Commemorazione di Carlo Casalegno


Torino, 11/17/1997


***Giornata in memoria di Carlo Casalegno promossa da La Stampa***


Carlo Casalegno fu ucciso perché contrappose il coraggio alla paura.
Non intendo riferirmi solo al coraggio della lotta contro il terrorismo, che pure non fu di tutti.
Intendo riferirmi anche al coraggio della fiducia nella educazione civile e nel senso dello Stato.

Il terrorismo rosso nasce in Italia dopo la fine dell’esperienza di centro sinistra in una fase di grave crisi politica per la difficoltà di individuare nuove e stabili alleanze di governo.

In altri Paesi, come la Germania o la Francia, la lotta contro il terrorismo fu distinta dalle vicende politiche interne; in Italia, invece, essa si intreccia con lo sforzo per risolvere la crisi politica. Questa connessione tra terrorismo e crisi politica da luogo a diverse concezioni della lotta al terrorismo.

Una prima si rifiutava di riconoscere la crisi strutturale del sistema politico, e riteneva che l’abbattimento del terrorismo fosse di per sé la condizione per la risoluzione della crisi; questa tesi era molto presente tra le tradizionali forze di governo.

La seconda, sostenuta in particolare dal PCI, riteneva che un’azione limitata alla sola contrapposizione al terrorismo non avrebbe risolto i problemi nazionali e sarebbe apparsa subalterna alle tradizionali forze di governo. Questa posizione legava la lotta contro il terrorismo alla riforma dello Stato.

Una terza strada, più consapevole dei difetti storici del nostro Paese, e meno fiduciosa nelle capacità taumaturgica delle regole non si illude sulla rapidità della soluzione e fa leva sui valori repubblicani delle grandi società occidentali: il senso civico, il principio di responsabilità, i doveri dei poteri pubblici.

Casalegno opera su quest’ultimo versante. Appare uno degli antesignani di un secondo repubblicanesimo, dopo quello che sconfisse la monarchia e il fascismo, fondato non su uno specifico partito, ma su una cultura laica e rigorosa. I suoi scritti sono attraversati da una concezione democratica severa, preoccupata soprattutto dei doveri della classe dirigente e delle responsabilità che incombono su chi ne fa parte.

Fu fautore della formazione del costume democratico come essenziale complemento della riforma dello Stato.

Occorreva coraggio per guardare così lontano, quando l’orizzonte era segnato dalle gambizzazioni e dagli omicidi.

Occorreva coraggio per guardare alle verità scomode quando l’emergenza sembrava essere l’unico principio guida.



Le radici del suo impegno civile stanno nella formazione giovanile, nel clima culturale e politico del liceo D’Azeglio, nella sua partecipazione alla Lotta di Liberazione.

Aveva piena consapevolezza della fragilità del sistema politico e delle grandi difficoltà di far seguire alla tumultuosa modernizzazione la crescita di un moderno costume democratico. Affronta i problemi derivanti da questo “squilibrio”, sforzandosi di andare alla radice degli avvenimenti, di capire lo stato delle cose, più preoccupato di capire che di spiegare, come scrive Arrigo Levi.

Il tono dei suoi interventi è spesso appassionato, ma è costante l’equilibrio del ragionamento ed il rifiuto della drammatizzazione artificiale. La sua passione civile fu contenuta nei binari del rigore intellettuale.

Il suo pluralismo non corse mai il rischio del relativismo. Spesso ancora oggi si confonde il riconoscimento del valore delle idee diverse dalle proprie, che è il pluralismo, con l’accettazione di ogni possibile idea come valida in sé, indipendentemente dai contenuti, che è il relativismo. Il relativismo non solo è in sé sbagliato, ma annega la battaglia delle idee, che è l’essenza della politica, in un indistinto embrassons nous dal quale emerge l’altro aspetto della politica, la gestione del potere che diventa irrefrenabile perché vedova dei binari e dei freni dei valori ideali.

Casalegno rispetta le idee degli altri ma si batte per le proprie, come dovrebbero fare tutti coloro che hanno responsabilità.



