Commemorazione di Antonio Gramsci


Turi (Bari), 05/04/1997


***Giornata promossa dal Comune di Turi per il 60° anniversario della morte di Antonio Gramsci***


Antonio Gramsci si colloca nella schiera delle grandi personalità italiane, come Croce, Salvemini, Gentile, Einaudi, che hanno riflettuto sulla storia e sulla cronaca del nostro Paese ed hanno avanzato ipotesi per la soluzione dei nostri problemi. Il loro pensiero va al di là del tempo in cui fu formulato e, connesso alle contingenze delle diverse fasi della vita politica, ci consente di comprendere meglio le questioni del nostro tempo.
Gramsci fissò i capisaldi di un modo di essere del comunismo italiano, non dogmatico e pienamente inserito nelle tradizioni culturali europee ed occidentali, ma visse gli ultimi anni della sua vita, proprio per la sua indipendenza di giudizio, completamente isolato dal partito che egli aveva fondato. Gramsci si occupò di etica e di storia, di economia e di letteratura.



Nacque ad Ales, in provincia di Cagliari, il 22 gennaio 1891, da famiglia povera. Conseguì la licenza liceale con tutti 8 ed un 9 in italiano. Si classificò nono ad un concorso per borse di studio presso il collegio Carlo Alberto, di Torino. Palmiro Togliatti parteciperà allo stesso concorso e si classificherà secondo. Il suo soggiorno in Piemonte fu durissimo. Così lo descriverà, in una lettera da Vienna del 6 marzo 1924, quando aveva già 33 anni:



“...Per molto tempo i miei rapporti con gli altri furono un qualche cosa di enormemente complicato...per evitare che gli altri intendessero ciò che sentivo realmente. Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perchè non potevo andare a studiare, io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante di tessuti...Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia.”.



Gli anni che vanno dal 1914 al 1918 sono quelli della sua formazione politica. Scrive su “Il grido del popolo”, giornale torinese di opposizione, e comincia a schierarsi contro il dogmatismo che allora caratterizzava il movimento socialista. Sull’Avanti tiene una rubrica di cronache teatrali. Nel 1919 fa parte, con Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Angelo Tasca, del gruppo dei fondatori del settimanale “Ordine Nuovo”, che si pone l’obbettivo di rinnovare la cultura socialista attraverso la democrazia operaia.

Gramsci partecipa nel novembre del 1920 al convegno di Imola dove si costituisce la frazione comunista del PSI.

Nel dicembre del 1923, un anno dopo la marcia su Roma, è a Vienna come responsabile per l’Internazionale comunista dell’ufficio politico. Di lì scrive numerose lettere a Togliatti, Terracini e agli altri dirigenti italiani per mettere in discussione il settarismo di Bordiga. Avrà ragione solo nel 1926, al congresso di Lione, dove svolgerà la relazione politica.

L’otto novembre dello stesso anno, nonostante fosse deputato, viene arrestato dalla polizia del regime fascista. Verrà condannato nel giugno del 1928 dal TSDS a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Il p.m. Michele Isgrò nel chiderne la condanna, pronuncerà la frase rimasta famosa: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare!”. Viene destinato a Turi dove giunge il 19 luglio. Tra il 1928 e il 1929 l’internazionale comunista avvia l’analisi della socialdemocrazia come socialfascismo. Gramsci invece, coerentemente con la sua linea antidogmatica, si batte dal carcere per l’assemblea costituente di tutte le forze democratiche. Perciò, essendo fuori dalla linea del partito, viene condannato all’isolamento anche dai suoi compagni.



Nel novembre 1932 la pena gli viene ridotta, in seguito al condono per il decennale del regime, a 12 anni e 4 mesi. Nel marzo 1933 ha una grave crisi ed il suo medico chiede il trasferimento in clinica. Verrà trasferito soltanto nel dicembre successivo. Nel 1934 ottiene la liberazione condizionale. Comincia a riordinare i suoi quaderni ed alterna momenti di relativo benessere a gravi crisi. Il 27 aprile 1937 muore a Roma per emorragia cerebrale.



