“La deformazione dell’Altro nelle ideologie politiche del XX secolo e la sua attualità nel secolo che si apre”


Firenze, 03/09/2000


*** I Corso multidisciplinare di educazione allo sviluppo “Un impegno per il Duemila”, promosso da UNICEF Italia, Università di Firenze e Istituto Agronomico per l’Oltremare ***


Il XX secolo è stato un periodo di straordinarie conquiste civili, sociali, scientifiche, ma è stato anche un secolo in cui più volte il potere politico, per pure esigenze di dominio, ha schiacciato i diritti umani fondamentali.

All’inizio del secolo gli inglesi segregarono in Sud Africa più di 120.000 boeri. Negli stessi anni gli Stati Uniti davano avvio a campagne di sterilizzazione di persone portatrici di handicap e di malati di mente.

Nel 1923 Lenin inaugura in Unione Sovietica le attività dei Gulag, destinati a divenire con Stalin strumenti di una sistematica politica di repressione dei dissidenti politici e più in generale di chiunque fosse ritenuto un avversario del regime. Il calcolo delle vittime dei gulag non è così preciso come per i lager nazisti. In 14 anni tra il 1934 ed il 1948 nei campi vennero deportate 15 milioni di persone. Le stime più recenti ci dicono di una presenza media e permanente di circa 2 milioni e mezzo di persone nei campi del Gulag tra la fine degli anni Trenta e la metà degli anni Cinquanta. Da una nota firmata dal procuratore generale dell’URSS, Rudenko, inviata a Krusciev nel febbraio 1954 risulta che tra il 1 gennaio 1921 ed il 1 febbraio 1954 i vari tribunali speciali condannarono 3.777.380 persone con l’accusa di attività controrivoluzionarie. 642.980 vennero condannate a morte mentre oltre 3.100.000 furono inviate nei campi di lavoro o deportate in Siberia. Ma questi dati, ripeto, sono ancora parziali.

Le democrazie scandinave, tra gli anni ’30 e gli anni ’70, realizzano pratiche di sterilizzazione dei “diversi”, 106.000 in tutto, di cui il 90% costituito da donne.

Nel 1939 Hitler dà il via allo sterminio di oltre 10 milioni di persone; oltre cinque milioni sono ebrei e circa cinque milioni sono oppositori politici. Saranno sterminati nei lager, inoltre, 500.000 zingari, 76.000 malati ereditari , di cui 5.000 bambini, tra 50.000 e 200.000 omosessuali, molte migliaia di testimoni di Geova.

In Sud Africa i bianchi, in maggioranza boeri, a partire dal 1910, segregano i neri con una feroce legislazione razziale.

Negli anni ’70 i Khmer rossi di Pol Pot realizzano lo sterminio del 25% della popolazione della Cambogia, facendo morire 1.860.000 persone.
L’ultimo decennio del secolo ha visto le pulizie etniche nella ex Jugoslavia e lo sterminio in Ruanda di 800.000 persone di etnia Tutsi.

Questo breve e incompleto quadro di sintesi serve a capire quale sia stata la dimensione dei fenomeni di sopraffazione dell’uomo sull’uomo, realizzati molto spesso con l’uso di tecnologie e di metodi che si presentavano come “razionali” e che facevano apparire l’altro come “spurio”, “difettoso”, “inferiore” di modo tale che apparisse irrazionale difenderlo o occuparsi di lui.

I più drammatici disastri del Novecento derivano, sia pure ogni volta in forma diversa, dalla assolutizzazione della ragione tecnica o della ragion politica, alle quali sono piegati i valori della persona umana.

