Commissione Parlamentare Consultiva
in materia di riforma fiscale

ATTIVITA’ CONOSCITIVA SULL’IRAP

PROPOSTA DI

RELAZIONE FINALE

 Bozza preparata dal Presidente On. Biasco
Versione preliminare non discussa dalla Commissione

Introduzione

La Commissione ha condotto un’indagine estesa, consultando tutte le categorie produttive nelle loro espressioni nazionali e spesso periferiche, e chiamando in audizione anche i rappresentanti e testimoni delle dinamiche dei distretti industriali. Vi sono state audizioni in sede locale tenute da singoli membri della Commissione; è stata istituita una casella di posta elettronica che ha ricevuto numerose testimonianze.

L’indagine non aveva come motivo principale il delinearsi di un gettito dell’imposta di circa il 20% inferiore a quanto preventivato (al netto degli effetti stimati di indeducibilità), ma mirava soprattutto ad esaminare singoli aspetti del modo di operare dell’imposta, le sue modalità di applicazione, il suo impatto sull’economia. La Commissione si è trovata nella felice posizione di non dover partire con un pregiudizio rivolto all’innalzamento dell’aliquota o ad altro tipo di recupero, dato che, nonostante la perdita di gettito rispetto a quanto preventivato, vi è stata una tenuta del gettito complessivo nel 1998 e si delinea una tenuta anche nel ’99. La compensazione è venuta dai recuperi di entrate dovuti alla chiusura di canali elusivi e a efficaci misure di contrasto all’evasione che caratterizzano la riforma fiscale; in tal modo, si è venuta configurando una anticipazione di quanto stabilito nel Collegato fiscale alla Finanziaria, che codifica la restituzione ai contribuenti di quanto recuperato.

La Commissione ha soprattutto concentrato l’attenzione sugli aspetti macroeconomici dell’imposta e, interrelati con essi, sugli effetti redistributivi e quelli specifici sul costo del lavoro. Ha esaminato, poi, un altro aspetto importante dell’imposta riguardante la sua stessa definizione e quindi i caratteri applicativi e di determinazione della base imponibile, alla luce del cosiddetto terzo binario cui ha dato luogo nella concreta applicazione. La Commissione ha lasciato volutamente in ombra i problemi connessi al decentramento fiscale, sia nelle prerogative specifiche delle regioni sia nei criteri e modalità di redistribuzione del gettito tra le stesse. Sul punto si è limitata soltanto ad alcune raccomandazioni in materia di accertamento.

I paragrafi 1-5 sono dedicati al quadro analitico e di giudizio sul funzionamento dell’imposta. I paragrafi 6-11 riguardano invece l’esame degli interventi ipotizzabili sulla struttura. Il rapporto può essere letto anche limitatamente alla Parte II (paragrafi 6-11).

È bene precisare che il quadro di ragionamento è svolto a prescindere dai limiti della delega e quindi presupponendo, ove essi siano travalicati, nuovi interventi legislativi.

La natura dell’indagine prescinde dalla valutazione del sistema precedente. E’ indubbio che esso fosse stato destrutturato da un insieme di provvedimenti occasionali, che si giustificavano solo in virtù della forza elettorale delle singole categorie e delle improvvisazioni del momento; a quei provvedimenti se ne erano sovrapposti altri presi sotto il segno dell’emergenza finanziaria. Come risultato, alcuni contribuenti subivano un carico eccessivo, altri erano in condizioni di evitarlo. La neutralità fiscale era totalmente persa. Il senso era difficile da discernere.

 

PARTE I ANALISI E GIUDIZI

1. Inquadramento all’interno dell’Irap del tipo di modifica che subisce il vecchio regime di tassazione

1.1. E’ bene partire da alcuni punti di orientamento generale per inquadrare l’imposta. Insieme alla Dit, alle norme sulle trasformazioni societarie e al nuovo regime dei dividendi, l’Irap è parte di un ridisegno della tassazione societaria volto a spingere le imprese verso comportamenti di patrimonializzazione, con capitali reperiti attraverso fonti interne di finanziamento o sul mercato dei capitali; quindi: una tassazione premiale, con premi cumulativi per chi investe, riduce l’indebitamento, si quota o è in grado di generare maggiori profitti. Obiettivo è il rafforzamento finanziario e produttivo del sistema delle imprese; imprese meno fragili finanziariamente, imprese più aperte all’allargamento degli assetti proprietari.

In primissima approssimazione, e solo per un orientamento aggregato, grezzo e di massima ma sintetico, l’Irap parametra sui flussi di indebitamento, ricollocandola, sia una parte della tassazione che precedentemente gravava sui profitti sia la tassazione raccolta in precedenza da imposte sulle imprese non legate alla loro performance. Ciò si ricava dall’ipotesi, sempre di prima approssimazione, che il carico fiscale aggregato sulle retribuzioni derivante dai contributi sanitari (al netto della loro deducibilità) e dall’Irap sia equivalente. Poiché l’aliquota sui profitti è stata ridotta (e con essa la tassazione diretta sugli stessi) segue quanto affermato: il gettito mancante alla parità é ricollocato sugli interessi.

L’effetto combinato mira a correggere una distorsione, presente nel nostro sistema fiscale, che accordava un privilegio all’indebitamento rispetto ad altre fonti di finanziamento. Ciò avveniva anche in misura anomala rispetto ai paesi ad economia di mercato. In altre parole, la completa deducibilità degli interessi passivi concessa a fini fiscali dal nostro ordinamento, tale da costituire addirittura un premio fiscale, non aveva equivalenti negli altri paesi. L’Ocse stima che nel 1991 un’impresa italiana che avesse voluto ottenere dall’investimento finanziato con fondi interni un saggio di rendimento equivalente a quello ricavabile sui titoli di Stato avesse necessità, per ragioni fiscali, di aggiungere a quel rendimento un rendimento ulteriore lordo del 4,5% (a tanto ammontava il cuneo fiscale); aveva necessità di aggiungervi un 2,9% quando l’investimento fosse stato finanziato attraverso nuova emissione di capitale. L’Ocse stima che sarebbe bastato un rendimento lordo dello 0,8% in meno per ottenere lo stesso rendimento netto dei titoli di Stato se l’investimento fosse stato finanziato con indebitamento (cuneo fiscale negativo). Con l’introduzione dell’Irap e della Dual income tax, per il 1998 (sempre fonte Ocse) i primi due differenziali lordi di rendimento si riducono rispettivamente al 2,3% e al 2,6%, mentre il segno negativo del terzo (indebitamento) diventa positivo per lo 0,6% (cuneo fiscale positivo). Permane comunque una differenza, anche se attenuata, sulla fiscalità dell’indebitamento rispetto alla fiscalità di altre fonti di finanziamento e comunque permane una differenza rimarchevole rispetto ad altri paesi. Nonostante le correzioni intervenute per l’Italia, Stati Uniti (1,7%), Gran Bretagna (1,8%) Irlanda (2,6%), Olanda (3%), Germania (1,4%), Spagna (2,6%) e altri paesi hanno coefficienti di cuneo fiscale per il finanziamento con indebitamento (sempre misurato come extra di rendimento lordo per ottenere lo stesso rendimento netto dei titoli di Stato) considerevolemente superiori (e nessun paese Ocse, tranne Belgio, Grecia e Portogallo ha coefficienti negativi).

La rappresentazione sintetica delle modifiche fiscali intervenute attraverso l’Irap si attaglia bene alle società di capitale. Per le società di persone, l’orientamento aggregato che abbiamo tenuto in precedenza è più sfumato. Per il lavoro autonomo si ha la soppressione della tassa sulla salute (deducibile), la quale, a seconda che sia considerata un prelievo sui risultati d’impresa oppure una sorta di contributo sanitario autoprelevato cambia il quadro di giudizio. I contributi sanitari versati per i lavoratori dipendenti erano, inoltre, deducibili ai fini della determinazione dei risultati d’impresa (e quindi venivano incisi con aliquota progressiva).

Ponendo in un unico calderone la fiscalità sui risultati d’impresa e sul costo del lavoro, è possibile assumere – tagliando molti problemi con l’accetta – che il prelievo complessivo specificamente diretto a queste due componenti del valore aggiunto non sia variato con l’introduzione dell’Irap (forse residua, in attivo, una parte da ricollocare e forse proveniente dal costo del lavoro). Il che implica, di nuovo, che tutta la tassazione proveniente in precedenza da tributi impropri (e forse qualcosa di più) sia stata ricollocata, a parità di gettito, in ragione degli interessi pagati. In altre parole, la tassazione precedente subisce una redistribuzione assimilabile a quella subita dalle società di capitali.

1.2. Un secondo obiettivo che si proponeva l’Irap era di eliminare la giungla dei contributi sanitari e delle sue componenti, i quali, a seconda di settori, sottosettori, zone territoriali risultavano fiscalizzati ampiamente, in parte, per nulla. Una ragnatela anomala e sorprendente per un paese che aspiri ad avere un fisco intellegibile.

In pratica, l’applicazione dell’Irap è esattamente equivalente ad uno schema di tassazione che a) avesse mantenuto il vecchio regime di contributi sanitari, inclusa la loro deducibilità, uniformando, però, l’aliquota per tutti al netto della deducibilità; b) avesse stabilito come base imponibile della nuova imposta solo i profitti e gli interessi (in sostituzione delle altre imposte abolite). In corrispondenza del 4,25% di aliquota Irap, esiste, cioè, una aliquota-discrimine dei vecchi contributi sanitari (la chiameremo talvolta "aliquota implicita") rispetto alla quale i contributi effettivamente pagati allora risultano inferiori o superiori, determinando, così, un aggravio o uno sgravio sul costo del lavoro. E’ come se il legislatore avesse adottata quell’"aliquota implicita" per i contributi sanitari, abolendo le varie differenziazioni, l’avesse resa proporzionale al reddito del dipendente (invece che regressiva), avesse posta la stessa aliquota in capo ai datori di lavoro anche per i collaboratori coordinati e continuativi o occasionali, come sostituti d’imposta. Se questo fosse stato lo schema adottato, ferme restando le altre imposte soppresse e confinando l’Irap solo a profitti e interessi, nessuna società di capitale sarebbe stata incisa né una lira più né una meno di quanto ha effettivamente pagato.

Questo schema di assimilazione di un regime all’altro tornerà poi utile non per proporlo come soluzione, ma come base di ragionamento in sede di esame di alternative che possono essere imboccate per una revisione del regime Irap.

Di nuovo, e per le ragioni dette, più nebulosa si presenta questa assimilazione dei due regimi (pre e post Irap) per ciò che riguarda le imprese personali. Se fosse stata in vigore l’aliquota-discrimine unica (proporzionale e detraibile) sia per i contributi che per la tassa sulla salute (com’è nella logica implicita della nuova tassazione) vi sarebbe stata una tassa sulla salute pagata con aliquota effettiva progressiva al crescere del reddito (ma lo era anche prima); i contributi sanitari avrebbero avuto la stessa incidenza che hanno nelle società di capitali per redditi tassati in sede Irpef al 37%;incidenza inferiore o superiore ad aliquota inferiore o superiore. Ma guadagni o perdite rispetto all’Irap effettivamente pagata su questa componente specifica avrebbero dovuto commisurarsi oltre che al confronto tra aliquote precedenti e "aliquote implicite", anche alla variazione degli scaglioni e delle aliquote Irpef e delle detrazioni effettivamente intervenute.

1.3. Questa lunga premessa, volta a mettere in evidenza le caratteristiche aggregate della nuova tassazione e a comprenderne gli obiettivi, ha tradotto in termini della tassazione pre-esistente tali caratteristiche e obiettivi come puro espediente esplicativo. La Commissione aderisce pienamente agli obiettivi di neutralità e perequazione messi in evidenza e chiarisce che solo nell’ambito di una loro condivisione di fondo si inquadrano i rilievi e gli aspetti problematici che ha messo in evidenza, nonché le domande preliminari su cui ha lavorato.

 

2. Tassazione societaria e intensità del capitale

2.1. In questo quadro, un punto importante di riflessione nasce dal dubbio se le sollecitazioni convogliate verso l’impresa (in calcoli di convenienza che includano la Dit e l’Irap) non vadano oltre il ristabilimento della neutralità fiscale nelle scelte di finanziamento (e verso la percezione di un premio all’investimento), ma finiscano per far pesare la bilancia verso la scelta di investimenti a tecniche più capital intensive in preferenza a tecniche più labour intensive. Si tratta di capire, cioè, se nel lungo periodo la struttura della nuova tassazione non provochi un effetto dinamico di sostituzione di capitale a lavoro.

