Sradicare la povertà. La comunità internazionale di fronte alla sfida di un obiettivo possibile


Roma, 02/29/2000


*** Convegno promosso dal CERFE ***


La globalizzazione favorisce l’espansione di molte facoltà contenute nella libertà di agire, come la libertà di circolazione di persone, idee, capitali e merci, la libertà di comunicazione e di informazione.
Allo sviluppo di tale libertà non fa tuttavia riscontro lo sviluppo analogo di altre libertà fondamentali, che sono articolazioni della libertà dal bisogno, come la libertà dai vincoli economici, fisici e culturali che impediscono ai singoli la piena realizzazione di sé stessi e dei loro progetti di vita e che li rendono subordinati e dipendenti dalle scelte altrui.

Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del PIL mondiale di dieci volte, da 3 mila miliardi a 30 mila miliardi di dollari, assistiamo infatti, anche per effetto della globalizzazione, ad una preoccupante allargamento della forbice economica già esistente tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Secondo l''ultimo Rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) sullo sviluppo umano sono ancora oltre 80 i paesi che hanno redditi pro capite più bassi rispetto ad un decennio fa o più. In particolare, a partire dal 1990, solo 40 paesi hanno ottenuto una crescita media del reddito pro capite di oltre il 3% l''anno, mentre 55 paesi soprattutto dell''Africa sub-sahariana, ma anche dell''Europa dell''est e della Comunità degli Stati Indipendenti, sono diventati ancora più poveri.
Questi dati confermano una tendenza di lungo periodo nella distribuzione mondiale del reddito, se si calcola che la distanza tra le nazioni più ricche e quelle più povere era di circa 3 a 1 nel 1820, di 11 a 1 nel 1913, di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973 e di 72 a 1 nel 1992.
Ancora oggi, nella cosiddetta società del benessere, molti paesi meno sviluppati, a causa della povertà, si vedono negare alcuni importanti diritti, come quello all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza sociale, alla salute, fino al fondamentale diritto alla vita.
La povertà costituisce ancora oggi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la principale causa di morte nel mondo. Il 40% dei decessi registrati nel mondo è dovuto a malattie contagiose, il 99% delle quali si verifica nel paesi meno sviluppati.

I dati statistici generali non ci aiutano a distinguere tra uomini e donne, mentre il rapporto uomini-donne non è uguale di fronte alla povertà. E’ in corso un processo di “femminilizzazione” della povertà. Le donne, specie nei paesi più poveri, sono infatti le più discriminate. Circa 550 milioni di donne, oltre la metà della popolazione rurale del mondo, vivono sotto la soglia di povertà. La donna povera è più soggetta a violenze degli uomini, partorisce figli ammalati o indeboliti ai quali non riesce a fornire il nutrimento necessario

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’AIDS l’epidemia dei poveri; ben il 95% delle persone colpite nel 1998 da questa malattia provengono infatti da paesi in via di sviluppo. Per alcuni di essi, quali Botswana, Kenya, Malawi, Mozambico, Namibia, Rwanda, Sudafrica, Zambia e Zimbabwe, l''AIDS ha posto un pesante dazio sulle aspettativa di vita, riducendole di 17 anni entro il 2010.

