Intervento al II Congresso nazionale del PDS


Roma, 02/22/1997


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Questo congresso coincide con una fase nella quale, come mai rispetto al recente passato, si intrecciano speranze, preoccupazioni e contraddizioni.

Una forza politica chiede la rottura dell’unità nazionale e, contemporaneamente, non c’è settimana che non venga edito un libro o pubblicato un articolo sul concetto di patria e di nazione.

I mezzi di informazione hanno creato la figura di una generazione-mostro partendo dal crimine commesso a Tortona, mentre nella stessa città, a pochi chilometri da quel cavalcavia, 80 giovani si sono avvicendati, per mesi, giorno e notte al capezzale di un ragazzo celebro-leso per cercare di rianimarlo.

Pensavamo che il mondo civile si fosse tutto schierato senza equivoci contro il nazifascismo. Abbiamo scoperto che l’oro rapinato da quegli eserciti ai cittadini di religione ebrea era stato custodito nelle silenziose casseforti di alcune capitali europee, addirittura utilizzato in alcuni casi come garanzia per gli affari internazionali del Terzo Reich.

Sappiamo di vivere in un mondo dove ci sono più diritti, più civiltà e più progresso rispetto a qualunque altra fase della storia del mondo. Sui libri della nostra adolescenza abbiamo letto, inorriditi e commossi, dei trafficanti che rubavano donne e uomini dalle coste dell’Africa per portarli come schiavi in America. Oggi, sotto i nostri occhi, a volte troppo pigri, bande criminali sequestrano giovani donne e bambini, nei loro paesi poveri, per costringerli con la violenza alla prostituzione nei paesi ricchi. E di quella costrizione approfittano uomini civili del nostro Paese, del nostro continente, del nostro mondo avanzato. Non c’è molta differenza da quell’altra schiavitù. Questa può essere, in alcuni casi, peggiore.

Il luogo comune di un Sud annichilito dalla mafia svanisce di fronte alle migliaia di scuole delle regioni meridionali che sono all’avanguardia per tecniche di insegnamento e per impegno di insegnanti e studenti nell’educazione alla legalità. Il luogo comune di un Sud inerte svanisce di fronte ai 20.000 progetti di giovani per il prestito d’onore, quando si prevedevano solo 5.000 domande, il 75% dei quali contiene serie proposte per l’occupazione, e di fronte alla notizia per la quale le imprese nel 1996 aumentano più in alcune regioni del Mezzogiorno che nella media nazionale.

Il crollo dei sistemi comunisti ha accelerato la crisi delle grandi idee. Poteva essere il tramonto della contrapposizione amico-nemico, e l’inizio della costruzione di nuovi valori civili unanimemente condivisi. Ma non è ancora così. Ciascuna grande idea esprime il meglio di sé e delle proprie ragioni nel confronto con l’avversario. Quando l’avversario ha ceduto, di schianto, come è accaduto appunto ai regimi del blocco sovietico, la cultura europea si è cullata nella vittoria, si è intorpidita nella sicurezza , sembra aver perso la capacità di mantenere il primato delle sue idee e dei suoi valori.

È toccato a Giovanni Paolo II, mettere in guardia dai rischi di un eccesso di trionfo del capitalismo per i diritti e le libertà delle persone più deboli, dei paesi più poveri.

Alcuni filosofi europei, per spiegare la complessità del mondo in cui viviamo, e per spiegare le difficoltà dell’uomo contemporaneo suggeriscono di abbandonare la freccia cartesiana, che avanza dritta nella foresta, e di far ricorso invece alla figura del labirinto. Il viaggiatore di questo labirinto avanzerà quando crederà di arretrare; si perderà quando crederà di essere giunto al traguardo, due punti che gli sembreranno lontani saranno in realtà vicinissimi.

Sul pavimento della cattedrale di Chartres, costruita nel XIII secolo, la difficoltà dell’uomo di raggiungere Dio, lo scopo ultimo della sua vita, secondo la teologia dell’epoca, è raffigurata attraverso un grande labirinto. La stessa figura per simboleggiare la stessa difficoltà si ritrova in altre trenta chiese dello stessa epoca italiane, francesi e inglesi. La fiducia nella scienza e nell’uomo, propria del Rinascimento, sostituì il simbolo del labirinto con il più solare albero della vita.

È singolare che sette secoli dopo si possa ricorrere alla stessa figura per rappresentare le difficoltà dell’uomo nell’affrontare la storia del proprio tempo, nel cercare un senso alla vita del mondo in cui egli stesso vive.

In realtà la questione posta dai teologi del XIII secolo non è molto diversa da quella posta dai filosofi alla soglia del XXI secolo. Gli uni e gli altri si pongono la questione del significato della vita dell’uomo e, avendo più prudenza nel valutare le possibilità umane rispetto a quanta ne avevano il Rinascimento e Cartesio, rappresentano a distanza di sette secoli lo stesso problema con la stessa figura. In pieno medio evo il filo per uscire dal labirinto era rappresentato dalla fede.