Alle vittime è stato detto che il loro comportamento, la loro stessa esistenza, era irrazionale, contrario alle regole, e che invece era razionale l’oppressione dei loro diritti e la loro eliminazione.
“Il lavoro rende liberi” era scritto sopra il cancello di Mauthausen; ma quel lavoro portava ai forni.
“Quello era il nostro lavoro –dice Franz Stangl, direttore generale del campo di stermino di Treblinka, a Gitta Sereny, che ha raccolto questa intervista in un libro. Il lavoro di uccidere con il gas e bruciare cinque e in alcuni campi fino a venti mila persone in 24 ore esigeva il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arrivavano e tempo due ore erano già morti. Questo era il sistema…Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile”.
Mentre nel sistema nazista la razionalità oppressiva si manifestava nei lager, diversa fu la razionalità oppressiva del sistema sovietico che non si manifestò nei gulag, ma nei processi politici.
Come risulta dai Racconti della Kolyma o dalle opere di Solgenytzin, non v’era alcuna razionalità nell’organizzazione dei gulag, a differenza dei lager, ma prevalentemente l’abbandono dei condannati al freddo, alla fame, alla violenza dei carcerieri, al caso.
La razionalità si manifestava invece nella messa in scena dei grandi processi politici. Essi non servivano per accertare le responsabilità o l’innocenza degli accusati, che erano certi della condanna per il fatto stesso che il processo era iniziato, in quanto i giudici che avessero smentito gli accusatori, e cioè il partito-Stato, erano destinati a diventare a loro volta imputati.
“Il nostro popolo”, dice Vyscinskij ai giudici concludendo la requisitoria nel processo contro Bukharin, che si concluderà con la condanna a morte di 18 imputati e la condanna a 25 anni di lavori forzati di un diciannovesimo, “e tutti gli uomini onesti del mondo intero aspettano il vostro giusto verdetto. Che il vostro verdetto eccheggi per tutto il nostro grande paese come lo squillo che ci chiami a nuove gesta, a nuove vittorie! Che il vostro verdetto tuoni come una bufera rinfrescante che purifica tutto, come la bufera del giusto castigo della giustizia sovietica! Tutto il nostro paese, dal più piccolo al più grande, aspetta e chiede una sola cosa: che i traditori e le spie che vendevano la patria al nemico siano fucilati come cani rognosi! Il nostro popolo esige una sola cosa: che sia schiacciata la vipera maledetta!”
In questo clima, i processi diventavano una colossale macchina propagandistica ed autocelebrativa: servivano a pubblicizzare la perfidia degli imputati, i rischi gravissimi corsi dallo Stato e dal partito e la giustezza delle scelte di Stalin, evocato frequentemente nelle requisitorie del Procuratore generale Vyscinskij, anche come argomento per condizionare i giudici.

Sembrano fatti lontani anni luce e propri solo delle dittature; ma non è così. Alcune delle vicende citate, penso alla Bosnia, sono nostre contemporanee ed altre, penso a quanto avvenne negli USA e nelle democrazie scandinave, maturò in regimi democratici.

In una analisi di questo tipo occorre evitare due rischi.
Il primo è quello della generalizzazione.
Guardare a tutta la storia del ''900, in tutti i suoi aspetti, portare alla luce non solo i fatti eclatanti dello sterminio nazista o dei gulag, ma anche i fatti molto meno gravi, ma ugualmente aberranti, che sono accaduti in alcuni regimi democratici dell’occidente può servire a comprendere che il rischio è dentro di noi; che nessuno di noi, che nessun Paese è aprioristicamente escluso da questo rischio.

Il Novecento non è stato una sorta di mortaio dell’odio, dove tutte le prepotenze umane si sono mescolate l’una con l’altra sino a diventare una sorta di male assoluto che ha indistintamente attraversato nella stessa identica misura tutto e tutti, continenti diversi, società evolute e società arcaiche, democrazie e dittature.

Questa tentazione verso la generalizzazione si traduce in “banalizzazione” dei fenomeni, perché porta alla rinuncia dell’indagine rigorosa e analitica delle singole situazioni, e ad una indistinta attribuzione o a una sommaria negazione di responsabilità.