L’omicidio segnò una svolta nella lotta contro il terrorismo.

La manifestazione organizzata in piazza San Carlo da Regione, Provincia e Comune, e dal suo giornale, aveva visto interventi autorevoli, ma in piazza eravamo in pochi e capimmo nei giorni successivi che c’era un equivoco: una parte della classe operaia torinese considerava Casalegno un nemico ed il suo omicidio era stato vissuto da quella parte con un senso di indifferenza.

Non sto coi brigatisti, mi disse qualcuno, ma, aggiunse, Casalegno rispetto a me stava dall’altra parte.

Rischiava di passare il convincimento che la violenza era tollerabile quando si riversava contro un avversario politico e quindi che l’omicidio fosse un possibile mezzo di lotta politica.

In questo atteggiamento si sposavano due equivoci. Quello di chi non aveva ancora preso una ferma posizione contro il terrorismo e continuava a civettare. E quello di chi condannava il terrorismo, ma non aveva abbandonato l’idea che la violenza potesse essere legittimamente usata contro gli avversari.

L’equivoco era sulla violenza e sulla democrazia; le BR potevano passare proprio attraverso questa aberrazione.

Partì una campagna nelle fabbriche che fecero soprattutto il PCI e parte del sindacato, insieme a magistrati impegnati professionalmente contro il terrorismo e appartenenti al movimento per la riforma della polizia di Stato. Non fu facile. Venimmo accusati di essere repressori pericolosi per la democrazia e per le libertà dei cittadini.



Alcuni mesi dopo, nel gennaio 1979, il giorno dell’uccisione di Guido Rossa ci fu nell’aula magna di Palazzo Nuovo un’affollatissima riunione di giovani, di esponenti sindacali e politici, di operai. Ad un certo punto un operaio della Mirafiori prese la parola e disse:

“Bisogna superare i ritardi nella comprensione del fenomeno terroristico e capire il perché di certe parziali risposte, ad esempio, quando hanno sparato a Casalegno. Nelle fabbriche ci sono stati contrasti, anche profondi, nei gruppi dirigenti sindacali. Se non fosse stato solo, oggi forse Guido Rossa lo avremmo ancora tra noi”.

A quel punto l’equivoco e l’errore erano stati definitivamente superati.



Casalegno aveva vissuto da antifascista gli anni del fascismo e tornava spesso a riflettere sulle condizioni che portarono all’ascesa della dittatura, che a suo giudizio non “conquistò” il potere ma lo “raccolse” per l’abdicazione dello Stato di fronte al ricatto della violenza.

Di qui la sua preoccupazione, che lo Stato abdicasse, che le classi dirigenti non fossero all’altezza delle loro responsabilità.

Nelle contraddizioni e nelle lentezze dello Stato temeva di vedere il segno di una resa alla violenza, di un essere imbelli perché impacciati dalle beghe interne e perché incapaci di capire il rischio democratico.



Di fronte al dilagare dei conflitti sociali, di fronte alla arretratezza dei servizi pubblici, lo Stato doveva assumere le proprie responsabilità necessarie e avere consapevolezza del proprio ruolo di guida. Scrisse a questo proposito: “merita ancora difendere non le strutture arcaiche, ma i fondamenti stessi dello Stato. E sperare che la classe politica ed i cittadini vogliano ricostruirlo, non abbatterlo”.



Era fautore di uno Stato efficiente ed autorevole, e si schierò apertamente contro il centralismo.

In un articolo del 6 maggio 1969, prima dell’avvento delle Regioni, intitolato “L’eredità napoleonica” denunciava i limiti dell’autonomia delle province e dei comuni, e la mancata incentivazione delle iniziative private d’interesse pubblico.

Nello stesso articolo intuiva il pericolo del fallimento della riforma regionale che il Parlamento si apprestava ad approvare:



“La riforma regionale potrà, finalmente, spezzare le strutture arcaiche del nostro Stato “napoleonico”; ma a tre condizioni. Che sia una riforma nel profondo, e non si limiti a riprodurre in quindici capitali periferiche il governo, il parlamento, i giochi politici e i metodi amministrativi del potere centrale. Che sia unita a una revisione razionale, antiautoritaria ed efficace dell’ordinamento comunale e provinciale. Che sia accompagnata da una riforma della burocrazia, del sistema tributario e anche del costume amministrativo”.