I dati statistici generali non ci dicono che i giovani sono le vittime più vulnerabili della povertà. Ma ogni anno muoiono in tutto il mondo 13 milioni di bambini sotto i cinque anni, a causa della malnutrizione o di malattie legate alla povertà. Almeno 5 milioni di bambini sotto i cinque anni, pari al 36% del totale in questa fascia d’età, sono gravemente malnutriti. La povertà costringe sino a 160 milioni di giovani al lavoro giovanile e circa 2 milioni a prostituirsi.
A fronte di questi dati è evidente che la povertà non costituisce solo una questione morale. Essa è infatti soprattutto una questione politica, per sei ragioni.
Primo: perché non dipende dalla scarsezza delle risorse ma dalla loro diseguale e ingiusta distribuzione.
Secondo: perché in molte parti del mondo la miseria dipende da guerre locali che potrebbero essere impedite dai paesi più forti, ma che sono intenzionalmente lasciate alla “non politica”, Medici senza frontiere, volontari e missionari, perché le donne, gli uomini ed i bambini coinvolti nella guerra, uccisi, violentati, non interessano alla politica.
Terzo: diminuisce il numero dei paesi poveri, ma in molte aree aumenta il numero delle persone povere perché i paesi più poveri sono quelli che hanno i più alti tassi demografici.
Quarto: perché una parte di questi poveri si riverserà ineluttabilmente nei paesi ricchi e noi ci troveremo domani ad affrontare in termini burocratici, di polizia o sociali, comunque assai costosi, anche umanamente, un problema determinato anche dalla nostra disattenzione politica.
Quinto: perché in molti paesi poveri le oligarchie al potere preferiscono investire in armi che vende loro l’Occidente ricco ed in guerre che riguardano solo il loro potere personale e non il destino dei loro popoli;
Sesto: perché il muro che separa i ricchi dai poveri passa anche attraverso i confini dei paesi ricchi. Nell’Unione Europea e negli USA il 15% degli abitanti vive in condizioni di povertà, nonostante la ricchezza dei paesi dove abitano.