Il secondo rischio è quello della semplificazione riduttiva.
Questo atteggiamento è proprio di coloro che riducono le grandi tragedie del ''900 al nazifascismo e allo stalinismo, esaltandone le analogie e i caratteri comuni, per giungere ad un legittimo giudizio di eguale condanna, che si fonda però su una frettolosa parificazione delle due esperienze, piuttosto che su una analisi attenta delle differenze e delle specificità che sono all’origine di questi due fenomeni, nonché di tutti lre discriminazioni violente di questo secolo.
Il rischio di questa posizione, alimentata dalle correnti revisioniste, è quello di “schiacciare” tutta la storia del novecento sulle terribili vicende che hanno devastato il continente Europeo negli anni ’20, ’30 e ’40, senza nessuna attenzione e interesse a distinguere le diverse matrici storiche e ideologiche che hanno avuto da una parte il comunismo e dall’altra i fascismi e il nazionalsocialismo.
Parificare fascismo e comunismo, come “ideologie”, sembra rispondere, ad una esigenza di chiudere rapidamente la partita del ''900, rinunciando a distinguere, e quindi a comprendere.
Comprendere è il fondamento della lotta.
Per tutta la seconda metà del ''900, quando ancora molti regimi comunisti erano forti e temuti, e quando nell’Europa occidentale atlantica c’erano forti partiti comunisti nazionali, la necessità di distinguere quelle due serie di fenomeni aveva una ragione prima di tutto ideologica, e questa ragione ha spesso impedito di riconoscere quanto orrore vi fosse stato nelle pratiche staliniste.

Oggi abbiamo la necessità di distinguere per ragioni diverse rispetto al passato. E’ una ragione di comprensione storica, è una ragione di conoscenza profonda delle radici delle aberrazioni del ''900. E’ una ragione di attenzione verso il futuro, verso la necessità che le democrazie europee facciano dell’Unione Europea una comunità politica munita di una forte identità storica e civile.
Tutti i giudizi negazionisti, revisionisti, “parificatori” sbarrano la strada alla costruzione di questa identità vigile e consapevole, perché impediscono la comprensione analitica delle tragedie del ''900, come in un’ansia di “chiusura definitiva” di quelle esperienze.
La coscienza politica e civile delle democrazie moderne non può, invece, rinunciare a tenere aperto il canale di comunicazione e di comprensione verso la propria storia.

La Chiesa cattolica, come grande forza di pensiero e di azione nella società, ha colto pienamente l’esigenza di coniugare il proprio saper essere nella modernità con i nodi irrisolti del proprio passato. Il 7 marzo è stato presentato a Roma un documento teologico, intitolato “Memoria e riconciliazione. La Chiesa e le colpe del passato”, con il quale il Pontefice ha formulato una "richiesta di perdono" per le deviazioni dei cattolici dal Vangelo lungo il secondo millennio.
Tra le colpe di cui si chiede il perdono ci sono le crociate, il ricorso all’inquisizione e l’antigiudaismo.
Qualcuno potrebbe ritenere “tardiva” questa posizione e comunque non suscettibile di cancellare quelle colpe.
Ma il punto interessante del documento è proprio quello di “ragionare” sul passato, di non consegnare la propria storia alla dimenticanza, ma di analizzarla, di farla conoscere, evitando atteggiamenti ipocriti o di rimozione.

La memoria, il senso della storia, la capacità di distinguere e di analizzare sono strumenti di cui non possiamo fare a meno. Servono ai cittadini di una democrazia avanzata, e soprattutto ai giovani per difendere la propria libertà e il proprio benessere, per cogliere in anticipo la portata e gli effetti dei segnali di rifiuto dell’altro che spesso anche impercettibilmente avvertiamo in noi stessi, o nel mondo che ci circonda.

Il razzismo, la discriminazione, difficilmente si autorivelano; sono pochi che ammettono di essere razzisti o che ammettano di discriminare. Perciò bisogna cogliere i segni della malattia prima che essa esploda.