Quei timori erano fondati.



La stessa lungimiranza Casalegno ebbe rispetto all’uso del referendum.

Il 5 maggio 1977, in occasione della raccolta, da parte dei Radicali, delle firme per l’abrogazione di disposizioni relative al Concordato, di norme penali, della legge sui manicomi, del finanziamento pubblico dei partiti, Casalegno scrisse un articolo intitolato “Perché il no agli otto referendum”.

Naturalmente non contestava il diritto alla raccolta delle firme. Anzi, sottolineava il dovere delle autorità, delle amministrazioni competenti, di non opporre ostacoli ad un’iniziativa politica consentita dalla Costituzione e dalla legge. In quell’articolo non si pronunciò contro i contenuti dei referendum, alcuni dei quali condivideva. Si espresse, invece, contro l’abuso del referendum.

Contestava l’affermazione dei proponenti secondo la quale gli otto referendum erano parte di un “progetto unitario di mutamento delle istituzioni”.

Sosteneva che otto referendum erano troppi e si riferivano a problemi disomogenei, la cui complessità non era facilmente traducibile in una secca alternativa tra un si e un no.

Il risultato delle consultazioni referendarie del giugno scorso - nelle quali non si è raggiunto il quorum - è stato l’inevitabile conseguenza di un “abuso” dell’istituto, che oggi rischia di svuotare di significato un decisivo strumento di democrazia diretta. Lo stesso abuso che Casalegno aveva denunciato venti anni fa.





Si interrogava spesso sul rapporto tra cittadini e istituzioni. Comprendeva che il rispetto e la fiducia nello Stato sono il frutto della capacità dello Stato di rispettare i cittadini ed i loro diritti.

Per questo si sofferma in molte occasioni sui problemi della scuola, dell’ordine pubblico, della giustizia, con il suo consueto rigore, con la volontà di cogliere le radici dei problemi.

Una scuola ed una università moderne sono per Casalegno le basi su cui costruire una democrazia salda.

La sua impostazione era severa ma non era elitaria. Egli sottolinea ripetutamente la necessità di garantire a tutti i giovani condizioni effettive di accesso all’istruzione superiore. Allo stesso tempo, proprio negli anni della contestazione, rifiuta in modo deciso ogni tendenza all’indulgenza, alla “promozione facile”.

Il suo insistere sulla necessità di fondare l’insegnamento su un ampio e solido bagaglio di nozioni non esprime certo il rifiuto del pensiero critico.

Ciò che Casalegno vedeva come un pericolo era la tendenza, allora molto forte, a sostituire la propaganda ideologica all’insegnamento dei fatti.



Anche i problemi dell’ordine pubblico e della giustizia meritavano molto spazio nei suoi articoli. Casalegno sottolineava che il rafforzamento dello Stato di fronte alla profonda crisi dell’Italia di quegli anni non era da ricercarsi in un inasprimento delle pene o nella assunzione di misure eccezionali.

Non vedeva con favore il ricorso ripetuto a misure eccezionali e metteva in luce i mali che sarebbero derivati per il nostro Paese da una politica criminale priva di strategie, soggetta al peso delle contrapposte “emergenze”, ora repressive, ora garantiste.

Il rimedio migliore stava a suo giudizio nella capacità di applicare con fermezza le regole ordinarie, quella strategia che alcuni anni dopo verrà definita straordinaria ordinarietà.

Credo che sia difficile cogliere oggi, specie ai più giovani, il carattere “eretico” di quella affermazione. Oggi siamo tutti convinti che occorre applicare bene le leggi esistenti senza eccedere in indulgenza o in coercizione. Ma ieri, quando c’erano per strada i morti ed i feriti, era assolutamente generale la richiesta di interventi eccezionali, come l’intervento dei tribunali militari o l’abrogazione della competenza delle Corti d’Assise, che vedono la partecipazione di giudici popolari, per i delitti di omicidio. Anche di qui è facile leggere il suo coraggio.



