Commissione Parlamentare Consultiva
in materia di riforma fiscale

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TASSAZIONE E SVILUPPO ECONOMICO(1)

1. Introduzione

Il compito che mi sono dato e' di estrarre dal quadro della riforma fiscale e dei problemi che essa affronta quegli aspetti che si inseriscono nella tematica su "fisco e sviluppo".

Innanzitutto, vorrei affrontare il punto dell'efficienza complessiva del sistema impositivo, valutato in relazione all’impatto sull’economia. Una valutazione che non attiene tanto al livello del prelievo fiscale, quanto alla sua composizione e agli effetti che la struttura delle imposte provoca in termini di comportamenti, di reazioni, di sollecitazione delle imprese verso l'efficienza microeconomica, nonché di stimolo allo sviluppo.

Poi, vorrei affrontare sotto lo stesso profilo il tema della tassazione del risparmio e della intermediazione finanziaria.

Da e riprendere, d ultimo, una riprenderò la tematica di carattere macroeconomico, dibattuta in questo Convegno e riferita alle strategie, legandola, tuttavia, ai temi affrontati nei due capitoli che precedono.

2. Riforma e imprese

Primo tema, "l'efficienza" della tassazione. E' un concetto, come già affermato, distinto dal "livello" della tassazione; il che impone di esaminare gli effetti della tassazione in relazione alle potenzialità di sviluppo a prescindere dal livello. A parità di pressione fiscale complessiva, un sistema di tassazione e’ più o meno efficiente a seconda che, con i suoi pesi, incorpori maggiori o minori sollecitazioni alla crescita economica e all’incremento di produttività e occupazione; esso sotto quest’ottica sono in causa reazioni esclusivamente microeconomiche e concetti dinamici di economia del benessere.

Sotto questo profilo, l’intera riforma fiscale introdotta in questa legislatura e’ stata guidata dall’intento di far compiere un salto di efficienza al nostro sistema produttivo. Il disegno di questa riforma e’ stato, d’altra parte, concepito a prescindere dal problema del gettito, che e’ un problema da affrontare separatamente e con altri canoni interpretativi, perché quel problema e’ riferito all’entità di spesa collettiva che una comunità desidera finanziare. La mescolanza dei due livelli di analisi e l'utilizzo di un unico canone interpretativo per interpretare la riforma ("la pressione fiscale") ha generato perniciose confusioni. Di ciò e' complice in parte la stessa complessità tecnica della riforma e, in parte, la disinformazione, giustificata solo parzialmente dal fatto che la riforma è passata fuori dall’Aula del Parlamento, con 17 deleghe che hanno avuto attuazione in solo sette mesi. Di questa confusione sono complici gli economisti, per i quali e' sempre molto più semplice trattare gli argomenti riferendosi all'aggregato T (= entrate fiscali); e' complice l'opposizione, per la quale è più semplice agitare temi utili alla propaganda; hanno responsabilità gli informatori professionali, che trovano più agevole riferirsi a ciò che captano nell'aria dagli uni e dagli altri.

La riforma partiva da un compito di mostruosa difficoltà quale quello di ricondurre le disposizioni vigenti a principi universalistici, rimuovendo quell’insieme di particolarismi, di eccezioni sovrastanti le regole, di disposizioni ad hoc, che si erano andate sovrapponendo disordinatamente nel corso del tempo, dettate dalla debolezza del parlamento rispetto alle lobbies più che da criteri discernibili. Non diversamente dal nostro sistema di welfare e previdenziale, il sistema fiscale era stato costruito in modo compartimentalizzato per categorie e gruppi, in un orizzonte di scambio politico.