La sollecitazione verso una traiettoria tecnologica è parte non secondaria di una politica industriale: una traiettoria dell’economia caratterizzata da più alta intensità di capitale paga probabilmente dei prezzi nel breve periodo in termini di livelli del reddito e dell’occupazione (che sarebbe stato possibile ottenere in alternativa), ma consente a lungo andare una maggiore crescita della produttività del lavoro e del fattore capitale e quindi, alla lunga, produce una crescita produttiva più alta di quanto sarebbe stato altrimenti e più alto reddito e occupazione. Il perseguimento di una traiettoria più labour intensive per l’economia comporta probabilmente una crescita della produttività più lenta di quanto sarebbe possibile altrimenti, ma maggiore occupazione e maggior reddito nel breve periodo. La domanda di partenza è legittima, ma è bene non cadere nell’errore di enfatizzare troppo gli effetti che il sistema fiscale (spostando i prezzi relativi dei fattori) possa generare in questi percorsi: non solo la sua incidenza potrebbe non essere decisiva, ma potrebbe anche essere nulla se ci trovassimo ormai in una situazione (non implausibile) in cui le tecniche a risparmio di lavoro dominano le altre in corrispondenza di qualsiasi rapporto tra i prezzi relativi.

La Commissione evoca questo punto non perché sia suo compito pronunciarsi sull’argomento, che, fra l’altro, non trova concordi gli economisti, ma perché ritiene che l’insieme di problematiche su cui impatta implicitamente la revisione della tassazione sulle imprese vada posto in un contesto più ampio, che coinvolge orizzonti di lungo periodo del Paese. L’eventualità della scelta della prima via - sempre ammesso che su di essa incidano le variabili fiscali – potrebbe, sì, rendere alla lunga più forte la struttura produttiva del Paese, ma richiede una strategia intermedia di carattere straordinario per la gestione del mercato del lavoro in un contesto di economia dell’offerta.

2.2. Posto il tema, nell’ambito dei compiti dell’indagine la Commissione si può solo limitare a una prima verifica, da un lato circa gli spostamenti di incidenza fiscale relativa sul costo del lavoro e sul costo del capitale, e dall’altro circa la variazione assoluta della fiscalità sul costo del lavoro; spostamenti che si sono verificati con l’introduzione dell’Irap rispetto alla situazione pregressa.

La variazione fiscale relativa intervenuta nel costo dei fattori non si commisura alla tassazione sui profitti rispetto a quella sulle retribuzioni perché il profitto è frutto della complementarietà di tutti i fattori. Si commisura, invece, alla correzione che la fiscalità apporta alla profittabilità di scelte imprenditoriali che comportino l’impiego di più capitale produttivo e meno lavoro rispetto a quella apportata alla profittabilità di scelte che, in relazione, comportino l’impiego di più lavoro e meno capitale.

2.3. Le testimonianze di studio e di riflessioni e che affrontano il tema, sono ancora scarse e non decisive. Incide sull’argomento il diverso trattamento fiscale riservato all’investimento con capitale proprio e con indebitamento. Non si sfugge all’impressione che la nuova tassazione d’impresa, mentre avvicina (ma solo avvicina) alla neutralità il trattamento fiscale riservato alle diverse fonti di finanziamento, raggiunga il risultato alterando la profittabilità relativa di opzioni tecniche alternative in termini di contenuto di lavoro e capitale. Quei passi verso la neutralità sono compiuti abbassando la pressione fiscale sull’utilizzo di capitale proprio, ma, in tal caso, portano ad una correzione di una fiscalità che era relativamente più favorevole all’impiego della forza-lavoro; ora, a seconda degli studi, essa tende ad una maggiore neutralità anche sotto questo profilo o rovescia del tutto le convenienze relative. Nel caso di indebitamento, invece, la pre-esistente convenienza al maggiore impiego relativo di capitale è solo ridotta, ma non alterata di segno.

Quei pesi fiscali pre-esistenti, anche quando meno pesanti sul fattore lavoro, avevano comunque portato ad un risparmio dinamico di forza-lavoro, per via dell’evoluzione della tecnologia. Se è così (ma sarebbero necessarie, tuttavia, maggiori verifiche sul punto), l’alterazione di quei pesi persegue un obiettivo desiderabile, quale la neutralità fiscale e la sollecitazione all’investimento in capitale produttivo, ma rafforza le tendenze non favorevoli all’impiego di lavoro. Deve poi contare su un conseguente allargamento della base produttiva o su altre linee collaterali di politica economica affinché non vi siano effetti sull’occupazione. Una strategia duale, quindi, che è una strada percorribile, purché perseguita consapevolmente.

2.4. In tema di effetti dell’Irap, la Commissione ritiene di dover dare un peso anche ad un argomento più sottile, insito nella percezione dell’imposta; percezione che determina reazioni comportamentali, quand’anche non giustificate dalla razionalità economica.

Risulta da numerose testimonianze che nelle piccole imprese si sono verificati fenomeni di "illusione fiscale".

Mentre in precedenza i contributi sanitari incidevano sul costo del lavoro ed erano parte integrale di quel costo - componenti passive che emergevano strada facendo - sottratte le quali emergeva alla fine un risultato lordo di esercizio (su cui incideva l’imposta diretta), ora l’utile netto di esercizio emerge in sede di bilancio finale dalla sottrazione di costi correnti che non includono più gli oneri sanitari. L’utile, però, viene scarsamente posto in relazione con la soppressione d’imposte e può venire inciso da percentuali maggiori di prelievo finale diretto, inclusa l’Irap. Il risultato netto finale viene quindi posto dagli imprenditori in relazione a una tassazione che è tanto più elevata quanto maggiore è il costo del lavoro. Ciò a prescindere dal fatto che, rispetto alla vecchia tassazione sulla specifica componente costo del lavoro, l’impresa abbia eventualmente risparmiato; indipendentemente anche dal fatto che l’utile (netto) finale sia eventualmente maggiore di quanto sarebbe stato altrimenti.

Di conseguenza, l’Irap contribuisce ad un sentimento negativo verso l’assunzione di forza lavoro e può contribuire, anche se come motivazione aggiuntiva e non come motivazione principale, a fenomeni di esternalizzazione della forza lavoro o di sua espulsione. La Commissione non sa dare un peso a quanto sia esteso questo sentimento, ma esso risulta da testimonianze le più disparate, dalle professioni come dal mondo delle piccole imprese: testimonianze che meritano di essere considerate con attenzione.

2.5. L’argomento dell’esternalizzazione non va, tuttavia, confuso con quello relativo al decentramento all’estero, che spesso viene imputato all’Irap come suo effetto collaterale. Il fenomeno ha tutt’altre dinamiche e motivazioni che quello di evitare un 4,25% di tassazione su parte del costo del lavoro (da pesare – a parità di altre circostanze – con gli oneri da decentramento). Qui l’"a parità di altre circostanze" non si dà perché si commisurano salari a livello 100 contro salari a livello 20. Quand’anche parte di una potenziale base imponibile sia stornata e diventi costo di beni e servizi intermedi prodotti all’estero, è sufficiente che anche una piccola porzione della compressione dei costi originata dall’operazione si trasformi in profitti addizionali (tassati al 41,25%), affinché il vantaggio di aver evitato l’Irap sia del tutto perso (e rovesciato).

Nessuna delle testimonianze dirette del mondo imprenditoriale ha indicato l’Irap come causa del fenomeno, anche se il sentimento negativo che in parte attraversa l’imposta può rafforzare motivazioni che hanno ben altra scala di valutazioni.

2.6. Va detto che, quand’anche l’argomento relativo alla percezione della nuova imposizione (l’illusione fiscale citata al punto 2.4) sia sovra-enfatizzato, resta comunque importante capire come l’Irap verrà percepita quando il rapporto con la vecchia tassazione sia lontano nel tempo, e quindi la nuova tassazione sia valutata per ciò che rappresenta in sé per le convenienze dell’imprenditore e non per ciò che rappresenta rispetto a vecchie convenienze relative ad una tassazione di cui nessuno ha più il ricordo. Con tutta probabilità, verrà percepita come una tassazione diretta, parametrata soprattutto al costo complessivo del lavoro. L’argomento non è secondario rispetto alle possibili modifiche nella stessa amministrazione dell’imposta.

 

3. Gli effetti d’impatto sul costo del lavoro

3.1. In questa fase di transizione, tuttavia, occorre dare enfasi anche al rapporto con la tassazione pre-esistente sul costo del lavoro in relazione alle possibili scelte d’impresa. Quel confronto è importante in sé, per le conseguenze d’impatto, ed è importante nel contesto di valutazione degli effetti occupazionali di lungo periodo, discussi nel punto 2.

Occorre investigare, quindi, se i carichi fiscali sul costo del lavoro vengano in assoluto aumentati o diminuiti rispetto ai carichi preesistenti all’istituzione dell’Irap. La Commissione ha esaminato un materiale nutrito di studi (basati su ipotesi a priori) e di testimonianze (provenienti dal mondo imprenditoriale e riferite sia a dati di contabilità, sia a prospetti che incrociano i parametri in gioco).

Va detto che i calcoli usati come riferimento sono calcoli-promemoria, che interessano la Commissione, così come hanno interessato gli studiosi e le categorie. Riguardano gli effetti diretti e indiretti dell’Irap. Non corrispondono, invece, alla percezione degli operatori i quali si riferiscono soprattutto agli effetti diretti del mutamento del regime fiscale (contributi sanitari contro Irap sul costo del lavoro) e questi inequivocabilmente indicano una riduzione della fiscalità sul costo del lavoro. E’ innegabile che ad essi occorrà far riferimento per gli aspetti comportamentali. Le statistiche Istat (e da ultimo in modo più opinabile Eurostat) che rilevano tali effetti del mutamento di regime fiscale sono una base di orientamento in questa direzione.

3.2. Tuttavia, la Commissione ritiene utile possedere anche un orientamento più introspettivo che si estenda al confronto con gli effetti indiretti. E’ consapevole che in questa direzione il semplice raffronto tra la tassazione pre-esistente sul costo del lavoro e l’analoga tassazione implicita nell’IRAP può essere mal posto, sia perché qualsiasi aggravio può essere traslato, sia perché, come ha ricordato il Ministro in Commissione, la convenienza o meno all’impiego di forza lavoro si giudica anche in relazione ai margini di profitto che vengono giudicati adeguati dall’imprenditore per offrire lavoro ad un nuovo occupato e non soltanto in relazione allo stretto recupero dei costi per quel nuovo occupato, perché non è quello il criterio che guida le motivazioni imprenditoriali. Inoltre, gli effetti dell’IRAP vanno visti attraverso rimandi generali di causalità: il fatto che la sua introduzione abbia comportato una disponibilità aggiuntiva di 9000 miliardi per le imprese deve avere significato qualcosa in termini occupazionali. La Commissione si è, tuttavia, pur con queste cautele interpretative, limitata al confronto fra fiscalità pregressa e vigente.

Il quadro che emerge è il seguente: vantaggi o svantaggi in termini di carico fiscale sul costo del lavoro (considerando nel nuovo scenario quello Irap sulla specifica componente, più gli effetti dovuti alla indeducibilità) dipendono strettamente dall’aliquota che ciascuna impresa pagava precedentemente per contributi sanitari. Poiché l’Irap determina, in prima approssimazione, una fiscalità sul lavoro rapportabile ad un’aliquota uniforme (deducibile) per tutti i vecchi contributi sanitari, si tratta di stabilire un confronto tra questa "aliquota implicita" e quella effettivamente pagata in precedenza. L’"aliquota implicita" nell’Irap non tiene conto, come non deve tenere, del rimbalzo del maggior reddito da indeducibilità sui contributi previdenziali delle persone fisiche, perché tali contributi sono un risparmio forzoso che i singoli si ritroveranno poi in miglioramento dei flussi previdenziali. Non tiene a maggior ragione conto dell’incremento contributivo dello 0,8% stabilito in Finanziaria per i lavoratori autonomi, perché quell’aumento non ha nulla a che vedere con l’Irap, ma dipende da considerazioni previdenziali.

In una situazione di riferimento priva di apprendisti e di lavoratori con contratto di formazione lavoro e dove sia piena l’aliquota dei contributi sociali, l’aliquota-discrimine (quella implicita nell’Irap, come se fosse deducibile) si colloca intorno al 9,5% per le società di capitale (calcolando un 37% di prelievo diretto) e all’8,2% per le società di persone e imprenditori individuali (e professionisti) che scontino un aliquota marginale Irpef al 27% (si colloca più in basso o più in alto al variare di tale aliquota). Le aliquote pregresse andavano dal 6,76% all’11,83%.