C’è una strana polemica in queste settimane sulla catalogazione del suo pensiero. Alcuni gli hanno attribuito una identità liberaldemocratica, altri lo hanno collocato nel più ortodosso filone marxista-comunista.

Io non ho la competenza per entrare in questo genere di discussioni. A volte ho visto in lui intuizioni che oggi definiremmo di carattere liberaldemocratico come quando studiando la crisi nelle relazioni internazionali nel primo dopoguerra vede come particolarmente pericolosa la caduta delle intese tra Stati che consentiva comunque, anche nelle condizioni più tragiche, una regolazione dei conflitti internazionali, in nome dello jus publicum europaeum. Della stessa natura mi sembrano le osservazioni in ordine alla identità dei soggetti politici che si definirebbero non per la rappresentanza degli interessi ma in base al modo in cui questi soggetti intendono il rapporto tra sviluppo e cittadinanza.
Così anche quando critica la debolezza strutturale dello Stato liberale italiano per il mancato pieno ed effettivo riconoscimento di tutti i diritti di libertà per tutti i cittadini. “L’esperienza liberale non è vana, scriverà il 12 luglio 1919, e non può essere superata se non dopo averla fatta.”. Anzi la sua tesi era che l’Italia non aveva mai conosciuto un vero regime liberale.



Altre volte mi è sembrato rivestire i panni dell’ortodossia tanto militante quanto rozza, specie quando polemizzava con Serrati, e con gli altri leaders socialista dell’epoca, ai quali rimproverava “lo scetticismo beffardo della senilità”.



A me Gramsci ha sempre dato l’idea di essere un comunista italiano, che è stata una tipologia un po’ particolare di comunisti, alla quale chi parla ha appartenuto a lungo, legata agli interessi nazionali, flessibile e mediatrice; con una particolare preoccupazione pedagogica nei confronti dei militanti, degli elettori, del popolo, derivante dalla consapevolezza dalle connessioni tra potere e sapere e dalle tragedie che possono derivare dalla mancanza degli strumenti del sapere; attenti alle libertà individuali quanto a quelle collettive, con un saldo riferimento nella classe operaia, ma senza trascurare le altre classi sociali.

Con alcuni gravi limiti, come il sostanzialismo, la presunzione intellettuale e, a volte, la rozzezza. Non credo peraltro che esista grande dirigente politico che non sia caduto nella trrappola della rozzezza. A volte essa è costituisce un artificio retorico necessarioper comunicare con immediatezza un’idea chiave ad un pubblico molto vasto. E’comunque sconsigliabile ricorrervi perchè ruba alla politica la sua più profonda caratteristica, che è lo sforzo di comprendere le ragioni degli avversari.



Gramsci come moltissimi dirigenti nazionali del PCI fu un intellettuale, un grande intellettuale.

Un grande intellettuale, specie quando ha trascorso in prigione una gran parte della sua vita produttiva, non può essere chiuso entro aride categorie, precostituite a volte per finalità contingenti. Gramsci aveva studiato a fondo Croce, aveva letto Luigi Einaudi, aveva fatto dell’ironia su “Il capitale” di Marx in un articolo del 1917, che si intitolava “La rivoluzione contro “Il Capitale” spiegando come e perchè secondo Marx la Russia era l’unico paese europeo nel quale, per l’arretratezza economica, era impossibile che scoppiasse una rivoluzione. E’ una grande personalità del pensiero politico europeo.

Egli fu sino all’ultimo giorno comunista italiano, dove l’aggettivo “italiano” è più forte del sostantivo “comunista”. Ma l’interesse ad una riflessione sulla figura di Gramsci non è legata alla sua collocazione rispetto a nostre attuali categorie e a nostre polemiche minori. L’interesse sta nel cogliere i tratti di modernità del suo pensiero, cogliere cioè l’utilità che può rivestire oggi lo studio del suo pensiero.



L’insieme degli scritti di Gramsci è quasi sterminato: le lettere, i Quaderni dal carcere, le relazioni al partito, gli articoli del periodo di libertà.

Si può trovare e si trova in realtà di tutto: dalle riflessioni letterarie, alle polemiche contingenti con persone oggi scomparse dal ricordo; dalle analisi profonde sui grandi processi di trasformazione a recensioni di scritti oggi del tutto minori.

