Il coraggio della memoria: la questione balcanica


Roma, 12/03/1999


***Giornata di studio, promossa dal Ministero della Pubblica Istruzione e dall''Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia***


Questa giornata di studi è una occasione per riflettere insieme sugli strumenti organizzativi e sui primi risultati del progetto “I giovani e la memoria” che ha già coinvolto migliaia di ragazzi in tutto il Paese, consentendo a molti di loro di poter conoscere direttamente i monumenti silenziosi ed agghiaccianti della discriminazione e dello sterminio razzista: dai testi normativi che cancellarono i diritti civili di 40.000 cittadini italiani ai luoghi dell’annientamento fisico di milioni di ebrei, di detenuti politici, di persone definite da Hitler “difettose”.

Questo impegno è parte di uno sforzo che dobbiamo compiere assieme per garantire la continuità delle conoscenze tra le generazioni.

Per far sì che i ragazzi e le ragazze possano comprendere, sino in fondo, il significato del nazi-fascismo, che aveva posto a suo fondamento il principio di discriminazione; e come in ogni momento in cui questo principio riemerge la tragedia, può ripetersi. L’ultimo esempio viene dai Balcani.

E’ questo un obiettivo che vede protagonisti gli insegnanti impegnati a svolgere, accanto al compito fondamentale di trasmissione dei saperi, un ruolo prezioso per la crescita civile delle giovani generazioni.

Quando riflettiamo sul modo con cui Auschwitz deve essere insegnato e fatto conoscere agli studenti dobbiamo tenere presente alcuni principi imprescindibili che si fondano proprio sulla consapevolezza di ciò che ha reso possibile la Shoah.

Voglio dire che se è potuto accadere quello che è successo ad Auschwitz che, forse vale la pena ricordarlo, era un Vernichtungslager cioè - letteralmente - un lager di "nullificazione", ciò è stato possibile perché uno Stato ha fondato la propria legittimazione sul principio di disuguaglianza.

Il nazismo si fondava, come il fascismo, sul principio di discriminazione. Senza quel principio non avremmo avuto gli orrori successivi.

L’accettazione di quel principio ha prodotto come “conseguenza normale” il passaggio dalla negazione dei diritti degli ebrei al loro sterminio, con l’applicazione rigorosa di principi di efficienza e un''organizzazione razionale basata sull’applicazione metodica e quotidiana di operazioni burocratiche che Hannah Arendt descrisse, nel loro insieme, come la "banalità del male".

Una seconda riflessione sulla shoah riguarda il principio di non risarcibilità.

Negli ultimi anni la questione dei beni sottratti agli ebrei dai nazisti e dai loro complici ha riaperto la discussione sulla restituzione di questi beni e molti hanno parlato di risarcimento.

Il carattere mercantile che spesso assumono le relazioni umane nell’età della globalizzazione, porta a pensare che tutte le ferite siano risarcibili.

Su questo punto credo si debba essere chiari poiché c''è il rischio che la giusta restituzione a chi ha titolo al recupero di quei beni venga considerata come una sorta di transazione impropria, come un saldo definitivo delle responsabilità, delle connivenze e dei silenzi che ambienti finanziari ed industriali hanno mantenuto durante e dopo i regimi nazi-fascisti.

Questa è un''equazione inaccettabile poiché il principio della risarcibilità contiene in sé stesso il principio di ripetibilità. Ciò che è risarcibile è ripetibile. Ammettere la risarcibilità dello sterminio significa ammettere che esso può essere ripetuto.

Così come è inammissibile il principio di risarcibilità è altrettanto inaccettabile richiamare la categoria civile della conciliazione o quella morale del perdono. Perché riconciliarsi e perdonare non significa semplicemente capire, ma accettare l’idea che si possano cancellare le responsabilità per un crimine che ha a suo fondamento la negazione della persona umana.

Gli ebrei, e con essi gli zingari, gli omosessuali e le persone “difettose” non venivano arrestati e sterminati a causa delle loro azioni, o del loro “avere”, ma solo in ragione del loro “essere”.

Sarebbe intellettualmente e moralmente inaccettabile pronunciare, in questo caso, le parole conciliazione e perdono, che invece ben possono essere pronunciate e praticate in altri contesti. La condanna a due anni di reclusione pronunciata ieri da un Tribunale tedesco nei confronti di un neo-nazista che aveva negato lo sterminio degli ebrei e le precedenti condanne, per fatti analoghi, inflitte in Francia qualche tempo fa sono la conferma che lo sterminio costituisce un confine insuperabile sempre e comunque, che non c’è giustificazione di libertà di pensiero che possa avventurarsi oltre quel confine, perché quello costituisce il limite ontologico dell’umanità contemporanea in Europa.



Una terza riflessione riguarda il dovere di affrontare il problema delle responsabilità, delle connivenze, degli approfittamenti e dei silenzi che vi sono stati nel nostro Paese.

Sappiamo che ci furono molte manifestazioni di rischiosa e forte solidarietà Molti ebrei furono ospitati da amici non ebrei o nascosti in conventi. Ma non fu questo il comportamento prevalente. Il comportamento prevalente fu il silenzio. Non può aggiungersi ora a quel silenzio il nostro silenzio.

Non ci fu solo chi salì in cattedra grazie all’espulsione dalle università dei professori definiti di razza ebraica.

Anche dopo l’inizio delle deportazioni ci furono casi non isolati di cittadini italiani che accettarono di segnalare il proprio vicino ebreo alle autorità nazifasciste in cambio di qualche soldo.