Rispetto alle ideologie totalitarie del XX secolo non possono esserci né oblio né facili e liquidatorie parificazioni.
Non si tratta di riscoprire vecchi atteggiamenti dogmatici, né di assumere una posizione anacronistica di arroccamento ideologico, ma di avanzare delle ragioni critiche che possano servire a spiegare a comprendere perché le due principali forme di totalitarismo del ''900, stalinismo e nazismo, abbiano portato a “pratiche” di deformazione dell’altro diverse e non “equiparabili”.

I caratteri comuni di nazismo e comunismo sovietico sono dati dall’essere stati entrambi forme assai sofisticate di totalitarismo e dall’essere stati, sia pure in forme diverse, entrambi nemici dei regimi liberali capitalistici d’inizio secolo.
La rivoluzione sovietica nasceva contro il regime zarista in una società per molti aspetti primitiva. Ma il nemico fu individuato nel capitalismo e nel pensiero liberale.
Il fascismo ed il nazismo nacquero dal fallimento delle democrazie liberali di due importanti paesi europei come l’Italia e la Germania.
Quelle democrazie non erano state capaci di integrare le masse nella società in modo non traumatico, attraverso la concreta attribuzione dei diritti e delle libertà, che erano stati fino alla fine dell’800 appannaggio esclusivo delle classi agiate, a vasti strati della popolazione, fino ad allora sfruttati ed esclusi.

E’ importante riflettere su questo aspetto, perché spiega come la risposta “totalitaria” corrisponde ad una incapacità di “inclusione” di quei regimi liberali.
Inclusione intesa come allargamento universalistico delle basi della democrazia, attraverso il pieno riconoscimento del suffragio elettorale a tutti gli uomini e a tutte le donne maggiori di età, attraverso la garanzia del diritto all’istruzione e alla salute, la tutela delle condizioni di lavoro.
L’ideologia liberale non conduce mai ad una “deformazione” dell’altro, perché ha in sé, nel suo riconoscimento del primato della libertà e dell’iniziativa economica, una potenziale connotazione universalistica. Ma questa potenzialità, nelle esperienze storiche concrete, non si è sempre tradotta in atto, e ha spesso generato lo sfruttamento di chi non faceva parte del sistema dei diritti e delle libertà, portando esclusione, marginalizzazione, indifferenza.

Di fronte a questa strozzatura dei regimi liberali una risposta “universalistica” fu allora offerta in modo aberrante e mistificatorio dai regimi totalitari, che ebbero in comune la lotta contro i regimi liberali, intesi come espressione di sistemi politici “esclusivi”, che garantivano solo fasce sociali privilegiate.
La retorica del “popolo”, della lotta contro le oligarchie capitalistiche, dell’abbattimento del vecchio ordine è presente tanto nel fascismo e nel nazismo, quanto nel comunismo sovietico.
Tutti i regimi totalitari fanno ricorso sistematico al controllo monopolistico dell’economia, della cultura, dell’organizzazione sociale attraverso la struttura del partito e la forza simbolica e unificante del capo.
E’ significativo come fascismo, nazismo, comunismo sovietico si presentino tutti inizialmente come fenomeni rivoluzionari, dotati di forza palingenetica, di trasformazione radicale della società e dell’uomo.
Fanno uso massiccio della propaganda, del controllo capillare dei sistemi di comunicazione, di informazione e di formazione per aggregare la popolazione attorno a grandi principi unificanti.
Totalitarismo significa costruzione di un sistema strutturato attorno ad un’idea unica che non ammette concorrenti, che rende intollerabile ogni elemento della vita economica, sociale, religiosa civile che non sia ad essa omogeneo.
A livello interno e a livello internazionale la lotta politica diventa lotta tra forze irriducibili, fra sistemi incompatibili, diventa competizione nella quale ciascuno mira per definizione a distruggere l’avversario.
Fascismo, nazismo e comunismo sovietico in forme e modi diversi costruiscono al proprio interno delle formidabili barriere tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi aderisce al sistema politico ideologico e chi lo rifiuta.