La modernità di Grmasci sta soprattutto nell’avere egli individuato alcuni problemi nodali di questo secolo che non sono ancora risolti o che non sono ancora del tutto chiariti. Tra questi la crisi degli Stati nazione, il rapporto tra politica e innovazione tecnologica, i compiti della politica.



Di singolare attualità è una sua polemica con Bucharin, nel 1926, settant’anni or sono.

Il tema era il seguente: di fronte al progresso tecnico ed alla modernizzazione dell’organizzazione produttiva delle fabbriche, derivante in particolare dalle innovazioni prodotte dal fordismo negli Stati Uniti, che cosa deve fare la classe operaia? impegnarsi nel governo della modernizzazione oppure considerare la “modernizzazione tecnica” un fatto neutro, che non incide sui rapporti economici, politici e sociali, di fronte alla quale restare indifferenti, continuando a prepararsi per la rivoluzione?

Bucharin è per la seconda soluzione, quella dell’indifferenza.

Gramsci è per la prima soluzione. Egli è profondamente sensibile al “governo della tecnica”, ribadisce che i processi di modernizzazione cambiano i rapporti sociali e che le innovazioni pongono a tutti, indipendentemente dalla loro collocazione sociale o politica, la necessità di capire e di dirigere. Questa sua scelta lo rende “moderno” ancora oggi, con i cambiamenti che è necessario fare nei termini e nei soggetti, dopo più di 70 anni.

Quale è il succo di questa posizione? il succo è che quando è in corso un processo di cambiamento profondo che può toccare le relazioni sociali e quelle umane occorre intervenire per guidarlo verso obbiettivi conformi agli interessi del Paese.

Qualcuno ricorderà in questo momento le domande che, ben prima del rapimento, si era posto Aldo Moro a proposito dei fenomeni giovanili di quegli anni che cominciavano a prendere le forme del terrorismo. Egli si chiedeva, di fronte a questi fenomeni, come comprenderli e valorizzarne gli aspetti positivi prima che essi degenerassero, come in parte poi accadde tragicamente.



Questo tipo di considerazioni vale per tante nostre questioni contemporanee, la più grave delle quali è la riforma dello Stato sociale. Se siamo certo che tra alcuni decenni non saremo più in grado di pagare le pensioni e, inoltre, che più si rimanda la riforma, più si corre il rischio che essa diventi traumatica, una saggia scelta politica non consiste nel difendere a spada tratta ciò che difendibile non è, ma, applicando il principio gramsciano del governo del cambiamento, una saggia scelta politica consiste nel dirigere la riforma in modo tale essa esprima gli stessi fondamentali valori civili ed umani, ma entro un contesto generale coerente con le nostre necessità.

La riforma dello Stato sociale dovrebbe essere frutto non di un calcolo esclusivamente contabile, ma della capacità di lanciare una grande sfida per il futuro del nostro Paese, che comporti la migliore utilizzazione delle risorse pubbliche, lo sviluppo della coesione sociale, la costruzione di un sistema di certezze per tutti gli italiani. Questa è la rivoluzione di cui l’Italia ha bisogno, non una strategia “contro”, ma una strategia “per”. Bisogna costruire uno Stato moderno, che renda più facile la vita dei cittadini, che li aiuti nelle loro difficoltà quotidiane, che agevoli le relazioni economiche e sociali.

Se questa è la strada, le forze politiche devono presentarsi non come le depositarie o le raccoglitrici del malcontento, bestia che prima o dopo disarciona chi la monta.

Nè come esclusive denunciatarie delle disfunzioni. La storia della Repubblica non è stata nè un cumulo di errori nè una discarica di disastri, anche se errori e disastri non sono mancati.

Il nostro Paese non sarebbe la sesta potenza economica del mondo, se fosse davvero quella sentina di difetti pubblici e privati descritta da alcuni commentatori.

Ma tutti vediamo, anche, il rischio del cinismo, del calcolo esclusivamente economico, senza anima ideale. Vediamo tutti il rischio della demagogia di ogni colore.

