55° anniversario della Liberazione di Ravenna


Ravenna, 12/04/1999


*** Giornata promossa dal Comune di Ravenna***


Nell’inverno del 1944 Ravenna era stata inglobata nel fronte delle operazioni militari.

La Liberazione, data per imminente alla fine dell’estate, parve definitivamente rinviata con il proclama Alexander del 13 novembre che chiedeva ai partigiani la cessazione di ogni attività.

A poco più di due settimane di distanza da quel proclama, il 2 dicembre del 1944, quasi mille partigiani erano pronti ad entrare in azione insieme ai militari alleati per sferrare l’attacco che avrebbe portato, due giorni dopo, alla liberazione della città.

Fu questa la pagina più straordinaria scritta dal movimento partigiano nella storia della Resistenza cittadina.

La determinazione alla lotta, la preparazione delle donne e degli uomini del CLN, la decisa opera di convincimento sugli alleati svolta da Arrigo Boldrini, erano infatti riusciti a fugare i dubbi e a vincere le resistenze dei canadesi e degli inglesi sull’opportunità di liberare subito Ravenna, non infliggendo alla città un altro inverno di distruzione.

Nei due giorni di battaglia tutti gli obiettivi militari assegnati alle formazioni partigiane furono puntualmente raggiunti a conferma della capacità tecnica cresciuta nei lunghi mesi di lotta, nutrita dall’insopprimibile volontà di sconfiggere il nazifascismo e riconquistare, con la pace, libertà e democrazia.

All’indomani della liberazione della città la maggioranza dei combattenti, di fronte all’opzione di tornare alla vita civile rientrando finalmente nelle proprie case, scelse di continuare a lottare schierandosi sulle nuove linee del fronte.

La Resistenza ravennate trae la propria forza da profondi convincimenti democratici, socialisti, cattolici, repubblicani e solidaristi .

Quasi il 10% dei 1545 italiani processati dal Tribunale Speciale è ravennate. Oltre ai 140 condannati dal Tribunale, Ravenna ha tra i suoi cittadini 60 inviati al confino e 250 sorvegliati speciali.

Questi dati rivelano che in città la tensione civile ed il rifiuto del regime non si spensero mai lungo tutti gli anni del fascismo.

Qui, inoltre, più che altrove la Resistenza è stata donna.

E’ stata impegno e lotta fatta da donne, che segna una tappa importante di emancipazione ed il rovesciamento del ruolo subalterno nella quale il fascismo le aveva costrette.

1212 sono state le partigiane attive non solo nella rete di protezione che coinvolgeva interi nuclei familiari in tutte le campagne della provincia, ma anche nell’attività militare e politica.

Furono promotrici di scioperi tenaci e ripetuti nelle fabbriche, furono alla testa di manifestazioni antifasciste e di azioni con le quali riuscirono ad ottenere la liberazione di partigiani arrestati dalle formazioni repubblichine. Parteciparono all’attività politica ed amministrativa delle strutture di governo che divennero operative nello stesso giorno della liberazione della città.

Con le loro azioni esse testimoniarono, insieme a migliaia di altri cittadini che Ravenna era ieri come è oggi profondamente antifascista.

Nei venti mesi di occupazione nazifascista, anche in Italia abbiamo sperimentato nella pratica uno degli assunti più aberranti su cui si fondava il regime nazista: l''idea che la guerra andasse combattuta contro un "nemico totale". Sin dal 1937 in Germania con questo concetto si teorizzò l''esistenza di "un estraneo da negare nella sua totalità esistenziale" e si affermò la necessità di "abbandonare ogni distinzione tra combattenti e non combattenti".

Forse non abbiamo riflettuto abbastanza su questo concetto che costituisce un elemento chiave della perversa razionalità su cui si è fondato il regime nazista e che fu poi condivisa dai suoi alleati.

Negli ultimi diciotto mesi di guerra nelle sola provincia di Ravenna questa aberrazione ha portato allo sterminio di più di 200 (231) persone, tra loro intere famiglie, bambini, ragazzi, donne e uomini inermi.

