Riforme istituzionali e modernizzazione del Paese


Imola, 03/07/1997


***Incontro promosso dalla Federazione di Imola del PDS***


L’Italia sta costruendo la sua modernizzazione.

Che cosa vuol dire modernizzare un Paese?

La fondamentale differenza tra un paese non moderno ed un paese moderno e’ nella velocita’, nella complessita’, nelle liberta’, tanto nelle liberta’ di agire quanto nelle liberta’ dal bisogno.

I paesi piu’ moderni hanno piu’ velocita’, piu’ complessita’, piu’ liberta’. Gli altri sono meno veloci, piu’ semplici ed hanno meno liberta’.

Cio’ che rende l’Italia un paese non sufficientemente moderno e'' essenzialmente la lentezza decisionale del sistema politico. Abbiamo una societa’ veloce, dinamica e dotata di una sua vigoria straordinaria, quasi animale. Abbiamo un sistema politico lento, farraginoso ed incerto. La differenza tra l’una e l’altro diventa limitazione dei diritti dei cittadini, minore competitivita’ delle imprese, difficolta’ della p.a. di soddisfare adeguatamente i diritti e i bisogni individuali.



In estrema sintesi, il nostro sistema politico, dopo la guerra di Liberazione, e’ stato costruito su due colonne portanti. Una era rappresentata dai partiti politici e l’altra dalle istituzioni.

I partiti avevano ricevuto una fortissima legittimazione dalla vittoria contro il nazifascismo e dalla conseguente restituzione delle liberta’ ai cittadini; avevano costituito la Repubblica ed avevano approvato la nuova Costituzione.

Le istituzioni democratiche erano fragili perche’ nuove e non sperimentate; venivano, inoltre, da un ventennio nel corso del quale avevano perduto qualsiasi rappresentativita’.

I partiti, per la loro forza, si attribuirono il compito di decidere; alle istituzioni fu demandato il compito della rappresentanza e del confronto.



Cio’ che rende l’Italia un paese non sufficientemente moderno e'' essenzialmente la lentezza decisionale del sistema politico e di quello amministrativo. Abbiamo una società veloce, dinamica e dotata di una sua vigoria straordinaria, quasi animale. Abbiamo un sistema politico-amministrativo lento, farraginoso ed incerto. La differenza tra l’una e l’altro diventa limitazione dei diritti dei cittadini, minore competitivita’ delle imprese, difficolta’ della p.a. di soddisfare adeguatamente i diritti e i bisogni individuali.



Ad esempio, in base al regolamento della Camera, in sede di dichiarazione di voto finale su ogni provvedimento, ciascun deputato può parlare per dieci minuti, per un totale di 6.300 minuti. Sugli ordini del giorno, che si presentano prima del voto finale, può intervenire, oltre al proponente per la relativa illustrazione, qualunque deputato che ne faccia richiesta per cinque minuti, per un totale di 3.150 minuti. Il totale e’ di circa 10.000 minuti, 166 ore, pari a 17 giorni con dieci ore lavorative al giorno. Il buon senso ha impedito che tutto cio’ accadesse; ma il fatto stesso che un regolamento renda possibili questi effetti e’ segno che la Camera in quel regolamento e’ concepita piu’ per la rappresentanza ed il confronto che per la decisione. Si aggiunga che una opposizione che contasse su circa 300 deputati, come appunto accade oggi, potrebbe portare quei tempi, da sola, a 4.500 minuti, pari a circa 70 ore, sette giorni di dieci ore di lavoro al giorno.



Questo sistema finisce con il consegnare il potere di decisione non alla maggioranza, ma all’opposizione, contro ogni principio di democrazia. E’ evidente, infatti, che l’opposizione puo’ impedire l’assunzione delle deliberazioni nei tempi necessari e puo’ scambiare il proprio potere di interdizione con modifiche sostanziali al contenuto delle leggi.

E’ un meccanismo di interdizione-consociazione che potrebbe mandare a picco qualsiasi democrazia.