Alcuni di questi, anche dopo la guerra, non si vergognarono di uscire indossando i vestiti e gli oggetti preziosi sequestrati nelle case di coloro che avevano denunciato.

La Commissione presieduta da Tina Anselmi, attraverso il lavoro prezioso di questi mesi, ha già raccolto una mole impressionante di documenti che testimoniano l''efficienza con la quale la burocrazia italiana procedette alla sistematica spoliazione dei beni di cittadini definiti di razza ebraica.

Funzionari ed impiegati si impegnarono per la compilazione, e la solerte messa a disposizione dei nazisti, delle liste dei deportati per i campi di sterminio. Si tratta di 8566 persone di cui solo 1009 sono sopravvissute. Fu uno zelo disonorante cui seppero sottrarsi invece altri funzionari di Paesi europei come la Danimarca e la Bulgaria.



E’ ripresa in questi giorni la discussione sull’istituzione, finalmente anche in Italia, di una “Giornata della memoria” che dovrebbe essere celebrata ogni anno il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di Auschwitz.

Non posso e non intendo entrare nel merito della proposta legislativa che viene avanzata e che sarà comunque esaminata dai due rami del Parlamento.

Ma ritengo che debbano essere ribaditi alcuni punti irrinunciabili.

Il dovere della memoria della Shoah, non dimenticare mai quanto accadde allora, è parte integrante dell’impegno permanente contro l’indifferenza, contro il torpore della memoria.

Questo impegno non può essere scisso dalla consapevolezza che quello sterminio, nella sua storicità, è un fatto unico ed irriducibile.

Non si tratta in alcun modo di negare il rispetto ed il dovere del ricordo delle vittime di tutti i regimi che in questo secolo si sono fondati sul totalitarismo e sull’intolleranza come lo stalinismo, anzi potrebbe essere utile una specifica riflessione su questo tema.

Questo secolo ci consegna in eredità, insieme ad uno straordinario sviluppo dei diritti dell’uomo, anche la storia dello schiacciamento feroce della persona che si è fondato sulla negazione della libertà.

Di fronte ai disastri verificatisi nel Novecento, alla fine di questo secolo, occorre un impegno forte e consapevole per riportare al vertice della gerarchia dei valori la persona e i suoi diritti.

Ciò che non possiamo fare è annegare la memoria della Shoah, rievocata attraverso il valore emblematico della liberazione del lager di Auschwitz, in una lista delle vicende e dei crimini che hanno segnato il secolo che si chiude.

Non è sulla base di una lettura di parte della storia, ma sulla consapevolezza dell’irriducibilità dello sterminio nazista che i Paesi europei che hanno istituito la Giornata della Memoria hanno scelto, nella chiarezza, di commemorare in quel giorno ciò che fu compiuto nei lager nazisti.

Non lo hanno fatto solo l’Inghilterra, l’Austria o la Germania, che ha chiamato quella giornata il “giorno del pentimento”, ma anche un Paese come la Francia che ha vissuto durante la guerra una storia di divisioni e di lacerazioni profonde.

Con l’istituzione della Giornata della Memoria verrebbe offerta al Paese un’occasione preziosa non per commemorare, ma per ricordare e per riflettere, per richiamare ognuno di noi al dovere di un impegno quotidiano contro il razzismo.

La xenofobia e il razzismo, che si fondano sul principio della discriminazione, non sono realtà chiuse in teche di vetro o in archivi polverosi.

Non lo sono innanzitutto per l’impegno che abbiamo di sostenere il diritto delle vittime di allora a non essere dimenticate.

Non lo sono perché non vogliamo ridurre la memoria dell’offesa di Via Tasso ai comunicati e agli articoli del giorno dopo.

Chi ha voluto colpire la prigione di Via Tasso ha tentato di cancellare simbolicamente il luogo dell’oppressione e della tortura nazifascista.

Se vogliamo riaffermare concretamente il valore della democrazia, il principio dell’uguaglianza e dell’inclusione dobbiamo rafforzare l’impegno comune per radicarli nella coscienza di tutti ed in particolare di chi, magari per paura o perché non capisce, sceglie di diventare razzista.

Non tutti comprendono che uno dei caratteri fondamentali del futuro dell’Europa sarà quello della multietnicità e che questo futuro dev’essere affrontato con serenità e fermezza, deve essere governato e non respinto.

La stessa vicenda dei Balcani ci mostra che l’unico futuro possibile è quello basato sulla multietnicità, sulla multireligiosità, sul rispetto del principio del pluralismo. Questi valori si realizzano solo in un sistema politico democratico, fondato su un concetto di rappresentanza non legato all’etnicità ma alla cittadinanza.

Più che mai oggi è attuale, per dare concretezza alla democrazia, il richiamo alla lotta contro il razzismo e contro ogni forma di discriminazione. Non si tratta di riaffermare il vecchio concetto di tolleranza, che presuppone la divisione in tollerati e tolleranti. Occorre costruire il concetto ed il costume della convivenza tra diversi che si rispettano reciprocamente.

Non dobbiamo essere razzisti con i razzisti. Dobbiamo conquistare al valore della convivenza e del rispetto reciproco anche chi invece è convinto di difendersi con il rifiuto e la diffidenza verso chi è diverso da sé.

La capacità di lottare contro il principio di discriminazione che costituisce la più grave forma di iniquità sociale è uno dei capisaldi della dignità di uno stato democratico.

Sta al nostro lavoro comune farla divenire uno dei cardini nella formazione delle generazioni che non hanno conosciuto direttamente il nazismo ed il fascismo, in quella trasmissione di valori, sentimenti, ideali che da un senso alla vita e permette che la vita abbia un senso.