L''integrazione possibile. Migrazioni, intelligenza e impresa nell''era della globalizzazione.


Roma, 02/25/1999


*** Convegno internazionale promosso dal Cerfe***


I movimenti migratori, sulla base di una recente stima dell''ONU , coinvolgono più di cento milioni di individui, con un ritmo di crescita di circa un milione di migrazioni per anno.
Secondo l''Organizzazione Internazionale del Lavoro, da qui a due anni oltre la metà della popolazione africana sarà al di sotto dei livelli di sussistenza. Si deve aggiungere la crescita della disoccupazione, che nel Duemila colpirà, secondo le stime, il 31% della popolazione mondiale urbana .
Queste condizioni favoriranno sempre più lo spostamento di persone verso i Paesi ''ricchi’ dell’Occidente.

Alle migrazioni ''da povertà’ devono aggiungersi due forme ''emergenti’ di migrazione, tra loro molto diverse.



1. Una, sino ad oggi poco studiata, è la cosiddetta migrazione ''dei cervelli’, che è sostanzialmente volontaria.

Questa forma di migrazione è propria dei paesi ricchi dell’Occidente, dove appartenenti alle classi dirigenti si spostano da una nazione all’altra, scegliendo i lavori più soddisfacenti e meglio retribuiti; essa riguarda però, anche fasce di popolazione provenienti dal Terzo mondo, spesso formatosi nelle loro Università o in quelle occidentali, che non trovano condizioni di lavoro adeguate nei loro paesi d''origine. In Italia, circa un quarto della popolazione immigrata è composta da laureati e più della metà da diplomati.

L’emigrazione italiana, che sino agli anni ''60 era in gran parte costituita dai ceti più poveri del nostro paese ha ceduto il passo negli ultimi decenni a forme di mobilità che coinvolgono sempre più le classi ad alta formazione e qualificazione professionale.

La ''fuga di cervelli’ rivela l’affermarsi in queste fasce sociali di un nuovo rapporto tra territorio e persona. La stanzialità non è più un valore di riferimento, non costituisce più la manifestazione di una forte posizione sociale. Al contrario è la mobilità e la possibilità di scambi professionali ad essere considerata risorsa economica e culturale.

Questa forma di migrazione pone ai Paesi d’origine dei migranti il problema del loro successivo reinserimento, per evitare la dispersione di un patrimonio intellettuale utile per il progresso del Paese.



2. La seconda forma di migrazione è quella delle migrazioni ''forzate’ che derivano da guerre civili o interetniche, in contesti che in condizioni normali non genererebbero flussi migratori. E’ il caso delle aree balcaniche, di alcuni paesi africani e di alcuni paesi del Sud-Est asiatico.



L’attuale contesto mondiale ci fa prevedere che il complesso dei movimenti migratori assumerà nel futuro dimensioni ancora più rilevanti.

Non ci si può attendere infatti alcun calo dei grandi flussi migratori dalle aree povere del mondo verso le aree ricche, né a breve né a lungo termine: l’ineguale distribuzione delle risorse tra ''Nord’ e ''Sud’ del mondo, le tendenze demografiche, la globalizzazione dei mercati, non potranno che accentuare i flussi verso i Paesi ricchi dell’Occidente di ampie fasce di cittadini stranieri.

Queste dinamiche migratorie, per la loro ampiezza e per il loro carattere strutturale nel sistema sociale ed economico mondiale, sfuggono alla capacità di governo individuale dei singoli Stati per tre motivi.



a) Innanzitutto, i paesi ''ricchi’ dell’occidente costituiscono, agli occhi dei migranti, un ''blocco unico’, indistinto. Questo significa che per un cittadino di un paese povero del terzo mondo che sfugge alla miseria, al di là delle oggettive difficoltà di accesso, sarà relativamente indifferente emigrare in Italia, in Francia, o in Germania. L’intervento regolatore della singola nazione, per quanto rigido, potrà quindi avere una portata limitatissima, non essendo in grado in alcun modo di modificare le dinamiche dei flussi migratori, che si sposteranno da un paese all’altro sulla base delle legislazioni più consenzienti o aggirabili, o delle specifiche condizioni politiche.



b) In secondo luogo, le democrazie occidentali costituiscono un’area unica dal punto di vista sociale, economico e culturale. All’interno di quest’area merci, persone e idee si spostano con la più grande libertà, senza essere ostacolate dalle barriere nazionali. E’ impensabile che tutti possano muoversi, tranne alcuni, proprio quelli che ne hanno più bisogno. Gran parte del mondo ha ormai un assetto simile ai vasi comunicanti e solo politiche concertate e volte tra l’altro a favorire nei paesi più poveri forme di autosviluppo, potranno intervenire, almeno in parte, sui disequilibri strutturali che sono alla base dei fenomeni migratori.