Devo aggiungere che l’opposizione, in questa legislatura, e sino ad ora, ha usato, ma non ha abusato del proprio potere di interdizione-consociazione. Tuttavia dal punto di vista teorico il problema resta in tutta la sua gravita’.



Questo quadro, nei primi decenni, proprio per la forza e la legittimazione dei partiti politici, non ha impedito all’Italia di crescere e di svilupparsi.

Abbiamo avuto uno straordinario progresso economico e sociale che ci porta oggi ad essere tra le prime potenze economiche del mondo.

Con la crisi dei partiti politici il sistema ha cominciato a perdere colpi. La colonna decidente non impartiva piu’ i comandi e la colonna rappresentante faceva fatica ad impossessarsi di una funzione, la decisione, appunto, per la quale non era stata pensata.

Di fronte ai grandi problemi del Paese, il terrorismo, i conflitti del mondo del lavoro, quelli di natura etica, come l’aborto, la corruzione, lo sviluppo di rapporti sociali ed economici sempre più complessi, i partiti politici hanno dimostrato la propria difficoltà di agire, lasciando un vuoto di decisione, che è stato occupato da altri poteri.



Ma non si e’ trattato di una sciatteria.



Dopo la crisi del centro sinistra, a partire dal 1974, gli uomini politici piu’ responsabili cominciarono a porsi il problema del futuro del Paese. Il centrismo era improponibile, il centrosinistra, fondato su un rapporto di governo tra la DC e il PSI pre craxiano, aveva esaurito la sua funzione; ragioni internazionali impedivano l’accesso al governo. In questa situazione Aldo Moro propose che le stesse forze che avevano dato vita alla Liberazione, alla Repubblica e alla Costituzione, si riunisserio di nuovo per avviare una seconda fase della vita della Repubblica. Toccò a Berlinguer accettare la proposta e cominciare ad operare con Moro. Ma nel 1978 i terroristi delle BR rapirono ed uccisero Aldo Moro. Venne meno un interlocutore essenziale ed iniziò quella lunga transizione che speriamo si concluda con il lavoro della Commissione Bicamerale. A partire da quell’anno le forze politiche sono alle prese con problemi strategici complessivi che riguardano proprio il futuro del sistema politico e delegano, di fatto, ad altri poteri la gestione del quotidiano.



La magistratura, in particolare, ha svolto una funzione importante, ma indubbiamente eccezionale rispetto ad un fisiologico equilibrio fra i poteri dello Stato. I rapporti di lavoro, la questione dell’aborto della minorenne, la legislazione antiterrorismo e antimafia, la carenza di una legislazione di prevenzione della corruzione sono i terreni sui quali piu’ si e’ misurata la carenza di decisione politica e la conseguente implicita delega a decidere rilasciata ad altro potere.



Negli ultimi venti anni la magistratura ha visto crescere il suo prestigio per gli interventi sulle grandi questioni nazionali, terrorismo, mafia e corruzione, per il numero di magistrati assassinati dai diversi terrorismi e dalla mafia che conferisce alla funzione giurisdizionale quei caratteri di tragicità e di eroismo che la politica ha perso; per la crescente inflazione legislativa che alimenta l’incertezza delle situazioni giuridiche e la necessità di interventi giudiziari anche per minori problemi della vita quotidiana di cittadini; per la tendenza, crescente nella vita politica, ad usare la denuncia penale come arma nei confronti degli avversari, specie all’interno dei consigli comunali, conferendo così alla magistratura una sorta di protettorato sulle amministrazioni.



Nello stesso arco di tempo i poteri politicamente responsabili, partiti, parlamenti, governo, si allontanano dal centro del sistema politico perché non riescono a dare una soluzione alla crisi italiana.

.

La sintesi è agevole: mentre la magistratura ha deciso sempre di più, la politica ha deciso sempre di meno.