La sua polemica sui limiti al diritto di sciopero si inserisce in un quadro di riflessioni che riguarda il rapporto tra Stato e cittadini.

Casalegno esprime su questo punto posizioni dure, ma non mette mai in discussione l’importanza del diritto di sciopero. “Lo sciopero” egli scrive nel 1969 “è un diritto democratico, come la libertà di parola o di culto, e un insostituibile strumento di difesa per i lavoratori”.

La sua attenzione si rivolge alla questione dei limiti di esercizio dello sciopero nei servizi pubblici di primaria importanza per i cittadini.

“Le società industriali avanzate si reggono su servizi pubblici vasti ed efficienti. Gli Stati moderni, proprio per la vastità dei compiti e la complessità delle strutture, sono organismi fragili”. Egli pone la questione della regolamentazione del diritto di sciopero come ricerca di un punto di equilibrio fra difesa dell’interesse collettivo dei cittadini utenti e libertà sindacale dei dipendenti pubblici.

E’ in questa chiave che egli, pur comprendendo le difficoltà di approvare, allora, una regolamentazione degli scioperi nel settore privato, afferma: <>.

A quella regolamentazione si giunse alcuni anni dopo.



La difesa dei diritti dei cittadini non si traduce mai nel pensiero di Casalegno in una contrapposizione tra “società civile buona” e “classe politica malata”.

Egli esprime in più occasioni la sua preoccupazione rispetto allo steccato della diffidenza che rischia di ergersi sempre più alto tra opinione pubblica e istituzioni politiche. Ma rifiuta la visione semplicistica e fuorviante che separa la società civile, come crogiolo di virtù, dalla classe politica tutta incapace e corrotta.



Analoga è la sua posizione rispetto al funzionamento e al ruolo dei partiti. Casalegno critica in modo aspro l’incapacità dei partiti di “fare pulizia” - come egli scrive - al loro interno.

Denuncia ripetutamente l’arroganza del potere, il metodo del “fare blocco”, del “fare quadrato”. Tuttavia non assume mai atteggiamenti pregiudiziali. Quando esprime un giudizio fortemente critico sulle proposte di legge in materia di finanziamento pubblico dei partiti, lo fa non per attaccare i partiti in quanto tali, ma per sottolineare il suo dissenso sui contenuti specifici delle proposte. In un articolo del 10 aprile 1974 scrive:

“Se i partiti, nelle società moderne, svolgono un compito necessario di collegamento tra il paese e il Potere, e in democrazia sono uno strumento insostituibile per organizzare la rappresentanza politica dei cittadini, è giusto e ragionevole che ricevano denaro pubblico: in cambio del finanziamento di Stato, gli si deve chiedere soltanto che assolvano la loro funzione in modo politicamente corretto e che gestiscano nello scrupoloso rispetto della legge i miliardi ricevuti. Ricordiamoci che abolire i partiti non sarebbe un’economia: rimarrebbe il partito unico, più costoso – anche in denaro – d’una pluralità di gruppi concorrenti”.



Casalegno sottolinea con forza la necessità di una profonda riforma morale che coinvolga anche i cittadini.

In un articolo dell’agosto del 1970 scriveva:

“nelle molte lettere di condanna senza appello dello Stato italiano, nessuno dei miei critici rivela, per quanto ho capito, il minimo sospetto che i cittadini abbiano una parte di responsabilità nelle disfunzioni del nostro paese”

e continuava più avanti:

“si chiede la riforma fiscale, purché colpisca altri gruppi. Si vogliono leggi urbanistiche, senza rinunciare all’anarchia delle costruzioni. Si protesta contro l’eccesso della spesa pubblica, ma si rifiuta anche il trasferimento di una pretura. Gli scioperi che offendono sono sempre quelli degli altri. Si deplora la debolezza dello Stato, e tuttavia molti italiani continuano a tenere per i ladri contro le guardie”.