c) Non esiste però ancora una comune politica estera e di cooperazione dei paesi di immigrazione. Perciò non esiste ancora un governo comune dei processi migratori e le politiche nazionali sull''immigrazione non possono che risolversi in interventi ''difensivi’, volti a regolare - in modo più o meno rigido - i rapporti tra singolo Stato e cittadini stranieri. Si rischia, in assenza di politiche concertate, di scaricare il peso dei flussi migratori o sui Paesi più solidali o su quelli geograficamente più esposti.



Queste sono le ragioni per le quali un’efficace politica delle migrazioni non può che essere condotta ad un livello sovranazionale. Si tratta di un compito che spetta alle democrazie occidentali, che io ritengo debbano almeno in parte farsi carico del problema degli squilibri tra Nord e Sud del mondo. La prima e più seria di tali questioni è l’attenuamento del debito estero dei paesi poveri.



Qualche passo avanti in questa direzione è stato fatto anche a livello europeo.

Con il Trattato di Amsterdam, gli Stati membri dell''Unione europea hanno previsto il trasferimento nella sfera di competenza delle istituzioni comunitarie delle politiche dell''immigrazione e dell''asilo, dissociandole dalla politica criminale, e ponendo così le basi per impostare un approccio comune, di segno non repressivo, ma diretto alla gestione dei flussi migratori in ambito europeo.



Ma il ruolo che può svolgere la cooperazione europea in materia di immigrazione non deve limitarsi all''armonizzazione delle misure di contenimento e regolazione dei fenomeni migratori.

Spetta ai governi dei Paesi europei il compito di stabilire nuove forme di collaborazione con i paesi dai quali originano i flussi migratori, favorendone emancipazione e sviluppo.

L’Italia ed i Paesi della sponda Nord del Mediterraneo possono da questo punto di vista svolgere, nell’ambito dell’Unione Europea, una vera e propria azione di traino, evidenziando le potenzialità di sviluppo e di integrazione con i Paesi della sponda sud, dove la crescita annuale globale del PIL è oggi pari al 5,5%.



In questa direzione può essere collocata l''iniziativa, avviata a livello parlamentare, del partenariato euromediterraneo.

Su impulso della Camera dei Deputati italiana, si è deciso di realizzare una forma stabile di cooperazione tra Parlamenti nazionali dell''area mediterranea al fine di rilanciare ed accelerare la realizzazione degli obiettivi previsti dalla Dichiarazione di Barcellona, tra i quali, in particolare i cosiddetti. patti ''MEDA’, che dovranno consentire investimenti e sviluppo nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo attraverso interventi dei Paesi del versante nord.

Il 1° gennaio 1998, a Palermo, è stata presentata dai Presidenti delle Camere italiane, e approvata nelle linee generali dalla riunione della Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dei paesi mediterranei e del Parlamento europeo, una Dichiarazione sulla cooperazione parlamentare euromediterranea che intende affiancare le politiche estere dei Governi.

Il 7 e 8 marzo prossimo i presidenti delle Camere Europee e della Regione del Mediterraneo si incontreranno in Spagna per definire il programma del loro lavoro comune.



Se la dimensione sovranazionale è essenziale per condurre efficaci politiche migratorie, grande incisività possono avere anche forme dirette di intervento da parte di singole comunità nazionali sui paesi più poveri. E’ il caso, ormai assai diffuso in Italia, della cooperazione decentrata.

Si tratta di iniziative assunte da enti locali, associazioni non governative, università o centri di ricerca, che promuovono o finanziano progetti (gemellaggi, costruzione di strutture sociali come scuole o ospedali, progetti rurali) in Paesi del Terzo Mondo, non passando attraverso gli organismi centrali, e instaurando un rapporto diretto tra donatori e beneficiari.

Solo in Piemonte, ad esempio, un recente studio commissionato dalla Regione, ha mostrato come siano 250 gli enti che hanno avviato rapporti di cooperazione decentrata con paesi del Sud del mondo.

Un’altra importante forma di intervento è quella realizzata dagli stessi immigrati attraverso l’investimento delle loro rimesse. Gruppi di extracomunitari provenienti dallo stesso paese investono le loro rimesse nel villaggio di origine, ad esempio per la costruzione di un presidio sanitario, o di un pozzo. Benché assai diffuse, si tratta di iniziative che non hanno ancora trovato forme di organizzazione stabile e che meriterebbero di essere assai più pubblicizzate. Questo contribuirebbe ad influenzare positivamente il sentire della pubblica opinione sulla realtà delle persone immigrate.