Oggi la vita amministrativa e’ decisa per una parte assai grande da TAR, Consiglio di Stato e Corte dei Conti. La soluzione legislativa dei conflitti e’ governata per una parte significativa dalla Corte Costituzionale. Le dinamiche sociali, civili, economiche e politiche del Paese sono largamente influenzate dalla magistratura ordinaria



Sono anomalie gravi, che possono farci parlare di repubblica giudiziaria.

Ma di esse è principale responsabile la politica e non certo la magistratura. Bisogna porvi rimedio ricollocando la politica al centro del sistema, ma continuando a garantire indipendenza e autonomia della magistratur

Non è demolendo la magistratura che si rafforza la politica.

Il sistema riacquisterà una sua modernita’ ed una sua normalità solo quando perdera’ i caratteri di repubblica giudiziaria e costruira’ una democrazia decidente.





E’ venuto al pettine il nodo cruciale delle moderne democrazie, che è quello di saper assicurare, attraverso il buon funzionamento delle istituzioni, il pieno rispetto dei principi di decisione e di responsabilità politica, lasciando ai poteri che non sono politicamente responsabili le competenze per le quali la stessa irresponsbilita’ politica ha una ragion d’essere.



Le istituzioni che, prima di altre, sono state messe in condizioni di decidere, superando i vecchi limiti della esclusiva rappresentativita’, sono stati i comuni. L’elezione diretta del sindaco ha conferito reali poteri di decisione al primo cittadino. Tuttavia l’esperienza di questa prima fase ci fa registrare un certo malessere dei consigli comunali, il cui peso e’ stato ridotto forse in forma eccessiva e punitiva, con forme di vera e propria crisi di identita’ democratica.



Ora il problema della decisione va affrontato a livello nazionale.

Tanto nelle riforme costituzionali, quanto nelle riforme regolamentari occorre prendere il toro per le corna ed affrontare il tema della costruzione della democrazia decidente, trovando il giusto equilibrio tra decisione e confronto.

Democrazia decidente non significa percio’ imbavagliare i parlamentari o eliminare lo spazio del confronto.



In un sistema maggioritario, che instaura un rapporto diretto tra elettori ed eletto, deve essere rafforzata la tutela dei singoli rappresentanti del popolo e deve essere in ogni caso assicurato un adeguato spazio di espressione tanto ai gruppi quanto agli eventuali parlamentari che intendano esprimere una propria personale posizione, dissenziente e consennziente rispetto alla linea del proprio gruppo .



Occorre assicurare un equilibrio di fondo che consenta alla maggioranza di vedere esaminate e votate entro tempi certi le proprie proposte e quelle proposte che attuano il programma di Governo, e che permetta all’opposizione di vedere discussi e votati i propri progetti di legge nell’ambito di congrui spazi appositamente riservati.

Solo in questo modo il Governo e le forze che lo sostengono potranno essere chiamate a rispondere delle proprie scelte. Mentre l’opposizione potrà svolgere una funzione di critica costruttiva, ben più produttiva rispetto alla mera interdizione delle scelte della maggioranza, e offrire all’elettorato l’indicazione chiara di percorsi alternativi all’azione del Governo in carica.

In questo quadro, il Parlamento diventa il luogo non solo della rappresentanza, ma anche della decisione.



I partiti politici, dal canto loro, possono recuperare la loro fondamentale funzione di interpretazione dei bisogni profondi della società, proponendosi come forze capaci di indicare le priorita’ nazionali, le scelte strategiche per il futuro, i valori costitutivi della identita’ nazionale e, insieme, i valori che segnano l’appartenenza all’una o all’altra forza politica.



C’è poi il problema della qualita’ delle leggi.

Esiste una diffusa esigenza di delegificazione, di semplificazione, attraverso la approvazione di testi unici per grandi settori di intervento, ma esiste soprattutto la necessità di distribuire secondo regole nuove la potestà normativa fra Governo e Parlamento.

La qualità della legislazione è strettamente legata ai modi di produzione normativa.