Questi rischi si evitano e le capacità si potenziano se riusciamo ad arricchire la composizione delle forze attive del nostro Paese. Bisogna integrare nel sistema politico e sociale, accanto ai soggetti già integrati, nuovi soggetti per sviluppare le possibilità di rinnovamento e di trasformazione. E’ infatti evidente, ci spiega Gramsci in altra parte dei Quaderni, che non c’è alcuna trasformazione profonda possibile sinchè non cambiano i soggetti politici.

Ma quali sono i soggetti da integrare? si tratta delle giovani generazioni oggi ancora profondamente trascurate, considerate una sorta di appendice della società adulta, la quale non si accorge che ignorando i giovani brucia il futuro del Paese. La composizione della spesa sociale è il segno evidente di questo indirizzo. Il 60% va la pagamento di pensioni, l’1,5% al sostegno della disoccupazione, che oggi colpisce soprattutto i giovani, lo 0% alla casa; la media euroopea è del 40% per le pensioni, del 6% circa per l’assistenza alla disoccupazione e del 3% per la casa.

Manca in Italia, inoltre, una politica di promozione della famiglia, questione che riguarda soprattutto le giovani generazioni.

I nuovi soggetti, spiega Gramsci, non si definiscono per l’appartenenza a corporazioni o a ceti specifici, nè sulla base della rappresentanza di interessi. Si definiscono in base alla capacità di avere una “visione del mondo”, al modo in cui essi pensano il nesso tra sviluppo e cittadinanza e, in particolare, lo sviluppo come strettamente connesso all’espansione dei diritti.



La “visione del mondo”, si può aggiungere, non è solo ciò che segna il nascere di nuovi soggetti politici, ma è anche il terreno sul quale si misurano le forze tradizionali capaci di innovazione. Chi ha più visione del mondo, chi pensa di più in termini strategici e di futuro è più in grado di dirigere e di trasformare. Laddove questa “visione del mondo” sembra sovrastata dalle politiche contingenti, anch’esse necessarie, purchè non esauriscano tutto l’orizzonte dell’impegno politico, occorre fermarsi un momento a riflettere per reimpostare l’azione politica e rilanciare le questioni strategiche con la capacità di comunicarne il loro significato.



La riforma dello Stato sociale, per collocare al centro dell’intervento pubblico le giovani generazioni, cosa che si può fare senza sacrificare gli anziani bisognosi, è la materia sulla quale si misura davvero la “visione del mondo” delle diverse forze politiche e la loro capacità di abbandonare gli egoismi per integrare nuovi soggetti.

Può costituire perciò non una necessitata stretta di cinghia impostaci da Maastricht, ma un potente strumento di rinnovamento politico del Paese, di sua profonda modernizzazione, ben oltre le preoccupazione contabili, che non trascuro, ma che in politica devono essere sempre possedute da un’anima, da un coraggio, da una strategia, da una “spiritualità” credo che avrebbe detto Gramsci.



Gramsci è riuscito ad analizzare, naturalmente con i limiti che gli derivavano dallo studiare uin carcere, tutte le principali questioni del Novecento, anche quelle che si manifesteranno molto più avanti, sia riflettendo sulla natura e gli effetti della Prima Guerra Mondiale, sia riflettendo sulla introduzione negli Usa di nuove più razionali modalità di produzione e di vendita delle merci, il cosiddetto fordismo, anche attraverso politiche di alti salari e di più compiuti diritti di cittadinanza..

Egli studia la crisi degli Stati nazionali di fronte al formarsi nel mondo di un sistema economico unitario, determinato dalla razionalizzazione americana. Denuncia che gli Stati nazionali in Europa si chiudono in forme di nazionalismo esasperato ed armato perchè non sanno reagire alla loro crisi determinata dalla differenza tra il loro carattere nazionale ed il carattere mondiale che acquisiscono i processi economici.

Vede nel Novecento il “secolo americano”, grazie alla enorme capacità innovativa del sistema industriale americano, grazie ad uno Stato veramente liberale, che premia la libera iniziativa, intesa, precisa Gramsci, come possibilità del libero esplicarsi delle facoltà individuali o collettive, grazie infine alla “razionalità” del rapporto che si manifesta negli Stati Uniti tra sviluppo economico e cittadinanza.



