Assemblee legislative regionali. Nuove regole e nuovi poteri.


Roma, 02/07/2000


*** Convegno promosso dalla Conferenza dei Presidenti dell''Assemblea dei Consigli regionali e delle Province autonome ***


Nel sistema delle istituzioni politiche repubblicane il centro di gravità a volte si è spostato sulle istituzioni rappresentative, come il parlamento o i consigli (comunali, regionali e provinciali), sedi privilegiata della rappresentanza, e a volte sugli esecutivi sedi privilegiate della decisione.
Naturalmente questa bipartizione non va intesa in senso radicale.
Il Parlamento ed i consigli sono anche sede di decisione, guai se non lo fossero.
Gli Esecutivi hanno una loro forma di rappresentatività determinata dal voto di fiducia come avviene per il governo nazionale o dall’elezione diretta del capo dell’Esecutivo, come avviene per i comuni e per le provincie.
E’ fondata la preoccupazione che nutrono i presidenti qui riuniti in ordine al futuro della rappresentanza regionale dopo l’elezione diretta del presidente della giunta.
Non è una preoccupazione di tipo corporativo.
Un doppio circuito di legittimazione popolare, uno che riguardi il capo dell’Esecutivo e l’altro che riguarda il consiglio regionale, senza una riforma dei consigli, rischia di condannare al deperimento le sedi della rappresentanza, cioè i consigli e di trasformare il capo dell’Esecutivo in una sorta di factotum dell’istituzione. Questo fenomeno si è già verificato nei comuni e nelle province con un grave effetto di demotivazione per i consigli comunali e provinciali. Per le regioni sarebbe ancora più grave perché i consigli regionali, a differenza degli altri, sono un potere legislativo.
La preoccupazione riguarda quindi il senso della rappresentanza e la stessa forza dei governi regionali che, senza la mediazione e l’amalgama che viene dalle sedi della rappresentanza, rischierebbero prima o dopo di scontrarsi direttamente con la società civile dando vita ad un meccanismo di tipo populistico contrario alle esigenze di una moderna democrazia.
Il problema del futuro della rappresentanza non riguarda solo le regioni.
Riguarda tutte le istituzioni politiche perché è radicalmente cambiato dappertutto il rapporto tra governi e sedi della rappresentanza.
Nessuno contesta infatti la necessità di conseguire due obbiettivi politico-istituzionali: la stabilità dei governi e la rapidità delle decisioni.
Entrambi questi obiettivi congiurano non contro la rappresentanza intesa come categoria generale del diritto costituzionale e della politica, ma contro la rappresentanza per come essa è stata intesa nella tradizione italiana. Si impone perciò a riforma della rappresentanza.
E’ giusto e tempestivo, quindi, questo scambio di opinioni.
Posso aggiungere che mi interrogo sul futuro della rappresentanza parlamentare se arriveremo, come auspico, ad un forte garanzia di stabilità del governo nazionale.
Intendo chiarire a questo proposito che non credo sia in corso una crisi della rappresentanza. Siamo invece in una fase di trasformazione. La crisi seguirà se non sapremo gestire questa fase o se faremo l’errore di considerare la trasformazione delle assemblee come una sorta di braccio di ferro con gli esecutivi. La trasformazione deve portare ad un rafforzamento di tutti gli istituti della democrazia politica nell’interesse primario dei cittadini non di questa o quella articolazione delle istituzioni democratiche.

Il problema dei rapporti tra rappresentanza e decisione non è di oggi.
Nel passato, dal varo della Costituzione e sino alla crisi del centro sinistra, i rapporti sono stati sostanzialmente equilibrati.
I partiti politici erano fortemente legittimati nella società italiana per la sconfitta del nazifascismo, il varo della repubblica e l’approvazione della Costituzione. Il sistema elettorale proporzionale rispondeva alle esigenze della partecipazione popolare alla vita politica dopo il ventennio fascista. Il PCI doveva dimostrare ad ogni piè sospinto la propria legittimazione democratica e perciò aveva il massimo interesse al funzionamento delle assemblee rappresentative che erano il luogo principale nel quale esplicitare il proprio potere istituzionale.
Le coalizioni di governo, dal canto loro, erano cementate dalla pregiudiziale anticomunista che le rendeva ideologicamente coese. Le crisi di governo, assai frequenti, avevano in ogni caso come luogo di nascita, di crescita e di risoluzione la stessa maggioranza.
Si aggiunga che il sistema politico affrontò positivamente con la Ricostruzione i disastri della fase postbellica; con il boom economico ed il grande sviluppo trasformò il vecchio paese prevalentemente agricolo in una delle grandi giovani potenze industriali del mondo. Tutto questo conferì legittimazione al sistema politico.