In un’Italia che sembrava lacerata tra anarchia e statolatria, Casalegno si impegna per l’affermazione dei valori di una società laica e moderna.

Non insegue le nostalgie del passato e preferisce guardare avanti.

Il 19 novembre 1965, scrive, in un articolo intitolato “La fortuna di vivere nel XX secolo”:

“Ha torto chi contrappone la stabilità e le certezze” del mondo ottocentesco alle inquietudini e alle paure di oggi, il sereno ritmo di vita dell’altro secolo alla febbre di questo, gli aristocratici splendori della belle époque all’uniforme “civiltà del benessere”. Le tumultuose trasformazioni di oggi sono la strada del progresso, il nostro secolo è più ricco, più libero, e più giusto”.



Sarebbe troppo facile sottolineare la modernità del suo pensiero continuando a richiamare tutti i temi sui quali espresse giudizi, allora spesso eretici e minoritari, ma oggi attuali e condivisi.

Non siamo qui per riconoscere le sue ragioni post mortem.

I sopravvissuti, di fronte a coloro che sono caduti per ragioni ideali, hanno il dovere di coglierne lo spirito, di penetrare nel senso del loro impegno.



In che cosa Casalegno è diverso rispetto ad altri giornalisti ed intellettuali del suo tempo?

Non insegue come la volpe di Isah Berlin, e come molti suoi colleghi, ogni traccia, ogni odore, ogni alito di vento. Non segue la moda della furbizia, ancora oggi non desueta nel mondo giornalistico. Come il riccio dello stesso pensatore si guarda attorno senza precipitazione, ma con voglia di capire e coglie perciò, meglio di altri, il significato degli avvenimenti. Il giornalismo ordinario divora il tempo ed è a sua volta divorato dal tempo. La dimensione temporale del giornalismo ordinario è la simultaneità livellatrice. Tutto ha più o meno la stessa importanza, non c’è che il quotidiano. L’Apocalisse e l’indigestione sono sullo stesso piano. La tragedia del giorno prima va in saldo il giorno dopo. L''effetto è l''anestesia delle coscienze.

Casalegno appartiene ad un altro giornalismo, più raro e perciò prezioso, oggi minoritario ma non estinto. La gerarchia dei fatti, dei valori e degli interessi è costante nelle sue posizioni. Se oggi leggiamo i suoi articoli cogliendo spunti che ci servono ancora, è segno che la sua dimensione non è la quotidianità che azzera il pensiero critico, ma il pensiero critico che riscatta la quotidianità.



Il mondo di Casalegno era diverso del nostro mondo di oggi. Ma quel mondo è stato anche il nostro mondo. Egli è stato fermato. Noi abbiamo continuato a vivere ed abbiamo attraversato venti anni decisivi per la storia recente del nostro Paese. La sconfitta del terrorismo, l’irrompere delle stragi di mafia e l’arresto dei grandi capi di Cosa Nostra, la fine del bipolarismo, le corruzioni politiche, amministrative ed imprenditoriali, e poi la lenta ma sempre più sicura risalita della china del declino economico, la riforma costituzionale, la ripresa del prestigio internazionale, l’avvicinamento ai parametri europei. Allora ci difendevamo; oggi stiamo costruendo.



Credo che esista un filo di continuità tra questi due mondi. Se non avessimo saputo uscire da quel mondo, oggi non saremmo in questo. Uscimmo dal terrorismo con uno scatto di orgoglio, per una grande fiducia nelle nostre forze, per la capacità di accantonare le divergenze e far leva sui valori comuni.

Credo che l’avvio di questo rinnovamento, quello di oggi dell’Italia repubblicana, che con fatica e tra contraddizioni i cittadini, le famiglie, le imprese, il mondo politico stanno ora costruendo, faccia leva sugli stessi valori civili, sullo stesso orgoglio.

E’ tipico del nostro Paese non il senso civico quotidiano, ma il senso dello Stato nel momento della necessità.