A mò di orientamento, invito ad esaminare attentamente la Tabella 1 per capire quale giungla vi fosse dietro la fiscalizzazione degli oneri sociali e di altri contributi sanitari minori: fiscalizzazione integrale per alcuni settori, parziale a vari gradi per altri, zero per altri ancora. Non so quali inconvenienti presenti l'Irap, ma certo ha il pregio di aver fatto tabula rasa di questa giungla. Ma, quello qui evidenziato e' solo un esempio che si riproduce a 180° in tutti i campi del fisco. Si può fare riferimento ad un intero campionario: indennità tassate parzialmente ai fini Irpef o non tassate affatto; altre (o le stesse) escluse ai fini della determinazione della base imponibile previdenziale (pur incidendo sull’entità della pensione); disposizioni di assoggettamento o esenzione a determinate imposte in relazione a limiti arbitrari (valga per tutte la discriminante dei tre dipendenti per l’Ilor); l’Iva pagata forfettariamente da tutta l’agricoltura; una miriade di altre disposizioni particolari in merito all’Iva, e chi più ne ha più ne metta, senza dimenticare il labirinto che esisteva nella tassazione del risparmio e della previdenza collettiva, individuale e mutualistica.

Mirata a uniformare e a correggere quella corruzione mentale che si crea quando ciascun contribuente si sente impegnato a costruirsi il proprio fisco, l’opera di razionalizzazione e pulizia non avrebbe certo potuto esser neutra da punto di vista del gettito, (da cui l’attenzione a "la pressione fiscale").

Mirata a costruire le tutele per il contribuente, non e’ stata neutra neppure l’opera di semplificazione, ammodernamento e informatizzazione (che ha costituito la seconda direttrice della riforma). La revisione del sistema di accertamento (con contraddittorio e eventuale adesione del contribuente) e quella abbinata del sistema sanzionatorio (che prevede uno sconto sostanziale di sanzioni nel caso di adesione), iscritte in questa direttrice, tendono a impedire il formarsi del contenzioso e a smaltire il pregresso (3,5 milioni di ricorsi), producendo di conseguenza gettito aggiuntivo. La stessa informatizzazione e unificazione delle dichiarazioni e scadenze induce maggiore fedeltà fiscale, dal momento che balzerebbero immediatamente in evidenza dichiarazioni a fini Irpef, Inps, Inail, Irap, Iva incoerenti tra loro. Maggiore fedeltà consegue anche dalla personalizzazione della responsabilità in capo agli amministratori delle società e dalla costituzione di banche dati..

La terza direttrice ha mirato a redistribuire il gettito aggiuntivo reperito in quest’opera di pulizia del sistema reindirizzando il carico impositivo dalle zone franche a vantaggio pressoché integrale delle imprese: una redistribuzione sui generis diversa da quella tradizionale che si stabilisce attraverso il sistema progressivo. Non si tratta (o non si tratta solo) di una detassazione sic et simpliciter, ma di un premio da conseguire, messo a disposizione da una revisione a tutto tondo della tassazione societaria, orientata a sollecitare le imprese verso una migliore prestazione microeconomica, non solo attraverso sgravi fiscali premiali, ma anche attraverso il ristabilimento di una neutralità del fisco nei confronti delle scelte finanziarie e degli assetti giuridico- organizzativi delle imprese, nonché facilitando le stesse nel passaggio da società semplici a società più complesse o nei processi di riorganizzazione aziendale (scissioni, fusioni, conferimenti, cessioni, ecc.).

3. Gli effetti sulle impresedi provvedimenti specifici

L’Irap, che molto ha contribuito alla razionalizzazione del sistema, si risolverà in una detassazione aggregata tra i 3 e i 5.000 miliardi. Si può obbiettare che questo e’ un risultato involontario, che deriva da uno sbaglio di aliquota, visto che il governo era delegato a sostituire, con questa nuova tassa, sette vecchie "a parità di gettito". Ma già dal primo apparire del decreto e’ apparso chiaro che questa parità non c’era; la Commissione bicamerale Riforma Fiscale ("dei Trenta"), che mi onoro di presiedere, aveva segnalato il fatto al Governo e lo aveva autorizzato a ritoccare eventualmente l’aliquota. Se il Governo non l’ha fatto è perché ha scelto deliberatamente di non farlo.