Oggi vogliamo ricordare il sacrificio di tutti coloro che combatterono per la libertà. I partigiani che caddero nelle altre azioni, le vittime civili assassinate nel corso dei rastrellamenti, i militari che morirono internati nei campi di concentramento perché rifiutarono l’arruolamento nelle fila della Repubblica di Salò, i cittadini ebrei, i civili ed i giovani che mandarono deserte intere classi di leva nell’esercito repubblichino, i deportati nei lager, tutte le donne e tutti gli uomini delle formazioni partigiane che lottarono nel nostro Paese.

Insieme ai partigiani di Ravenna, in quei mesi migliaia di altri uomini, la gran parte umili e sconosciuti, avevano impugnato le armi per ricostruire dignita’ nazionale, liberta’, sviluppo.

Tutti decisero di impegnare sé stessi su alcuni valori che consideravano insopprimibili e non negoziabili: la libertà, l’eguaglianza, la responsabilità, la solidarietà, il pluralismo. Furono i loro ideali, e divennero quelli in cui tutti noi ci riconosciamo oggi indipendentemente dagli schieramenti politici cui apparteniamo.

La celebrazione della Liberazione di Ravenna è anche l’occasione per interrogarci su come possiamo oggi trasmettere la memoria ed il valore della Resistenza

Nei primi cinquant’anni della Repubblica abbiamo soprattutto difeso i valori della Liberazione.

Dopo la fase eroica di chi partecipò in prima persona a quella lotta abbiamo mantenuto forte e vitale il valore della Resistenza difendendola con determinazione negli anni dell’immediato dopoguerra in cui si tentò di porla ai margini della vicenda repubblicana.

Negli anni ’70 ne abbiamo riscoperto la ricchezza e la complessità attraverso uno straordinario sviluppo dell’attenzione e degli studi sulla Lotta di Liberazione.

Oggi gli eredi civili dei resistenti di ieri devono passare da una concezione proprietaria ad una concezione espansiva della Resistenza per conquistare ai suoi valori tutto il Paese, in particolare le generazioni che non l’hanno vissuta direttamente, e gli eredi dei vinti di ieri.

Discutere con gli avversari non significa smarrire la ferma consapevolezza che le parti in conflitto combattevano per due sistemi antagonisti: uno era quello dei valori di libertà e democrazia, l’altro quello delle leggi razziste, dello sterminio e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo.

Attraverso la discussione possiamo distinguere con nettezza la memoria dalla storia e costruire dei punti fermi, incontrovertibili, sui quali ancorare saldamente la nostra “religione civile”.

Tra questi punti fermi ci sono la Resistenza e la Liberazione come elementi costitutivi della nostra Repubblica.

Io credo che la democrazia sarà tanto più forte quanto maggiore sarà il numero di coloro che condivideranno il valore della Liberazione. Chi ha combattuto, quelli che sono caduti, avevano come obbiettivo tutta l’Italia non questa o quella parte politica.



La lotta di Liberazione era nutrita, giorno per giorno, dalla volontà di riscatto della nazione e dalla passione per la costruzione del futuro del Paese.

Sin dai primi mesi della Resistenza i documenti dei partigiani di diverse formazioni politiche non si limitano a discutere delle azioni contro i nazifascisti, ma hanno il respiro e la tensione civile di un progetto che guarda oltre i giorni della lotta per ricostruire le condizioni di una vita civile per tutti gli italiani.

A questo progetto diedero corpo ancor prima della Liberazione le fondamentali esperienze democratiche e di governo delle repubbliche partigiane.

Qui a Ravenna, sin dal dicembre ’44, ci fu la straordinaria stagione delle giunte popolari che seppero coniugare l’esercizio della politica e della democrazia con la capacità di governo, per rispondere alle esigenze quotidiane delle comunità locali, ma anche per costruire il loro futuro, attraverso il miglioramento delle condizioni di lavoro e la ricostruzione.