In questo contesto nasce il fenomeno della “deformazione” dell’altro, della lucida e fredda costruzione del nemico assoluto, che in astratto coincide con tutto quanto si opponga alla costruzione del sistema totale, ma che in concreto ha bisogno di nutrirsi di simboli, di stereotipi concreti, tangibili.

E’ su questo terreno, tuttavia, che si possono individuare delle differenze fondamentali, che non possono essere in alcun modo occultate senza rinunciare a comprendere a fondo le radici di quei fenomeni.
Il principio unificante del fascismo e del nazismo è il principio di discriminazione.
Il principio è applicato in modo diverso nel regime di Hitler e in quello di Mussolini, ma alla fine degli anni ’30, con le leggi razziali italiane del 1938, i punti di contatto supereranno nettamente i punti di divergenza.
La “deformazione” dell’altro nel nazifascismo coincide con il principio delirante della purezza e della superiorità della razza ariana. Questo assunto assurge a livello di dottrina ideologica e filosofica, è supportato da argomenti pseudoscientifici, viene teorizzato e poi messo in pratica con l’ausilio delle tecnologie più sofisticate.

Nel Mein Kampf Hitler scrive: "nessun ragazzo e nessuna giovanetta debbono lasciare la scuola senza essere giunti alla conoscenza della necessità e della natura della purezza del sangue".
Questa volontà delirante fu puntualmente realizzata. In un libro di esercizi di matematica, destinato alle elementari e pubblicato a Francoforte nel 1936, il testo di uno dei problemi proposto ai bambini dice “ Mantenere un malato di mente costa circa 4 marchi al giorno, un invalido 5,5, un delinquente 3,5. Molti impiegati statali guadagnano appena 3,5 marchi, gli operai non specializzati solo 2: e con questa somma devono mantenere la famiglia. Illustrate queste cifre con un diagramma.”

Pochi testi riescono a darci un’idea così efficace e “ragionevole” del razzismo e dei metodi di penetrazione nella società che servono a rafforzarlo.

Tutti coloro che sono ritenuti una minaccia all’integrità della razza sono considerati un nemico da abbattere.
Il mito della purezza del sangue e il mito del territorio come “spazio vitale”, indispensabile per la popolazione tedesca di razza ariana, sono gli strumenti culturali e psicologici attraverso i quali il sistema totalitario si tiene, dirigendo tutti i contrasti e gli antagonismi sociali contro specifiche categorie di nemici che potevano essere facilmente sterminate: gli ebrei, rispetto ai quali dà i suoi pieni frutti un pregiudizio antigiudaico già presente in Germania a partire dalla fine dell’800, gli zingari, i malati di mente e i portatori di handicap, gli omosessuali, i mendicanti, i testimoni di Geova.

Gli oppositori politici sono parte importante di questo elenco, ma non ne costituiscono il nucleo fondamentale. La dittatura nazista non può tollerare alcuna forma di opposizione politica, e quindi procede alla eliminazione sistematica di comunisti e socialisti, ma il nucleo della sua ideologia sta nella conservazione e nell’accrescimento della purezza della razza. Così dalla legislazione eugenistica del 1933 si passa alla legislazione razziale degli anni 1935-1938, per poi arrivare alla politica dello sterminio annunciata fin dal 1939 e portata avanti fino agli ultimi giorni della seconda guerra mondiale.

In Italia la politica discriminatoria prende avvio già nel 1927, con alcuni pesanti provvedimenti contro i cittadini italiani di lingua slovena, e trova la sua più esplicita teorizzazione il 14 luglio 1938, con la pubblicazione del Manifesto degli scienziati razzisti.
In esso tra l’altro si affermava: "gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani".
Dopo pochi mesi, il 17 novembre, venne promulgato il regio decreto-legge, recante provvedimenti per la difesa della razza italiana. Le vittime della persecuzione antisemita, deportate dall’Italia, furono 6.746. Di questi 5.916 morirono. Soltanto 830 sono sopravvissuti.