In realtà, il confronto diretto tra le aliquote deve essere mediato dalla composizione della forza-lavoro, perché l’"aliquota-implicita" per gli apprendisti è zero (ma era zero anche per i vecchi contributi sanitari) e quella per gli assunti con contratto di formazione lavoro è del 2,5% per le società di capitale e del 2,2% per le società di persone (contro un’aliquota dei contributi più alta dal doppio a tre volte in caso di massima fiscalizzazione).

Una seconda correzione dell’"aliquota implicita" verso il basso va anche calcolata per le imprese che non pagano i contributi previdenziali pieni (essendo i contributi sociali parte della base imponibile Irap).

Si dovrebbe poi tenere conto di altre correzioni: le perdite riducono la componente Irap sul costo del lavoro; la presenza di personale qualificato riduce l’aliquota media effettiva pregressa da confrontare con l’aliquota-equivalente, data la regressività dei contributi sanitari.

Il risultato è che inequivocabilmente le imprese che non godevano di fiscalizzazione dei contributi sanitari e corrispondevano per intero i contributi sociali vedono ridursi il carico fiscale sul costo del lavoro mentre quelle che avevano fiscalizzazione massima lo vedano innalzarsi, in una forchetta che è intorno all’1,5% in più e in meno. In mezzo, vi sono imprese con parziale fiscalizzazione degli oneri sanitari, ma con fiscalizzazione anche di oneri previdenziali o con tassazione ad aliquota attuale Irpef inferiore al 37%.

Per il Mezzogiorno il confronto va fatto a sé. Aveva aliquote sanitarie particolarmente fiscalizzate prima (4,76%, dovendosi portare nel 2000 al 6,76% per l’accordo Pagliarini-Van Miert) e confluirà, secondo il percorso concordato con la Comunità, verso l"aliquota implicita" standard Irap, mantenendo per i primi due anni un"aliquota implicita" ridotta, di circa metà prima (5,0% per le società di capitale e 4,3% per le società di persone) e di circa un quarto poi (7,2% e 6,3%).

La Commissione può confermare che non ha alcun fondamento l’imputazione all’Irap, sovente avanzata, di un effetto redistributivo che va a svantaggio delle imprese a più alto impiego di forza lavoro e a vantaggio di quelle con minore impiego di forza lavoro. L’unico parametro rilevante per giudicare gli effetti sul costo del lavoro riguarda le aliquote contributive precedentemente pagate, e non vi era alcuna identità fra attività con aliquote fiscalizzate e attività a maggiore impiego di forza lavoro; tant’è vero che settori labour intensive quali il commercio, l’edilizia e i servizi sono quelli che più vedono ridursi la fiscalità sul costo del lavoro con l’introduzione dell’Irap; sono, inoltre, i settori nei quali si è maggiormente creata, negli ultimi anni, nuova occupazione.

3.3. L’insieme delle affermazioni precedenti deriva da deduzioni facilmente desumibili dalla struttura stessa dell’imposta e dai parametri rilevanti. La presenza di elementi correttivi che si frappongono ad un confronto sintetico tra aliquota sanitaria pre-esistente e "aliquota implicita" nell’Irap rinvia ad un esame specifico dei dati di bilancio per un giudizio definitivo. Anche dove vi sono aggravi, questi vanno pesati con la composizione della forza lavoro e con le perdite di bilancio dichiarate da una abnorme percentuale di società. I dati effettivi denotano una estrema variabilità di situazioni, in aumento e diminuzione, del costo del lavoro, con prevalenza della diminuzione, specie nelle piccole imprese. La fascia di variazione è comunque limitata.

Vi sono elementi per sostenere la presenza di una certa sistematicità che vede il carico fiscale sul costo del lavoro in leggero aumento per le grandi imprese e in diminuzione per le piccole.

Ciò, però, non è generalizzabile. Vengono segnalati settori nei distretti industriali, dove è alto il contenuto di design (e quindi impiego di manodopera ultra specializzata e di collaborazioni esterne ad elevata retribuzione), che subiscono un rimarchevole rincaro del costo del lavoro. Può andare nella stessa direzione il settore bancario, soprattutto in ragione dell’aliquota differenziata.

Nell’aggregato, tuttavia, date le percentuali di variazioni prevalenti, non sorprenderebbe se i dati consuntivi finali vedessero la raccolta dell’Irap sulla componente "retribuzione" (compresa l’aggiunta di Irpeg/Irpef imputabili all’effetto di indeducibilità) avere lo stesso ordine di grandezza dei contributi sanitari aboliti. Se è così, attraverso l’Irap si è avuto qualcosa di paragonabile ad un effetto di perequazione dei pre-esistenti contributi sanitari (al netto della loro deducibilità) verso un valore mediano tra l’aliquota corrispondente alla massima fiscalizzazione e quella piena, con aliquota unica applicata in modo uniforme.

Non sorprenda la doppia aliquota calcolata in precedenza per le società di capitale e per quelle di persone, chè deriva dalla diversa percentuale di deduzione in sede di imposte sui redditi, essendo la perequazione avvenuta su ciò che rimane come aliquota netta e non sul livello dell’aliquota formale. Lo stesso effetto implicito di livellamento si ha per la tassa sulla salute pagata in precedenza dai lavoratori autonomi.

3.4. Tirando le somme, mentre complessivamente non è giustificato alcun allarmismo per ciò che riguarda gli effetti aggregati sul costo del lavoro per le imprese (ed è più probabile che dai dati consuntivi emerga anche una sua leggera flessione piuttosto che il contrario), la Commissione avrebbe desiderato che una riduzione del costo del lavoro fosse risultata pronunciata. Ci si può chiedere se l’IRAP sia lo strumento idoneo per raggiungere questo risultato e si è consapevoli che una politica straordinaria di riduzione del costo del lavoro è in atto attraverso la Carbon tax. Tuttavia, schemi di modifica della determinazione dell’Irap che possano supplementare tale politica e portare a risultati inequivocabili in questa direzione meritano di essere esplorati, come faremo più avanti.

4. Gli effetti redistributivi

4.1. Se ciò che è stato sostenuto in precedenza è fondato, il minor gettito rispetto ai tributi aboliti si è tutto determinato a livello aggregato sui profitti (depurati di quella porzione già considerata negli effetti indiretti della fiscalità sul lavoro) e sugli interessi passivi (i quali, oltre ad un’aliquota inferiore a quella di equilibrio, scontano lo sgonfiamento dei flussi dovuto alla caduta dei tassi di interesse).

Nella percezione dei contribuenti, però, gli effetti attribuiti all’Irap possono presentarsi totalmente invertiti. Come già detto, il riferimento agli effetti indiretti dell’abolizione di tributi deducibili è questione che interessa gli analisti e gli operatori sofisticati più che i contribuenti, specie se piccoli e medi. Il confronto con la situazione pregressa avviene, piuttosto, confrontando la percentuale di risultato lordo che la tassazione diretta (inclusa l’Irap) taglia ora rispetto alla percentuale che tagliava in precedenza, senza nessun riporto di un maggior risultato lordo al mutamento stesso del regime impositivo. I profitti appaiono quindi fiscalmente più penalizzati di prima.

4.2. Arriviamo così agli effetti distributivi della tassazione Irap, sui quali si è concentrata la maggiore attenzione, anche in relazione al buco di entrate: i famosi 9 mila miliardi mancanti alla parità di gettito. Qui non si tratta più di esaminare gli spostamenti di tassazione su una componente specifica, ma sull’insieme delle componenti del valore aggiunto.

La Commissione era consapevole dall’inizio che la tassazione Irap era, per la sua stessa struttura, congegnata in modo tale da correggere distorsioni precedenti e quindi anche di attenuare il carico fiscale per coloro che in passato avevano contribuito maggiormente al bilancio pubblico (quindi le imprese più patrimonializzate, con maggiori utili dichiarati e con minore fiscalizzazione degli oneri sanitari e minore indebitamento) e che avrebbe portato un aggravio di tassazione per coloro che meno avevano in precedenza contribuito al bilancio pubblico (maggiore fiscalizzazione, minori utili dichiarati, minore patrimonializzazione e anche maggiore indebitamento). E’ una regola generale che condividono tutte le disposizioni che alleggeriscono la tassazione specifica sui profitti di andare a vantaggio di chi fa più profitti e se l’Irap ha implicito in sé questo elemento di detassazione (cfr. 4.1.), non poteva distribuirsi diversamente.

Nel complesso, quindi, i propositi che hanno ispirato l’Irap e quelli che hanno guidato la revisione della tassazione societaria trovano consenso da parte della Commissione.

In discussione non sono tali obiettivi, ma se, nel loro perseguimento, la tassazione Irap abbia o meno avuto sistematicità di azione nell’inasprire il carico fiscale su particolari categorie, alleggerendolo sistematicamente su altre. In realtà, dopo l’esito del gettito, il metro di giudizio si è spostato: se vi siano particolari categorie di imprese, settori, o aree territoriali che abbiano tratto un vantaggio o uno svantaggio proporzionalmente maggiore rispetto al loro peso nel valore aggiunto complessivamente prodotto.

E’ bene premettere che dall’analisi di una notevole mole di dati rimane sostanzialmente confermato che l’incidenza dell’imposta, rispetto ai tributi soppressi (e al netto degli effetti di indeducibilità), deriva dalla struttura dei bilanci. Il giudizio di asistematicità del quadro prescinde dai settori che usufruivano in precedenza di maggiori benefici fiscali, vale a dire agricoltura e settore cooperativo, rispetto ai quali la Commissione non ritiene di entrare nel merito dei caratteri meritori che hanno consigliato in passato una tassazione attenuata; settori che tramite l’Irap vedono ora ridursi la loro peculiarità in termini di trattamento fiscale. Prescindendo, quindi, da tali settori, non riscontriamo altre sistematicità della stessa natura. E’ noto, tuttavia, che vi è un risparmio d’imposizione considerevole per il settore finanziario e che una certa sistematicità è rilevabile per il settore degli idrocarburi e chimico (il che non è sorprendente, data la capitalizzazione del settore). Abbiamo già detto circa indizi di carattere inverso che riguardano il settore del design.

4.3. Entreremo successivamente nel merito della variabilità che l’imposta ha avuto nei singoli comparti esaminati. Per ora ci concentreremo sui valori medi per comparto.

Facendo riferimento alla media, non sembra di poter concludere che vi sia stata sistematicità per i soggetti, precedentemente erano sottomessi alla imposizione Ilor. Il punto si presentava a priori particolarmente delicato, ma i dati in possesso della Commissione e le testimonianze delle stesse categorie produttive e professionali segnalano che il sottocampione di contribuenti non soggetti a Ilor si dispone come altri sottocampioni, presentando in modo equidistribuito sia imprese che hanno subito aggravi di imposizione, sia imprese che hanno subito sgravi d’imposizione.

In generale, per i contribuenti persone fisiche, titolari di reddito d’impresa o professionale, rimane uniformemente confermato quanto emergeva in sede di primo esame dell’Irap. Si registra una media di risparmio d’imposta, talvolta anche sostanziale, per coloro che hanno redditi fino a 60 milioni. Il risparmio ancora rimane, ma meno pronunciato, se il limite di analisi è posto ai 100 milioni o ai 135. In media, tra i 60 e i 135 milioni di reddito la differenza con la tassazione precedente non è, tuttavia, significativamente diversa da zero. Dentro i limiti di 60 milioni cade il reddito del 95% degli artigiani, dell’80% dei commercianti e dell’80% dei professionisti. Vari indicatori, compreso anche quello riferito dal Ministro circa le attese e le risultanze dell’anticipo Irap, segnalano che per i commercianti possa esservi stata una più accentuata riduzione d’imposta.

Particolarmente delicata si presentava anche l’analisi dell’incidenza sui settori professionali. Anche per essi sembra prevalere una totale assimilazione allo scenario tracciato per il complesso dei redditi d’impresa pagati in sede Irpef. Quello scenario risulta rafforzato se, come la Commissione ritiene corretto, si evita di considerare tra gli aggravi indiretti connessi all’Irap gli effetti di rimbalzo sui contributi previdenziali del maggior reddito contabile attribuibile all’indeducibilità dell’Irap. Come già detto, maggiori contributi sociali alzano contemporaneamente il futuro beneficio pensionistico. Ancor meno corretta è l’aggiunta all’eventuale aggravio previdenziale della maggiorazione dello 0,8% introdotta dalla Finanziaria 1998, che nulla ha a che fare con l’Irap, derivando da considerazioni previdenziali.

