Commissione Parlamentare Consultiva
in materia di riforma fiscale

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L’ARMONIZZAZIONE DEL PRELIEVO PER IL RISPARMIO PREVIDENZIALE

Inserendo la revisione del prelievo per il risparmio previdenziale nel collegato ordinamentale in discussione al Senato, il Governo ha risposto pienamente, e in coerenza con le raccomandazioni, all’invito della Commissione dei Trenta a uniformare al regime previsto dalla legge 461/97 la tassazione su tutti i proventi finanziari.

La proposta governativa ha il pregio di rimuovere l’attuale separazione di sistema per il risparmio previdenziale (si veda la tabella accanto); una separazione che, forse, si giustificava nel mercato finanziario primitivo del dopoguerra ma che, più che un "sistema", costituiva un tipico campionario dell'occasionalità e dell'irrazionalità del nostro ordinamento fiscale (con l'aggravante, poi, di essere perfino regressivo). Tutte le forme di risparmio verranno ora tassate uniformemente nella fase di accumulazione.

Permane, tuttavia, una diversità nel "principio di correlazione" cui aderiscono gli impieghi finanziari e quelli previdenziali (quel principio per cui se vi è esenzione dalla tassazione in fase di destinazione a risparmio vi è poi una tassazione in fase di liquidazione, o viceversa): il reddito non consumato è (entro certi limiti) non disponibile nel caso in cui venga destinato a fondi pensione o assicurazioni vita; è disponibile (e quindi soggetto a prelievo) nel caso in cui venga destinato a fondi comuni o altri impieghi.

In realtà, la "correlazione" prevista ora per la tassazione del reddito previdenziale (non imponibile prima, imponibile poi), pur permanendo, trasforma abbondantemente quella che dovrà sostituire. Quest'ultima prevedeva una tassabilità in modo variegato dei frutti del risparmio (con varie forfettizzazioni) che interveniva dopo un prelievo modesto (o pressoché nullo, a seconda degli strumenti) nella fase di accumulazione: col risultato di rendere la destinazione della tassazione del tutto casuale. Ora, invece, la tassazione nella fase di fruizione di quanto maturato è limitata tutta e solo alle somme non corrisposte al fisco all'atto di destinazione del reddito (una sorta di prestito da restituire). Nonostante che la logica sia distinguibile, l'assetto non è ancora né neutro, né uniforme e trasparente.

A mio personalissimo avviso, l’approdo logico cui porta la legislazione appena varata per i rendimenti finanziari - un meccanismo dotato di forza attrattiva e compattezza concettuale - è di abbracciare anche questo aspetto in uno schema unico. Se il metodo di imposizione dovesse essere uniformato secondo quanto previsto per i fondi comuni, la tassazione è assolta all’origine, ma la pensione complementare (anche per la quota distribuita in forma di capitale) non è reddito tassabile, al pari del frutto di qualsiasi altro risparmio ad accumulazione.

Il presupposto di una uniformità che comprenda anche i fondi pensione è nel riconoscimento che in ogni caso si tratta di una scelta di portafoglio in alternativa ad altre e che le scelte di portafoglio non vanno distorte fiscalmente. Non è così solo se si ritiene che l’impiego previdenziale (complementare) non sia semplicemente sostitutivo di altri impieghi all’interno di un ammontare di risparmio dato, ma derivi da un risparmio aggiuntivo che non si sarebbe altrimenti formato. Ma ciò osta contro il risultato di molti studi, la logica, l’osservazione intuitiva.

Un sistema unico quale quello descritto comporta due punti da affrontare: a) la tutela costituzionale del risparmio previdenziale; b) il trattamento fiscale dei contributi dei datori di lavoro ai fondi pensione chiusi.

a) È indubbio che tenere come attività un fondo di investimento, sempre liquidabile, o altri titoli, non è come tenere un fondo pensione o un altro risparmio previdenziale. I vincoli di giacenza e di scopo (quindici anni e la distribuzione per tre quarti in forma di rendita) costituiscono una base sufficiente per la concessione di un privilegio fiscale da parte del legislatore.