Per l''Italia queste diverse forme di intervento costituiscono snodi fondamentali, in un quadro politico e sociale che vede il nostro paese al centro delle più recenti spinte migratorie.

Dal 1986 al 1998 la presenza di stranieri non comunitari in Italia si è più che triplicata, passando da 293 mila a più di un milione di persone, senza contare gli stranieri irregolari, che al 15 aprile 1998 ammontavano a circa 235 mila persone.

Le più recenti proiezioni demografiche mostrano inoltre che nei primi decenni del prossimo secolo i differenziali di variazione demografica fra Italia e Unione Europea da un lato e i Paesi in via di sviluppo dall’altro, saranno tra i più alti registrati nella storia. L''Italia, in particolare, subirà la maggiore pressione migratoria, con un flusso di immigrati calcolabile tra i 50 e gli 80 mila l''anno.

Per effetto di questi flussi migratori nel nostro Paese, da qui al 2017, il rapporto tra popolazione immigrata e popolazione nazionale crescerà a livelli analoghi a quelli attualmente rilevabili nei principali Paesi europei, quali la Francia e la Germania (tra il 4,5% e il 6,2%).

Si tratta per l’Italia un impegno ed una sfida di grande portata.



Questo stato di cose pone alle politiche in materia di immigrazione due priorità.



La prima è quella di avviare in Italia un processo di crescita di una coscienza civile e democratica, che sappia riconoscere nella convivenza civile di forze politiche, opinioni, religioni, etnie, lingue, costumi differenti, un valore in grado di far emergere una nuova identità nazionale non “per rifiuto delle differenze”, ma per “arricchimento e integrazione di differenze”.

L’educazione civile contro il razzismo è una delle nostre “frontiere repubblicane”, dove si misura cioè la natura stessa della nostra capacità di costruire una convivenza democratica.



La seconda è quella di garantire la sicurezza dei cittadini.

Le statistiche più recenti rivelano che il numero di furti, rapine ed omicidi, soprattutto nei grandi centri urbani, avrebbe subito un forte calo tra il 1991 e il 1997, e che sarebbe quindi impossibile mettere in relazione diretta crescita dell’immigrazione e aumento della criminalità.

C’è una diffusa quanto infondata “paura dello straniero” che sfocia spesso nel razzismo. Secondo un recentissimo studio svolto dal CNEL, su un campione di 2000 intervistati, il 63 per cento vede con crescente preoccupazione l’arrivo degli stranieri nel nostro Paese. Gli immigrati creerebbero problemi di ordine pubblico, oltre a sottrarre lavoro agli italiani.



A questa sensazione di insicurezza si risponde con politiche della sicurezza, che rendano effettive le pene anche per la criminalità di strada, che garantiscano visibilmente i diritti dei cittadini nei luoghi pubblici, nelle abitazioni, nei posti di lavoro.

Se vogliamo consentire che la convivenza tra culture e civiltà diverse si sviluppi nel nostro Paese senza l’acutizzarsi di forme di razzismo, intolleranza, xenofobia, dobbiamo rispondere al bisogno di sicurezza manifestato dai cittadini, con concrete politiche che riducano il senso di insicurezza e aumentino al contrario un sentimento di fiducia, e quindi di disponibilità ad affrontare ciò che non è conosciuto e che perciò oggi spaventa.





Sicurezza delle città e integrazione dei cittadini non comunitari non sono obiettivi contrapposti, ma sono entrambi parte fondamentale di una politica dell’immigrazione moderna.



Le classi dirigenti di un Paese devono avere un’idea di futuro, che mobiliti le intelligenze, le energie, le risorse. Io credo che il nostro Paese debba essere guidato verso un “pluralismo culturale”, che abbia come base un valori comuni, attraverso i quali siano possibili lo scambio e l’accettazione reciproci senza omologazioni.

Le società più ricche e avanzate del mondo sono anche quelle dove il multiculturalismo è stato incoraggiato ed è ormai una realtà affermata e diffusa. La modernizzazione dell’Italia ha tra i suoi punti essenziali, oggi, l’accettazione e l’attuazione di una società multiculturale.

Perciò, a mio avviso, la società del futuro deve avere tra i suoi caratteri il multiculturalismo, non come effetto di una disordinata affluenza di correnti migratorie indiscriminate, ma di un consapevole e rigoroso governo del nostro sviluppo.