Crisi degli Stati nazionali, globalizzazione dell’economia, rapporti tra America ed Europa sono tutt’oggi argomenti di straordinaria attualità. L’ipotesi di Gramsci per superare questo tipo di crisi è la formazione di una “classe internazionale” che sappia superare lo Stato-nazione ma non dimentichi i propri caratteri nazionali ed integri quindi nella dimensione di “unificazione del mondo” tutti i soggetti nazionali.

La proposta è certamente datata e tuttavia contiene anch’essa un’utile indicazione. Il superamento delle tradizionali dimensioni nazionali non deve avvenire in forma subalterna, ma connettendosi strettamente agli interessi nazionali. Gramsci raccomandava che il fondamento della ricostruzione unitaria del mondo non diventasse il capitale finanziario , ma il “lavoro nel suo insieme”, noi diremmo oggi “i lavori”, da quelli umili a quelli privilegiati.

E’difficile sfuggire al fascino di questa raccomandazione, oggi, quando si parla di Europa dei banchieri, i detentori appunto del capitale finanziario, quando si misura il livello di disoccupazione, quando si teme che gli interessi della grande finanza possano sacrificare quelli dei lavoratori, quando si ricorda, giustamente, anche da parte del Capo dello Stato, che l’unificazione monetaria è un fatto politico e non un fatto puramente contabile.

Oggi sappiamo che la debolezza degli Stati nazionali è determinata dal fatto che la politica agisce entro i confini degli Stati mentre l’economia si muove sullo scacchiere del mondo. L’effetto è, come dice il titolo di un fortunato libretto di qualche anno fa, che abbiamo ricchezze senza nazioni, perchè ospitate da banche di paesi diversi da quelli nei quali le ricchezze sono state prodotte, e nazioni senza ricchezze perchè le ricchezze prodotte sul loro tetrritorio si sono rifugiate altrove. Questo comporta una notevole difficoltà nei governi perchè viene meno la capacità di orientare i processi economici e perchè non si dispone della ricchezza prodotta.

Gramsci suggerirebbe all’Europa di non dividere la modernizzazione dalla democrazia, di esportare diritti e condizioni civiltà, non di ridurre i diritti e la civiltà dentro i nostri confini; Gramsci suggerirebbe ai partiti di costruire classi dirigenti idonee a guidare i processi internazionali con la piena consapevolezza della tutela degli interessi nazionali e del futuro del Paese, senza subalternità e senza arroganze. Gramsci metterebbe in guardia dai tentativi di far pesare soltanto la finanza nei rapporti internazionali, come una volta pesavano gli eserciti ed anzi vedrebbe in processi che hanno questa caratteristica il tentativo di chiudersi in nuove visioni della nazionalità, legata alla propria moneta più ai propri fucili, ma incapaci di costruire trasformazioni che servano agli uomini e alle donne, che li aiutino a vivere meglio, che consentano la realizzazione dei loro progetti di vita.



Ma chi è il politico che gestisce queste trasformazioni, che le guida, che ha visione del mondo? Quali caratteristiche deve avere? L’uomo politico, spiega Gramsci, ed anche questa indicazione ci può essere utile, è l’uomo del dover essere.

“ Il politico in atto è un creatore, un suscitatore, ma non crea dal nulla, nè si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni.....Applicare la volontà, continua Gramsci, alla creazione di un nuovo equilibrio delle forze realmente esistenti ed operanti, fondandosi su quella determinata forza che si ritiene progressiva...”.

L’uomo politico deve trasformare, modificare, è un uomo che costruisce. Nella concezione di Gramsci il politico non è l’uomo dei propri personali desideri o dei gesti testimoniali. E’ uno studioso del reale, della storia e dell’economia. Ha l’utopia. Il politico deve avere il coraggio dell’utopia. Non parlo delle mete irrealizzabili, che hanno già generato menzogne e disastri. Parlo dell’utopia strategica, quella delle impossibilità relative e delle emancipazioni necessarie.

Parlo della capacita’ di guardare un metro oltre l’orizzonte, solo un metro. Ma il confine tra l’orizzonte e quel metro in piu’ separa ineluttabilmente quelli che hanno paura di pensare da quelli che hanno il coraggio di vivere, quelli che amministrano da quelli che governano, quelli che si esauriscono nella cura del quotidiano da quelli che hanno il pensiero strategico.