E'' stata questa la forza coesiva ed il traino che, all''indomani della Liberazione e nonostante le divisioni che si aprirono con la guerra fredda, ha consentito a tutto il Paese di rinascere.

Tutte quelle donne e quegli uomini hanno dimostrato che nella storia dei popoli non c’è nulla di irrimediabile, se i popoli hanno il senso della dignità nazionale.

Dopo il nazifascismo molte altre volte il sangue, nel nostro paese, ha tentato di schiacciare la storia, la memoria, la volontà di costruire.

La storia della Repubblica non e'' una storia criminale è una storia di lotte e di traguardi per il progresso civile. Ma nella storia della Repubblica si sono annidati nuclei che hanno usato l''omicidio come mezzo di lotta politica contro il progresso civile.

L’Italia degli ultimi trent’anni, con le sue otto stragi, i circa 13.000 attentati, gli oltre cinquecento morti e’ stata la patria moderna dell’omicidio politico. In nessun altro Paese avanzato sono stati uccisi tanti magistrati, cittadini comuni, poliziotti, uomini politici democratici.

La professione della magistratura ha pagato il prezzo più alto con 24 magistrati uccisi dal 1971 al 1992.

Questo significa che la legalita'' non e'' stata accettata da tutti come il confine invalicabile dei comportamenti politici ed economici.

Nessun paese del mondo avanzato ha avuto nel secondo dopoguerra un tasso di violenza politica così elevato. Molti altri paesi sarebbero stati schiacciati. Noi no. Noi ci siamo liberati dal terrorismo. Abbiamo processato e condannato gli imputati per le stragi mafiose e terroriste. Noi italiani sappiamo soffrire, sappiamo combattere e sappiamo andare avanti.

Nei terribili mesi del 1944-1945 qualcuno, dopo aver visto i corpi delle partigiane e dei partigiani abbandonati nella neve, appesi ai lampioni, crocifissi ai pali telegrafici, penso'' forse che era inutile resistere.

Forse anche qui, a Ravenna, quando si videro i corpi di Natalina Vacchi e di altri 11 ostaggi ammazzati al Ponte degli Allocchi, qualcuno penso'' che i nemici della liberta'' erano troppo forti, che bisognava arrendersi a quello che sembrava un destino inesorabile. E invece anche quella volta vinse la dignità, il coraggio di opporsi, la volontà di lottare per la libertà.

Quella dignità e quella forza non furono spazzate via dalla guerra fredda e dal bipolarismo internazionale. Continuarono ad essere il motore ideale della ricostruzione e dell’unità civile del Paese.

E’ indispensabile riguadagnare quella forza e superare il clima di litigio, di scontri continui, volti a delegittimare l’avversario, a mancargli di rispetto anche con la menzogna più volgare, un clima che frena e distoglie il Paese dai suoi obiettivi interni ed internazionali.

Il Paese in questi ultimi anni è andato avanti.

Dal 1996 ci sono oltre 600.000 posti di lavoro in più. Siamo nell’U.M.E. La riconquistata stabilità della finanza pubblica ci viene internazionalmente riconosciuta. L’Italia gioca con misura e convinzione una nuova politica estera di dialogo e di cooperazione nell’area euro-mediterranea, alla quale si guarda con attenzione ed interesse.

Ma l’uscita dalla guerra fredda, che ci ha riconsegnato la possibilità di costruire il nostro futuro, non ha prodotto un’azione unitaria e convergente su sulle grandi strategie del Paese

In questi stessi anni l’Italia ha rischiato, periodicamente, di essere bloccata da scontri basati sulla “riscoperta” di pezzi di storia, utilizzati come lance per denigrare l’avversario.

Questo modo di esercitare la politica non serve al Paese.

Questo modo di usare frammenti isolati di vicende storiche per rifondare sulla loro base la storia del Paese, la credibilità di una o dell’altra forza politica, non serve ad andare avanti.

Occorre trasformare la contesa in uno sforzo di comprensione della realtà italiana di cui il nostro Paese ha bisogno per andare avanti, per costruire una democrazia conveniente, capace di rispondere ai bisogni di una società complessa come la nostra.