Il Parlamento sta già lavorando all’obiettivo di ridurre il numero delle leggi e di migliorarne la qualità.

Alla Camera è stato avviato l’esame dei progetti di riforma del regolamento volti a razionalizzare il procedimento legislativo, ed è stata emanata una circolare, da parte dei Presidenti delle due Assemblee, che fisserà alcuni criteri guida dell’attività legislativa con lo scopo di assicurare il rispetto dei principi di chiarezza e di semplificazione, nell’interesse dei cittadini, delle imprese e della pubblica amministrazione.

Molto spesso la pubblica amministrazione è lenta perché i procedimenti sono disciplinati da troppe norme, oscure e contraddittorie.

Anche l’amministrazione della giustizia risente negativamente di una legislazione disordinata e incerta, per il peso di un gran numero di conflitti che derivano proprio dalla scarsa chiarezza delle leggi.



Ecco perché l’obiettivo della democrazia decidente è un obiettivo strategico, centrale. Perché la piena funzionalità del Parlamento e dell’Esecutivo si ripercuote necessariamente sul buon funzionamento della pubblica amministrazione, riduce i conflitti, rendendo più celere e comunque piu’ trasparente l’amministrazione della giustizia.



Consente, in ultima istanza, di garantire meglio i diritti e le libertà riconosciute ai cittadini e di ricostruire quel patto di fiducia tra cittadini, partiti e istituzioni che fu la straordinaria innovazione della Carta del 1948 e che oggi bisogna rinnovare adeguando alle nuove esigenze della societa’ italiana tanto la forma di Stato, quanto la forma di governo.



La riforma deve dare al voto dei cittadini la possibilità di scegliere direttamente una stabile maggioranza di governo che non possa essere cambiata se non tornando al voto popolare. Il presidente del Consiglio deve avere più potere di decisione all’interno del consiglio dei ministri.



Nella scorsa legislatura, durante il governo Dini, ci si accorse che il presidente del consiglio non ha il potere di cambiare un ministro che conduca una linea politica difforme da quella decisa dal Governo. Si tratta della cosiddetta vicenda Mancuso, dal nome del Ministro interessato. Non intendo, nè posso entrare nel merito della questione specifica, ma è evidente che un presidente del consiglio che non puo’ sostituire un suo ministro, mentre il sindaco di qualsiasi comune può sostituire un proprio assessore, è davvero sprovisto dei poteri minimi per indirizzare l’azione del governo.

La riforma è necessaria per costruire il potere decidente e passare dal sistema della rappresentanza, della consociazione e del veto, cioè dal vecchio meccanismo, al sistema della rappresentanza, della decisione e della responsabilità.

Il secondo aspetto delle riforme dev’essere l’introduzione del federalismo per portare i poteri di decisione più vicino ai cittadini.

In un Paese avanzato, complesso e diversificato come il nostro, il federalismo e’ la faccia moderna della unita’ nazionale, e’ una forma di Stato elastica e leggera, che aiuta senza schiacciare.



Tuttavia il federalismo non puo’ essere inteso come una sorta di puro decentramento regionale del centralismo statale. L’esperienza fallimentare della Regione Sicilia sta ad insegnarlo. Se sostituissimo al centralismo romano 22 centralismi lombardi, veneti o laziali non credo che ce la caveremmo meglio.



Un federalismo italiano non puo’ essere una copiatura, seppure brillante, della esperienza tedesca o di quella americana. Ogni paese ha la sua storia e quella storia, se non e’ assecondata, si ribella ai vincoli che pretende di imporle la politica.



L’Italia ha, a partire dai primi secoli di questo millennio, nei comuni, nelle citta’ una sua originalita’ un suo codice di identita’. Quando altri costruivano nazioni e Stati, noi costruivamo citta’ in grado di finanziare regni, di sconfiggere imperatori, di conquistare imperi. Girando per le 8.000 citta’ italiane si scoprono tesori, individualita’ fortemente sentite, storie di di sacrifici e di coraggi che come una grande rete sostengono la nostra idea di Stato e di nazione.