La formazione della classe dirigente, che era una seria preocupazione per Gramsci, è una seria preoccupazione anche per noi. Se i partiti, la scuola, l’impresa non si preoccupano della futura classe dirigente, della sua formazione e della sua selezione, il Paese ne soffrirà in modo indicibile perchè verrà governato da incapaci, ai quali non potrà essere dato il massimo della colpa, che invece spetta a quelli che li hanno preceduti.

Se noi, se la nostra generazione non ha la consapevolezza dei doveri che spettano alla classe dirigente, non potrà formare quelli che le succederanno. Qui c’è uno dei nodi della situazione politica attuale.

La storia italiana di questo secolo ha subito due strozzature , diverse per natura, carattere ed origine, ma entrambe dannose per la formazione e lo sviluppo di una classe dirigente. Il fascismo prima e la guerra fredda interna, poi.

Il fascismo blocco’ lo sviluppo civile del Paese ingessandolo nelle maglie della fedelta’ al partito unico e del conseguente servilismo .

L’antifascismo e la lotta di Resistenza formarono una classe dirigente di straordinaria qualita’ politica e morale; ma la guerra fredda ne congelo’ le potenzialita’.

Sull’essere e sentirsi cittadino ha prevalso il sentirsi appartenente ad uno dei due schieramenti che dominavano il campo, quello antifascista e quello anticomunista.

L’appartenenza ha prevalso sulla cittadinanza.

Una delle piu’ gravi conseguenze e’ stata la debolezza del senso dello Stato e della cultura della legalita’. L’uno e l’altra sono forme di educazione civile caratterizzate dalla fiducia in una societa’ retta da regole ed attenta all’interesse pubblico. Comportano l’ esercizio responsabile dei diritti e l’ adempimento altrettanto responsabile dei doveri. Senso dello Stato e senso della legalita’ comportano rispetto per le proprie istituzioni e per il proprio Paese.

Quando in una nazione sulla cittadinanza prevale l’appartenenza si indeboliscono le virtu’ civili. Una classe dirigente si costruisce se tutte le forze politiche hanno il coraggio di far prevalere seriamente in ogni occasione la cittadinanza sull’appartenenza.

Naturalmente non e’ mancata in Italia una classe di governo. E’ mancato invece un sistema consolidato di produzione della classe dirigente, autonomo dagli interessi di parte.

Le nostre istituzioni formative e la nostra ricerca, ad esempio, non sono adeguate alle necessita’. L’Italia destina alla ricerca circa l’1,2% del PIL. Germania e Francia investono piu’ del doppio. Ad ogni ricercatore italiano corrispondono 1,8 ricercatori in Francia e in Gran Bretagna, 3,2 in Germania, 9 in Giappone e 13 negli USA.

Il figlio di un operaio o di un contadino ha venticinque possibilita’ in meno di laurearsi rispetto al figlio di un laureato. Questa e’ l’intollerabile discriminazione sulla quale bisogna operare per non accumulare ingiustizie sociali, umiliazioni, per non far perdere al nostro Paese migliaia di giovani intelligenze che hanno il solo torto di essere nate in una famiglia povera.



Dobbiamo recuperare e costruire. Ci serve voglia di futuro. Senza desiderio di futuro non esiste classe dirigente degna di questo nome. Ci serve il coraggio del “dover essere”, non il cabotaggio tranquillo nei laghi dell’essere.



Abbiamo bisogno di pensiero strategico. Il pensiero occasionale aiuta solo nel quotidiano, e’ come l’appiglio incerto in montagna, che ti serve per un momento soltanto e se ci fai troppo affidamento ti ritrovi malconcio.

Dobbiamo moltiplicare le sedi nelle quali si possano formare con continuita’ e con parita’ di condizioni di accesso le classi dirigenti del nostro Paese per domani e dopodomani.

Occorre suscitare nella scuola, per docenti e studenti, la cultura della qualita’ e dell’eccellenza con incentivi e riconoscimenti che stimolino le capacita’ individuali ed aiutino a riconoscere i segni della disponibilita’ allo studio e al sacrificio per il risultato.