Quello previsto dal Governo (l’esenzione dagli interessi al momento della restituzione su quanto risparmiato all'origine in termini di Irpef) priva di trasparenza ed integrità il sistema. E' molto più opportuno, a mio avviso, prevedere un’aliquota abbattuta (ridotta di metà o tre quarti) di prelievo sul maturato.

b) L’uniformità dello schema delineato imporrebbe, poi, che i contributi dei datori di lavoro siano assimilati a fringe benefits. Quelli rinvenienti dal TFR dovrebbero quindi essere tassati all’uscita dall’impresa con il sistema dalla tassazione separata (in pratica, come liquidazione) e l’agevolazione su di essi consistere in una qualche percentuale di abbattimento della corrispondente aliquota di prelievo.

Quale che sia la forma di agevolazione sotto a) e b), dovrebbe essere congegnata in modo da consentire qualcosa di vicino a un rendimento netto aggiuntivo (commisurato agli impieghi più prudenziali) orientativamente di mezzo punto rispetto all’impiego in fondi comuni, a parità di abilità del gestore e di rischio. Va da sé che qualsiasi tipo di risparmio classificabile come previdenziale, deve godere di identiche agevolazioni. Nelle sue scelte di portafoglio, quindi, il risparmiatore (il quale ha assolto in via definitiva gli obblighi Irpef) sceglierà sapendo che la destinazione verso l’accantonamento pensionistico (collettivo o individuale) consentirà un rendimento più alto, a parità di tutto. Mezzo punto in più, nell’arco di 20 anni, implica per un piano di versamenti annuali, una liquidazione di circa il 25% più alta.

L'obiezione più ovvia a questo punto è che lo schema rischia di produrre una considerevole riduzione dell’appeal dei fondi pensione in quanto le somme destinate ai piani pensionistici sarebbero di gran lunga inferiori al loro ammontare lordo. Se vi è illusione monetaria l’obiezione ha fondamento, quand’anche la realtà dei fatti sia diversa. Non dimentichiamo, però, che la rinuncia a piani pensionistici complementari che derivasse da illusione monetaria metterebbe a disposizione dei contribuenti le somme (nette) che sarebbero state destinate ad essi e che, se risparmiate, troverebbero impiego finanziario in altri strumenti (identicamente tassati). Alla lunga, quindi, non vi sarebbe un ammontare di sottoscrizioni di fondi pensione molto diverso da quanto sarebbe stato in altro regime fiscale.

Si obbietterà, tuttavia, che lo sviluppo dei fondi pensione non andrebbe comunque disturbato, perché necessario oggi al completamento e rafforzamento dei mercati finanziari.

Che i fondi pensione si affermino è auspicabile (ed è opportuno che non perdano un favore impositivo all’interno di schemi unificati di trattazione del risparmio). Ma, l’argomento del potenziamento dei mercati finanziari è debole. Esso sottintende, ancora una volta, che il flusso di contributi indirizzato verso schemi pensionistici complementari derivi da risparmio che non si sarebbe altrimenti formato e non sia, invece, una prevalente sostituzione di portafoglio. Essa non comporta variazioni decisive nei flussi del mercato dei capitali. Il risparmiatore trova comunque le forme per costruirsi un rendimento a capitalizzazione e quel risparmio va comunque verso il mercato finanziario (si ricordi che il flusso netto di raccolta dei soli fondi comuni nel 1998 è pari al doppio della consistenza che si stima avranno i fondi chiusi tra dieci anni).

Si può sostenere che i fondi pensione attuano scelte di portafoglio diverse da quelle di altri intermediari; scelte più stabili e con orizzonte temporale più lungo. Ma che le differenze siano effettivamente rilevanti rispetto a quelle attuate nel risparmio gestito e collettivo è tutto da dimostrare e comunque esse non sono tali da giustificare, a mio avviso, il mantenimento in vita di un sistema separato.

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Salvatore Biasco