 

5. Piccole e grandi imprese

5.1. I dati tranquillizzanti che risultano da queste sottodivisioni vanno ritradotti, tuttavia, in un’ottica piccole/grandi imprese. Entriamo quindi in una questione che è stata molto rilevante in sede di indagine Irap, perché è una questione di prospettiva dell’economia italiana e quindi di indirizzo di politica economica. Quella prospettiva riguarda la scelta di dove indirizzare prioritariamente gli sforzi di riorganizzazione del sistema produttivo italiano, ben sapendo che questa riorganizzazione è compito del mercato, ma che quest’ultimo opera anche in risposta a politiche pubbliche, non ultimo a politiche fiscali. La scarsità delle risorse pubbliche in questa fase fa diventare rilevanti le questioni analitiche connesse alle fonti di solidità produttiva del paese nel medio periodo, se esse derivino prioritariamente dal rafforzamento produttivo in attività chiave ad alta tecnologia, comportando anche il rafforzamento di un nucleo di grandi imprese e, con esse, del sistema finanziario di riferimento, o se derivino principalmente dal rafforzamento di quella peculiarità italiana per ciò che riguarda la dimensione delle imprese, la loro collocazione settoriale, la loro organizzazione e reti. La risposta più ovvia e più plausibile è: "da entrambi". Ma essa non aiuta ad avere un criterio di giudizio sulla distribuzione della detassazione implicita nel passaggio all’Irap. In quale dei due subsistemi, fra l’altro, l’asprezza della competizione è più forte?

L’Irap, per gli effetti di detassazione che si è trovata ad avere, impatta quindi su questioni analitiche di primaria importanza, che forse andrebbero chiarite come premessa a qualsiasi indirizzo di politica economica.

Per la verità, l’analisi che investe tali questioni non è stata assente nel nostro Paese, anche se il dibattito non è mai pervenuto a risultati e verdetti conclusivi. Era sicuramente più vivo e appassionato nel passato. Ma la Commissione rileva che uno o due decenni fa la convinzione ricorrente e più accreditata a livello di studiosi e di policy makers era che il sistema delle piccole imprese italiano, collocato in settori tradizionali, non avrebbe retto. Vent’anni dopo, il sistema delle piccole imprese, collocato negli stessi settori, è rimasto integro, malgrado l’inasprirsi della concorrenza internazionale. E’ probabile che prospetticamente le cose possano porsi in modo diverso, ma l’errore analitico compiuto in passato è evidente.

5.2. Si obietterà che una politica verso la piccola impresa – politica fiscale, perché solo di questa ci occupiamo – non si misura solo sull’entità della tassazione diretta, ma anche sulla fluidità dei canali che consentono all’impresa di crescere e la stimolano in tal senso. All’interno della riforma fiscale è stato sicuramente costruito un quadro normativo che è andato in questa direzione. Si può citare la neutralità fiscale consentita nella trasformazione da società di persone a società di capitali, senza la perdita della qualifica di imprenditore per chi conferisca l’unica impresa. E, ancora, la possibilità di applicare le Dit anche per le società in contabilità semplificata che optino per la contabilità ordinaria. Una volta esercitata la delega contenuta nel Collegato fiscale, sarà prevista per le società in contabilità ordinaria la possibilità di essere tassate sulla stessa base (proporzionale) delle società di capitali (quindi con maggiore possibilità di utilizzo della Dit). Importante, ancora, è l’inclusione della "società unipersonale" nel nostro ordinamento.

Per converso, vi è da dire che la Dit opera per le società di persone molto lentamente e che non produce agevolazioni finché l’aliquota agevolata corrisponde alla prima aliquota di tassazione del reddito. Inoltre, le agevolazioni, in quanto permanenti, sono apprezzabili solo in termini di rendita attuariale: quindi poco percepibili, per cultura, dalla piccola impresa. La Super Dit e la possibilità di far valere l’intero ammontare delle riserve, non solo il loro incremento, potrà, per le società in contabilità ordinaria, costituire un meccanismo di compensazione.

Pesando tutto, compreso il diverso rapporto delle piccole imprese con il mercato finanziario e con l’autofinanziamento, la Commissione ha ritenuto che la domanda che pongono le organizzazioni delle piccole imprese, e cioè se l’aliquota debba effettivamente essere identica per dimensioni differenti e se basi imponibili differenti debbano essere incise in modo uniforme, meriti di far parte dell’agenda di riflessioni sulle possibili modifiche dell’Irap, affrontate più avanti in questo Rapporto.

5.3. Su tutta questa tematica aleggia ovviamente la distribuzione per classi di imprese dei 9 mila miliardi di gettito mancante rispetto a quello preventivato.

Su questo punto, la Commissione ha evidenze e testimonianze variegate. Emerge con chiarezza che le piccole imprese, siano esse società di capitali o società di persone, hanno guadagnato in media nel raffronto fra vecchi e nuovi tributi dall’introduzione dell’Irap, tenendo conto anche degli effetti di indeducibilità. Le testimonianze che sono pervenute non sembrano dare quindi fondamento a una tesi largamente diffusa, che l’introduzione dell’Irap sia stata a totale ed esclusivo vantaggio delle grandi imprese.

L’evidenza è andata contro le aspettative della stessa Commissione, che si sarebbe attesa una distribuzione squilibrata, se non altro per il dato di partenza che vedeva l’incidenza fiscale proporzionalmente più alta per le grandi imprese e più bassa per le piccole, le quali ultime hanno più facilità a sottrarre base imponibile.

Con i dati disponibili la Commissione ha costruito una sorta di curva di Lorenz per un giudizio sulla concentrazione di quel risparmio. Dopo aver ordinato le imprese per base imponibile Irap - dalla più piccola alla più grande -, la curva di Lorenz riferisce la percentuale di risparmio lordo cumulativo alla percentuale di valore aggiunto cumulativo via via considerato (se riferisse il risparmio cumulativo al numero cumulativo di imprese via via considerato, essa non sarebbe significativa). Se questa curva fosse equidistribuita, a ogni x% di base imponibile cumulativa considerata dovrebbe corrispondere un x% di risparmio d’imposta cumulativo. Si è costruita poi una curva di Lorenz per il sottocampione di imprese "vincenti" e "perdenti" per esaminare la distribuzione di guadagni e perdite separatamente. Questo esercizio è stato fatto con i dati di una indagine locale (della quale, invece che della base imponibile disponevamo del fatturato) e di una indagine nazionale (la più estesa di cui si aveva disponibilità). In entrambi i casi la curva di Lorenz rimbalza sopra e sotto la curva di equidistribuzione, senza scostamenti degni di essere portati all’attenzione.

Va detto che questo risultato si riferisce solo a società di capitali la più grande delle quali non supera 1000 miliardi di fatturato. Non si riferisce a società di persone, dove, tuttavia, la revisione delle aliquote e detrazioni e l’abolizione della tassa sulla salute sembrano nel complesso aver funzionato senza effetti regressivi (abbiamo visto anche che l’"aliquota-implicita" sul costo del lavoro è più bassa). Vale per esse quanto affermato nel § 4.3.

Non vi sono, inoltre, nel campione imprese quotate in Borsa. Esse, per ragioni di trasparenza e di verificabilità delle scelte di bilancio e patrimoniali, come richiesto dal monitoraggio dei mercati, sono naturalmente imprese portate a dichiarare più utili, a mantenere una maggiore patrimonializzazione e un minore indebitamento. Non è sorprendente che in maggioranza guadagnino dalla riforma, bilanciando in tal modo (nella logica "a priori" dell’Irap) il contributo sovraproporzionato dato al bilancio pubblico negli anni passati. Se per "grandi imprese" intendiamo quelle di dimensione superiore ai 500 addetti o con un fatturato di 500 miliardi e più, quindi anche imprese che non sono quotate in Borsa, il quadro è più variegato, ma risente comunque del fatto che l’Irap è entrata in vigore in un anno di miglioramento generalizzato dei conti aziendali.

Per le piccole e medie imprese, società di capitali, si va da calcoli delle associazioni di categoria (nazionali e periferiche) che stimano nel settore manifatturiero un risparmio di imposta, rapportato all’universo, intorno ai 1500 miliardi, ad altri che reputano tale risparmio intorno al 10% delle imposte che si sarebbero pagate a legislazione invariata; altre testimonianze pervengono a percentuali inferiori. Una indagine, tuttavia, presenta un aggravio di imposizione per il complesso di società fino a 10 miliardi di fatturato (le imprese del campione sono tuttavia auto e non etero selezionate).

Sempre, in questo contesto, un dato di difficile interpretazione è quello fornito dal Ministro Visco che segnala (relativamente alle imprese già esistenti nel 1993) uno scostamento di solo il 3% tra il gettito previsto per il settore manifatturiero e quello effettivo sulla base degli anticipi Irap per il 1998 (là dove altri settori presentano scarti fino all’80%). Sebbene il dato sembri in linea con il risparmio complessivo d’imposta segnalato dall’associazione industriali (che ridimensionerebbe il risparmio globale), è in netto contrasto con i dati di un centro di ricerca che attribuisce 7.600 dei 9.000 miliardi di minor gettito al solo settore manifatturiero. A seconda che lo scenario sia l’uno o l’altro, assumono diverso rilievo i 1.500 miliardi indicati dall’organizzazione delle piccole imprese come ordine di grandezza del risparmio specifico (sulla base di una estensione all’universo delle piccole imprese delle risultanze del loro campione).

5.4. Incrociando questi risultati è difficile sfuggire all’impressione di un risparmio di imposta spalmato su tutte le classi di imprese.

Se vi è sproporzione essa è soprattutto dovuta alle imprese quotate in Borsa. Forse si può rilevare che le grandi imprese, al contrario di ciò che mettevano in evidenza i calcoli precedenti all’introduzione del’Irap, presentano una qualche sistematicità verso il risparmio di imposizione, mentre per le piccole imprese tale risparmio risulta da una media aritmetica in cui appaiono anche parecchi "meno".

Questo non vuol dire che la stessa proporzionalità media del risparmio rispetto alla base imponibile segnalata dalla curva di Lorenz – ammesso che sia un risultato non distorto – non possa essere contestata sul piano sostanziale dalle piccole imprese, perché porta a risparmi in assoluto elevati per le grandi. Va riferito che sulla base delle cifre a disposizione riguardanti il dato aggregato del gettito, le aspettative delle piccole imprese sarebbero state di un risparmio più elevato.

Tuttavia, il punto critico per le piccole imprese sembra consistere, più che nell’entità della fetta di beneficio, nel fatto che tutte le aree di problematicità nell’azione dell’Irap riguardino il settore specifico.

a) Data l’entità della detassazione implicita nell’Irap, la variabilità di situazione per le piccole imprese appare eccessiva. Prevalgono certamente in numero quelle che hanno risparmiato dall’introduzione della nuova imposta, ma esse non sono, come ci si aspetterebbe, la schiacciante maggioranza (per lo meno per ciò che riguarda le società di capitali); per converso, è molto più alta l’entità unitaria del guadagno rispetto a quello della perdita.

Tuttavia, l’esame degli aggravi di imposta che si hanno per le imprese "in perdita" nel passaggio dalla vecchia alla nuova tassazione porta, in via generale, ad escludere che l’Irap possa aver avuto effetti dirompenti, tali da costituire l’elemento ultimo per l’estromissione dal mercato di imprese marginali. La stessa tassazione dell’indebitamento è equivalente all’aggravio di uno 0,2%, (massimo di uno 0,3%), nei saggi di interesse passivi per imprese che avevano trovato conveniente fino a due anni fa indebitarsi a tassi di 4-5 punti percentuali superiori. Il giudizio è confermato dalle associazioni di categoria, senza, però, che siano esclusi casi critici.

b) Come conseguenza della variabilità di situazioni, dell’assenza di una clausola di salvaguardia più stringente hanno risentito soprattutto le piccole imprese, perché tale clausola sarebbe stata soprattutto protettiva per esse. E’ probabile che il deficit di gettito che si profilava e che rendeva comunque morbida l’entrata nel regime Irap (il 4,25% si rivelava un’aliquota non di equilibrio), abbia convinto il Governo a non prevedere una clausola di salvaguardia particolarmente limitativa. Sarebbe stato opportuno, invece, che fosse stata tale. Se fosse stata finanziata con un ritocco, anche marginale, dell’aliquota sarebbe andata nella giusta direzione di ridurre i vantaggi di imposta per le imprese "con vincita" e di finanziare, in tal modo, la limitazione di perdita per le imprese con aggravio di imposta. È opportuno quindi che l’argomento sia ripreso in sede di esame delle modifiche possibili all’attuale regime, per vedere se il treno sia stato perso definitivamente o possa ancora essere ripreso.

c) Le imprese con risultati negativi possono esser parte dei casi critici citati al punto a). Anche qui, guai a generalizzare, perché nel sottogruppo delle imprese con risultati negativi appaiono equamente divise sia imprese beneficiate dall’introduzione dell’Irap che imprese con aggravio di tassazione. Le perdite, inoltre, rilevando su altre componenti della base imponibile, consentono di ridurre la fiscalità Irap attribuibile al costo del lavoro o all’indebitamento. Non sfugge, poi, alla Commissione che, data la discrezionalità nelle scelte di bilancio, è sempre possibile occultare gli utili, quand’anche in una politica prudenziale di stime e accantonamenti; e che gli utili, inoltre, sono sovente al netto dei compensi degli amministatori-proprietari.