Basterebbe l'effetto detassazione a far giustizia di molte inesattezze che sono state dette a proposito degli effetti microeconomici e per il sistema produttivo dell'introduzione di questo nuova imposta. Si e' detto che penalizzava le piccole imprese rispetto le grandi, chi era indebitato per necessita' rispetto a chi lo era per scelte elusive, chi creava più occupazione rispetto a chi ne creava meno.

Nulla di tutto questo e' vero. Nella Commissione Riforma Fiscale abbiamo esercitato il più scrupoloso degli scrutinio (anche con l'aiuto delle categorie interessate) per verificare che non fossero individuabili a priori i soggetti destinati a pagare di più e di meno rispetto alle imposte soppresse; che non vi fosse, cioè, un'associazione stretta tra una classificazione delle imprese per tipologia o categoria e la loro collocazione in relazione agli effetti dell'imposta. L'inclusione nella base imponibile degli interessi passivi non e' tale, in periodi di imponente calo dei tassi di interesse (-8% in 2 anni), da comportare dei rischi neppure per le imprese più marginali (poiché l'effetto e' equivalente ad un aggravio di 1/3 di punto, e, per meccanismi di mercato, e' plausibile si trasli alla lunga tutto sui prestatori).

La riforma della tassazione delle imprese è, però, congegnata in modo tale da consentire alle imprese che subiscono aggravi fiscali a causa dell’Irap, soprattutto per la loro struttura di bilancio (perché, per esempio, sono altamente indebitate, o hanno bassa redditività o sono sottocapitalizzate), di essere anche le imprese che maggiormente possano sfruttare la Dual Income Tax e compensare gli effetti. Anche il provvedimento sulla Dual Income Tax comporterà dei sacrifici per il bilancio dello Stato e vantaggi per le imprese, in quanto riconosce una tassazione agevolata (del 19% anziché del 37%) a quella parte di profitti che corrisponde figurativamente al rendimento attribuito ai nuovi apporti di capitale (inclusi gli utili reinvestiti). Il rendimento figurativo è almeno equiparabile a quello dei titoli di stato e può essere fissato ad un livello superiore (fino a 3 punti in più) per tener conto del rischio d’impresa.

Non deve trarre in inganno il fatto che nella sua prima applicazione, per i bilanci relativi al 1997, il rendimento normale figurativo sia stato fissato a solo mezzo punto in più rispetto al rendimento medio nell’anno dei titoli di Stato a lungo termine, perché in tal caso si applica a decisioni di capitalizzazione già prese prima ancora dell’entrata in vigore della Dual Income Tax; in un certo senso, l’abbassamento della tassazione d’impresa che ne consegue rappresenta per le imprese che ne usufruiscono un guadagno insperato (un guadagno, che, non dimentichiamolo, rimarrà permanente).

E’ bene sottolineare che la Dual Income Tax non penalizza chi è indebitato ma semplicemente premia chi si patrimonializza (e si patrimonializza non soltanto per realizzare investimenti, ma anche per acquisire nuove partecipazioni e abbattere l’indebitamento). Il meccanismo è più potente di quello messo in piedi dalla legge Tremonti (che considero comunque una legge meritoria): a) perché non è condizionato né commisurato ad un incremento degli investimenti, difficile da realizzare con continuità, e (ciononostante); b) il beneficio è permanente; c) è contestuale ad un rafforzamento patrimoniale delle imprese (almeno per le società di capitale); d) è accoppiato con una riduzione dell’aliquota formale sui profitti (dal 53,2% al 37%, senza tener conto dell’abolizione della patrimoniale); e) non è rimangiato, in caso di distribuzione degli utili, dall’obbligatorietà della formazione di riserve compensative presso le imprese (meccanismo della maggiorazione di conguaglio); f) non si presta a comportamenti opportunistici.