La nuova forma dello Stato deve essere interamente reinventata, non per destrutturazione dello Stato centrale, ma per ricostruzione di un nuovo Stato federale a partire dai poteri, dalle responsabilita’ e dalle risorse che devono essere attribuite ai comuni, in quanto livello istituzionale piu’ vicino ai cittadini.



Cominciamo quindi dalle citta’ dando ai loro governi ogni possibile funzione amministrativa per la vita dei cittadini.



Pensiamo alla regione come luogo della legislazione, dell’indirizzo politico e della programmazione su un territorio definito dai confini tradizionali. Sosteniamo il sistema comuni, regioni, Stato con il principio di sussidiarieta’ fissando il principio della coerenza tra poteri, responsabilita’ e risorse.



Rispondiamo con la modernita’ alla istanza eversiva della secessione.



Intendo richiamare la vostra attenzione, infine, sulla questione dei valori. Le regole non bastano se non sono indirizzate e guidate da alcuni valori fondamentali, se non hanno come tragurado una certa idea dell’idea dell’Italia come patria, come nazione, come territorio con uina storia comune e con valori comuni dove vogliamo che siano educati e crescano e si affermino i nostri figli ed i figli dei nostri figli.

Le idee di patria, di nazione, di libertà e di unità nazionale erano fortissime ed intrinsecamente connesse nell’immediato dopoguerra. Basta guardare le carte, i documenti, le vicende, i giornali dei primissimi mesi della Repubblica, anche del primo anno e mezzo.

Cos’è accaduto poi? La risposta è semplice e drammatica. Poi c’è stata la guerra fredda, il bipolarismo, la rottura tra occidente e mondo sovietico.

Le conseguenze sono state rilevanti. L’Italia, che era paese di confine tra i due mondi, si è divisa, sostanzialmente, in due grandi schieramenti: quello antifascista e quello anticomunista. L’appartenere all’uno o all’altro ha prevalso sulla cittadinanza; ciascuna delle due grandi aree riteneva di avere una propria idea di patria e di nazione e negava legittimità alle idee degli avversari.

Lo schieramento antifascista aveva una sua idea di patria e riteneva che la destra avesse distrutto la patria. Lo schieramento anticomunista aveva una sua idea di patria e riteneva che la sinistra intendesse distruggere patria e nazione. C’erano due idee perché c’erano due storie e due concezioni.

L’appartenenza ha prevalso sulla cittadinanza.

Il fenomeno delle due Italie si è così protratto quasi sino alle soglie della fine del secolo, con conseguenze assai gravi: la fragilità del senso dello Stato e della cultura della legalità. L’uno e l’altra sono forme di educazione civile caratterizzate dalla fiducia in una società retta da regole ed attenta all’interesse pubblico. Comportano l’esercizio responsabile dei diritti e l’adempimento altrettanto responsabile dei doveri. Senso dello Stato e senso della legalità comportano rispetto per le proprie istituzioni e per il proprio Paese.

Noi adesso possiamo finalmente cominciare a riflettere con libertà sui nostri caratteri nazionali perché è finito il bipolarismo, è finita la divisione del mondo in due schieramenti, è finita la guerra civile fredda che ha attraversato l’Italia. L’Italia è stato l’unico paese del mondo occidentale avanzato che ha avuto undici stragi, centinaia di assassinati per ragioni politiche negli anni della Repubblica. Tutto questo è un prezzo che abbiamo dovuto pagare. Ora, chiusa, per fortuna, la fase del bipolarismo, possiamo cominciare a riflettere su fatti sui quali altri Paesi hanno riflettuto ben prima di noi. Noi eravamo troppo divisi, troppo lacerati, per farlo.

