ai 30 miliardi attualmente previsti. Intendo sottolineare come queste problematiche siano fortemente avvertite nelle diverse realtà locali che, in questo periodo, la Commissione per l'infanzia sta visitando per un più approfondito esame delle tematiche inerenti la tutela dell'infanzia. Oggi avete potuto verificare, come Commissione, il risultato di un impegno forte da noi assunto per valorizzare al massimo il ruolo del "Ferrante Aporti", un ruolo proprio dell'amministrazione della giustizia minorile. Potete ben immaginare quanto ancora ci sia da lavorare per adeguare questa struttura ai diversi compiti che le maggiori funzioni acquisite dall'Istituto pongono all’attenzione della nostra Amministrazione. Vi ringrazio.


Mustapha MY EL KHARBIBI
, Mediatore culturale dell'Istituto penale per i minorenni. Io sono il mediatore socio-culturale all’interno dell’Istituto da 11 anni, assieme a Sued. Vorrei sottolineare una serie di questioni, visto che si è parlato del rimpatrio, della scolarizzazione e di una serie di questioni che stiamo seguendo. Come mediatori, facciamo anche gli educatori di strada, lavoriamo con i ragazzi, siamo studiosi dei territori, dei linguaggi, e anche delle punizioni che ricevono questi ragazzi per inginocchiarsi alle regole del mercato e al territorio gestito dagli adulti. Ci ha sempre interessato il discorso degli sfruttatori, o la gerarchia degli sfruttatori. A Torino le famiglie che gestiscono questi traffici sono tre o quattro. Però esistono mediazioni tra quelle famiglie e i minori in strada, ed è lì che noi chiediamo un intervento alle autorità competenti per colpire, per darci la possibilità di lavorare sui minorenni. Questi minorenni sono infanzie strappate a un diritto di vivere l’età dell’infanzia. Sono ragazzi cresciuti prima di diventare adulti, perché fanno vivere delle famiglie, o vengono affittati, o portati con la forza e l’inganno e poi sfruttati. Lo sfruttamento, tuttavia, è partito con la prima denuncia che noi come mediatori abbiamo fatto nel 1992. Ha dato frutti, sono stati fatti degli arresti ed è stato costituito l’ufficio minori del Comune di Torino. Oggi, le cose sono più complicate perché le mediazioni sono diventate più numerose, gli sfruttati sono arrivati all’età di otto, nove anni. Basta fare il giro dei luoghi conosciuti dove sono sfruttati questi ragazzi. Le loro richieste sono abbastanza semplici e qualcosa è saltato fuori questa mattina. L’idea di poter collaborare a un progetto offerto dall’équipe o all’esterno. In questi casi, siamo sempre stati i primi a richiedere il rimpatrio assistito. La seconda cosa è che non si deve applicare il rimpatrio su un ragazzino che segue un percorso educativo. A volte è stato applicato il rimpatrio su questi ragazzi e questo non deve essere possibile. Invece noi abbiamo sempre appoggiato l’espulsione di qualsiasi ragazzo che non abbia collaborato. L’intervento tra Stato e Stato certamente dà più possibilità di ricostruire l’identikit sociale di un ragazzo. Noi dobbiamo stabilire se il ragazzo è di provenienza urbana o rurale, che tipo di rete l’ha portato lì. Qualcosa riusciamo a dare, ma rimane sempre un fantasma. Questo viene subito applicato alle indagini, tra Stato e Stato, attraverso servizi sociali, per cercare la famiglia d’origine. In quel caso, l’inserimento o il rimpatrio di un ragazzo non viene fatto. Abbiamo in una comunità un ragazzo che ha denunciato la famiglia, il padre e lo zio. Questo ragazzo lo abbiamo in comunità da quattro mesi, ma nessuno dell’ufficio competente, diciamo dell’ufficio minori, ci ha dato notizia sui documenti. Inserito a suola, frequenta una serie di attività extra scolastiche, sportive; però malgrado abbia denunciato gli sfruttatori è rimasto sempre un fantasma. Noi abbiamo fatto una piccola denuncia su questo caso, perché ci sembra molto scorretto "darlo" a noi come se fosse un pacco. A me interessa lavorare per l’autonomia di questo ragazzo, dargli sicurezza e riconoscimento, attraverso un permesso di soggiorno, mentre oggi, se lo portiamo all’ospedale, lo portiamo solo con il nome dichiarato verbalmente. Non possiamo contattare, né io né gli altri colleghi che si occupano del caso, la famiglia e dire: guardate che vostro figlio ce l’abbiamo noi, malgrado abbia mandato in carcere il padre e lo zio. Se mandiamo una lettera di questo genere con l’indirizzo di dove sta il ragazzo, tanto vale ammazzare il ragazzo. Denunciare lo sfruttatore, che è il padre, e poi scrivere alla famiglia per avere un documento non è possibile. Se invece lo fa il Consolato marocchino, attraverso richiesta ufficiale, proteggiamo il ragazzo e gli diamo fiducia per il lavoro che ha fatto su se stesso. I ragazzi parlano di famiglie. Noi, come famiglia, abbiamo fatto l’esperienza, la prima in Italia, di prendere un ragazzo minore dal carcere in affidamento a casa nostra. È la prima esperienza, che poi ha dato i suoi frutti, con qualche difficoltà. Ma le comunità prendono sulle 150.000 lire a notte per il ragazzo, noi, come famiglia, prendevamo 30.000 lire, togliendo le tasse 25.000 lire. Abbiamo dovuto affittare una casa grandissima, per garantire al ragazzo una camera, una doccia, da solo, dentro al contesto familiare, lavorando a 360 gradi sul caso. Ma il posto letto, la doccia per lui diventano solo codici che appartengono quasi al carcere: è una scuola di cultura e di linguaggio quella che bisogna fare, una operazione chirurgica nella testa del ragazzo. La scolarizzazione infatti non avviene direttamente, attraverso il leggere o il parlare l’italiano, ma attraverso la lettura dei codici della civiltà, del rispetto, e della sicurezza. Attraverso l’educazione alla legalità. Chi fuma uno spinello mantiene un mafioso e un dittatore. Io ero commosso questa mattina quando i ragazzi hanno detto: se noi rimaniamo emarginati, continuiamo a vendere morte. È di questo tipo di scolarizzazione che hanno bisogno i ragazzi. Le dittature fanno nascere deboli da poter sfruttare. Sono i mafiosi che utilizzano i ragazzi e noi vogliamo far parte della lotta alle mafie, bianche o nere. Approfitto di questa occasione per ringraziare per l’impegno gli educatori e la polizia penitenziaria, tutte persone che nel quotidiano gestiscono le difficoltà e qualche volta trovano in certi discorsi solo demagogia e parole. Nel quotidiano il contesto è molto diverso: si tratta infatti di dare una risposta ad un ragazzo che fino a ieri prendeva 2 milioni, poi mandato in comunità, gli si offre la possibilità di iscriversi in una scuola, ma la domanda del ragazzo a cui bisogna rispondere è: ho una famiglia, come faccio a mantenerla? Come faccio a pagare quel debito, di cinque, sei, sette milioni, che ho fatto per venire in Italia? Come faccio a pagare quell’affitto che devo dare alla mia famiglia? Pongo queste domande perché non è così semplice, visto che si è parlato della questione scuola questa mattina. Attraverso interventi sbagliati, la città di Torino sta purtroppo pagando un prezzo perché all’interno del Ferrante ci sono ragazzi presenti, non più fantasmi, figli di immigrati residenti, che hanno nomi e cognomi. Abbiamo ragazzi qui che hanno seguito dei progetti comunali attraverso cooperative e sono presenti qui. Ci sono quindi tantissime tematiche, che noi stessi, come operatori all’interno del Ferrante, abbiamo dovuto scoprire. Questo laboratorio non è un laboratorio dedicato a cose semplici, creano molti conflitti, malgrado tutti vogliamo bene a questi ragazzi, vogliamo farli uscire dai giri in cui sono caduti e da quelle difficoltà. Scusate il mio sfogo, ma sono domande che hanno il loro significato, partendo dalla realtà e dal concreto. Vi ringrazio.