Allorché il reddito d’impresa è tassato in sede Irpef (imprese individuali società di persone), la tassazione agevolata del 19% corrisponde esattamente a quello che si sarebbe pagato comunque nel primo scaglione di reddito. L’agevolazione emerge solo man mano che cresce il reddito attribuito figurativamente ai mezzi propri (con la crescita di questi ultimi) e una volta superato il reddito che corrisponde al primo scaglione. Si veda la Tabella 2, che fa alcuni esempi di risparmi d’imposta valutando i benefici in termini di flusso permanente attualizzato ai risparmi d’imposta. A poco a poco, cresce la distanza tra l’aliquota marginale (che virtualmente può arrivare al 46%) e il 19%, aliquota alla quale il reddito figurativo prodotto dall’investimento cumulativo (o dalle poste riconosciute ai fini Dit) rimane ancorato ai fini della tassazione in sede Irpef. La Tabella 2, riporta alcuni esempi di risparmi d’imposta, valutati come somma attualizzata del flusso permanente a beneficio dell’impresa. Qui vale la pena di ricordare che per le società di persone anche l’acquisto di beni strumentali (ancorché effettuato in sostituzione e non in aggiunta di quelli esistenti) rileva ai fini della Dual Income Tax, introducendo una nuova differenza di maggior favore per l’imprenditore rispetto alla vecchia legge di agevolazione Tremonti.

Ulteriore ampliamento rispetto alle disposizioni della legge Tremonti e' l'estensione delle agevolazioni previste dalla Dit alle società non tenute alla contabilità semplificata, ma scelta che si attenga ad essa per opzione.

Il meccanismo sarà ulteriormente potenziato con la Finanziaria in corso, in una duplice direzione: sia facendo valere il flusso di nuova capitalizzazione oltre il 100% del suo ammontare (cominciando, cosi' a includere le riserve già formate nel meccanismo), sia estendendo i principi su cui si fonda la tassazione delle società di capitali alle società di persone (con il duplice vantaggio di favorire per esse l'utilizzo della Dit e di indurre una cultura più specificamente di impresa).

Giova ricordare che mentre l'imposizione formale sui profitti si e' ridotta dal 56,5 (inclusa l'incidenza della patrimoniale) al 41,25% (inclusa l'incidenza dell'Irap), la riduzione aggiuntiva di tale imposizione attraverso la Dit non può portare il prelievo medio sui profitti sotto il livello 27%, che, tuttavia, si raggiunge nel tempo. Ma, per le società di nuova costituzione, per la quale il capitale è interamente costituito con nuovi apporti e di conseguenza il 27% di tassazione dei profitti opera da subito. Non è poco e probabilmente indurrà comportamenti consequenziali, rafforzati dal fatto che per le società di nuova costituzione il riporto annuo delle perdite è a tempo indefinito (come previsto dal provvedimento sulle ristrutturazioni aziendali).

Accanto a questi pilastri, una miriade di disposizioni intervengono nel settore societario, là dove i negozi giuridici di scissioni, fusioni, conferimenti, cessioni di aziende vedono il fisco ritirarsi in posizione di neutralità e consentire la continuità delle scritture contabili in sospensione d’imposta (o una moderata imposizione sostitutiva); là, ancora, dove la fiscalità del gruppo fa notevoli passi avanti, lasciando alle imprese, la facoltà di collocare fiscalmente le perdite di una unità del gruppo sulle altre unità, o di compattare comunque all’interno del gruppo debiti e crediti fiscali e utilizzare i disavanzi nel caso di fusione. Anche per le imprese singole è stato possibile compattare i crediti d’imposta con i debiti, dove in precedenza sarebbero occorsi anni per i rimborsi. Non è tutto. E’ stata facilitata la trasformazione (senza oneri) di imprese più semplici in imprese più complesse, in particolare di imprese personali in società di capitali; si è introdotta nel nostro ordinamento (precedentemente alla riforma) nel nostro ordinamento la società unipersonale; si è varata una normativa sui dividendi che trasferisce alle imprese il favore fiscale di cui godevano gli azionisti. Si è consentito alle nuove imprese di utilizzare le perdite dei primi anni all’infinito (invece che per cinque anni). Si è agevolato fortissimamente l’ingresso in borsa.