Ognuno deve portare il suo contributo, anche se in conflitto con quello degli altri, alla comprensione della nostra storia.

Questo modo di affrontare la questione della comprensione della storia del nostro Paese, nella verità e nella chiarezza, deve collocarsi in una prospettiva ed in un progetto di conciliazione nazionale.

I caratteri di fondo di questo progetto debbono essere la pubblicità, la memoria, la consapevolezza dei fatti sui quali ci possiamo conciliare nelle rispettive differenze.

Questo percorso non può avvenire attraverso un patto tacito tra le forze politiche perché i cittadini hanno diritto di conoscere pubblicamente manifestate le tesi e le verità di ciascuna parte.

Deve escludere ogni atteggiamento di occultamento della verità, di amnesia e di oblio sulle responsabilità.

Deve fondarsi sul riconoscimento che vi sono fatti storici per i quali si può chiedere uno sforzo per conoscere ma non ci può essere né perdono civile nè conciliazione politica.

Questo significa che non possiamo conciliarci con chi è stato responsabile anche nel nostro Paese della persecuzione antiebraica e dello sterminio.

La condanna a due anni di reclusione pronunciata due giorni fa da un Tribunale tedesco nei confronti di un neo-nazista che aveva negato lo sterminio degli ebrei e le precedenti condanne, per fatti analoghi, inflitte in Francia qualche tempo fa sono la conferma che lo sterminio costituisce un confine insuperabile sempre e comunque, che non c’è giustificazione di libertà di pensiero che possa avventurarsi oltre quel confine, perché quello costituisce il limite ontologico dell’identità europea contemporanea.

Al Senato è in discussione un progetto di legge per fare del 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz una “giornata della memoria”. Non intendo né posso entrare nel merito della proposta. Voglio solo dire che altri eccidi, mi riferisco a quelli commessi dai regimi stalinisti, hanno offeso la nostra epoca, ma non è possibile annegare la memoria della Shoah, rievocata attraverso il valore emblematico della liberazione del lager di Auschwitz, in una lista delle vicende e dei crimini che hanno segnato il secolo che si chiude. I crimini dello stalinismo vanno ricordati perché non scompaia nell’amnesia quello schiacciamento dei valori umani. Ma lo Sterminio è stato altro.

Non è sulla base di una lettura di parte della storia, ma sulla consapevolezza dell’irriducibilità dello sterminio che tutti i Paesi europei che hanno istituito la Giornata della Memoria hanno scelto, nella chiarezza, di commemorare in quel giorno ciò che fu compiuto nei lager nazisti.

Non lo hanno fatto solo l’Inghilterra, l’Austria o la Germania, ma anche un Paese come la Francia che ha vissuto durante la guerra una storia di divisioni e di lacerazioni profonde.



Conciliazione significa rinuncia all’uso della storia di ieri per combattere i conflitti di oggi.

L’unico modo per raggiungere la verità e la chiarezza è che in una sede adeguata per la sua dignità e il suo peso nella vita del Paese, come il Parlamento, ciascuno dica la sua verità e sia disposto ad ascoltare quella degli altri.

Non credo che un percorso di conciliazione che coinvolga i primi cinquant’anni della nostra Repubblica possa essere avviato in una sede diversa.

Non è di ostacolo a questo percorso, né l’ampiezza del periodo storico né il numero dei fatti e delle vicende.

Ogni parte politica indicherà direttamente i punti che riterrà più importanti, poi gli italiani ricostruiranno la propria verità, sulla base di quanto avranno ascoltato, e giudicheranno con lo strumento della democrazia: il voto.

La decisione di giovedì scorso al Senato sul dossier Mitrokhin, che non si colloca ancora in questo progetto, può essere considerata come un segno da utilizzare nella ricerca della volontà di superamento del vecchio modo di utilizzare la storia.

La costruzione del progetto della conciliazione è indispensabile anche per poter poi affrontare, in uno spirito di verità e senza vendette, le vicende della crisi del sistema politico dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del vecchio legame tra partiti ed elettori.