Con la crisi del centrosinistra, a metà degli anni Settanta, gli equilibri cambiano.
La vecchia alleanza tra DC e PSI non è più in grado di seguire le veloci trasformazioni della società italiana.
Le condizioni internazionali e le pressioni interne non consentono l’ingresso diretto del PCI al governo; ma il governo non può prescindere dal PCI.
Si instaura quindi tra le tradizionali forze di governo ed il PCI un’intesa fondata su due fattori principali:
a) fare del Parlamento, dove era fortemente presente il PCI, la sede principale della decisione politica;
b) preconfezionamento delle decisioni tra le segreterie dei partiti.
In questa fase, che va dal 1976 al 1979, in coincidenza con la fase dell’Unità Nazionale, la parola d’ordine è “centralità del Parlamento”, che nella pratica diventa onnipotenza del Parlamento. Ma il sistema di governo materiale che si inaugura in quella fase indebolisce non solo il governo formale, quello che sta a Palazzo Chigi, che si trova ad essere notaio di decisioni prese altrove, ma anche il parlamento all’interno del quale scompare la normale dialettica tra maggioranza ed opposizione per l’ampiezza del blocco di maggioranza, che viene sostituita dalla prassi ostruzionistica messa in campo dal piccolo gruppo radicale.

All’inizio degli anni Ottanta, dopo la fine dell’Unità nazionale, il sistema cambia di nuovo.
Il cosiddetto preambolo Forlani, del gennaio 1980, ripropone la pregiudiziale anti-pci. Gli indirizzi politici di Bettino Craxi sono tutti orientati al primato della decisione, ricorderete la critica di decisionismo e, quindi, all’indebolimento di quel tipo di rappresentanza. Conseguente è la critica violenta al Parlamento, definito “parco buoi”, ed alle sue regole.
Al di là della volgarità delle espressioni , l’insofferenza nei confronti del Parlamento non è infondata.
Le regole di quel tipo di Parlamento infatti sono tali da farlo funzionare solo con il consenso dell’opposizione, allora monopolizzata dal PCI. Questo partito, peraltro, per propria educazione politica aveva la tendenza a presentarsi come codecisore piuttosto che come ostruzionista e quindi aveva assai raramente fatto uso di tutti i i poteri regolamentari per impedire la decisione. Ma il centrosinistra degli anni Ottanta, a differenza di quello precedente, nasce in base ad una chiusura nei confronti del PCI e quindi non può contare sulla cooperazione parlamentare di questo partito.
L’arma principale, ma non unica, di questo tipo di Parlamento è il voto segreto, possibile per ogni tipo di decisione. Il voto segreto era causa di trabocchetti e ritorsioni, accordi sottobanco, attacchi proditori ad un ministro inviso alla propria maggioranza, sostegni non rivelabili a ministri amici dell’opposizione.
Il nuovo centro sinistra chiede ed ottiene la modifica dei regolamenti parlamentari.
Il voto segreto è la prima vittima, seppure non incolpevole, della riforma.
Ma tutte le nuove regole, specie alla Camera, dal 1981 al 1988, sono improntate al principio del favor decisionis. Si modificano le norme sulla programmazione stabilendo un’alternativa all’unanimità che era prima necessaria per varare il programma dei lavori. Si limita la durata degli interventi. Si semplifica la discussione dei progetti di legge. Si istituisce la sessione di bilancio con limiti temporali garantiti dal contingentamento obbligatorio.
Nella prima metà degli anni Novanta, nel pieno della crisi determinata dalla fine del bipolarismo internazionale e dai processi per le corruzioni politiche, i governi ridiventano particolarmente deboli, perché esposti agli effetti dei processi penali (governo Amato) o perché tecnici (governi Ciampi e Dini) o perché di troppo breve durata (governo Berlusconi). Conseguentemente, il Parlamento riprende forza. Basti dire che spetta al Parlamento risolvere, in modo giusto o sbagliato qui non interessa, un delicato problema d’incompatibilità tra un ministro ed il governo di cui lo stesso ministro faceva parte. Mi riferisco al cosiddetto caso Mancuso.