Anche il comunismo sovietico ebbe il suo “principio totalizzante”, che portò ad una deformazione dell’altro, alla costruzione di un nemico ben identificato, tangibile, sul quale trasferire, odi, timori, inquietudini delle masse. Questo principio fu rappresentato dalla lotta violenta di classe, dalla necessità di sovvertire l’ordine sociale eliminando la classe capitalista e sostituendo ad essa il potere del proletariato.
Anche in questo caso attraverso costruzioni filosofiche e giustificazioni “razionali” (come il materialismo dialettico), si giunge alla rappresentazione “deformante” della civiltà capitalistica come nemico irriducibile. L’opzione socialista – che ha radici profonde in tutto il pensiero filosofico ottocentesco e che si rifà ad un universalismo di ispirazione democratica – si traduce nel comunismo sovietico in odio di classe e in eliminazione sistematica di tutti coloro che, non identificandosi nel principio della lotta di classe, sono automaticamente considerati come nemici da abbattere.

Le vittime dello stalinismo furono identificate e perseguitate non come appartenenti ad una razza inferiore o impura, ma in quanto oppositori politici.
Questo non toglie nulla alla mostruosità delle esperienze dei Gulag e delle purghe, per numero delle vittime, per sistematicità delle eliminazioni fisiche, per efficienza della macchina repressiva.
La “deformazione” dell’altro del comunismo sovietico coincide essenzialmente con l’individuazione del nemico politico e non con una concezione della “naturale” soppressione dell’uomo “inferiore” da parte dell’uomo “superiore”.
Nel comunismo sovietico l’altro è colui che si oppone o potrebbe opporsi ai piani economici del regime e colui che intende manifestare la propria libertà di pensare, di fare, di costruire in libertà.
Il regime sovietico si impegnò per la libertà dal bisogno di coloro che aderivano ai suoi principi ma schiacciò in modo brutale la libertà di agire.
La dimostrazione sta nel fatto che le condizioni materiali di vita dei lavoratori e dei cittadini nei decenni di stalinismo progredirono sensibilmente, mentre fu esclusa e punita atrocemente ogni manifestazione della libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di autonoma iniziativa in campo economico, sociale o artistico.

Esporre questa differenza non serve per salvare o per “condannare di meno” una forma di totalitarismo rispetto all’altra.
Serve a valutare i diversi sfondi culturali, le diverse concezioni dell’uomo, nelle quali si inseriscono le ideologie totalitarie del XX secolo.
Ma serve soprattutto a cogliere, anche in chiave di attualità, i nessi che all’inizio del XX secolo hanno legato quelle ideologie alla crisi dei regimi liberali.
Noi oggi abbiamo democrazie straordinariamente progredite, nelle quali i principi liberali, il catalogo dei diritti e delle libertà sono diventati universali, grazie anche alla correzione da parte dei regimi liberaldemocratici delle angustie dei regimi liberali e da parte delle socialdemocrazie le strettoie dei regimi del cosiddetto socialismo reale.
Ma abbiamo anche fenomeni, come la globalizzazione dell’economia, della finanza, della comunicazione, che mettono in gioco gli equilibri che il pianeta ha, seppur in modo incerto e non soddisfacente, costruito nella seconda metà del ''900.
Oggi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi dell’Est, e il venir meno della contrapposizione ideologica tra grandi blocchi internazionali, siamo entrati in una fase nuova, dai caratteri ancora incerti, nella quale sembra dominare come unica ideologia vincente quella del liberismo.
Abbiamo modificazioni nella scienza e della tecnologia, nella produzione e nella accumulazione della ricchezza, nella garanzia dei diritti dell’uomo, che producono scarti e distanze sempre maggiori, non solo tra le diverse aree del mondo, ma anche all’interno delle unioni di Stati o dei singoli stati.

