Inaugurazione dell''anno accademico 1998-99


Pavia, 12/10/1998


*** Inaugurazione dell''anno accademico dell''Università degli Studi di Pavia***


La storia di Pavia, autentica città-ateneo nel cui tessuto civile e sociale sono presenti da secoli i Collegi universitari, rende lo Studium generale sede particolarmente idonea per affrontare una riflessione comune sulla formazione delle classi dirigenti nel nostro Paese.

Qui, sin dal 1945, il corpo docente ha saputo costruire il futuro dell’ateneo puntando su alcune scelte strategiche di grande modernità e apertura.

L’Università ha concepito il proprio potenziamento attraverso la valorizzazione dell’esperienza formativa dei Collegi allacciando uno stretto rapporto con quelli esistenti ed istituendone di nuovi.

Con questa opzione strategica il vostro ateneo ha saputo integrare, sulla base di obiettivi comuni, gli istituti privati e quelli dell’Università pubblica realizzando insieme un’offerta formativa che punta alla qualità e che prevede, come parametri di accesso, la capacità ed il merito.

Lo stretto legame con il mondo produttivo, con il Comune e la Provincia ha consentito di rinnovare la tradizionale valorizzazione dei talenti garantendo in molti casi la gratuità della frequenza dei corsi di alta formazione e la stessa residenza degli studenti.

Oggi i 17 Collegi universitari presenti nella realtà pavese sono pienamente coinvolti in diversi progetti innovativi della formazione pre e post lauream dell’ateneo, costituendo un’esperienza di notevole interesse per l’intero sistema universitario e per tutte le sedi di alta formazione del nostro Paese.



Nelle società moderne la classe dirigente è chiamata a misurarsi con fenomeni, come la competizione internazionale e l’interdipendenza dei sistemi economici e finanziari, che richiedono non il semplice mantenimento di un ordine prestabilito, ma la capacità di innovare, di anticipare – laddove possibile - i cambiamenti e di affrontarli con flessibilità, creatività, competenza. Chi pensa di più in termini strategici e di futuro è più in grado di dirigere e di orientare.



La classe dirigente ha il compito di fare in modo che la complessità – tratto ineliminabile delle democrazie evolute – non si trasformi in frammentazione e in dispersione delle risorse ma contribuisca al pluralismo ideale ed alla creatività del Paese.



L’Italia ha sviluppato un sistema di formazione delle classi dirigenti più vicino al “modello tedesco” – fondato essenzialmente sulle Università pubbliche (secondo la riforma di Von Humboldt), che al “modello francese”, imperniato sulle “grandes écoles”.

L’università come istituzione capillarmente presente sul territorio nazionale è in grado di rispondere al bisogno di formazione della classe dirigente.

Essa può costituire l’architrave della formazione della nostra futura classe dirigente, non attraverso “caste che si tramandano il potere al loro interno”, ma mediante “élites diffuse”, capaci di ricoprire con competenza e responsabilità i numerosi snodi di decisione nella vita del Paese e capaci a loro volta di formare le generazioni più giovani.



Per mettere pienamente a frutto queste potenzialità occorre realizzare alcune condizioni:

a) la forza di un''università si misura sulla capacità di adeguare le proprie risorse formative al futuro della ricerca ed alle esigenze del mercato del lavoro, che è sempre più domanda di professionisti in grado di comprendere ed intervenire su processi sociali e produttivi complessi. Si misura inoltre sulla capacità di competere con gli altri poli universitari, sulla capacità di ottenere risultati nella ricerca competitivi nel mondo scientifico internazionale, di sviluppare reti di relazioni con gli istituti di ricerca nazionali e internazionali, di costruire, appunto, classe dirigente.

b) garantire eguali opportunità a tutti i giovani, secondo criteri di equità che rendano effettivo il diritto delle ragazze e dei ragazzi capaci e meritevoli di raggiungere i gradi più alti negli studi, anche quando siano privi dei mezzi economici.

c) superare la debolezza del vecchio ceto accademico spesso selezionato più per appartenenza che per competenza. Questo ci ha danneggiato, lo dico come professore ordinario in un’università. Ora bisogna invertire. La semplice appartenenza ad una clientela accademica non può pesare in una società moderna democratica sempre più esposta alla competitività internazionale. Devono contare la competenza e il merito.

investire di più e spendere meglio le risorse per il sistema educativo nazionale.