Ma nel frattempo?



L’Italia non e’ priva di competenze, di capacita’ professionali, di spirito di sacrificio. In alcuni settori, civili e militari, disponiamo di vere e proprie punte di eccellenza.



L’Italia oggi è uno dei paesi più sicuri del mondo avanzato, molto più sicuro degli Stati Uniti, ad esempio; è la sesta potenza economica, come ho già ricordato; esporta il 70% dei suoi prodotti fuori dell’Europa, segno di vitalità e dinamicità; il suo sistema di piccole e medie imprese è un modello per buona parte del mondo. Siamo uno dei Paesi con il più alto tasso di risparmio.

Non ignoriamo i difetti italiani. Ma questi risultati non esisterebbero se il lavoro non fosse un carattere del popolo. E l’Italia, pur avendo in corso una severissima strategia di risanamento del bilancio non ha avuto i disordini sociali della Francia e della Germania; segno che c’è un senso della necessità, c’è l’idea, frutto di una sostanziale serietà, che arrivati ad un certo punto bisogna rimboccarsi le maniche.

Il significato profondo della storia dei primi 50 anni della Repubblica sta proprio in questo continuo emergere del senso del dovere dei singoli, spesso i più umili, di fronte a vicende che sembravano schiacciare ogni speranza.

Nel 1943 Benedetto Croce, annotava nel suo diario: “Sono stato sveglio per alcune ore tra le 2 e le 5, sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente, e’ distrutto, irrimediabilmente.”

Contemporaneamente migliaia di altri uomini e donne impugnavano le armi per ricostruire dignita’ nazionale, liberta’, sviluppo.

Nè i sindacati, nè i partiti più radicati tra i lavoratori avrebbero avuto un peso determinante nella storia nazionale se il lavoro non avesse occupato un posto primario nella vita degli italiani. Non abbiamo un’esibizione irrazionale dello “stare lavorando”, come in alcuni paesi europei di educazione protestante. Nè pensiamo che il lavoro sia vittoria sull’altro, come nei paesi più influenzati dal capitalismo puro.

Questa parte dell’Italia è stata educata al solidarismo cattolico e a quello della sinistra. In entrambi i casi il rispetto sostanziale dell’altro, la solidarietà, l’aiuto sono stati componenti della formazione civile dei lavoratori.

C’è un nesso inscindibile tra Italia repubblicana e lavoro. C’è una “repubblica materiale” nelle nostre città che ha tenuto insieme questo Paese, che lo ha sostenuto nei momenti terribili, quando tutto sembrava perduto.

Non siamo, percio’, un paese privo di virtu’ nazionali o di senso dello Stato.

La verita’ e’ un’altra. Siamo stati un paese privo, negli ultimi decenni, di una classe politica dirigente capace di tradurre il senso del dovere dei singoli in permanente e generale senso dello Stato. Siamo stati privi, inoltre, di uno Stato nel senso moderno, non solo coercitivo, che ha questa parola. Siamo stati vittime della corruzione di una parte consistente delle èlites politiche e amministrative. Ciò rende ancora più meritoria l’opera dei cittadini che, privi di uno Stato amico, e con una parte dei gruppi dirigenti disonesta, hanno comunque raggiunto straordinari obbiettivi.



Chi ha responsabilita’ politiche deve partire dalla consapevolezza dei valori civili degli italiani e deve avere il coraggio di esporre pubblicamente la necessita’ di dare obbiettivi e valori costitutivi a coloro che hanno competenze e capacita’ per farli sentire classe dirigente nazionale.

Una classe dirigente deve ispirarsi a due valori fondamentali: l’adesione ad un’etica pubblica e la capacita’ di costruire futuro.

L’etica pubblica comporta responsabilita’, senso dello Stato, competenza ed onesta’.

Il senso di responsabilita’ e’ la coerenza tra doveri e comportamenti.

Il senso dello Stato comporta la netta distinzione tra la sfera del pubblico e quella del privato.