L’Irap, però, dove produce aggravio, accresce i fattori di criticità per imprese per le quali la situazione societaria sia effettivamente critica.

E’ vero anche che l’imposta può far apparire un utile fiscale (per via dell’indeducibilità) là dove vi è una perdita civilistica e portare in perdita bilanci altrimenti in utile. Ma è altrettanto vero che questi attengono più agli effetti ottici che alla sostanza, perché, rispetto ad essi, il regime fiscale precedente non faceva miracoli.

L’argomento, in ogni caso, non è da confondere col fatto che le imprese in perdita abbiano un Irap positiva. Questo è insito nel disegno dell’imposta, dal momento che l’Irap sostituisce prelievi, primi fra tutti i contributi sanitari e l’imposta patrimoniale, che precedentemente erano comunque positivi (e senza compensazione con i crediti d’imposta) anche là dove i profitti fossero stati negativi.

d) Altre situazioni delicate sono nei distretti. Se dovesse essere generalizzata la testimonianza che ci arriva da un distretto industriale (e che altre testimonianze sporadiche confermano), il margine di profitto lordo delle imprese terziste è molto limitato. In particolare, è determinato dal committente, soprattutto quando questo è di grandi dimensioni, anche sulla base delle sovvenzioni statali e periferiche cui ha diritto l’impresa terzista. Se è così, una qualsiasi variazione in negativo della tassazione specifica si riflette sul risultato finale delle piccole imprese dei distretti, e cade su unità con scarsi margini di sopravvivenza.

PARTE II PROPOSTE

6. Vie percorribili di aggiustamento: pro e contro

6.1. Probabilmente un quadro più completo si può avere quando saranno noti i dati a consuntivo, alla fine dell’anno. Nel frattempo, è necessario che il quadro dei possibili aggiustamenti sia presente e meditato dal Governo, in modo da poter agire in una direzione o in un’altra a seconda delle risultanze effettive che emergeranno per il complesso dei contribuenti.

La Commissione ha riflettuto con attenzione sulle linee di possibile riforma dell’Irap che meritano di essere esaminate alla luce delle considerazioni svolte sopra e delle testimonianze e documentazioni ricevute. Tali linee non possono che essere poste in modo interlocutorio. L’assenza di raccomandazioni convinte deriva dal fatto che la Commissione non può non mettere in evidenza gli inconvenienti che ciascun aggiustamento in una direzione provoca in altre direzioni.

La Commissione ha tentato di mettere a fuoco la direzione nella quale occorrerebbe piegare la struttura dell’Irap al fine di raggiungere due risultati desiderabili: rendere a) inequivocabile l’effetto sul costo del lavoro e b) un po’ più pronunciato e diffuso il vantaggio per le piccole imprese.

6.2. La Commissione è conscia del fatto che molti contribuenti indicherebbero a tal fine la deducibilità dell’imposta (perché attenua gli effetti di perdita o di vantaggio fiscale per le singole imprese derivante dalla sostituzione con l’Irap delle vecchie imposte). Ma questo è un obiettivo del tutto irrealistico, visto che aggiungerebbe altri 16.000 miliardi a quelli già mancanti. E, anche in questo caso, scarso vantaggio deriverebbe alle imprese in perdita di bilancio.

La deducibilità a parità di gettito non ha gran senso. Se tarata sulle società di capitali essa comporterebbe un innalzamento dell’aliquota del 37% (dando luogo a un’imposizione individuale aggiuntiva in sede Irap del 37%) e, per converso, tale imposizione sconterebbe per il 37% una minore base imponibile dei profitti. Una partita di giro. Le imprese personali con una tassazione in sede Irpef inferiore al 37% verrebbero a perdere. Se la manovra fosse tarata sulle imprese individuali tassate al 27% in sede Irpef, comporterebbe un guadagno per le società di capitali (che deducono il 37%). Un innalzamento dell’aliquota in proporzione intermedia comporterebbe comunque uno spostamento di tassazione, anche se attenuata, dalle società di capitali sulle società di persone.

L’inutilità delle complicazioni che necessiterebbero per avere una deducibilità a parità di gettito basterebbe da sola a consigliare di mantenere l’aliquota bassa e indeducibile. Vi è, tuttavia, un argomento più dirimente a portare nella stessa direzione. L’indeducibilità è strettamente collegata al principio della sussidiarietà, che necessita che sia trasparente "cosa va a chi" e "chi è responsabile per cosa". L’Irap è parte di un disegno di decentramento fiscale che a regime lascerà la competenza sull’imposta alle Regioni; ciò richiede che non vi sia interferenza tra scelte regionali in materia di aliquote da un lato e bilancio statale dall’altro (sul quale rimbalzerebbe, come mancato gettito, la parte deducibile).

Sgombrato il campo da questo punto, gli obiettivi indicati nel punto 6.1. si dovrebbero perseguire ritoccando il dispositivo dell’Irap. Le proposte in merito hanno meriti e inconvenienti specifici.

6.3. a) Aliquote plurime La Commissione ha dapprima esaminato gli effetti che potrebbero derivare da un’Irap non più proporzionale ma progressiva. Imboccando una strada di questo genere si potrebbero ipotizzare due o al massimo tre scaglioni riferiti alla base imponibile. E’ bene distinguere tra tassazione progressiva, che aumenta marginalmente con la base imponibile e tassazione con aliquote secche, che creerebbe nuovi effetti scalino, là dove dovrebbero essere eliminati i vecchi, in quanto disincentivo alla crescita delle imprese. Certamente, un’Irap di tipo progressivo andrebbe nella direzione di favorire fiscalmente le piccole e medie imprese, anche se vi è da chiedersi se è questa la strada più idonea allo scopo.

Essa costituisce certamente un correttivo di ciò che si è determinato nella prima applicazione dell’Irap, ma, una volta perso il rapporto con la tassazione pregressa e con l’impatto del passaggio da un regime all’altro, verrebbe a codificare che la tassazione complessiva delle grandi imprese è più che proporzionalmente maggiore della tassazione delle piccole imprese, sia quando esse impiegano forza lavoro che quando esse contraggono debiti. Mentre per ciò che riguarda l’indebitamento alcune condizioni di fatto possono anche far apparire questo come un correttivo ai maggiori costi sopportati dalle piccole imprese, per quanto riguarda l’occupazione e l’insieme di problemi discussi prima (che portavano a considerare desiderabile che l’Irap abbia un inequivocabile effetto di detassazione sul costo del lavoro) si mancherebbe l’obiettivo.

Alcuni calcoli di massima rendono più evidenti quali siano gli inconvenienti cui si andrebbe incontro con un’Irap progressiva. Ordinate le imprese in scala crescente per base imponibile, se dovessimo, ad esempio, immaginarci tre scaglioni di reddito, il primo che incida come aliquota finale sui i primi 300 mila miliardi di imponibile complessiva, l’intermedio sui secondi 500 mila miliardi e l’ultimo sui terzi 400 mila miliardi, si determinerebbe in modo progressivo un trasferimento di tassazione dalle imprese nel secondo scaglione di tassazione (oltre i 600.000 miliardi cumulativi di base imponibile) alle imprese nel primo scaglione (meno di 600.000 miliardi di base imponibile cumulativa). Ragionando per ipotesi solo orientative, se ponessimo uguale a 0,25% la riduzione di aliquota nel primo scaglione, e a 0,25% l’aggravio nel secondo, le imprese del terzo dovrebbero pagare circa lo 0,6% in più. Quindi, se si parte con un’aliquota del 4,00% si arriva all’aliquota finale del 4,80%. In questo modo, si trasferirebbero con modalità progressive circa 2.200 mila miliardi dalle imprese più grandi alle imprese più piccole. Si avrebbe tuttavia, come detto, un incremento della componente specifica costo del lavoro (rispetto alla tassazione pregressa) per tutte le grandi imprese. E questo potrebbe costituire un fattore di incentivazione di un trend in corso da qualche anno che porta all’utilizzo di investimenti a maggiore sostituzione di forza lavoro in questo comparto. Inoltre, anche nel comparto che passerebbe al 4,80% di aliquota marginale, vi sono oggi imprese con aggravi d’imposta.

Risulta, poi, problematica l’applicazione di un principio di progressività alle imprese. La progressività implica solidarietà. Mentre questo perseguimento ha sicuro fondamento dal punto di vista dei principi e del compromesso sociale per quanto riguarda la tassazione personale dei redditi, tiene con molta maggiore difficoltà per ciò che riguarda l’imposizione societaria. Si può obiettare che comunque l’imposizione Irap è un’imposizione sui redditi, anche se sui generis (si veda la parte 8 di questo Rapporto), e che la vitalità del sistema delle piccole imprese è comunque un bene pubblico. Tuttavia, la differenziazione di piccole e grandi imprese nel trattamento fiscale va giustificato con qualche fattore di maggiore criticità relativa, visto che entrambi i segmenti del nostro apparato produttivo sono di fronte alla globalizzazione, entrambi devono crescere, devono competere, devono trovare fonti di competitività. Una differenziazione è giustificata se si può sostenere che questi compiti siano più ardui in un segmento piuttosto che in un altro.

In sintesi, la correzione dei risultati distributivi dell’Irap rimane il criterio principale per adottare uno schema di un’aliquota plurima. Il criterio, però, rischia di essere empirico e con inconvenienti quando si sarà perso il rapporto col sistema pregresso.

Va aggiunto, per promemoria, che la progressività potrebbe essere molto meno marcata nel caso in cui le aliquote fossero due invece di tre e il limite dello scaglione fosse posto in modo tale da demarcare i primi 200 mila miliardi di base imponibile come aliquota finale. Supponendo che la riduzione nel primo scaglione sia dello 0,3%, il secondo scaglione dovrebbe avere un’aliquota maggiorata intorno allo 0,35%: quindi, due scaglioni, uno del 3,9%, un altro del 4,6%. La tassazione delle imprese risulterebbe ancora progressiva, nel senso che anche imprese il cui reddito imponibile cada nello scaglione a imposizione più alta, le imprese all’incirca nei primi 400 mila miliardi di reddito imponibile, avrebbero comunque dei vantaggi rispetto all’Irap che pagano oggi; le altre finirebbero per pagare più Irap e finanziare in modo progressivo il trasferimento di circa 1000 miliardi di tassazione (aliquote del 3,75% e 4,9% finanzierebbero 2.500 miliardi di trasferimento d’imposta).

6.4. b) Scissione delle componenti Tra le vie di revisione dell’Irap che danno preminenza a interventi che rendono inequivocabile l’effetto di detassazione sul costo del lavoro, una ha avuto vasta eco nella stampa. Riguarda l’Irap differenziata per componenti del valore aggiunto.

Non convincono, tuttavia, la Commissione provvedimenti tesi a ridurre l’Irap sulla parte specificamente attinente al costo del lavoro (o a rendere questa parte, e solo questa, deducibile). La Commissione non tenderebbe a raccomandare questa soluzione. A meno che il legislatore non pensi di ridurre ulteriormente gli introiti dell’Irap (il che è fuori discussione), il decremento di gettito comporterebbe innalzamenti dell’aliquota su altre componenti.

Come detto, l’Irap ha una vocazione a tassare in modo omogeneo i fattori di produzione; vocazione che verrebbe in tal modo sacrificata. Ne risulterebbe una misura del tutto empirica che sarebbe in contrasto con la logica dell’imposta. Oltretutto, ciò vanificherebbe anche l’anelito a semplificare l’applicazione dell’imposta.

In questo caso, e con gli stessi scopi, sarebbe allora meglio procedere determinando una base imponibile ridotta per ciò che si riferisce al costo del lavoro, ad esempio escludendo i contributi sociali, ma non il TFR.

Il recupero di gettito avverrebbe con un ritocco in alto dell’Irap di circa 0,5 punti percentuali. "L’aliquota implicita" sul costo del lavoro (considerando il doppio effetto della base imponibile e della maggiorazione Irap) passerebbe all’8% per le persone giuridiche e 6,9% per le persone fisiche (tassate ad aliquota marginale Irpef del 27%).