Con le elezioni del 1996 le cose cambiano di nuovo. Si torna ai governi politici con programmi ambiziosi. I tempi delle decisioni parlamentari non sono adeguati ai tempi della società civile e a quelli imposti dalle relazioni internazionali. Le riforme degli anni Ottanta erano necessarie ma non sono più sufficienti di fronte alla competitività internazionale. Il risanamento dei bilanci e l’ingresso nel sistema della moneta unica sono obbiettivi fondamentali per il Paese. Il principio di alternanza è definitivamente acquisito e quindi nessuno pensa a sé stesso come eternamente al governo o eternamente all’opposizione. Si può cambiare il rapporto tra Parlamento e Governo.
Il processo di cambiamento va in due direzioni.
a) Si riforma, con il decisivo contributo del maggior partito di opposizione, il regolamento della Camera.
b) Cambia radicalmente carattere il procedimento legislativo, grazie soprattutto alle cosiddette leggi Bassanini.
La riforma del regolamento prevede tempi tendenzialmente certi per le decisioni con il contingentamento dei tempi sin dal primo calendario; in contropartita garantisce una serie di diritti all’opposizione che ne configurano un vero e proprio statuto.
Il procedimento legislativo è ormai incentrato sulle procedure di delega, delegificazione e sulla complessiva razionalizzazione che spostano sul governo l’asse della formazione in concreto delle regole.
Nel corso del 1998 e del 1999 abbiamo constatato i primi effetti positivi delle nuove regole. Il tempo medio di esame dei provvedimenti è passato dalle 6 ore e 31 minuti del 1997, prima della riforma, a 3 ore e 36 minuti nel 1999, dopo la riforma; il numero degli emendamenti presentati per ogni provvedimento deliberato si è ridotto da 196 a 71 mentre quello degli emendamenti votati è passato da 53 a 27, per ciascun provvedimento, in media. Il tasso di attuazione del calendario è passato dal 58% circa del 1997 al 78% circa del 1999. Le opposizioni hanno sfruttato integralmente il 20% el tempo a loro disposizione le commissioni hanno recepito oltre l’80% dei pareri espressi dal Comitato per la legislazione.
In occasione dell’esame del provvedimento sulla par condicio, l’opposizione del Polo ha lamentato il mancato rispetto, in generale, dei diritti dell’opposizione. I dati, che ho fornito in Aula, dimostrano che quella protesta non era fondata. Tuttavia il problema dei diritti dell’opposizione c’è ma non riguarda il regolamento; riguarda il sistema politico tendenzialmente bipolare e l’orientamento della riforma verso la decisione piuttosto che verso la rappresentanza. In queste mutate condizioni mi sembra che l’opposizione, di qualunque colore, è destinata ad avere sempre meno voce in capitolo sulle procedure legislative, ma sempre più peso nelle procedure di controllo. Su questo versante però siamo ancora indietro, non per la mancata attuazione degli strumenti esistenti, ma per la mancata costruzione di nuovi più efficaci strumenti di controllo sull’attività di governo.

Perciò non considero concluso il processo di riforma del regolamento della Camera. Inoltre la trasformazione del procedimento legislativo impone correzioni, forse anche costituzionali, per ricondurre alla rappresentanza generale, cioè al Parlamento, il monopolio della grande legislazione. Problemi analoghi vi troverete ad affrontare a livello di Regioni.


In sostanza, fino ad oggi la discussione sui processi di modernizzazione istituzionale si e’ incentrata soprattutto sugli esecutivi.
L’elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del presidente della Regione sono stato una risposta alla domanda di maggiore rapidità decisionale e maggiore stabilità di governo.
Ma il processo di modernizzazione ha sinora investito solo alcuni aspetti dell’attività del Parlamento ed ha lasciato fuori le altre assemblee rappresentative.
Occorre superare questo “vuoto di riforma” perché il rafforzamento della rappresentanza generale serve anche per legittimare gli esecutivi e per un migliore raccordo tra istituzioni politiche e cittadini. Oggi è perennemente in discussione la trasparenza e la legittimazione democratica dei processi decisionali e solo forti istituzioni della rappresentanza possono garantire al Paese la qualità dei processi decisionali.