L''ultimo rapporto del CENSIS (4.12.1998) rivela che, nonostante il crescente successo dei diplomi universitari, il nostro Paese non è ancora allineato ai livelli di istruzione che qualificano i paesi industrializzati. In Italia la percentuale di persone con un titolo di studio universitario (laurea o diploma universitario) è pari al 12% contro il 24% della Spagna, il 19% dell''Olanda, il 16% della Germania.

Dobbiamo avere consapevolezza della necessità di rafforzare l''impegno finanziario in questo settore strategico.

Nella manovra economica per il 1999 approvata dalla Camera il 21 novembre è previsto un aumento degli stanziamenti per l’università che, pur non essendo particolarmente consistente in termini assoluti, segna una positiva inversione di tendenza rispetto al triennio precedente con un aumento di 1.313 miliardi.



Le Università saranno sempre più luoghi privilegiati di formazione delle classi dirigenti se sapranno rafforzare il proprio rapporto con il resto del Paese attivo, quello che pensa, lavora, produce.

Questa è la scelta compiuta dall''ateneo di Pavia che è divenuto interlocutore forte e consapevole di una realtà imprenditoriale cresciuta sulla tradizionale robustezza del settore agricolo e oggi incentrata sulla solidità dei tre distretti industriali della provincia.

Questa realtà deve poter contare su una politica di sostegno e di accompagnamento allo sviluppo.

I centri di servizi alle imprese costituiti nei tre distretti industriali costituiscono una realtà ormai consolidata.

Ancor più significativa è la costruzione del polo tecnologico, frutto del comune impegno tra Università, Enti locali ed imprese. E'' questo uno strumento essenziale per elevare la competitività dei comparti produttivi attraverso l''innovazione.

L''individuazione dei problemi sociali ed economici e degli obiettivi condivisi da tutti i protagonisti dello sviluppo, la messa in campo di strategie per il loro conseguimento richiede che si affermi pienamente una cultura del progetto e della responsabilità.

Su questo terreno assume una rilevanza decisiva l''investimento nella conoscenza, nelle risorse umane e nella formazione.

In questa direzione le esperienze avviate dall''Università pavese costituiscono un modello ed un punto di riferimento per l''intero sistema universitario nazionale.

I progetti di cooperazione formativa che avete via via consolidato con i settori avanzati della produzione industriale, della tecnologia e con il sistema creditizio sono il segno di una maturata cultura accademica della modernità. L''università ha fatto di questa scelta il proprio punto di forza strategico, traducendolo nella concreta realizzazione di un polo universitario integrato e dialogante con il tessuto produttivo.

Il mondo imprenditoriale, per parte sua, ha assunto un ruolo importante con il coinvolgimento nella definizione dei programmi, il finanziamento dei corsi e l''offerta agli studenti di stage formativi presso le aziende.

Si sono poste così le basi per costruire un modello di alta formazione in grado di assicurare agli studenti competenze che rispondono alle effettive esigenze espresse dal mondo del lavoro e capacità di svolgere in modo moderno ed efficace funzioni dirigenziali di alto livello.



Vorrei infine toccare la questione decisiva che riguarda il rapporto tra formazione delle future classi dirigenti e l''affermazione dei valori.



La tendenza alla specializzazione, ineludibile e necessaria, rischia di creare una condizione di frammentazione della conoscenza e di smarrimento della visione complessiva dei problemi se non è accompagnata da un’idea del Paese, della società nella sua dimensione nazionale e globale, se non è accompagnata da un’idea di sé stessi del proprio destino e dei propri valori.