La crescita del benessere è una crescita asimmetrica, che genera nuova schiavitù, povertà, esclusione. Secondo l’ultimo rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) sullo sviluppo umano, sono ancora oltre 80 i Paesi che hanno redditi pro capite più bassi rispetto ad un decennio fa o più.
Il rischio è tornare indietro di un secolo, quando i regimi liberali andavano avanti sicuri delle proprie potenzialità e delle proprie virtù universalistiche, incuranti delle sacche di emarginazione e di sfruttamento, incapaci di comprendere che la propria stabilità e il proprio futuro dipendeva da una sfida di allargamento della libertà dal bisogno a strati di popolazione fino ad allora esclusi.
Il rischio è oggi che il liberismo senza limiti, la assolutizzazione del primato del mercato e del massimo profitto, portino alla stessa cecità, a quella forma di “indifferenza” per l’altro - per chi ha meno mezzi, meno cultura, meno capacità di affermare i propri diritti - che ha generato disperazione e incertezza e ha rappresentato storicamente l’anticamera delle ideologie della “deformazione” dell’altro.
Le recenti vicende austriache, i crescenti rigurgiti di neonazismo, di nazionalismo e di populismo scuotono e preoccupano l’Europa, proprio in una fase nella quale essa è chiamata a consolidarsi come “comunità politica”.
Gli esiti di questa fase non sono scontati.
Da una parte c’è la posizione di chi contesta all’Europa di essere semplicemente una area di scambio e di traffico economico e finanziario. Uno strumento che avvantaggia unicamente i grandi gruppi economici e le potenti burocrazie comunitarie, senza preoccuparsi di sostenere la condizione dei più deboli. E’ la posizione di chi vede nella cessione di sovranità da parte dei singoli Stati a vantaggio dell’Europa una operazione tecnocratica, che mina le singole identità nazionali senza offrire forme di identità alternative. E’ questa la posizione di chi oppone all’Europa il nazionalismo, il rifiuto dello straniero, la riproposizione in chiave riduzionistica di miti identitari e delle ideologie totalitarie che, come abbiamo visto, hanno insanguinato la storia del novecento. Sarebbe, tuttavia, un errore di analisi e di prospettiva considerare questi fenomeni, come semplici riedizioni degli atteggiamenti che hanno portato al fascismo, prima, e al nazionalsocialismo, poi.
In realtà alla base di questi movimenti c’è una risposta in termini arcaici, “comunitaristi”, a un bisogno reale di appartenenza e di identità. E’ una risposta che guarda al passato, anziché al futuro, che ripropone il nazionalismo come dimensione di appartenenza fondata sul sangue e sulla terra.
L’alternativa al “comunitarismo” è il “cosmopolitismo”.
Non mi riferisco al “cosmopolitismo” come astratta ideologia illuministica, ma al “cosmopolitismo” come capacità delle democrazie di costruire concretamente “comunità politiche sempre più ampie”, nelle quali l’elaborazione dell’identità si fonda non sulla paura e sulla chiusura, ma sulla libertà e sull’apertura alla diversità, sulla convivenza di culture, stili di vita, razze, religioni, che si riconoscono e si rispettano.
L’Europa sarà in futuro il teatro di competizione tra la concezione comunitaristica e la concezione cosmopolita. In questa competizione occorre riportare al vertice della gerarchia dei valori la persona ed i suoi diritti.
Ciò significa attingere alle radici più profonde dell’identità europea. I diritti della persona umana costituiscono infatti il cardine di questa identità, fondata sul patrimonio culturale e civile derivante dall’antica filosofia greca, dal concetto cristiano di persona, dalle garanzie giuridiche elaborate nel mondo romano, dalla civiltà del Rinascimento, dagli ideali della Rivoluzione francese.