La crisi del sentimento nazionale in Italia non può dunque essere ascritta ad un vuoto originario di valori e di ideali o ad un problema di limitata legittimazione delle forze politiche uscite vittoriose dalla guerra, al nazifascismo, ma alla specificità della storia che il nostro Paese ha vissuto.

Nel discorso di insediamento alla Camera mi sono chiesto se l’Italia di oggi non debba cominciare a riflettere sui motivi per i quali migliaia di ragazzi e di ragazze, parlo dei quindici, sedici, diciassettenni, non parlo, naturalmente, dei capi o dei torturatori, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e della libertà.

Oggi che i grandi blocchi ideologici si sono dissolti, che il contesto internazionale e interno è profondamente mutato, è doveroso porsi questa domanda, non per relativizzare o sminuire il significato della lotta della Resistenza, ma al contrario per capire perchè i valori che la Resistenza ci ha dato non sono diventati patrimonio di tutti gli italiani. Questo è il nostro problema nazionale. Per quale motivo i valori di quella lotta non sono diventati valori generali ma sono finiti nei valori di parte. Io credo che la riflessione vada fatta. Lo hanno detto per primi Togliatti, Amendola, tanti altri. Perché? Perché alcune migliaia di ragazze e di ragazzi di quattordici, quindici, sedici anni invece di andare dalla parte della libertà e dei diritti e di chi, comunque, in quel momento stava vincendo andarono invece dalla parte di chi si capiva che era destinato a essere sconfitto e che aveva certamente una visione violenta, dittatoriale della vita, del mondo.

Perché quella parte del mondo giovanile ritenne che il totalitarismo potesse essere coniugato alla dignità nazionale? Dentro quella scelta si manifestò uno specifico aspetto italiano, un grumo di autoritarismo che tornerà negli anni seguenti. L’idea che la violenza può essere usata per finalita’ politiche ed anzi che la violenza possa riscattare, dare dignità e legittimazione.

I terrorismi di destra e di sinistra, che insanguinarono l’Italia tra la metà egli anni Settanta e la metà egli anni Ottanta avevano dentro di sè un’analoga convinzione. Perciò sarebbe opportuno riflettere, analizzare, capire, sciogliere il grumo della scelta autoritaria sin dalle sue origini.

Le difficoltà attuali nell’affrontare in termini moderni la questione nazionale derivano anche dai limiti che sinora hanno attanagliato la scuola.

La scuola italiana non ha saputo trasmettere ai giovani, almeno finora, la conoscenza della propria storia recente.

E’ stato un grave errore, una grave occasione perduta. Nei decenni successivi alla guerra si è spezzato il rapporto tra le giovani generazioni e l’immediato passato. E’ venuta a mancare la consapevolezza dei drammi e delle contraddizioni che l’Italia visse con l’avvento, il dominio e la caduta del fascismo, con la fuga della monarchia, con la cosiddetta Repubblica di Salò, con la guerra civile di Liberazione. E’ mancata l’occasione di far conoscere alle generazioni più giovani, chiamate a ricostruire il Paese, il valore e il prezzo dell’Italia liberata e della democrazia nascente.

Il sentimento nazionale, inteso al di fuori di una dimensione meramente retorica, che non ci interessa, non è costituito da un insieme di valori astratti. E’ un sentimento di attaccamento verso la comunità, che si esprime attraverso l’adesione a principi che, per essere diffusamente condivisi, debbono essere trasmessi di generazione in generazione e soprattutto difesi, tutelati e rinnovati da chi guida la comunità stessa.

Per questo penso che per riavvicinare lo Stato ai cittadini, per restituire loro fiducia, per ricostruire un forte sentimento nazionale, dobbiamo lavorare per rendere la nostra una “democrazia conveniente”.

La categoria della convenienza è spesso signorilmente disprezzata da alcuni intellettuali.