Un provvedimento del genere, tuttavia, va contro le esigenze di semplificazione dell’imposta e richiederebbe che essa sia definita in modo diverso da come viene attualmente definita (ma di ciò ci occuperemo nel § 8). Ma l’inconveniente maggiore è rappresentato dall’aggravio impositivo Irap su coloro, imprese individuali e professionisti, che non hanno dipendenti.

A titolo di completezza, ma come puro esercizio, va segnalato che la separazione dei destini impositivi delle singole componenti del valore aggiunto darebbe risultati più nitidi. Come è stato già detto, l’imposta oggi equivale a) all’applicazione di "contributi sanitari impliciti" uniformi e proporzionali dopo la deduzione dal reddito; b) ad una tassazione sui profitti del 41,25% e c) ad una deducibilità degli interessi passivi ai fini delle imposte sul reddito ammessa fino al 95% (anziché 100%) del loro importo (il tutto come riassorbimento delle imposte soppresse tranne i contributi sanitari).

Nell’ottica di una scissione dell’imposizione sulle componenti, non sarebbe infondato pensare alla fissazione di "oneri sanitari-equivalenti" esplicitati a un livello che non determina (nel confronto con i vecchi oneri sanitari) per nessuna impresa perdite sul costo del lavoro (e quindi guadagni per la stragrande maggioranza). Il tutto compensato con aliquote Irpeg e quota di indeducibilità degli interessi ben oltre il coefficiente di indifferenza con l’Irap citato sopra (41,25% e 5%). In pratica, un ritorno indietro con gli stessi obiettivi Irap.

L’ipotesi è puramente teorica, perché sarebbe difficile oggi re-istituire i contributi sanitari, dopo che l’Irap è stata introdotta proprio in risposta ad un richiamo della Corte Costituzionale che richiedeva di assorbirli nella fiscalità generale. Si poteva procrastinare la risposta a quel richiamo della Corte, ma è molto più difficile tornare indietro, una volta che sia stato soddisfatto.

6.5. c) Recupero e fiscalizzazione Una formula più diretta per abbassare specificamente l’Irap sul costo del lavoro potrebbe consistere in due operazioni contestuali: si potrebbe, da un lato, ipotizzare di recuperare l’intero gettito mancante rispetto alle previsioni (9 mila miliardi presumibilmente) e contemporaneamente dirigere gli stessi 9 mila miliardi (o quanti essi siano) alla fiscalizzazione di oneri sociali gravanti sul lavoro e a carico dei datori di lavoro. In questo modo, l’effetto combinato sarebbe inequivocabile, in quanto la detassazione portata dall’Irap verrebbe tutta indirizzata verso chi mantiene una maggiore occupazione.

Gli inconvenienti sono altrettanto grandi. Innanzi tutto, questo procedimento costituisce una detassazione solo per chi ha occupati a carico, come nel caso di revisione della base imponibile relativa alle retribuzioni citata al punto b). L’ipotesi comporta ovviamente un aumento dell’aliquota Irap che potrebbe grosso modo arrivare al 5%. Resterebbero quindi maggiormente incisi gli imprenditori individuali e i professionisti senza dipendenti, per i quali si incrementerebbe la pressione fiscale non tanto (e non necessariamente) in termini assoluti, quanto rispetto a ciò che avrebbero pagato con la struttura d’imposta oggi esistente.

Questo inconveniente ha, tuttavia, anche i suoi correttivi, il primo dei quali porta a ricomprendere nei 9 mila miliardi di decontribuzione anche una qualche fiscalizzazione di aliquote contributive per i lavoratori autonomi. Il secondo correttivo potrebbe derivare dalla preventivata riduzione dell’aliquota Irpef del 27%, che tuttavia riguarda l’insieme dei contribuenti.

Va da sé che, qualsiasi dispositivo possa essere adottato in questo quadro per la fiscalizzazione degli oneri sociali, questo deve essere aggiuntivo a tutti quelli previsti, e non sostitutivo degli stessi; il che implica che gli schemi di riduzione degli oneri sociali, ad esempio quelli legati agli introiti delle tasse ambientali, devono continuare con le stesse caratteristiche preventivate.

Rimane, però, un altro inconveniente di questo doppio intervento mirato al costo del lavoro, che può manifestarsi negli anni futuri, quando la contestualità tra aumento dell’aliquota Irap (al livello corrispondente alla parità di gettito prevista nell’anno di istituzione) e la fiscalizzazione degli oneri sociali si sarà persa e i due istituti appariranno indipendenti con un Irap fissata al 5% (o giù di lì). La tassazione diretta sulle imprese apparirà, in assenza di altri interventi, praticamente in linea con la pressione fiscale esistente nel 1997. Se l’Irap continuerà ad essere percepita come una imposta diretta parametrata sostanzialmente al costo del lavoro, gli effetti di sostituzione possono accentuarsi e quindi andare in direzione opposta a quella che ha originato la manovra. Se il costo di occupare un lavoratore è valutato, però, come costo complessivo (Irap e contributi sociali) e se non vi sono comportamenti irrazionali, la modificazione delle convenienze favorisce l’impiego di forza lavoro.

6.6. d) Ammortamenti Quali che siano i loro meriti o demeriti, le linee correttive che incidono sulla distribuzione dei carichi per piccole e grandi imprese non consentono di ottenere anche risultati per ciò che riguarda il costo del lavoro e viceversa.

Una via che porterebbe un effetto in entrambe le direzioni è quello di allargare la base imponibile agli ammortamenti e ridurre contestualmente l’aliquota, portandola intorno al 3,75%.

Essa consentirebbe di ottenere l’effetto di abbassare l’"aliquota implicita" di indifferenza, rilevante per stabilire se si ha peggioramento della fiscalità sul costo del lavoro rispetto al regime pregresso. Al tempo stesso, consentirebbe di ribilanciare il beneficio particolare di cui le imprese altamente capitalizzate hanno goduto attraverso la soppressione dell’imposta patrimoniale. Con tutta probabilità, l’effetto coinciderebbe con un ribilanciamento della tassazione tra piccole e grandi imprese.

Questa strada, che ebbe approfondita discussione in Commissione in sede di varo del primo parere sull’Irap e che oggi viene riproposta da una autorevole istituzione, ha l’inconveniente principale di dare alle imprese un segnale contraddittorio. Da un lato, la legislazione fiscale societaria le stimola alla capitalizzazione e alla patrimonializzazione; dall’altro lato, la capitalizzazione, nella misura in cui si traduca in investimento e dia luogo ad aumento di ammortamenti, finisce per innalzare la tassazione d’impresa.

E’ vero che patrimonializzazione e investimento non sono la stessa cosa, è però anche vero che il dispositivo della Dit, a meno che non riguardi il decremento dei debiti, rileva di fatto solo per l’aumento delle immobilizzazioni tecniche (e, in più, nella recente "Visco" per gli investimenti il decremento dei debiti non rileva). Procedendo per questa via, gli effetti vanno attentamente ponderati. Per la parte degli ammortamenti che scaturiscono dallo stock di beni capitali esistenti, si penalizzerebbero le imprese che più hanno tenuto un comportamento prudenziale. Per la parte relativa al flusso dei nuovi beni capitali, verrebbero ad essere cancellati (per un investimento ammortizzabile in otto anni) metà dei benefici ordinari della Dit di cui godono le società di capitali (e di più se l’investimento è ammortizzabile in meno anni).

L’effetto netto va tuttavia pesato con l’abbassamento dell’aliquota Irap. L’effetto combinato sarebbe tranquillizzante se potessimo ignorare che i contribuenti non vedono la contestualità dei provvedimenti, ma attuano comportamenti di risposta in relazione a singoli aspetti degli stessi, percepiti come indipendenti. L’aliquota Irap verrebbe percepita come un dato di fatto e nei calcoli di convenienza degli investimenti vedrebbero contrappesati gli effetti Dit e Irap. Si potrebbe sempre pensare a correggere questi inconvenienti laterali potenziando la Dit. Ma la correzione, primo, dovrebbe essere sostanziale per ripristinare l’effetto originario (di per sé già debole inizialmente) e, secondo, produrrebbe una circolarità di interventi. Il segnale potrebbe rimanere comunque contraddittorio.

C’è una considerazione a più lunga gittata che interferisce con la materia. Se l’aspirazione è sia di arrivare ad una unificazione della base imponibile delle varie imposte raccolte sulle società, sia di incentivare l’attività di investimento, il passaggio non potrebbe essere che una contabilità su base di cassa, con inclusione degli investimenti nei costi ed esclusione, invece, degli ammortamenti dalle componenti passive. E’ vero che questi sviluppi sono lontani, forse lontanissimi, richiedendo anche una revisione di convenzioni contabili adottate internazionalmente, ma è opportuno che comunque non siano persi di vista.

Da ultimo, la Commissione non può non segnalare il parere avverso che hanno con una certa uniformità espresso le associazioni imprenditoriali, in tutte la loro articolazioni, a una simile prospettiva. Per esse, i risvolti negativi citati in precedenza sopravanzano quelli positivi.

7. La clausola di salvaguardia

7.1. La Commissione non individua altre vie perseguibili di intervento sulla struttura dell’imposta e rileva che nessuna di quelle esaminate è soddisfacente e priva di pesanti inconvenienti.

Questo non vuol dire che le consideri precluse, o che ne sconsigli l’adozione, pur con accorgimenti opportuni. Ma, allo stato della fantasia che è in grado di esercitare, non può non constatare che il meccanismo attuale, per assenza di sicure alternative più che per sua "perfezione", è quasi immodificabile senza provocare seri inconvenienti da qualche parte.

Forse si può tentare di esplorare le combinazioni che possono aversi incrociando i vari interventi esaminati, al fine di attenuare le conseguenze negative di ciascuno e di colpire i due obiettivi contemporaneamente, di ribilanciamento del carico a favore di piccole imprese e di alleggerimento del carico sul costo del lavoro. Certamente, i procedimenti di revisione dell’Irap esaminati non si escludono mutualmente, ma il loro incrocio dà luogo ad effetti parziali (che potrebbero pasticciare più che semplificare l’Irap).

A puro titolo di esempio la modificazione della base imponibile relativa al costo del lavoro (caso 6.4.) potrebbe essere accoppiata ad una progressività (caso 6.3.) ancorata su una doppia aliquota che sgravi i primi 200 mila miliardi di reddito imponibile. L’aliquota massima si porrebbe intorno al 5,1%, con una prima aliquota intorno al 4,4%. Favorite sono piccole imprese e imprese che offrono occupazione, ma chi non è ne l’una ne l’altra subirebbe un apprezzabile aggravio di imposizione rispetto al regime attuale.

La Commissione è consapevole che la non ovvietà di alcuno degli interventi esaminati, e quindi il carattere non definitivo della sua pronuncia, possono portare il Governo a valutare più i costi che i benefici di un ritocco sostanziale del regime Irap. La Commissione è nell’obbligo, di fronte a effetti di ritorno non trascurabili di ogni aggiustamento, di lasciare discrezionalità al Governo.

7.2. Il mantenimento del regime Irap nella sua struttura attuale imporrebbe in linea di principio, oltre all’intervento sugli aspetti applicativi (di cui parleremo più avanti), che il Governo esplori la possibilità che sia riesumata una clausola di salvaguardia significativa, forse estesa in avanti di un altro anno.

La Commissione è consapevole che anche in questo campo è problematico dare qualsiasi suggerimento perché il raffronto andrebbe fatto con una tassazione che non esiste più ormai da due esercizi e che è sempre più lontana man mano che ci si allontana nel tempo. Situazioni e politiche di bilancio hanno subito un’evoluzione. L’entrata morbida in esercizio dell’Irap è, tuttavia, un obiettivo sempre valido.

Potrebbe essere perseguito, invece che attraverso un qualche indice di raffronto con la vecchia tassazione, prendendo a base la nuova, e inserendovi qualche limitazione rapportata a parametri di bilancio. Potrebbe anche essere esplorata la possibilità di agganciare la clausola di salvaguardia alla total liability del conto fiscale di una impresa.

7.3. Non convince e non è raccomandato, però, dalla Commissione il suggerimento che ci proviene da più parti: di limitare l’Irap al risultato netto che emerge in bilancio in sede fiscale o civilistica. La ragione è nel fatto che – rapportandoci alla tassazione pre-esistente – si codificherebbe per le imprese in perdita di esercizio l’esenzione dai contributi sanitari (e, nella nuova legislazione, l’esenzione dal loro "equivalente implicito" incorporato nell’Irap). Rispetto alla legislazione precedente, le imprese in perdita di esercizio trovano un regime più favorevole nella possibilità di compensazione dei crediti d’imposta sull’Irap che scaturisce dalle altre componenti, là dove in passato tale compensazione non era ammessa, tanto per i contributi sanitari quanto per la tassa patrimoniale e altre imposte abolite.