La crisi della prima repubblica non ha la sua origine nelle aule giudiziarie o in presunti complotti. E'' una crisi che si è sviluppata a partire dalla fine di un assetto internazionale bipolare in cui anche l''Italia era pienamente inserita e che si è materializzata con i due referendum, del 1991 per la preferenza unica e del 1993 per il sistema maggioritario.

“Soluzioni” giudiziarie in questa materia, scisse da una conciliazione politica non ci farebbero uscire comunque dall’impasse in cui viviamo.

Solo se si affrontano congiuntamente l’aspetto politico e quello giudiziario la politica non compie invasioni di campo, senza delegare ad altri la soluzione dei suoi problemi, e la giustizia ritrova i margini per sciogliere con formule efficaci e condivise i nodi del passato.

Ma deve essere chiaro che nessuna “soluzione” giudiziaria può comprendere chi è stato condannato per corruzione.

Nessuno Stato di diritto l’ha mai fatto, ad eccezione di quei Paesi dove gli stessi corrotti sono andati al potere e hanno decretato per sé stessi l’autoassoluzione.

La corruzione e il sistema delle tangenti non è una invenzione di una parte politica o il frutto di un teorema giudiziario. Per avere la prova che questo sistema è esistito ed è stato operativo basta guardare agli importi degli appalti. Il completamento di Malpensa, ad esempio, che costa oggi 1990 miliardi, alla fine degli anni ’80 costava 5000.



Fissati questi punti fermi credo che poi le commissioni d’inchiesta, ben vengano se sono ritenute utili, gli storici, i mezzi di informazione potranno affrontare i capitoli più controversi della storia nazionale sulla base di tutti gli archivi esistenti che debbono essere messi a loro disposizione, a partire da quelli delle diverse commissioni d''inchiesta parlamentari e dei partiti politici.

Non si tratta di creare un Tribunale degli storici, né tribunali politici, poiché, soprattutto gli storici, hanno smesso da tempo di ritenere che il loro mestiere conduca all''accertamento obiettivo della Verità. Ad essi è invece affidato il compito di farci conoscere e capire meglio il significato dei documenti e dei fatti, nella consapevolezza che nessun documento è innocente. Esso non è di per sé una fonte storica se non viene prima contestualizzato, e se non ne viene compresa la funzione sin da quando esso viene prodotto.

Lo sforzo di chiudere una fase storico-politica nella verità e senza vendette fa parte della storia e dello sforzo di modernizzazione dei Paesi. Prima di noi si sono trovati nella nostra situazione la Francia, dopo l''Oas, l''Inghilterra con l''Irlanda del nord, e l’Algeria con il fondamentalismo islamico.

Oggi lo fanno Paesi che hanno avuto tragedie ben più grandi e con possibilità ben più limitate delle nostre, dal Sudafrica alla Colombia.

Avviare un percorso di riconciliazione ci serve per mettere il Paese nelle condizioni di sostenere con energie adeguate le sfide internazionali. Uno dei caratteri delle società contemporanee sta infatti nella velocità dei processi di cambiamento che richiedono capacità di risposte rapide e, insieme, consapevolezza delle opzioni in gioco.

E'' uno sforzo doloroso, ma serve all''Italia.

Perché l’Italia possa essere competitiva, dobbiamo liberarla da un passato imprigionante. Anche perché molto di questo passato è fatto di scorie che servono ad intralciare il cammino del Paese.



Solo così costruiamo le condizioni che ci consentono di operare per lo sviluppo e la crescita economica del Paese, per la modernizzazione delle sue istituzioni, per dare risposte positive alle tre grandi questioni della sicurezza per tutti, del lavoro per tutti e della scuola per tutti.



Perché chi cadde e combattè qui a Ravenna, morì e agì non per una sola parte dell’Italia, ma per tutti gli italiani, senza distinzioni di sorta.



E noi, nel succedersi delle generazioni, restiamo fedeli a quell’impegno.