La competenza non comporta la conoscenza diretta di tutto cio’ che e’ utile conoscere per dirigere, cosa che e’ praticamente impossibile. Comporta la capacita’ di mantenere un rapporto permanente con gli specialisti dei settori di interesse.

L’onesta’ e’ un preciso dovere di chi appartiene alla classe dirigente in un Paese democratico. La crisi che ha investito l’Italia negli ultimi anni ha rivelato una crisi delle etiche pubbliche, ma anche una preoccupante corruzione delle etiche dei privati. E’ evidente infatti che non ci sono corrotti se non ci sono corruttori.

Per troppo tempo una parte considerevole, anche se non maggioritaria, della societa’ italiana ha ritenuto che l’onesta’ delle classi dirigenti fosse una variabile priva di effetti sul piano dei risultati. I risultati, invece, li abbiamo letti nelle sentenze di Milano e di Palermo.

La capacita’ di costruire futuro e’ legata innanzitutto alla fiducia nel proprio Paese. Su questa base si costruiscono il primato della scuola e della formazione, la capacita’ di indicare le certezze fondamentali per i cittadini e per le imprese, la capacita’ di tutelare i diritti delle generazioni future, la capacita’ di motivare coloro che lavorano attorno ad un progetto facendoli sentire partecipi e protagonisti della realizzazione.

Una classe dirigente non si costruisce all’ombra dell’egualitarismo che porta a straordinarie ingiustizie perche’ fa andare avanti solo coloro che hanno forti protezioni di tipo familistico, economico, sociale o clientelare. Occorre che tutti abbiano pari opportunita’ di partenza. Poi chi avra’ piu’ capacita’, piu’ desiderio di conoscere e di affermarsi percorrera’ piu’ strada e servira’ con responsabilita’ maggiori il proprio Paese. Il riconoscimento del merito e la cultura della flessibilita’ non sono trucchi. Sono gli strumenti con i quali la politica costruisce una giustizia sociale concreta, non ideologica.



Una classe dirigente deve sapere dire i “no” necessari. Non tutto cio’ che si puo’ fare materialmente, e’ lecito o moralmente compatibile con i diritti degli altri. Chi dirige deve sapersi assumere anche la responsabilita’ di porre limiti, cominciando ad osservarli per primo.



Mi è stato chiesto in un recente incontro se Gramsci fosse più vicino a Togliatti o a Berlinguer.

In quel momento non ho saputo rispondere. Ho riflettuto in questi giorni e mi sembra di poter rispondere che egli fosse più vicino a Togliatti perchè della stessa generazione, innanzitutto, e poi perchè c’è in entrambi, mi pare, una fiducia nella politica e nell’uomo che forse Berlinguer non aveva, specie negli ultimi tempi del suo straordinario impegno politico.

Tuttavia sarebbe sciocco fare paragoni. Sono tre diverse personalità, vissute in condizioni e tempi diversi, non comparabili, che hanno contribuito con altre migliaia di uomini e donne, noti e ignoti, delle più diverse parti politiche a costruire il nostro Paese, con i suoi pregi ed i suoi difetti, anche, ma soprattutto con la sua straordinaria, quasi animale, vitalità.



Nello Rosselli, concludendo la biografia di Carlo Pisacane, scriveva: “Il viandante ansioso di varcare il torrente getta pietre una sull’altra, nel profondo dell’acqua, poi posa sicuro il suo piede sulle ultime che affiorano, perchè sa che quelle scomparse nel gorgo sosterranno il suo peso.”



Gramsci è l’unico pensatore politico della sinistra che è stato rivendicato anche dalla destra. Egli ci ci appare come quelle pietre affondate nei gorghi, che a volte non si vedono, che sono a volte dimenticate, ma che hanno la straordinaria funzione di sorreggere il nostro peso mentre affrontiamo, con qualche fatica, i doveri della politica. Egli non ci chiede quale è il colore delle nostre idee politiche; ci chiede soltanto, con il suo straordinario esempio, di avere il coraggio di sostenerle sino in fondo.

Per questa ragione il suo pensiero può costituire il motivo ispiratore di una nuova Italia, nella quale la cittadinanza prevalga sull’appartenenza, nella quale essere italiano e repubblicano venga prima delle collocazioni politiche particolari.