Le nuove frontiere del diritto penale e della criminologia


Roma, 10/10/1998


*** Forum in memoria di Girolamo Tartaglione promosso dall''Associazione "Girolamo Tartaglione"***


Qualche minuto dopo le 14, il 10 ottobre di vent''anni fa, Girolamo Tartaglione veniva assassinato dalle Brigate Rosse.

Aveva appena imboccato le scale di casa rientrando dal Ministero di Grazia e Giustizia dove era Direttore generale degli Affari penali.

Io l’ho conosciuto in quella veste

Aveva 65 anni ed era da oltre quarant’anni in magistratura, ma aveva rifiutato il pensionamento scegliendo di continuare a lavorare sui temi a lui più cari: il reinserimento sociale degli ex-carcerati, il rafforzamento delle misure a favore delle famiglie dei detenuti, le misure penali alternative alla carcerazione per la piena attuazione dell’articolo 27 della Costituzione e della riforma carceraria varata nel 1975.

E’ stato il terzo magistrato assassinato dopo Vittorio Occorsio, colpito a morte da un gruppo neofascista, e il giudice Palma, ucciso dalle BR otto mesi prima.

Sino al 1978 già cinque giudici che lavoravano al Ministero di Grazia e Giustizia erano stati vittime di agguati rivendicati dai gruppi che praticavano la lotta armata.

Ma negli anni del terrorismo i magistrati uccisi dalle formazioni di destra e di sinistra sono stati 11.

L’Italia e’ l’unico paese avanzato in cui sia stato ucciso un così alto numero di magistrati; la legalità è stata e resta un confine difficile nel nostro Paese. L’omicidio politico che c’è stato avant’ieri sera a Caccamo, in provincia di Palermo, nei confronti di un candidato alla carica di sindaco, che si era battuto contro la mafia, dimostra quanto ancora dobbiamo fare per difendere e consolidare la legalità. Dimostra ancora che in una fase particolarmente delicata per la vita del Paese la mafia, come ieri il terrorismo, torna a colpire e che le nostre divisioni possono aiutare quelle organizzazioni, come il terrorismo di ieri e la mafia di oggi, che usano la violenza per finalità politiche.



Tartaglione fu ucciso perché credeva nello Stato e nelle istituzioni democratiche, perché ne rappresentava l’aspetto umano e credibile.

Da magistrato e da operatore del diritto non smise mai, neanche nel 1978, dopo l''uccisione del giudice Palma e di Aldo Moro, di lavorare per l''attuazione della riforma carceraria, per l''umanizzazione della pena, per il miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri.



Il ricatto della paura, aveva preso molti in quegli anni, che non furono per tutti gli anni della dignità. Egli contrappose invece il proprio coraggio dettato da un umanesimo razionale, quasi una forma di illuminismo. Nei colloqui con lui emergeva anche nei giorni più duri, quelli dell’attentato, o del volantino di rivendicazione, quando ciascuno in quelle righe fitte e nere cercava di leggere il suo eventuale destino, emergeva dicevo una fiducia nell’uomo e nella ragione, cui corrispondeva una moderata fiducia nel diritto penale e più in generale nella coercizione come strumento di ordine. Era un fautore della convinzione, non della coercizione.

Il suo coraggio quotidiano comunicava fiducia a chi lavorava vicino a lui, e gli aveva ispirato un appello in cui chiedeva "la mobilitazione di tutti coloro che professionalmente partecipano al sistema democratico affinché nessuno si lasci intimorire dalle operazioni terroristiche, affinché tutti solidarizzino per la salvaguardia della pace e della libertà".

Questo impegno e questa forza ideale scaturivano dalla sua formazione culturale ispirata al liberalismo penale di Beccaria e al positivismo giuridico .

L''operato costante e coerente di Tartaglione rompeva dunque lo schema brigatista fondato sull''assioma dello Stato autoritario e violento. Egli invece dava credibilità allo Stato.

Per questo i terroristi lo considerarono un nemico da abbattere. Lui come Alessandrini, come Galli, come tanti altri onesti servitori dello Stato.