Il rischio, poi, di scatenare comportamenti elusivi sarebbe elevatissimo, mentre uno dei meriti dell’Irap è avere contrastato l’elusione.

7.4. La Commissione non nasconde la difficoltà di rapporto della clausola di salvaguardia con altri parametri di bilancio. Se l’obiettivo non è sfuggito totalmente, comportando ormai difficoltà tecniche insormontabili, un formula "di salvataggio" è un buon surrogato di ognuno degli interventi adombrati nel § 6.

 

8. Definizione e base imponibile dell’imposta

8.1. La Commissione non deve spendere molte parole per attirare l’attenzione sul fatto che con l’introduzione dell’Irap le imprese siano state costrette a redigere un terzo bilancio. Forse è da sottolineare che, prima ancora dei problemi distributivi o di altre proprietà segnalate dalle associazioni dei contribuenti, la questione posta in prima evidenza (e con più forza e unanime recriminazione), riguarda la necessità per le imprese di scritture contabili finalizzate al cosiddetto "terzo binario".

Per capire la portata delle innovazioni possibili volte ad eliminare il "terzo binario" è forse bene partire da un inquadramento stesso dell’imposta.

8.2. A giudizio della Commissione, è necessaria una definizione inequivocabile dell’imposta, tale da non generare equivoci e consentire di far discendere in forma deduttiva le proprietà e le varie scelte in materia di imponibile fiscale.

Secondo la Commissione, è stato fonte di equivoci che nella letteratura e negli studi preparatori si sia fatto riferimento alla "produzione netta" come materia imponibile, senza specificarne l’eccezione. Poco si giustifica con la "produzione netta" misurata a livello microeconomico la stessa inclusione del costo del lavoro e una serie di altri aspetti dell’imposta. Meglio un riferimento al valore aggiunto. Una definizione possibile dell’Irap è di: "imposta applicata ai redditi che scaturiscono dalla produzione all’atto della loro formazione (e quindi prima del loro utilizzo)". Quindi è giusto rimanere ancorati al valore aggiunto, che rimane una buona base imponibile, ma occorrerebbe poi studiare se il riferimento ad esso non possa essere tradotto fiscalmente in qualche metodo forfettario che assimili i redditi che lo compongono a quelli che il fisco considera tali; quindi, i dati fiscalmente rilevanti delle varie poste di bilancio. La Commissione ritiene proficuo anche che si esplori se sussistono i termini economici e giuridici che consentano di compiere un passo più estremo: di considerare l’Irap come un’addizionale sui redditi prodotti in loco, applicata (a regime) dagli enti decentrati.

In tal caso, l’identificazione con le poste di bilancio sarebbe pressoché completa e l’Irap verrebbe escussa sulle imprese in quanto esse agiscano (per le poste che non riguardano il profitto) come sostituti d’imposta. La Commissione invita il Governo a compiere tale esplorazione.

Convince poco la Commissione considerare l’Irap anche come tassa di scopo; come il costo, cioè, dei servizi che impresa, lavoratori e mondo finanziario ottengono dalla collettività locale al fine sia di costituire l’ambiente favorevole all’attività produttiva sia di godere delle economie esterne. Non convince, perché per quanto risponda ad una controprestazione e a un beneficio, è difficile individuare senza genericità quali siano i servizi ai soci e ai lavoratori dell’impresa cui sia destinato il gettito dell’imposta e perché se la tassa fosse considerata un costo di quei servizi non potrebbe non essere deducibile dal reddito.

8.3. Va da sé che la tassazione del risultato di esercizio degli enti finanziari in forma di margine complessivo di intermediazione (che comprende tra le componenti attive anche gli interessi riscossi dal settore produttivo) è una duplicazione. Meglio la strada della doppia imposizione che un’impossibile distinzione dell’utile di esercizio che deriva al settore finanziario dai rapporti con la clientela, imprese e settore professionale, dall’utile che deriva da altre fonti, tipi di rapporti e attività intrattenuti, dal settore stesso.

L’imposta non prevede facoltà di rivalsa ma neppure la esclude, fermo restando che tale facoltà può entrare nei rapporti liberi contrattuali o può essere determinata, al di là dei rapporti contrattuali, dal mercato (il quale fisserà i costi di retribuzione della forza lavoro e dei collaboratori in relazione all’esistenza della tassazione Irap). Anche per la componente interessi, la traslazione può avvenire via mercato, perché l’Irap, se determina (con la Dit) reazioni comportamentali circa il finanziamento delle imprese, induce poi una maggiore concorrenza sugli impieghi del settore finanziario.

8.4. Altre vie percorribili per semplificare l’imposta sono indicate più avanti (§ 8.7 e 8.8). Se è consentita una approssimazione dei redditi che compongono il valore aggiunto con le poste di bilancio, l’Irap potrebbe essere determinata con un metodo di addizione delle varie voci (perlomeno in via opzionale). La forfettizzazione implica che dovrebbero rilevare ai fini dell’imposta tutte le componenti che determinano il risultato di esercizio di un’impresa, incluse le componenti finanziarie e i guadagni in conto capitale e non rilevare tutto ciò che per il fisco non è reddito (o ha aliquota zero). Un problema contabile può allora derivare da quelle operazioni straordinarie che rientrano nelle fattispecie ammesse a tassazione sostitutiva nel provvedimento riguardante le ristrutturazioni aziendali. La Commissione chiede al Governo di valutare se, invece di tassare separatamente plusvalenze in questione non convenga tassarle in via ordinaria, riconoscendo la loro rilevanza ai fini Irpeg solo per una percentuale pari al rapporto tra il 27% e il 37%, ferma restando la possibilità per l’impresa di continuare ad iscrivere a bilancio la plusvalenza rilevante ai fini fiscali in rate quinquennali senza interessi. In sostanza, nulla cambierebbe rispetto a ciò che viene previsto e nulla cambierebbe per l’impresa se non la forma di tassazione, non l’entità della stessa. Nel caso in cui si dovesse coordinare l’aliquota (in questo caso, implicita) del 27% con un’aliquota diversa, ad esempio un’aliquota unica su tutti i proventi finanziari, ciò comporterebbe semplicemente una revisione della percentuale di plusvalenza rilevante ai fini Irpeg. Se l’aliquota unica è x%, la rilevanza delle plusvalenze è x/37%.

Per le società di persone, va da sé che il reddito da considerare ai fini Irap è quello rilevante ai fini degli studi di settore.

8.5. La componente costo del lavoro verrebbe in questa impostazione ad essere una componente puramente additiva dell’utile di esercizio e altrettanto varrebbe per la componente interessi passivi.

Una strada di intervento sulla struttura dell’Irap quale quella indicata nel § 6.4 porterebbe ad addizionare solo la retribuzione effettivamente corrisposta ai lavoratori (più il TFR) e ad alzare l’aliquota Irap. In tutti gli altri casi, rimarrebbe la voce relativa alle retribuzioni lorde.

Le collaborazioni coordinate e continuative in qualsiasi circostanza dovrebbero continuare ad essere registrate come una voce separata dei costi, anche nell’ipotesi sotto esame.

Se le semplificazioni sono percorribili e non fanno violenza, anche giuridica all’Irap, potrebbero portare a variazioni di gettito, a causa della modifica della base imponibile. Difficile dire a priori in quale direzione. La Commissione ritiene, tuttavia, che si potrebbe ovviare a eventuali perdite di gettito con ritocchi che difficilmente dovrebbero superare il secondo decimale dell’aliquota dell’imposta. Nel caso in cui nei profitti ai fini Irap finissero per essere incluse anche le componenti finanziarie dell’utile di esercizio (lo sono ora solo per imprese finanziarie e assicurative) è probabile che la base imponibile venga allargata e il gettito si incrementi.

8.6. La Commissione ritiene che, a meno di ulteriori semplificazioni che eliminino del tutto il terzo binario partendo dalle procedure contabili già impostate, sia più semplice arrivare alla determinazione di natura "addittiva" e non "sottrattiva" della base imponibile.

Si potrebbe allora esplorare la via di salvare comunque alcune delle peculiarità dell’Irap-imposta-sulla-produzione-netta formando la base imponibile attraverso una somma di voci rappresentative degli utili (reddito d’impresa), interessi e costi del lavoro.

Si potrebbe sommare:

  1. la base imponibile Irpeg-Irpef;
  2. i costi per il personale, voce B9 del conto economico (mantenendo le previste eccezioni riferite ai contributi per le assicurazioni sul lavoro, ai contratti di formazione ed apprendistato, tranne nel caso in cui queste politiche di incentivazione del lavoro giovanile non vengano realizzate con altri strumenti fuori dall'Irap, come proposto nel § 8.5);
  3. le rettifiche di valore delle attività finanziarie, voce D del conto economico;
  4. i proventi e gli oneri straordinari, voce E del conto economico.

A questo totale andrebbero, poi, aggiunte anche le riprese di componenti di costo previste specificamente ai fini Irap (costi per personale distaccato; collaborazioni coordinate e continuative; prestazioni di lavoro occasionale).

Per determinare la base imponibile Irap con queste nuove modalità sono necessari alcuni interventi normativi per uniformare la base Irap con quella Irpeg-Irpef. Per uniformare le due basi imponibili occorre intervenire su costi e ricavi che hanno trattamenti diversi nella due imposte. Essi sono:

Ricavi non imponibili ai fini delle imposte sui redditi (Irpeg-Irpef) ed imponibili Irap:

  1. corrispettivi non annotati ai fini del ravvedimento operoso (occorrerebbe eliminare questa ripresa ai fini Irap, eventualmente da sostituire con una soprattassa sul ravvedimento);
  2. proventi di cui all'articolo 58 del Tuir: cespiti che fruiscono di esenzione d'imposta; soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta o di sostitutiva, etc. (sono rilevanti ai fini Irap e non Irpeg-Irap).

Ricavi imponibili Irpeg-Irpef e non imponibili Irap:

  1. la rendita catastale degli immobili non strumentali non affittati partecipa alla formazione della base imponibile Irpeg e non a quella Irap;
  2. l'autoconsumo da parte dell'imprenditore o l'assegnazione ai soci di beni prodotti o commercializzati dall'impresa non è rilevante ai fini Irap, mentre il loro valore normale concorre alla base imponibile delle imposte sui redditi;
  3. il trattamento del personale distaccato rimarrebbe diverso perché deriva dalla diversa natura dei due tributi.

Costi deducibili ai fini Irpeg-Irpef e indeducibili ai fini Irap:

  1. le indennità chilometriche e le indennità di trasferta sono indeducibili ai fini Irap e deducibili ai fini delle imposte sui redditi. Per semplificare occorrerebbe prevedere la deducibilità Irap delle sole indennità chilometriche che, essendo classificate fra i servizi richiedono una specifica ripresa fiscale; invece le indennità di trasferta, essendo fra i costi del lavoro (B9), sono indeducibili;
  2. la indeducibilità Irap degli interessi finanziari dei canoni di leasing andrebbe eliminata e si potrebbe prevedere la totale imponibilità del canone per le società di leasing;
  3. la indeducibilità delle perdite su crediti andrebbe rivista, quantomeno con riferimento a quelli di natura commerciale;
  4. gli ammortamenti effettuati dall'usufruttuario e dall'affittuario sono indeducibili ai fini Irap , mentre sono deducibili ai fini delle imposte sui redditi: occorrerebbe renderli per entrambe le imposte deducibili.

8.7. Fermo restando le procedure contabili attuali, la Commissione ritiene che si dovrebbero comunque eliminare o ridurre tutte le differenze fra la normativa ai fini delle imposte sui redditi e quella ai fini Irap.

Nella determinazione della base imponibile Irap con metodi ordinari si raccomanda che siano almeno risolti i seguenti aspetti problematici:

a) lo sconto cosiddetto "finanziario" (riduzione, rispetto al prezzo di fattura, in relazione ai termini di pagamento). Oggi non viene considerato in sottrazione ai fini della determinazione della base imponibile, perché non ha natura di sconto commerciale. Le convenzioni commerciali in relazione alle quali questo sconto viene applicato (il committente estero si appropria automaticamente dello sconto massimo anche quando procrastina al limite i tempi di pagamento) fa sì che ci troviamo di fronte a reddito non realizzato, o realizzato solo convenzionalmente, ma che viene comunque assoggettato ad Irap. Nei distretti la questione è molto sentita.

b) Le perdite sui crediti. Anche qui siamo di fronte ad un ricavo che nel passato è entrato a far parte di componenti positive della tassazione, ma che non si è materializzato e si è rivelato inaspettatamente non essere tale. La mancata sottrazione dalla base imponibile Irap lo assoggetta in tal modo a tassazione, ma, almeno per l’attività tipica, occorrerebbe valutare di escluderlo.

c) La tassazione dei contributi, recentemente introdotta, con l’ultimo decreto correttivo non dovrebbe riguardare anche quelli relativi a calamità naturali.