C’è una parte del nostro paese, ma questo accade in tutto il mondo, che può vivere indipendentemente da una democrazia conveniente. Perché se i trasporti non vanno usa la propria vettura; se gli asili non funzionano, possono pagarsi una scuola privata, se le università non funzionano può mandare il figlio a studiare all’estero, se gli ospedali non funzionano c’è la casa di cura privata, e cosi via. Ma c’è una parte grande e sempre più grande che ha bisogno che la democrazia funzioni. E ha bisogno che i trasporti vadano, che i servizi funzionino, gli ospedali curino, che la scuola insegni, l’università formi. Altrimenti non riesce a vivere. E se non vede che queste cose ci sono, dice “Va bene, la vostra democrazia sarà bella però come funziona? Quale utile ne traggo? Perché devo avere fiducia in un sistema che non mi fa viaggiare, non mi informa non mi educa, non mi cura?”

La questione della democrazia conveniente va proposta quindi con forza.

Dobbiamo pensare a una democrazia in cui il cittadino trovi risposte ai propri problemi, una democrazia che sappia concretamente garantire i diritti, in cui il nocciolo non sia più l’appartenenza ideologica ma la cittadinanza.

Il patriottismo è anche l’interesse al bene del Paese che diventa benessere personale.

Se è vero che il senso di appartenenza nazionale sgorga inevitabilmente da fatti storici che nutrono l’orgoglio di identificarsi in una ben precisa comunità, è altrettanto vero che questo sentimento, per rimanere vivo, ha bisogno di essere alimentato non solo mediante la memoria e i simboli, ma anche mediante l’orgoglio di sentirsi appartenere ad uno Stato che funziona, che è leale con i cittadini, che dà quello che promette, che aiuta a vivere invece di ostacolare la vita quotidiana.

Vorrei richiamare la vostra attenzione, a qesto proposito, su cosa vuol dire essere repubblicani. Quella italiana e’ l’unica Repubblica nata da una guerra al nazifascismo. Chi combatte’ per la Repubblica italiana non volle soltanto abbattere la monarchia. Volle ripristinare nella nazione italiana alcuni valori che costituiscono nella storia europea degli ultimi due secoli, dopo la rivoluzione francese, l’essenza dell’essere repubblicani. Essere repubblicani vuol dire avere la necessita’ della regola, il senso della continuita’ dei valori civili fondamentali nello scorrere delle generazioni, la religione del servizio che si ha il dovere rendere ai cittadini. Significa essere laici e rispettosi delle opinioni altrui. Ripudiare le contese ideologiche e affrontare la battaglia delle idee. Credere che il futuro e’ dentro le nostre mani e che ogni generazione si legittima nel giudizio della storia per quello che riesce a consegnare alle generazioni future. Noi ci legittimeremo non sulla base degli applausi che riusciremo a scambiarci, ma per ciò che riusciremo a consegnare a quelli che verranno dopo di noi.

Questa sostanza della Repubblica e’ stata per troppo tempo trascurata. Nell’opera di rifondazione del sistema politico e dei suoi valori costitutivi e’ necessario riaffermare il valore propositivo e dinamico della forma repubblicana dello Stato come punto qualificante della nostra identita’ nazionale e come carattere essenziale di una nuova etica pubblica e di un nuovo modo di intendere la cittadinanza.

Torniamo ora alla domanda iniziale per chiederci se abbia ancora un senso discutere sui valori nazionali e sulla costruzione di un sentimento comune di appartenenza.

In una società complessa, aperta, pluralistica, come quella italiana la questione del sentimento nazionale non può essere posta in termini “tradizionalistici”.

Non si tratta di ricercare caratteri di tipo etnico o altri elementi analoghi. Si tratta di far sì che l’attaccamento che ciascuno di noi ha fortissimo per la propria città, (noi ci riconosciamo come appartenenti ad una città prima che appartenenti ad una regione) diventi anche stima e fiducia per la Repubblica e si trasformi nella capacità di salvaguardare e difendere il patrimonio ideale e culturale al quale ci si sente di appartenere.

Ma per ottenere questo risultato occorre che la Repubblica meriti di essere stimata.