I paesi ricchi del mondo, sedi delle democrazie occidentali, hanno dimostrato in diverse occasioni di avere a cuore i diritti fondamentali dei popoli. Lo hanno dimostrato con l’intervento militare in Kossovo e a Timor Est, con la persecuzione penale di Pinochet, con l’istituzione di una Corte penale internazionale e, prima, con l’istituzione di vari tribunali penali per crimini particolarmente gravi commessi in diverse parti del mondo.
Tuttavia queste azioni, e taluna tra esse non è stata da tutti condivisa, appaiono ben poca cosa a fronte della disperazione di milioni e milioni di esseri umani. E’ necessario un rinnovato impegno a livello internazionale e nazionale per garantire loro la libertà dal bisogno e alcune condizioni minime di vita.
La lotta contro la povertà e la battaglia per il diritto dei paesi poveri allo sviluppo passa necessariamente attraverso l’azzeramento del loro debito.
Il debito cresce ogni anno di 100 miliardi di dollari e si traduce nella impossibilità per quei paesi di gettare le basi per un proprio sviluppo economico stabile e duraturo.
L''Italia ha dimostrato una attenzione crescente su questo terreno, sia a livello multilaterale che unilaterale. Il Vertice dei G8 di Colonia del giugno scorso ha accolto la proposta italiana di innalzare la soglia di riduzione del debito commerciale dall’80 al 90% per quei paesi più poveri impegnati attivamente a stabilizzare la situazione macroeconomica, e di annullare nei loro confronti tutti i crediti di aiuto. Per 6 di questi paesi, cioè Mali, Mozambico, Nicaragua, Sierra Leone, Tanzania e Zambia, l’Italia ha già cancellato 920 miliardi di lire di debito.
Proprio domani, inoltre, la Commissione Affari Esteri della Camera inizierà l’esame di un disegno di legge che prevede la cancellazione totale di tutti i crediti che l’Italia vanta nei confronti dei paesi più poveri, cioè quelli con reddito inferiore ai 300 dollari annui pro capite, per un totale di 3000 miliardi di lire.
Con questo provvedimento si apre una nuova fase strategica.
La cancellazioni “tradizionali”, infatti, si sono rivelate insufficienti. Esse, tranne i casi della Polonia e dell’Egitto, non sono servite a far uscire i paesi beneficiati dalla spirale del debito. Cancellati i vecchi debiti, spesso, se ne sono accesi dei nuovi. Così è accaduto per la Tanzania, l’Uganda, il Ciad, il Burkina Faso. Infatti nel passato le misure di azzeramento del debito non sono state accompagnate da politiche mirate ad avviare la crescita economica ed il progresso civile.
Oggi, per effetto della nuova strategia, i paesi beneficiati, per potersi avvalere di queste misure, dovranno impegnarsi a riconoscere e garantire i diritti umani e le libertà fondamentali, a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali e a perseguire il benessere e il pieno sviluppo della persona umana, a spendere per la salute, l’istruzione e l’assistenza sociale.
L’Italia arriverà, alla fine, ad una cancellazione del debito dei paesi più poveri di oltre 6000 miliardi di lire.
L’iniziativa italiana ha avuto effetti catalizzatori nei confronti di altri Paesi, quali ad esempio Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada che, seguendo il nostro esempio, hanno annunciato propositi di cancellazione del debito che vanno al di là degli impegni assunti a Colonia.
Ma è venuto il momento di avviare una terza fase della strategia della riduzione del debito.
Lo sviluppo dei paesi poveri deve costituire un vincolo per le politiche economiche dei paesi più ricchi in due direzioni: non vanno adottate scelte che danneggino ingiustamente i paesi più poveri.
Faccio due esempi.
Per consentire ai paesi più poveri di crescere bisogna abbattere le barriere al commercio internazionale facendo in modo che anch’essi possano avvantaggiarsi della globalizzazione. Se quei paesi non riusciranno ad entrare con i loro prodotti sui nostri mercati, i nostri prodotti invece entrano senza alcuna limitazione nei loro mercati, sarà difficile pensare ad un vero sviluppo per loro.
Secondo esempio. I paesi in via di sviluppo rappresentano la fonte di circa il 90% della biodiversità esistente in natura. Ma essi si trovano nelle vesti di donatori di materia prima, il patrimonio genetico, senza ricevere nulla in cambio. Attualmente, in assenza di idonee legislazioni in questi Paesi, si stanno per realizzare alleanze strategiche tra industrie e governi o gruppi autoctoni. In cambio di brevetti basati sulle conoscenze tradizionali degli agricoltori locali, le industrie offrono una quota pari all’1 o 2%. Prendendo come base tale percentuale si calcola che il Nord sarebbe debitore nei confronti dei paesi poveri di oltre 300 milioni di dollari per diritti di sfruttamento non pagati relativi alle sementi per coltivazioni agricole.
Si sta inoltre manifestando nel mondo una dipendenza alimentare da pochissime piante; sono solo 10 quelle che oggi forniscono il 75% dei prodotti alimentari più consumati sulla Terra; questa dipendenza può minacciare seriamente qualunque strategia di sicurezza alimentare di un Paese, impedendo di fatto la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’alimentazione umana.
Si tratta in molti casi di piante ottenute da sementi modificate geneticamente per una maggiore resistenza a malattie, erbicidi, variazioni climatiche, che hanno sostituito i semi tradizionali. I semi manipolati geneticamente non sono riproducibili e creano conseguentemente una vera e propria dipendenza degli agricoltori dalle società produttrici presso le quali vanno acquistati. Questa industria, del valore di circa 23 miliardi di dollari, è nelle mani di poche società. Nel 1998 il controllo del 32% di questo mercato era detenuto da 10 grandi società , le stesse che, nel campo dei pesticidi, controllano l’85% di un mercato pari a 31miliardi di dollari. Contro questi colossi è stata annunciata un’azione legale antitrust da parte della Foundation on Economic Trends e della National Family Farm Coalition. Uno dei motivi del ricorso è appunto la commercializzazione di un seme dotato di un meccanismo genetico che ne impedisce la riproduzione e che pone pertanto l’agricoltore nella condizione di dover riacquistare ogni anno il seme, detto terminator, assicurando così alla società produttrice enormi profitti. E’ difficile che contadini dei paesi in via di sviluppo abbiamo i mezzi per associarsi ai colleghi statunitensi in questa azione legale, anche se il danno per loro, è davvero irreparabile.
Come è chiaro, la terza fase della strategia comincia a mettere in discussione non più e non solo le strategie dei paesi poveri, ma anche le basi sulle quali si fonda la ricchezza dei paesi ricchi, ai quali noi apparteniamo.
Stanno perciò finendo i tempi della bontà a costo zero e cominciano i tempi nei quali con prudenza e senso della misura occorrerà battersi per regole politiche internazionali che riguardino questa volta i paesi ricchi e non più solo i paesi poveri.