Le correzioni che il Governo valuti opportune non devono comunque portare a perdite di gettito e devono in ogni caso trovare corrispondenti compensazioni (si suppone: nel secondo decimale dell’aliquota).

9. Aliquota e regimi speciali, aspetti amministrativi

9.1. Se si seguisse un metodo forfetario di determinazione della base imponibile che porti ad una coincidenza molto ampia con le poste e i risultati di bilancio, la speciale determinazione della base imponibile degli intermediari finanziari non avrebbe ragione d’essere.

Mancherebbe in questo caso, per la natura stessa di queste imprese, la componente degli interessi passivi. L’impossibilità che comunque permane di omologare totalmente il settore finanziario agli altri settori impone che se ne tenga conto attraverso un’aliquota differenziata; un’aliquota che dovrebbe essere più elevata di quella standard anche a regime.

Le attività assicurative rientrerebbero, invece, pienamente nello schema generale di determinazione della base imponibile.

Permanendo, invece, l’attuale architettura dell’Irap, la Commissione si è chiesta se sia opportuno rivedere il percorso di regressione dell’attuale aliquota per i settori finanziario e assicurativo verso l’aliquota standard. La ragione è nel vantaggio superiore alle aspettative che i settori finanziario e assicurativo hanno tratto dall’introduzione dell’Irap. La Commissione invita il Governo a valutare i dati consuntivi con attenzione e, nel caso sia confermato questo esito, ritardare il percorso di regressione dell’aliquota, mantenendo ancora quella attuale.

La Commissione non è comunque favorevole all’innalzamento dell’aliquota specifica, richiesta in sede di dibattito politico. Innanzitutto, perché, allo stato di consolidamento dell’imposta, qualsiasi ritocco dell’aliquota andrebbe giustificato con altre operazioni interne mirate a specifici obiettivi; il ritocco specificamente diretto al recupero di gettito verso un solo settore apparirebbe discriminatorio. In secondo luogo, guadagni e perdite vanno commisurati al contributo precedente dato dai vari settori al bilancio pubblico e in questo caso si tratta di un settore a cui era imputabile per 1/3 il gettito Irpeg. In terzo luogo, in questo settore appaiono anche imprese con un saldo negativo d’imposta, che verrebbero ad essere colpite particolarmente. In quarto luogo, qualsiasi direzione si prenda per una revisione strutturale dell’imposta, i settori in questione sono destinati ad essere perdenti rispetto alla situazione attuale. Si deve tenere conto, inoltre, che il 1998 è in qualche modo eccezionale per il settore in termini di differenziale di interessi attivi e passivi, di capital gain, a livello di commissioni per servizi, da cui dipende una profittabilità superiore a quella attesa ed in un certo senso eccezionale. Essi hanno abbondantemente compensato un effetto probabilmente sfavorevole sul costo del lavoro dovuto al passaggio alla nuova tassazione. Tali differenziali si vanno riducendo rapidamente.

9.2. Quale che sia la definizione adottata per l’Irap e la derivazione della base imponibile che ne scaturisce come metodo standard, la base imponibile specifica per l’agricoltura non può avere determinazione diversa da quella attuale. Certo, occorrerebbe accelerare l’esercizio della delega (18/2/99) che porterebbe ad una modifica del sistema di tassazione dei redditi agricoli sulla base di una sorta di "studi di settore".

Fino ad allora si potrebbe procedere: o prevedendo una maggiore analiticità a partire dalla determinazione della base Irap con riferimento alle scritture contabili Iva, o, come la Commissione raccomanderebbe, forfettizzando il tutto attraverso un’aliquota speciale. Nel primo caso, occorrerebbe tener conto che quella base imponibile non consente una adeguata rilevazione delle componenti positive e negative (per esempio gli acquisti di fondi rustici non soggetti a fatturazione, gli acquisti di beni e servizi in periodi d’imposta in cui non si verificano operazioni attive, gli acquisti e vendite di beni strumentali che alterano la base Irap), e integrare in tal modo la contabilità Iva con ulteriori dati "fuori Iva". Nel secondo caso, quello di fatto perseguito, occorre indagare se il percorso di regressione verso l’aliquota normale non ponga sul settore un eccessivo aggravio d’imposta.

Non viene posto in dubbio dalla Commissione che il settore deve portarsi ad una fiscalità non dissimile da quella degli altri settori, non potendo porre a carico di questi ultimi la propria diversità. Tuttavia, la gradualità è necessaria. Inoltre, il maggior gettito che proviene attraverso l’Irap dal settore agricolo non è complessivamente elevato, ma si riferisce ad una imposta che per tutti gli altri settori ha dato in modo aggregato risparmi elevati. Anche qui si tratta di valutare bene i dati a consuntivo. La Commissione non è contraria, se ne risulta la necessità, che il Governo ritardi il cammino dell’imposta verso l’aliquota standard..

Il settore è stato, in particolare, colpito dal fatto che la "clausola di salvaguardia" non sia stata particolarmente significativa. Tuttavia, proprio i dati del settore fanno ritenere che se tale clausola fosse posta in termini di limitazione percentuale di aggravio d’imposta rispetto ai tributi aboliti porterebbe a risultati fuorvianti. In molte situazioni (ma non nella totalità) il settore oggi vede moltiplicarsi di multipli di 2, 3, volte e oltre il carico precedente senza giungere ad aggravi tali da implicare un vero e proprio salto di tassazione.

Al di là del salto d’imposta, una obiezione rilevante avanzata dal settore è la diversità di trattamento per attività puramente agricole e attività di trasformazione strettamente connesse e la mancata inclusione delle attività forestali all’interno delle attività agricole.

9.3. Per ciò che riguarda il settore cooperativo, l’Irap e la Dit lo avvicinano ormai alla fiscalità generale. Nell’ambito di una forfettizzazione della base imponibile, la peculiarità riconosciuta agli utili non distribuiti potrebbe essere recuperata. Tale peculiarità deriva al settore dal dettato costituzionale, dall’indisponibilità ai soci del patrimonio accumulato, dalla "missione" del settore verso il mantenimento e sviluppo dell’occupazione. Tuttavia, l’Irap, è un imposta sul valore aggiunto che, in assenza di approssimazioni ai dati di bilancio, escluderebbe interventi specifici. L’Irap è anche un imposta regionale; sarà prerogativa delle Regioni attuare le differenziazioni di aliquote che verranno ritenute opportune.

9.4. Come detto, la Commissione intende esaminare gli aspetti connessi al federalismo fiscale per un solo aspetto amministrativo, che preoccupa non senza ragione il mondo delle imprese.

Dal primo gennaio 2000, le Regioni potranno regolamentare le procedure applicative dell’imposta nel rispetto di alcuni limiti previsti dalle norme istitutive. In questo modo ogni Regione, se vorrà, potrà disciplinare tutta la fase procedurale che comincia dalla presentazione della dichiarazione fino al contenzioso, eventualmente prevedendo specifici organi di controllo.

Questa possibilità di autonomia suscita preoccupazione soprattutto con riferimento all’accertamento dei soggetti che svolgono l’attività in diverse Regioni. Infatti, una volta determinata l’imposta complessiva dovuta, i singoli contribuenti dovranno effettuare la ripartizione regionale in base a criteri stabiliti dal decreto (per le imprese, ad esempio, con riferimento alla "forza lavoro" utilizzata in quella sede per un periodo superiore a tre mesi). In base alla ripartizione, ogni Regione avrà la sua quota diretta di Irap.

Questa modalità di attribuzione dell’imposta, connessa alla possibilità per ogni Regione di effettuare in proprio gli accertamenti, potrebbe portare ad un ingente mole di contenzioso con il contribuente costretto a difendersi da più soggetti. In primo luogo, ogni Regione potrebbe essere interessata ad accertare l’importo complessivo dell’imposta dovuta; quindi, interessata a controllare la ripartizione dell’imposta sulle diverse sedi di svolgimento dell’attività, entrando anche in conflitto con le altre Regioni. Si rischia, così, di creare un contenzioso fra Regioni e contribuenti, fra Regioni e Regioni e, inoltre, con lo Stato centrale. Infatti, a quest’ultimo è prevista la possibilità di demandare, con apposita convenzione, tale attività da parte delle Regioni che non intendono svolgere queste funzioni in proprio.

A questo si aggiunga che gli uffici dell’amministrazione finanziaria e la Guardia di finanza cooperano per l’acquisizione ed il reperimento di elementi utili per l’accertamento dell’imposta e la repressione, anche di propria iniziativa, secondo le norme stabilite dalle singole leggi regionali.

Per evitare che le fasi di accertamento dell’imposta diventino per il contribuente e per le diverse amministrazioni interessate un contenzioso inutile e defatigante, il previsto accertamento in convenzione con l’Agenzia fiscale va implementato al più presto per consentire che un unico soggetto "centrale", eventualmente con la partecipazione diretta dei soggetti interessati, preveda a tali attività.

Anche per le modalità di ripartizione dell’imposta fra le Regioni, si potrebbe evitare che sia il contribuente a svolgere questa attività e demandarla, invece, in sede centrale, utilizzando le informazioni già in possesso dell’amministrazione, o prevedendo alcune necessarie integrazioni. Ad esempio, per le imprese si potrebbero utilizzare i dati, eventualmente opportunamente integrati, in possesso dell’Inps per effettuare in sede centrale, senza coinvolgere il contribuente, la ripartizione fra le Regioni interessate dell’imposta Irap dovuta.

 

10. Istanze specifiche

Nel corso dell'indagine la Commissione ha ricevuto istanze che riguardano particolari categorie di soggetti o problemi specifici. Queste vengono segnalate al Governo per una loro valutazione, senza che ciò significhi una pronuncia della Commissione sulla loro meritorietà. La funzione è puramente notarile.

Le rappresentanze del mondo delle cooperative hanno chiesto, così come già previsto per la imposta patrimoniale, di introdurre la possibilità di imputare l'Irap alle riserve preesistenti, in modo da non avere l'effetto di indeducibilità dell'imposta dalla base Irpeg; ed anche, considerato che nella disciplina Ilor era prevista l'esenzione per gli interessi corrisposti ai soci, di riprendere questo beneficio, consentendo la deducibilità dalla base Irap degli stessi interessi.

Le cooperative edilizie a proprietà divisa calcolano la base Irap come quelle a proprietà indivisa, cioè come gli enti non commerciali, soltanto "fino al frazionamento del mutuo". Nella pratica risulta di difficile applicazione tale distinzione ed inoltre il frazionamento del mutuo. Viene richiesto di eliminare l'inciso fino al frazionamento del mutuo in modo da trattare in modo analogo le cooperative edilizie.

Per le cooperative sociali e di produzione e lavoro la determinazione della base imponibile è effettuata con riferimento ai salari "convenzionali", con una percentuale che progressivamente porta al salario reale. Esse richiedono di rendere più lento il passaggio dal regime transitorio a quello definitivo, dato il particolare aggravio di imposta che hanno subito.

Alcuni esperti di Enti locali hanno rilevato che il calcolo della base Irap per le attività commerciali degli stessi Enti, che prevede la scelta fra il metodo "retributivo" ed il metodo della produzione netta, è alquanto complicata con riferimento soprattutto alla attribuzione dei servizi promiscui. Per ovviare a tali inconvenienti e per semplificare il calcolo dell'imposta, propongono un metodo forfetario di determinazione basato sulla differenza fra il volume d'affari delle attività rilevanti ai fini Iva e l'imponibile Iva dei relativi acquisti.

Infine, il settore bancario segnala l’esigenza di introdurre la deducibilità degli accantonamenti per rischi su crediti per interessi moratori, così come già previsto per le rettifiche di valore su crediti alla clientela (le c.d. "svalutazioni"), in linea con le modalità di determinazione del reddito d'imponibile e con le stesse limitazioni, e, per gli accantonamenti per altri crediti derivanti da operazioni di finanziamento alla clientela, di fare riferimento alle regole già previste ai fini delle imposte sui redditi (deducibilità limitata entro il limite dello 0,50% del valore dei crediti risultanti in bilancio per la parte non utilizzata a titolo di svalutazione dei crediti stessi).

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