E tutto ciò per non citare che gli aspetti principali di una revisione complessa che è stata tutta orientata a dare stimolo ai comportamenti virtuosi dell’impresa, restituendole la sua libertà di azione tra negozi giuridici e forme di finanziamento.

Anche per ciò che riguarda in via diretta la riduzione del il costo del lavoro e gli incentivi all'occupazione, il nuovo quadro fiscale ha preferito affidarli a meccanismi premiali, abbassando gli oneri a chi crea occupazione o destinando a fiscalizzazione degli oneri sociali le disponibilità fiscali create dalla chiusura delle zone franche. L'Irap, invece, e' sostanzialmente neutrale rispetto al costo del lavoro (a parte un sicuro miglioramento per i settori del commercio e delle costruzioni), ma anche su questo aspetto si sono dette e scritte molte inesattezze, sulle quali sorvolo per brevità (rinvio al mio articolo: "Deleghe tributarie e nuova tassazione delle imprese", in Rivista di Politica Economica, luglio 1998).

4. Fiscalità finanziaria come strumento di politica industriale

Il fisco interviene nel nuovo scenario macroeconomico (di basso fabbisogno di finanziamenti del settore pubblico e bassi tassi di interesse) anche reimpostando in modo originale il quadro fiscale dell’intermediazione finanziaria e della trattazione del risparmio (incluso quello destinato ai fondi pensione) e spingendo i risparmiatori verso gli intermediari finanziari, con ovvio vantaggio sistemico per la stabilità e l’efficienza dei circuiti finanziari e con vantaggi di fedeltà fiscale. Anche questo intervento è un tassello di una costruzione complessa posta attorno alle imprese per portarle in un mercato aperto in condizioni ottimali. Con portafogli finanziari che si indirizzano verso il mercato dei capitali, si può fare della finanza un punto di forza del nostro sistema produttivo, ma è necessario trovare le imprese pronte a questa trasformazione, meno fragili e più patrimonializzate dal punto di vista finanziario. Sono due aspetti quindi, del medesimo disegno l'insieme dei provvedimenti in materia societaria e la risistemazione, attorno a uno schema uniforme e innovativo, della tassazione dei redditi da capitale e dei guadagni in conto capitale, senza la quale sarebbe difficile pensare ad un salto nella qualità ed entità della intermediazione finanziaria.

La nuova tassazione riconosce plusvalenze e minusvalenze, consente a chi lo desidera di mantenere l’anonimato ricorrendo agli intermediari, tassa in modo moderato e sostitutivo il risultato di accumulazione, uniforma la trattazione di tutti i titoli, è neutra rispetto agli intermediari.

Accolto con estremo favore dal mondo finanziario, quello schema completa gli interventi normativi riferiti ad altri profili del mercato e volti a ridisegnare la corporate governance e la tutela delle minoranze e dei risparmiatori).

Lo schema di tassazione per gli impieghi finanziari funge anche da punto di riferimento per rivedere i criteri di tassazione dei fondi pensione e della previdenza individuale (e, un domani, anche del risparmio immobiliare), portando l'intero quadro a un disegno uniforme, neutro e liberato dalla giungla delle forfettizzazioni e parcellizzazioni, che distorcono notevolmente l'utilizzo dei canali di investimento finanziario e non facilitano l’emergere di nuovi soggetti.

In conclusione, lo stimolo fiscale ai comportamenti microeconomici virtuosi disegna un assetto che su più fronti pagherà nel lungo periodo in modo molto più deciso della pur necessaria riduzione della pressione fiscale.