Non basta trasmettere sapere e formare competenze.

Bisogna creare un legame tra conoscenza e valori.

I giovani hanno il diritto di essere messi nelle condizioni idonee a dare un senso al proprio sforzo di approfondimento. Dobbiamo insegnare loro a riportare il proprio bagaglio di conoscenze specifiche sul piano più ampio dei problemi dello sviluppo culturale, sociale e civile.

Occorre guadagnare alle nuove classi dirigenti una cultura che sia consapevole del senso del limite nell''utilizzazione dei risultati e delle possibilità scientifiche e tecnologiche.

Conoscenza scientifica e innovazione tecnologica non sono neutri.

Senso del limite significa avere la consapevolezza che la ragione e la scienza debbono essere rispettose del sacro, che esiste anche per il laico.

Significa che al vertice della gerarchia dei valori viene prima di tutto la persona umana, il rispetto integrale della vita in tutta la sua complessità e la sua varietà.

Mi riferisco a scelte che favoriscano la trasmissione dei valori tra le generazioni, che mettano ciascuno in condizione di realizzare sé stesso.

Mi riferisco, inoltre, alla necessità di porre al vertice della gerarchia dei valori prima la persona umana, spogliata dei suoi egoismi, ci suggerirebbe Rosmini, e poi la ragione, che, ci direbbe sempre Rosmini, non è uno strumento onnipotente, cosa utile da ricordare in una sede dove la ragione è lo strumento quotidiano per il lavoro.

Una parte delle grandi tragedie di questo secolo è derivata dalla sopraffazione del razionalismo sui valori della persona ed un’altra parte da una concezione politica che considerava razionale il primato di alcune persone su tutte le altre. Perciò penso ad una ragione rispettosa del sacro.



Quando si parla di persona umana, in questa accezione, non si fa riferimento ad astrazioni. Si propone di sostituire, al vertice della gerarchia dei valori, la classe o il mercato, lo Stato o il partito, con i valori e i diritti dei bambini, dei giovani, degli uomini e delle donne, cioè con la loro vita. Delle generazioni contemporanee e delle generazioni future, i cui diritti vanno garantiti con cura pari a quella che dedichiamo o dovremmo dedicare ai contemporanei.

La persona umana non è una figura astratta, ma un soggetto collocato nella concretezza della storia e nella specificità dei suoi costumi, dei suoi modi di vita, dei suoi caratteri particolari.



Solo questo sforzo può rendere i giovani e le nuove classi dirigenti responsabili di fronte a sé stessi e può offrire loro la possibilità di dare al proprio apprendimento un significato che non sia solo quello della accumulazione delle conoscenze.



L''inaugurazione di questo anno accademico coincide, oggi, con il 50° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani e la vostra università ha voluto sottolineare l''importanza di questo avvenimento dedicandovi la prolusione di apertura che sarà tenuta dal prof. Franco Mosconi.

La Dichiarazione universale del 1948 ha fatto emergere l’individuo all’interno di uno spazio prima riservato esclusivamente agli Stati sovrani, con l''affermazione del diritto di ciascun uomo di veder rispettati i propri diritti fondamentali nei riguardi dello Stato. Lo scopo del diritto umanitario internazionale, cresciuto sulla base di questa Dichiarazione, è quello di creare una realtà dove il debole ha gli stessi diritti del forte e la giustizia deve essere una certezza per entrambi. Per questo quella Dichiarazione, che per la prima volta sanciva non solo i tradizionali diritti civili e politici affermatisi con le due grandi rivoluzioni del XVIII secolo, ma anche un nucleo di diritti economici e sociali per ogni individuo, è in realtà una Dichiarazione dei diritti della persona. Ed è questo il valore che occorre darle oggi in una nuova fase di impulso per la sua attuazione.