Il “cosmopolitismo” prevarrà se, facendo leva sui valori della persona, sapremo fare dell’Europa, oltre che un mercato e un luogo di produzione di ricchezza, anche un luogo di progettualità e di azione comune, capace di dare risposte ai grandi problemi della contemporaneità.

Dobbiamo costruire un’Europa capace di competere sul piano economico, con i forti concorrenti degli altri continenti, ma allo stesso tempo di garantire la coesione sociale in un rapporto equilibrato fra sviluppo economico e cittadinanza.
Soprattutto per i giovani, per i lavoratori, per i 15 milioni di disoccupati dell’Unione Europa, l’Europa deve costituire una garanzia, non una minaccia.
I cittadini che hanno affrontato pesanti sacrifici per raggiungere questo obiettivo devono sapere che quel traguardo non si riduce alla creazione di un nuovo modello di relazioni economiche e finanziarie, che tira avanti per la sua strada senza preoccuparsi di chi non tiene il passo e si perde.

L’Europa deve avere l’ambizione di porsi come forte e credibile fattore di aggregazione sociale, capace di valorizzare l’individuo, la sua dignità, la sua libertà, evitando il naufragio verso forme di individualismo esasperato, che genera nei cittadini paura, perdita di senso di sé e della propria dimensione sociale e collettiva e quindi fughe verso soluzioni involutive e “deformatrici” dell’altro.
Tutto questo richiede la capacità di riconoscere i pregi e la forza storica dell’ideologia liberale e dell’economia di mercato, senza dimenticare i suoi limiti e i suoi fallimenti storici.

Il fascino del liberismo senza regole porta al naufragio delle libertà, perché dimentica che il mercato ha senso e utilità solo in funzione dell’uomo, della sua dignità, della sua crescita culturale e civile, del suo saper essere membro di una comunità politica che guarda al di fuori degli egoismi personali, o di famiglia, o di gruppo.
Il mercato ha senso se si traduce in strumento di progresso materiale e civile diffuso, senza assumere su di sé una impropria funzione di guida della società.
La strategia deve rimanere saldamente nelle mani della democrazia politica, con i suoi valori e le sue istituzioni legittimate dalla sovranità popolare e cioè dalla volontà dei cittadini.
Questo naturalmente impone alle istituzioni democratiche di tenere il passo della modernità, di saper riconoscere in anticipo e accettare le sfide di apertura e di trasformazione, abbandonando definitivamente la vecchia funzione accentratrice e “onnivora” della politica e riconoscendo la centralità del cittadino.

Ma soprattutto impone alle forze politiche di comprendere che il proprio futuro non sta nell’alternativa tra una squallida gestione dell’ordinario e un nostalgico rimpianto delle vecchie gabbie ideologiche.
Sta nella capacità di dare risposte al bisogno connaturato all’uomo di uscire dalla dimensione originaria e primitiva di sopravvivenza individualistica, di superare la concezione angusta del proprio utile personale e di allargare, in una dimensione solidale, il proprio orizzonte di conoscenza, di progettualità, di azione.
La risposta moderna a questo bisogno non potrà più essere quella delle dottrine palingenetiche di trasformazione radicale dell’uomo. La risposta moderna è la costruzione di comunità politiche aperte, nelle quali uomini e donne di culture, tradizioni, lingue, etnie, condizioni sociali diverse possono sentirsi parte di un tutto.
Un tutto inteso non come spazio totalizzante, in cui i cittadini sono dominati e guidati verso mete di redenzione dalle istituzioni politiche, ma come spazio in cui le istituzioni servono a creare condizioni concrete e diffuse di conoscenza reciproca, di sicurezza, di accettazione e di rispetto delle differenze, disarmando in questo modo l’arcaica ma non domata pulsione alla deformazione di ciò che è diverso da sé.

Occorre insomma cominciare a pensare ad una nuova etica della specie umana fondata sulla consapevolezza dei fattori che hanno dato vita alle tragedie del passato, sulla giustizia sociale nel mondo presente, sui nostri doveri nei confronti delle generazioni future.