56. Strategie di riduzione della pressione fiscale

Non ho introdotto Le conclusioni precedenti non chiudono l’argomento della pressione fiscale, né gli argomenti trattati trattati in precedenzasono stati introdotti per eludere il tema, della pressione fiscale in questo Paesema per mostrare l'unilateralita' di visione che circonda i giudizi in material'agitazione di questo tema. Un conto è l’assetto fiscale, un'altra sono le "manovre". Ma, anche sotto quest’ultimo profilo, l’unilateralita' di visione porta spesso a diagnosi sbagliate e giudizi quanto mai sbrigativi e superficiali.

Mi chiedo, innanzi tutto, se parecchie delle affermazioni sull’eccesso di pressione fiscale, riferite soprattutto alla sua crescita recente, non riflettano un ragionamento svolto "a parità di condizioni", presupponendo che la pressione avrebbe potuto essere più bassa, fermo restando tutto il resto. Oggi i fondamentali dell’Italia sarebbero migliori o peggiori e il Paese starebbe meglio o peggio con una minore pressione fiscale, ma con mancato o ritardato aggancio alla moneta unica? Il fatto che sia in corso una crisi di dimensioni impressionanti su scala mondiale e che l’Italia possa guardarla quasi con distacco mi sembra un evento miracoloso. Senza quell’aggiustamento rapido dei conti pubblici (che non poteva che passare per il fisco) oggi forse ci troveremmo a dover fronteggiare i timori sulla valuta italiana a colpi di incrementi dei tassi di interesse e a dover varare una manovra non di 13.000, ma forse di 30.000 o 40.000 miliardi di lire.

Quando l’argomento dell’eccesso di pressione fiscale è introdotto con un occhio al futuro, e non al passato, per ribadire la necessità di una riduzione del carico come passaggio obbligato per aumentare l’occupazione, è di nuovo errato ragionare a "parità di condizioni". Il "come" pervenire a tale riduzione non è secondario.

A me sembra che gli interventi auspicati non siano tanto riferiti a quei recuperi di spazi fiscali che possono aversi attraverso la razionalizzazionie delle e risparmi graduali di spesae o attraverso altre fonti di incremento del gettito diretto essenzialmente a chiudere elusione, evasione e zone franche; spazi fiscali che possono aprirsi nel tempo ed essere indirizzati a ridurre progressivamente gli oneri contributivi e la tassazione dei profitti (ne abbiamo parlato tracciando i criteri della riforma). Gli interventi auspicati sono riferiti, piuttosto, a sostanziali e importanti abbattimenti, tali da produrre un salto di tassazione in tempi molto rapidi. L’estremizzazione di ciò è in quanto prospettato nella mozione presentata dall’opposizione in alternativa al Documento di Programmazione Economica e Programmatica: un 1% l’anno di abbattimento del carico fiscale per dieci anni, connesso all’1% l’anno di abbattimento della spesa pubblica.

Occorre chiedersi quanto realistica possa essere una strategia d’urto di questo o di altro tipo. Essa implica il trasferimento dell’intero sistema di previdenza all’esterno del settore pubblico e verso il settore privato.

Non mi sembra che ci siano altri capitoli di spesa che possano essere consistentemente compressi. Non certo il capitolo della spesa per i dipendenti pubblici, essendo ormai i livelli delle retribuzioni nel settore pubblico arrivati a punti di guardia. Se dobbiamo trasformare la Pubblica Amministrazione, renderla efficiente, darle nuovi compiti funzionali, non possiamo pensare di farlo, come lo stiamo facendo, prevedendo stanziamenti di spesa in questo capitolo crescenti in linea con l’inflazione, e mantenendo quindi stipendi molto bassi in settori cruciali (come ad esempio la scuola). Dovremmo, invece, avere disponibilità per retribuzioni incentivanti e differenziate che una dirigenza maggiormente responsabilizzata deve poter gestire. Non si può alternativamente pensare di tagliare radicalmente la spesa pubblica in sanità, essendo la sanità pubblica arrivata a un punto di guardia.