In questi primi 50 anni siamo andati avanti, è vero, ma il bilancio ci dice che c’è ancora molto da fare.

Il bipolarismo internazionale e la guerra fredda, spaccando il mondo in due parti ideologicamente contrapposte, non hanno consentito che alla dichiarazione seguisse sempre l''attivazione di una concreta strumentazione per la protezione di quei diritti.

Tuttavia quel documento, che oggi è sottoscritto da 185 paesi, è stato una conquista irreversibile, innanzitutto dal punto di vista politico. Da allora nessun Paese ha potuto prescindere dalla statuizione di quei diritti. Tutti gli stati che l''hanno sottoscritta hanno dovuto giustificare la violazione dei diritti in essa sanciti davanti all''opinione pubblica internazionale e a quella interna. Dopo 50 anni anche i gruppi e gli Stati che nel mondo continuano a non accettare i principi di Parigi sono comunque chiamati a confrontarsi con queste regole, sentono cioè la necessità politica di dover spiegare il loro operato.

L''affermazione dei diritti dell''uomo è oggi messa in discussione da due ordini di questioni.

La prima riguarda la difficoltà di costruire strumenti internazionali adeguati a garantire in concreto i diritti universali enunciati a Parigi

A questo proposito un ruolo fondamentale potrà avere la Corte penale internazionale permanente sui crimini contro l''umanità. Il primo dicembre è stata superata la soglia dei 60 Stati firmatari del Trattato istitutivo ed ora si apre la fase cruciale della ratifica. Dalla sua rapidità dipende l''entrata in vigore e l''effettivo avvio dell''attività della Corte. Il nostro Paese ha ospitato la Conferenza che ha redatto il Trattato e ne è stato il primo firmatario. E’ importante che il nostri impegno continui perchè il trattato possa essere operativo quanto prima possibile.



La seconda difficoltà deriva dall''espandersi prepotente dei processi di globalizzazione dell''economica, della tecnologia e delle comunicazioni.

Con la globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni le ragioni del mercato rischiano di prevalere e di travolgere le ragioni dei valori.

E’ necessario impegnarsi affinché alla mondializzazione dell’economia e della comunicazione corrisponda un processo analogo per i diritti degli uomini., Occorre globalizzare anche i diritti, non possiamo fermarci ai mercati.

In molti Paesi del sud del mondo, alcuni importanti diritti, come quello all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza sociale fino al fondamentale diritto alla vita sono tuttora negati a causa della povertà, che costituisce ancora oggi, secondo l''OMS, la principale causa di morte nel mondo.

Nella povertà esiste anche una discriminazione che riguarda donne e bambini. Ogni anno in tutto il mondo muoiono 13 milioni di bambini sotto i 5 anni per malnutrizione o a causa di malattie di facile prevenzione e 550 milioni di donne -oltre il 50% della popolazione rurale mondiale – vivono al di sotto della linea di povertà. La povertà ha subito un processo drammatico di femminilizzazione e di infantilizzazione.

I paesi ricchi ed industrializzati, i paesi di democrazia occidentale, hanno particolarmente a cuore la tutela dei diritti umani di libertà. E tuttavia perdono di credibilità quando si impegnano, giustamente, in azioni a tutela delle libertà personali nei paesi autoritari, senza considerare la necessità di rendere concreti i processi di ridistribuzione della ricchezza verso il mondo in via di sviluppo, come via essenziale alla promozione dei diritti umani.

La lotta contro la povertà e la battaglia per il diritto dei paesi poveri allo sviluppo passa attraverso l’azzeramento del loro debito.

Il debito cresce ogni anno di 100 miliardi di dollari e si traduce nella negazione del diritto al lavoro, all’istruzione, alla sicurezza sociale e nell''aumento dello sfruttamento dei minori e delle donne.