In questa fase assistiamo ad una vera e propria "competizione rappresentativa" tra le diverse forme di rappresentanza compartecipi dei processi decisionali.
La rappresentanza politica non è l’unica forma di rappresentanza.
Si pensi alle associazioni dei consumatori, al Forum del Terzo settore, alle associazioni professionali che si presentano come portatrici di interessi generali: tipico è diventato il caso delle Camere penali che pur rappresentando un’esigua minoranza degli avvocati sono riusciti a legittimarsi come portatrici di interessi generali al buon funzionamento della giustizia.
In questa competizione le assemblee rappresentative non guadagnano nuova legittimazione se intendono sé stesse al vertice del sistema della rappresentanza. Il sistema italiano da verticale-piramidale è diventato orizzontale-a-rete: in questa nuova situazione il soggetto forte è quello che si presenta come motore del maggior numero possibile di connessioni con gli altri soggetti al fine di dare e ricevere imput e trasformare quegli imput in decisioni coerenti.

In questo contesto la capacita’ di rinnovarsi degli organi della rappresentanza generale delle diverse comunita’ dipende dalla capacita’ di stabilire interconnessioni tra valori e soggetti diversi, di far emergere le conseguenze generali di scelte particolari, di far valere le ragioni del cittadino in termini di risultati complessivi delle politiche pubbliche.

Per rispondere a queste innovazioni, le assemblee non possono occuparsi di tutto e non possono perdersi dietro la tutela di tutti gli interessi particolari, compresi quelli che trovano altri e più diretti canali di rappresentanza.

Le Assemblee devono concentrarsi sulle grandi scelte e sui problemi cruciali per le rispettive comunita’, in termini di indirizzo politico e di risultato finale delle politiche pubbliche. La dialettica democratica e le garanzie per le minoranze devono dunque applicarsi a rendere trasparenti, verificabili e giudicabili le scelte, senza paralizzare l’azione di governo ed evitando l’assurdo di applicare il massimo delle garanzie democratiche alle questioni minori, mentre quelle principali passano per altre vie.

Va dunque valorizzato un insieme di nuove procedure rivolte a realizzare efficaci momenti di collegamento con i poteri esterni, assicurando in forme diverse la partecipazione delle assemblee a tutte le questioni politicamente rilevanti .
La valorizzazione di queste procedure passa certamente per i regolamenti assembleari, ma va oltre e investe in pieno tutto il sistema dei raccordi interistituzionali, nei confronti anzitutto degli esecutivi e dei processi decisionali esterni nei quali gli esecutivi sono coinvolti insieme ad una molteplicità di altri soggetti nei vari livelli di governo .

La esigenza di ampliare il campo di intervento in questa direzione e’ il piu’ importante risultato emerso quest’anno nel corso della intensa esperienza svolta dalla Camera dei deputati nella attuazione delle riforme regolamentari di questa legislatura.
Nel corso del 1999 sono state introdotte ulteriori importanti modifiche con riferimento al rafforzamento delle grandi procedure in materia di bilancio e di rapporti comunitari nonché dei controlli sui poteri normativi attribuiti all’esecutivo o ad altri soggetti in materie precedentemente coperte con legge.
Contestualmente si e’ manifestata in modo crescente la esigenza di sviluppare una ricerca comune all’insieme delle istituzioni sia in campo europeo, sia in campo nazionale. In questa direzione vanno il documento proposto dalla Camera dei Deputati ed approvato dalla Conferenza dei presidenti dei parlamenti della Unione europea nel maggio 1999,a Lisbona, nonché gli atti della conferenza interistituzionale del giugno 1999 e del recente seminario interistituzionale del 6 dicembre 1999.