Tartaglione era una persona dotata di una grande umanità che si saldava ad una profonda onestà intellettuale.

Tutti quelli che hanno lavorato e studiato con lui riconoscono la capacità di ascolto, l''apertura al confronto reale con le idee degli altri, la disponibilità e la fiducia verso l''interlocutore che di volta in volta aveva dinanzi. Questa disponibilità si concretizzava in una naturale valorizzazione dell''altro, in una disponibilità ad un lavoro comune che non si fermava dinanzi all''età di chi si trovava di fronte, né veniva accordata in funzione dei meriti accademici acquisiti.



Tartaglione era animato da una religiosità intensa che viveva in una sua dimensione individuale, senza nessuna ostentazione, ma che segnava fortemente la sua etica quotidiana, la sua moralità ed il suo impegno professionale.

Lungo tutti gli anni in cui operò come magistrato e come massimo dirigente del ministero intese il suo impegno non come esercizio di un potere personale, ma come servizio reso ai cittadini prima ancora che allo Stato.

Tartaglione non fu un uomo pubblico. Egli preferì realizzare ciò in cui credeva attraverso uno sforzo paziente svolto all''interno dell''amministrazione dello Stato, riuscendo a tradurre le proprie riflessioni in proposte concrete sul piano dell’organizzazione amministrativa e su quello tecnico-legislativo.



La concretezza delle sue proposte derivava non solo dalla sua profonda conoscenza del diritto penale e della criminologia, ma dall''esperienza diretta di magistrato, da una conoscenza analitica della situazione effettiva delle condizioni di vita dei reclusi, delle difficoltà dei loro familiari.

"La ricerca, aveva scritto, non deve essere ispirata a meri intenti speculativi, ma deve mirare a fornire indicazioni pratiche agli organi giudiziari e amministrativi operanti nel campo della prevenzione criminale, e questi, da parte loro, non possono ignorare le esigenze scientifiche della ricerca".

Fu questa impostazione pragmatica, anche se fortemente ancorata ad un''erudizione di grande spessore, che gli consentì di contribuire in modo rilevante alla commissione ministeriale per la riforma dell''ordinamento penitenziario e a quella per la prevenzione della delinquenza minorile.

Partendo da questa impostazione, già alla fine degli anni ''50 - quasi vent''anni prima della riforma penitenziaria- comprese l''insufficienza degli strumenti di tipo puramente caritativo previsti allora per favorire il reinserimento degli ex reclusi. Per questo, da direttore dell''Ufficio che si occupava del trattamento dei detenuti, attivò una serie di misure per realizzare una rete integrata di interventi, in stretta connessione con le risorse del territorio, sì da facilitare un effettivo rientro nella società di chi usciva dal carcere.

L''attività di riflessione giuridica e di proposta che Tartaglione sviluppò negli ultimi vent''anni della sua vita si fondava su una concezione umanesima del diritto penale.

Per lui, che aveva aderito al movimento di Difesa Sociale, il diritto penale, ed in particolare la valutazione della funzione della pena, dovevano avere come riferimento fondamentale l''interesse a riconciliare il cittadino che ha pagato il suo debito con la giustizia con la società di cui è parte.

Per questo consigliava ai magistrati di "guardare ai problemi della giustizia penale da un particolare angolo visuale, ispirato a ideali umanitari di solidarietà sociale oltre che a vedute tecniche di innegabile valore scientifico".



Era questa la spinta che lo motivava ad impegnarsi per la piena attuazione dell''art. 27 della Costituzione, ad insistere sul dovere dello Stato di dare alla pena un contenuto rieducativo da cui discendeva l''obbligo per l''Amministrazione penitenziaria "di fare il possibile per trovare ed applicare i metodi di trattamento più opportuni per il miglioramento di ogni condannato sia nella vita spirituale, sia nelle sue capacità, sia nel suo atteggiamento verso la società".



Il suo era umanesimo, non era utopismo.