Il 27 maggio scorso la Camera ha approvato una risoluzione che impegna il Governo a sostenere la cancellazione del debito in modo controllato e progressivo; la Commissione per le Politiche dell’Unione europea ha a sua volta approvato il 17 giugno una risoluzione con cui si chiede al governo di consolidare nel biennio 1998-1999 le iniziative a favore dei Paesi in via di sviluppo per giungere ad una normativa internazionale omogenea e comune sul debito estero.



Accanto ai processi di globalizzazione sono cresciuti progressivamente i fenomeni migratori dai Paesi poveri a quelli ricchi. La multietnicità nello stesso territorio è ormai un dato di fatto. Tuttavia, nonostante il grado di libertà individuale e collettiva che le società moderne hanno progressivamente raggiunto i fenomeni di razzismo e di xenofobia non tendono a scomparire. Al contrario crescono forme di nazionalismo esasperato, cresce l’intolleranza verso gruppi etnici minori, verso gruppi religiosi, verso gli immigrati.

Per dare concretezza alla democrazia e forza effettiva alla Dichiarazione dei diritti universali della persona oggi è più che mai attuale il richiamo alla lotta contro il razzismo e contro ogni forma di discriminazione.

Non si tratta di riaffermare il vecchio concetto di tolleranza che presuppone la divisione in tollerati e tolleranti.

Occorre costruire il concetto di convivenza tra diversi che si rispettano reciprocamente.

Il progetto di convivenza delle nostre società non può essere fondato su "circuiti separati”, tra loro indifferenti od ostili come spesso accade in alcune realtà dove gli immigrati si raccolgono in comunità chiuse e separate. E’ necessario invece costruire un progetto fondato sulla multietnicità e l'' interculturalità.

Dobbiamo conquistare al valore della convivenza e del rispetto reciproco anche chi invece è convinto di difendersi con il rifiuto e la diffidenza verso chi è diverso. Non dobbiamo essere razzisti con i razzisti.

Su tre questioni infine mi preme richiamare l''attenzione, in particolare, degli studenti.

Sono molte le offese ai diritti dell''uomo che si commettono quotidianamente nel mondo. Spesso ci sentiamo impotenti rispetto a questa violenza.

Gli studenti possono, anche sulla base della nostra tradizione civile , sviluppare un impegno attivo su tre campagne:

l''abolizione della pena di morte

contro le mine anti-persona

contro la tortura.

Un mondo civile non uccide per ragioni di giustizia (nel mondo vi sono ancora 86 Paesi membri dell’ONU che mantengono la pena di morte, 15 l''hanno abolita solo per i crimini ordinari, 7 hanno dichiarato di abolirla non appena ammessi alle Nazioni Unite).

Un mondo civile non produce ordigni come le mine antiuomo che colpiscono innanzitutto i bambini e la popolazione civile: un milione di persone uccise, oltre 300.000 bambini che vivono con una mutilazione, 30.000 civili ogni anno allungano la lista degli invalidi colpiti dall’esplosione di una mina. Ci sono oltre 100 milioni di mine attive, collocate in 80 Paesi.

Un mondo civile non tollera che la verità processuale o politica possa essere conseguita attraverso la tortura dei detenuti: sono 73 i Paesi dove questa pratica continua ad essere ammessa.

Sono obiettivi forse utopistici. Ma una classe dirigente deve avere il coraggio dell''utopia. Non parlo delle mete irrealizzabili, che hanno già generato menzogne e disastri. Parlo dell''utopia strategica, quella delle impossibilità relative e delle emancipazioni necessarie.

Parlo della capacità di guardare un metro oltre l''orizzonte, solo un metro. Ma il confine tra l''orizzonte e quel metro in più separa ineluttabilmente quelli che hanno paura di pensare da quelli che hanno il coraggio di vivere. E i giovani, devono combattere contro la paura di pensare e devono conservare dentro di sé, più a lungo possibile, il coraggio di vivere.