I cittadini stimano le istituzioni quando le sentono vicine, le sentono come cosa propria, degne di rispetto. Ecco perché la costruzione di rinnovati valori nazionali trova nella riforma dello Stato un passaggio necessario. La riforma di cui parliamo tende a trasformare lo Stato e un sistema politico ormai invecchiato, in efficienti produttori di servizi che oggi, come sappiamo, non sono in grado di fornire. C’è un rapporto fra “non stima” nei confronti del nostro Paese e la nostra “deresponsabilizzazione”. Spesso vedo presente nei dibattiti l’assunto della sfiducia, della non stima, della denigrazione perfino nei confronti del nostro intero Paese.

In questi giudizi liquidatori si nasconde una forma di deresponsabilizzazione: se manifesto sfiducia non ho bisogno di impegnarmi. Il problema del mio dovere diventa secondario se antepongo la sfiducia nei confronti dell’altro. E così penso di riuscire a salvaguardare la mia privatezza, il mio piccolo interesse quotidiano.

Ma è un’illusione. Se non crediamo nel nostro Paese, non possiamo costruire il nostro futuro. Saremo solo destinatari degli interessi e delle politiche altrui.

Invece ci meritiamo di più. Nella nostra storia recente abbiamo battuto il terrorismo nero e quello rosso, stiamo conseguendo riultati straordinari nella lotta contro la mafia (anche se si deve fare molto di più per la confisca dei patrimoni dei mafiosi), abbiamo individuato livelli elevatisssimi di corruzione. Abbiamo il saldo primario attivo più alto tra tutti i Paesi dell’OCSE; abbiamo la bilancia commerciale attiva, secondi solo al Giappone, il tasso di inflazione è sceso di oltre quattro punti percentuali in meno di un anno.

Abbiamo certamente ancora problemi gravissimi primi fra tutti la scuola e il lavoro, settori per i quali investiamo molto meno della media europea. ma anche qui vedo che ci si muove, che si è deciso di rimboccarsi le maniche e di applicare la nostra volonta’, la nostra capacità, la nostra energia vitale.



Abbiamo un’idea precisa dell’Italia, quella di una nazione pacifica, operosa, che pensa di più ai suoi figli e che rispetta di più i suoi padri, che sa fare un sacrificio oggi per acquisire più benessere domani, che non vive chiusa nel suo egoismo, ma sa mettere in campo una solidarietà viva e responsabile.



Abbiamo un’idea precisa della giustizia sociale, che vogliamo ricostruire lottando contro l’evasione fiscale (230 mila mld. nel 1995, secondo l’osservatorio di Pavia), contro l’egualitarismo deresponsabilizzante che deprime il merito e favorisce in modo particolare chi ha alle spalle famiglie abbienti, chi ha protezioni o chi appartiene a clientele.



Abbiamo un’idea precisa del pubblico che non puo’ limitarsi a tutelare chi ci vive dentro, ma deve significare funzione che serve al Paese



Sappiamo che la politica deve garantire ai cittadini 5 fondamentali sicurezze: l’istruzione, il lavoro, la salute, l’ordine nelle strade, la possibilità di costruirsi un futuro.



Sappiamo che dobbiamo tutelare di più e meglio le famiglie, soprattutto le giovani famiglie.



Sappiamo che costruire un’Italia più autorevole e più sicura è un nostro preciso dovere.



Solo la consapevolezza profonda di questo dovere ed il battersi per attuarlo puo'' dare alla nostra generazione il diritto alla riconoscenza delle generazioni future.



E '' lo stesso diritto che hanno acquisito le donne e gli uomini, le ragazze e i ragazzi che pagarono con la vita il dovere di restituire all’Italia libertà ed onore dopo la tragerdia del nazifascismo e che noi ricordiamo con rispetto e con orgoglio.



Con rispetto, perche'' sono caduti per noi; con orgoglio, perche'' ci sentiamo loro eredi civili.