Rimane, quindi, come grande capitolo quello delle pensioni. I contributi sociali potrebbero al limite essere azzerati in un sistema totalmente privato e assicurativo. Mi chiedo, tuttavia, se ciò abbasserebbe effettivamente il costo del lavoro, dato che la retribuzione comprende oggi (e non potrebbe non comprendere domani) sia la parte take away, sia un salario differito (risparmiato forzosamente), destinato a costruire il reddito dell’età inattiva. Anche in un sistema assicurativo privato quella parte dovrebbe essere corrisposta nel salario lordo. Tale parte potrebbe essere minore in un sistema privato (a parità di prestazioni pensionistiche) solo se il sistema a capitalizzazione producesse un rendimento dei contributi superiore a quello che si avrebbe nel settore pubblico. Ciò è tutto da dimostrare, come testimoniano le recenti crisi borsistiche e le statistiche di lungo periodo dei corsi azionari. Ciò che è successo ai mercati finanziari (e soprattutto negli Usa) negli ultimi 5-6 anni non è estrapolabile nel lungo periodo. Credendo che lo fosse, il FMI ha spinto negli anni ‘90 i Paesi del Sud-Est asiatico a passare dal sistema a ripartizione al sistema ad accumulazione privato, provocando un’infinità di disastri sociali in quei paesi.

Ma la questione del rendimento è la questione minore rispetto a quella della transizione. Fermo restando che le pensioni in essere o maturande devono essere corrisposte (senza più avere a fronte il finanziamento dei nuovi contributi), un’intera generazione deve pagare le pensioni due volte, una per coloro che hanno cessato l’attività lavorativa, e un’altra per sé stessa, allo scopo di costruire nel frattempo le riserve per la pensione a capitalizzazione. Altro che riduzione della pressione fiscale!

In alternativa, le pensioni in essere vanno poste (in deficit) a carico del bilancio dello Stato: un’esplosione da capogiro del deficit pubblico per periodi lunghissimi. Comunque le si affronti, le ricette d’urto non sono semplici e coloro che le agitano devono dirci come attuarle concretamente.

Anche un moderato passaggio verso il sistema a capitalizzazione privato, che riguardi solo il flusso dei nuovi assunti e solo un terzo degli attuali contributi previdenziali (ipotesi Castellino), lascia per lungo tempo scoperta una parte delle entrate (contributive) che altrimenti affluirebbero al settore pubblico, lasciando, invece, inalterate le uscite (lo schema va a regime dopo circa 40 anni). Anche in questa forma blanda e parziale, la transizione comporta negli anni centrali della transizione un incremento del deficit pubblico pari al 2% del Pil, che deve essere coperto o con tasse o con emissione di titoli, cioè con l’indebitamento.

Personalmente, non sono sfavorevole a questa transizione, ritenendo utile una diversificazione dei rischi (quello demografico, attinente al settore pubblico a ripartizione, e quello finanziario o d’inflazione, attinente al settore privato), ma essa non può avere effetti sostanziali sul costo del lavoro, né sul reddito disponibile. Lo schema, inoltre, è adottabile solo se le convenzioni internazionali consentiranno di escludere dai conteggi standard del deficit il finanziamento della transizione, sia pure parziale, del sistema previdenziale verso il settore privato. Ma quale entità del "finanziamento della transizione"? Non c’è da illudersi che il 2% in più di deficit annuo sia il costo finale, perché ricadrebbero inevitabilmente sullo Stato i fallimenti di assicurazioni private, gli oneri di integrazione ai requisiti minimi di contribuzione non raggiunti nel settore privato, il "rischio" che l’assicurato sopravviva al momento di termine della rendita, altri costi che lo stesso settore non potrebbe coprire in assenza di un adeguato fondo di garanzia; fondo che non può che essere costruito in un tempo lunghissimo.