Mariella CAVANNA SCIREA
, Presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia. Credo che per i nostri impegni dobbiamo chiudere qui questa nostra mattinata, che è stata per noi molto interessante perché abbiamo, parlo a titolo personale, scoperto delle realtà che probabilmente erano soltanto nel nostro immaginario. Abbiamo individuato, dalle testimonianze che abbiamo sentito questa mattina, dei problemi molto gravi. Dalla Professoressa De Marco, ad esempio, il trattamento differenziato che esiste tra la custodia cautelare dei ragazzi italiani ed extra comunitari. Trattamento che viene quasi obbligatoriamente imposto dal fatto che non si conoscono le identità di tanti ragazzi extra comunitari. Poi abbiamo anche riscontrato, dalla Dott.ssa Calcagno, questo aumento, quasi un sistema di vita, dei bambini che vanno dai sette, otto ai nove anni, prettamente nomadi, che sono mandati dagli adulti a rubare negli alloggi, comprendo così un reato almeno normalmente grave. Sembra che vi sia un incremento di questi bambini e non esistono ancora delle leggi adeguate, quindi prendiamo atto di queste difficoltà. Noi qui oggi non possiamo dare delle risposte effettive. Siamo qui per sentire dalla vostra voce quali sono i problemi e quali possono essere i nostri interventi. Vorrei fare un plauso ai Commissari, che oggi sono in delegazione, i quali sono veramente impegnati in questa Commissione per trovare soluzioni ai problemi concreti che si pongono per l’infanzia e l’adolescenza. L’impegno c’è sicuramente. Anche se noi oggi non possiamo promettere nulla, perché la nostra Commissione non può legiferare, l’impegno è di cominciare a lavorare, come abbiamo già fatto in precedenza affinché il nostro Governo e i nostri Ministeri possano realizzare quello che voi prospettate. La Commissione ha infatti poteri di indirizzo nei confronti del Governo. Da parte nostra quindi un ringraziamento per la vostra accoglienza e assumiamo l’impegno di portare a Roma e al Governo i vostri problemi e i vostri bisogni. La promessa è di mantenere sempre un contatto con voi. L’impegno della Commissione è anche di verificare come si vive nelle altre carceri minorili rispetto al Ferrante Aporti, che sembra stia dando un’indicazione e un esempio. Grazie ancora per quello che avete fatto e avete detto.

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