L’ esigenza di migliorare la organizzazione e la qualita’ complessiva dei sistemi normativi a vantaggio del cittadino e’ al centro di questa riflessione interistituzionale. Tale finalita’ va oltre il raggio di azione delle modifiche dei regolamenti delle assemblee, pure importanti fin qui realizzate, e richiede il loro seguito e collegamento con i più ampi interventi di riforma della legislazione in corso fino a porre problemi di ordine costituzionale

Proprio questo approdo della più recente riflessione che stiamo svolgendo qui alla Camera mette in luce come il processo di riforma regionale, che ha seguito un diverso ordine, sia a questo punto in una condizione ottimale. I consigli regionali potrebbero addirittura assumere in questa fase un ruolo trainante nella ricerca sul nuovo ruolo delle assemblee elettive.

Dopo la importante riforma costituzionale approvata, le altre in corso di discussione, mentre sono in avanzato stato di attuazione le riforma legislative per il decentramento amministrativo e fiscale, la prossima stagione di revisione degli statuti regionali (finalmente liberati da una procedura di approvazione parlamentare oramai anacronistica) e quella dei regolamenti consiliari offre la possibilità a ciascuna regione di ridisegnare l''intero sistema delle relazioni interistituzionali intorno ad un nuovo ruolo delle Assemblee.

La riforma degli esecutivi regionali e’ un''occasione per ridefinire la missione delle assemblee nel senso di una decisa modernizzazione.
In questo senso va applicata la modifica dell''articolo 121, secondo comma, della Costituzione, che ha tolto il vincolo costituzionale sull''affidamento al Consiglio regionale del potere regolamentare e che dunque puo’ offrire il modo per liberare le assemblee dai compiti minori e dalla microlegislazione per concentrarle sui compiti di indirizzo politico, di organizzazione dei raccordi con i centri esterni, di controllo.

Il problema più emblematico e’ costituito dalle forme con cui assicurare la partecipazione delle assemblee regionali alle procedure di concertazione territoriale verso l’alto, con lo stato centrale e l’Unione europea, e verso il basso con gli enti locali.

In mancanza di una riforma costituzionale del sistema bicamerale è difficile, ma non impossibile , trovare una soluzione democratica per il grande tema della canalizzazione istituzionale dei rapporti tra centro e autonomie.
Assume crescente importanza istituzionale e strategica il sistema intergovernativo delle conferenze stato-regioni-enti locali e, all’interno di ciascuna regione, regione-enti locali.
Intorno a passaggi cruciali, occorre in ogni caso evitare il rischio di emarginare le assemblee parlamentari sia nazionali che regionali, con drastica riduzione delle garanzie di trasparenza e dialettica democratica.

In un momento di trasformazioni così radicali per la rappresentanza politica, è più evidente l''esigenza di costruire, secondo un auspicio già formulato nel maggio 1998, in occasione delle giornate in memoria di Aldo Moro, dedicate al tema "Le assemblee elettive nella evoluzione della democrazia italiana", una "rete delle assemblee elettive", in modo da dare origine ad un circuito attivo e ad un reciproco sostegno.

Questo circuito puo’ essere lo strumento fondamentale per promuovere l’azione necesssaria per migliorare la qualità dell''azione delle assemblee rappresentative.

In estrema sintesi, non bastano nuovi assetti e nuove regole, occorre ritrovare canali autentici tra politica, istituzioni e società. Abbiamo il compito di far nascere una nuova missione ed una nuova etica pubblica della rappresentanza generale e politica.
La rete delle assemblee elettive potrebbe servire anche allo sviluppo di una comune convinzione circa la essenzialita’ della loro funzione nei confronti dei rischi oligarchici e tecnocratici, che nel mondo della globalizzazione sono perennemente in agguato.

Ciò richiede una rete di istituzioni comunicanti, non più chiuse da separatezze e gelosie.

Come sapete, la Camera dei deputati, nella legislatura in corso, si muove in questa direzione attraverso il dialogo con i Parlamenti europei, con i Parlamenti degli altri paesi, e con tutte le assemblee elettive operanti in ambito nazionale.
In questo spirito vi propongo, all''indomani delle elezioni regionali, di riprendere i nostri contatti per promuovere una comune riflessione a cominciare dai problemi della legislazione in attuazione della proposta che era stata preannunciata, in occasione dell''invio del Rapporto sullo stato della legislazione 1999, nell’agosto dello scorso anno.