Tartaglione mantenne sempre nella formulazione di proposte di politica criminale un approccio empirico. Egli non perse mai di vista ciò che considerava il vero obiettivo del criminologo e dell''operatore del diritto penale: lavorare per il recupero dell''individuo, per il progresso, per l''ordine della società mettendo in campo una strategia unitaria di prevenzione generale della criminalità e di tutti i fenomeni socialmente pericolosi.

Nel 1978 infatti egli decide di misurare l''efficacia dei benefici di clemenza sulla giustizia penale conducendo un''indagine specifica. Dai risultati dello studio emerse chiaramente che questi provvedimenti avevano un''influenza negativa sul recidivismo né essi, come disse nelle sue notazioni di commento, rafforzavano "la criminoresistenza nel beneficiario", "invero" -proseguiva- "basta l''annunzio della concessione di amnistia e d''indulto per ridurre ancor più la forza delle sanzioni minacciate e far germogliare con nuovo impeto i comportamenti vietati".

Questi dati empirici confermano a Tartaglione che la sua idea-forza, il trattamento individualizzato, è il percorso davvero efficace per una prevenzione penale e per la rieducazione del detenuto, mentre i provvedimenti di clemenza generalizzati possono svolgere nell''immediato una mera funzione deflattiva del sistema penale, ma nel medio e lungo termine possono rivelarsi addirittura criminogeni.



Tartaglione appartiene ad un gruppo di magistrati che in quegli anni hanno contribuito in modo convinto ed appassionato, dall''interno del ministero di Grazia e Giustizia, all''elaborazione tecnica della legislazione sui temi più rilevanti in materia penale e penitenziaria.

Essi hanno messo a disposizione dei titolari del potere legislativo ed esecutivo la loro competenza, la conoscenza diretta dei processi, della realtà carceraria, degli ambienti sociali e degli uomini con cui erano entrati in contatto nel lavoro di indagine, per individuare gli strumenti ed i meccanismi più efficaci ad affrontare i problemi della detenzione, per contrastare il terrorismo e la criminalità organizzata.

Non furono certo quei magistrati a scrivere le leggi che vennero elaborate dal governo e successivamente modificate e votate dal Parlamento.

Ma in quegli anni fu possibile operare uno sforzo comune che consentì allo Stato di battere il terrorismo e di iniziare a scardinare alcune delle organizzazioni criminali che erano penetrate nei gangli nevralgici delle amministrazioni pubbliche e continuavano ad insanguinare il Paese, assassinando magistrati, centinaia di appartenenti alle forze dell''ordine, semplici cittadini.

Gli autori del suo assassinio sono stati individuati, processati e condannati, il terrorismo è stato sconfitto anche sul piano politico da un Paese e da uno Stato che non hanno ceduto al ricatto della paura nè all''imbarbarimento del diritto.

Ora siamo usciti da quella dimensione emergenziale. Il diritto penale da costruire non può più essere quello che risulta dalle addizioni dell’emergenza o dalle sottrazioni di una depenalizzazione disordinata e casuale. La questione centrale è stabilire che cosa oggi, alla fine di questo secolo, dev’essere penale, tenendo conto dei costi umani, sociali ed economici della penalizzazione, e cosa invece dev’essere sanzionato in forme non penali.

Si tratta di definire una nuova moderna tavola di valori sfuggendo alla vecchia illusione repressiva, per la quale l’ordine si recupera con la coercizione.

L’ordine in una società moderna si recupera con il consenso e con la fiducia anche se parlare proprio oggi di consenso e fiducia da parte di chi ha responsabilità politiche può far nascere un sorriso.

Anche Gerolamo Tartaglione, in una situazione del genere, avrebbe forse sorriso ma egli avrebbe poi invitato ad andare avanti perché era sua ferma convinzione che, dopo la caduta, la forza degli uomini sta nel dimostrarsi capaci di riprendere il cammino interrotto.

E’ la fatica del vivere con dignità, come egli fece. Ma è una fatica necessaria, perché da un senso alla vita e permette che la vita abbia un senso.