Quando la situazione sembra irreparabile, l’Italia scatta; ma perché l’Italia scatti la situazione dev’essere irreparabile. Questo è il paradosso italiano. Così è stato per il terrorismo, così è stato per la mafia, così è stato per il debito pubblico, così è stato per la riforma delle istituzioni. Appena la situazione sembra migliorare si ha la sensazione che le vecchie abitudini possano risvegliarsi. Dobbiamo confidare in un’emergenza permanente per diventare un paese normale? Certamente no. E come si può far nascere quell’ordinario senso civico che ha costituito la bussola di Casalegno?



L’Italia sta costruendo il nuovo sistema politico. L’Italia è forse l’unico tra i grandi paesi del mondo che per la seconda volta nel dopoguerra sta costruendo la sua Costituzione con il metodo parlamentare di confronto e votazione su singoli articoli, attraverso fasi successive aperte a tutti gli apporti. Non c’è un soggetto extraparlamentare che abbia preparato un testo e che ce lo fa cadere dall’alto. C’è il Parlamento che si è investito, con coraggio, di una funzione costituente. E’ una inedita impresa democratica, che mette alla prova le nostre capacità, alla quale, è importante rilevarlo, stanno partecipando tutte le forze politiche, ciascuna con le proprie posizioni. Una mediazione sarà inevitabile, come è accaduto per tutte le costituzioni democratiche del mondo. Il compromesso costituzionale è l’unico metodo per costruire in democrazia nuovi principi fondamentali.



Tuttavia il rinnovamento non finisce con l’approvazione delle nuove regole costituzionali.

Rafforzato il sistema democratico, bisogna costruire il costume democratico, quel complesso di regole comportamentali fondate sul principio di responsabilità, che, a differenza delle leggi, non sono imposte ai cittadini, ma dagli stessi cittadini sono sentite come necessarie e naturali per la convivenza civile.

Norberto Bobbio, ha recentemente ricordato su La Stampa l’opera di educazione civile di cui si era fatto propugnatore Casalegno.

Quella educazione civile oggi è necessaria come ieri. Ieri il nemico era visibile ed identificato, mentre oggi tutto ciò che può disseccare la nostra democrazia, dal relativismo morale alla corruzione politica, è spesso indistinguibile da tutto il resto. Ma, ancora una volta, è nei comportamenti quotidiani che riusciamo a scoprire da che parte stanno i nostri interlocutori. L’etica della vita quotidiana è il sistema nervoso delle nazioni, trasmette gli impulsi, orienta le reazioni, costruisce e trasmette doveri civili e senso del limite.

Quando scriveva del “nostro Stato”, uno Stato non di altri, e che è destinato a diventare ciò che i cittadini diventano, Casalegno coglieva lo stretto rapporto che passa tra la natura di uno Stato ed il carattere dei comportamenti dei suoi cittadini. Perciò i suoi richiami alla educazione civile e al costume democratico non erano né minimalisti né piccolo borghesi. Erano il richiamo di una concezione della politica come impegno laico e, insieme, come richiamo ai doveri della cittadinanza.

Ricordare oggi Casalegno è anche richiamare i suoi valori, i suoi ideali ed il suo metodo. Valori, ideali, metodo che sono ancora necessari, anche se, fortunatamente, non più per un’esigenza difensiva, ma per un’opera di ricostruzione.



A Carlo Casalegno, credo che debbano essere grati tutti coloro che, come magistrati o appartenenti alle forze di polizia, furono impegnati in quegli anni contro il terrorismo. Di fronte a chi professava la propria terzietà tra BR e Stato, come se fossero entità equiparabili, a chi sbeffeggiava le indagini, a chi incitava a non guardare ai diritti degli imputati, uomini come Casalegno consentirono di poter tirare diritto, nella legge e nella consapevolezza che anche fuori dei tribunali e del Parlamento c’era chi aveva capito quale era in quegli anni il rischio dell’Italia. E questo dava coraggio, faceva sentire ciascuno parte di una battaglia ideale più generale, che andava oltre le carte, gli interrogatori e le minacce.

Casalegno non potè essere ringraziato in vita. Ora i ringraziamenti suonano vani. Non vano, invece, potrà essere l’impegno a tenere alti i valori per i quali egli fu ucciso.