Commissione Parlamentare Consultiva
in materia di riforma fiscale

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Corriere della Sera 14.12.98

Si ritorna a parlare operativamente di pensioni. Questa volta l’attenzione sembra concentrarsi sull'equilibrio delle singole gestioni e sulle diversita’ di regimi contributivi. Gia’ all’epoca della formazione del governo D'Alema, un affermazione di Nicola Rossi aveva fatto pensare che la finanziaria potesse contenere innovazioni in questo campo. Rossi ventilava la possibilita' di una unificazione al 25% tra l'aliquota contributiva dei lavoratori autonomi e dipendenti, implicando un innalzamento dell'aliquota contributiva per i primi e un abbassamento per i secondi. E’ tornato sull’argomento un documento degli esperti economici di Palazzo Chugi e, da ultimo, il sottosegretari Morese.

Fuori da una adesione a un principio uniformante, qual'e' quello su cui si impernia la riforma Dini, ogni intervento sugli schemi pensionistici in essere e' per sua natura frammentato e discrezionale e rischia di essere interpretato come arbitrariamente vessatorio dai soggetti che risultano penalizzati nel confronto con la situazione di partenza. Anche l'apparente oggettivita' dell'aliquota unica si innesterebbe su prestazioni e condizioni normative differenziate,che difficilmente possono essere parificate.

E' comprensibile la ratio delle varie proposte: ridurre il costo del lavoro per le imprese, abbassando l'aliquota che grava sui contributi sociali. Il problema e' che, a meno di non addossare il finanziamento alla fiscalita' generale, il risultato e' raggiungibile solo abbassando le prestazioni pensionistiche. La proposta di Rossi prefigura un tipo di finanziamento sui generis, all'interno del sistema contributivo, collocando il finanziamento sul lavoro autonomo; questo, sotto certe condizioni (presenza di lavoro dipendente e aumento dei margini di profitto), potrebbe includere sia i soggetti penalizzati che beneficiari.

Penso che la materia sia troppo delicata per tentare di andare direttamente al risultato e che sia, invece, meglio rinunciare ad obbiettivi immediati sia in termini di gettito che di riduzione per questa via del costo del lavoro per puntare a stabilire un quadro metodologico dentro il quale inserire successivamente le proposte.

Meglio che procedere a una serie di interventi di ritocco parziale, specie se incidono sulle singole gestioni, il procedimento iniziale dovrebbe essere quello di porre in un criterio oggettivo e universalistico, a parita' di spesa pensionistica, l'erogazione delle pensioni. Questo criterio non puo' che essere che quello impostato dalla riforma Dini.

La questione e' vecchia, ma vorrei riformularla con un punto innovativo. La difficolta' del passaggio ad un pro-rata generalizzato - perche' di questo si tratta - e' nel fatto che si abbasserebbero sic et simpliciter le pensioni, a parita' di contributi, per coloro che attualmente hanno 21 anni di anzianita' contributiva e oltre (coloro per i quali la riforma Dini non e' applicata). Si potrebbe in questa fase applicare il pro-rata senza toccare il monte pensioni che gli stessi lavoratori avrebbero percepito complessivamente. Cio' implica che essi vengano inseriti pro-rata nella riforma Dini con una aliquota di rendimento dei contributi dell’1% in più circa (se ho fatto bene i calcoli), rispetto al rendimento base stabilito per coloro che sono gia' all'interno della riforma (prevedibile, sulla base di ipotesi realistiche di crescita del reddito, dell’1,5% annuo: quindi, rendimento del 2,5% per i lavoratori più anziani, anziché l’1,5%).

Il vantaggio e' nell'oggettivazione di tutti i problemi e nell'assoggettamento a un metodo unico: di sicuro, un criterio politicamente piu’ gestibile. Per ciascun contribuente, lavoratore dipendente, autonomo, parasubordinato che sia, e' chiaro che la pensione futura, dipendera' strettamente dai contributi versati, a parte cio' che vien fatto salvo per il pregresso. Ovviamente non si puo' pensare che cio' non abbia conseguenze redistributive all'interno della platea di pensionandi precedentemente esclusi dalla riforma Dini, ma elimina la necessita' di inseguire le singole gestioni con ritocchi che non possono che essere presi come arbitrari e che dall’avvio del pro-rata generalizzato sono assoggettati a criteri oggettivi.

Il metodo taglia alla radice anche il problema delle pensioni di anzianita'. L'uscita prematura dal mercato del lavoro provocherebbe, con il passaggio integrale - sia pure binario - al metodo Dini, una riduzione della pensione strettamente connessa ai contributi versati pro rata, quindi con penalizzazione di carattere attuariale; penalizzazione che diventa tanto piu' pronunciata, a parita' di eta' anagrafica e contributiva, quanto piu' ci si allontana nel tempo dalla data di entrata in vigore. Cio' configura quindi un atterraggio morbido per le pensioni di anzianita'. Il criterio per queste potrebbe diventare, come per la riforma Dini, solo anagrafico con raggiungimento in tempi adeguati dei limiti da essa fissati.

Un ulteriore vantaggio del sistema e' che esso rende esplicita la differenza esistente tra il trattamento pensionistico dei lavoratori che hanno evitato la riforma Dini e dei lavoratori che oggi sono all'interno di essa. E' un fatto di trasparenza che può essere giustificato con le promesse pregresse. Se reggera' nel tempo all'urto della pressione della pubblica opinione e dei lavoratori piu' giovani, bene, perche' vuol dire che questo e' il volere del Paese; se non reggera', si configurera' la necessita' di far regredire in modo morbido il coefficiente di rendimento fino alla totale unificazione con quello in vigore per i lavoratori piu' giovani.

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