Quindi, pur concordando con l’opportunità di ridurre la pressione fiscale, non rimane altra strategia che affidarla alla crescita dell’economia, impedendo che la spesa salga in linea con tale crescita, e abbassando in parallelo l’importo (rispetto al Pil) del suo finanziamento con imposte. E ancora: favorendo nel contempo tutti quei miglioramenti della prestazione di offerta dell’economia che è possibile ottenere per via non fiscale (efficienza della P.A., formazione, liberalizzazione dei mercati e degli accessi, infrastrutture ecc.), senza rinunciare comunque ad ottenere tutte quelle economie di spesa che è possibile ottenere in tutti i campi, né a combattere l’evasione. Un simile quadro è già prefigurato nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria per il triennio fino al 2000, che tiene fisso al 5% il saldo primario, pur in presenza di una diminuzione attesa del flusso di interessi da pagare, e che già prevede un abbattimento della pressione fiscale del 2% complessivo. Nel solo 1998 la pressione fiscale dovrebbe cadere dell’1,4% sul Pil rispetto all’anno precedente.

6. Qualche considerazione aggiuntiva

Altri elementi vanno presi in considerazione per una valutazione corretta dalla nostra pressione fiscale, partendo dalla constatazione che essa non è diversa dalla media europea. L’insieme di misure eccezionali prese nel ’96 e ‘97 non ha modificato il posto in graduatoria dell’Italia rispetto agli altri paesi. Eravamo noni nel 1995, siamo noni nel 1997.

Si tenga conto, ancora, che i dati relativi non rendono giustizia alla competitività del Paese. Non è corretto fare delle percentuali di oneri sul lavoro un indice della competitività. Siamo all’ultimo posto della graduatoria per gli oneri indiretti che gravano in percentuale della retribuzione lorda o netta (sono i più alti in Europa); siamo al primo per il costo in costo assoluto di un’ora lavorata (che è poi l’unico dato che effettivamente conti nella graduatoria della competitività), nel senso che tale costo è il più basso tra i grandi paesi della Comunità, nonostante l’alta fiscalità indiretta che incide su essa. Non a caso, la capacità esportativa del Paese, misurata dal surplus commerciale, continua ad essere la più alta d’Europa.

Continuiamo, inoltre, ad avere situazioni vicine alla piena occupazione nella gran parte dell’Italia centro settentrionale, il che evidenzia come il problema occupazionale più che un problema generalizzato di fiscalità e di costo del lavoro, sia un problema localizzativo nell’area meridionale. Esso va soprattutto affrontato con politiche ad hoc (supplementate, ovviamente, anche da interventi fiscali e sul costo del lavoro), la cui sostanza consista in politiche di sollecitazione dell’offerta, di riqualificazione dell’intero settore pubblico al fine di aumentare il potenziale produttivo, di attrazione di investimenti in provenienza dall’esterno dell’area. Non è questa la sede per discutere tali politiche, ma a me sembra che vada in questa direzione la linea intrapresa dal Governo in materia fiscale e di incentivi, ma, soprattutto, intrapresa con la creazione di Sviluppo Italia, che fa perno sulla nascita di progetti, sul vaglio che questi ultimi devono avere sul mercato, su condizioni di maggiore flessibilità normativa e salariale, nonché e di snellezza burocratica in aree interessate da una organizzazione dal basso (patti territoriali e dai contratti di area). Una politica che mira anche a far emergere un quadro di finanza privata per lo sviluppo, specificamente mirata al Mezzogiorno.

Ricapitolando: strategia percepibile, egraduale e giudiziosa da un lato ma tenace e insistente cumulativa dall’altro, di riduzione della pressione fiscale, ma nessuna concessione a facili esercizi intellettuali, e, nel frattempo, una modifica sostanziale della struttura del fisco volta al miglioramento dell’efficienza del sistema.

Salvatore Biasco

(1) Intervento all'XI forum CEIS-Q8 "Tassazione Performance, dell'Economia ed Europa" (Porto Cervo, 25-26 settembre 1998) nella Tavola Rotonda su "Tassazione e Sviluppo economico".

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