Qual’è il filo che aiuta ad orientarsi nel labirinto laico dei nostri tempi?

In un mondo come quello attuale dominato dalla velocità, dalla interdipendenza, dagli intrecci più complessi, dove gli sviluppi della scienza pongono via via interrogativi sempre più drammatici che si sostanziano nel capire che non tutto quello che si può tecnicamente fare si può eticamente fare, come si ritrova il filo della ragione, della gerarchia dei valori, del bene e del male se si può ancora usare questa antica e difficile contrapposizione?

Come recuperiamo l’intelligenza e la passione, come rafforziamo sogni e speranze, come costruiamo fiducia, come guardiamo non solo alla faccia sporca ma anche alla faccia pulita dei nostri anni e del nostro Paese?.

Come dominiamo le incertezze, come trasformiamo la voglia del futuro migliore da scommessa in impegno, come guadagniamo l’orgoglio di trasmettere alle generazioni future i valori che ci hanno fatto resistere e vincere nei momenti della tragedia: quando si aprì la voragine sull’autostrada di Capaci o quando fu trovato il corpo di Aldo Moro nel centro di Roma?.

Rispondere è il nostro compito, la nostra responsabilità.

Il politico di oggi, quello singolo che è ciascuno di noi, o quello collettivo, che è il partito, ripercorre il mito di Teseo. Deve sopprimere il Minotauro della violenza, della irrazionalità , del cinismo, del razzismo e della discriminazione. Per sconfiggerlo deve uscire dalla sua comoda patria su barche leggere, deve affrontare il mare tempestoso, come fece Teseo, deve entrare nel palazzo del mostro, che è il labirinto della società contemporanea, deve rischiare di essere distrutto o soppresso, e lì deve governare il presente e progettare il futuro. Lì deve dare coraggio, fiducia. Lì nella lotta quotidiana, nei momenti del dolore e della solitudine, perché quando si vince siamo tutti giganti, il politico deve dimostrare se vale, quanto vale, se merita la fiducia che gli è stata accordata. Se è capace di riprendere a lottare. Vincere non vuol dire solo uccidere il Minotauro; bisogna poi portare nella città, alla libertà e alla sicurezza, quelli che nel labirinto erano rinchiusi o si erano persi.

È difficile; ma se fosse facile non staremmo qui a parlarne.

Il fatto è che bisogna restituire alla politica la capacità di orientare i processi economici e quelli sociali. L’economia e la società sono veloci, la politica è lenta. L’economia e la società tendono alla globalizzazione, la politica è prevalentemente nazionale. Perciò dobbiamo darci istituzioni politiche veloci, quelle che costituiscono una democrazia decidente. Dobbiamo sviluppare le relazioni internazionali. Uscire dalla nostra provincia. Costruire l’Europa politica. Solo in questa dimensione le istituzioni politiche possono competere efficacemente con le logiche economiche che, come è noto, non si occupano di chi soffre o di chi è debole, dei quali invece deve occuparsi la politica, se non vuole perdere il senso della propria funzione.

Questo cambiamento va sotto il nome di modernizzazione.

La modernità che ci serve è quella che ormai possiamo definire classica nel senso del primato della ragione, della tendenza alla giustizia sociale e alle pari opportunità, di accettazione del diverso, di rottura delle tradizionali gerarchie, di rifiuto del regno della lentezza che assorbe i tempi e distrugge la qualità della vita.

Penso alla modernità che non si confonde con il modernismo reazionario, quello che si presenta come nuovo ma contiene in sé discriminazione, falsificazione, tangenti e abusi, tutti i caratteri del più tradizionale dominio dell’uomo sull’uomo.

In questa modernità quali sono le responsabilità e i compiti della politica?

Il primo dovere, a mio avviso, è la ricostruzione di una classe dirigente.

La storia italiana di questo secolo ha subito due strozzature, diverse per natura, carattere ed origine, ma entrambe dannose per la formazione e lo sviluppo di una classe dirigente. Il fascismo prima e la guerra fredda interna, poi.

Il fascismo bloccò lo sviluppo civile del Paese ingessandolo nelle maglie della fedeltà al partito unico e del conseguente servilismo.

L’antifascismo e la lotta di Resistenza formarono una classe dirigente di straordinaria qualità politica e morale; ma la guerra fredda ne congelò le potenzialità.

Sull’essere e sentirsi cittadino ha prevalso il sentirsi appartenente ad uno dei due schieramenti che dominavano il campo, quello antifascista e quello anticomunista.

L’appartenenza ha prevalso sulla cittadinanza.

Una delle più gravi conseguenze è stata la debolezza del senso dello Stato e della cultura della legalità. L’uno e l’altra sono forme di educazione civile caratterizzate dalla fiducia in una società retta da regole ed attenta all’interesse pubblico. Comportano l’esercizio responsabile dei diritti e l’adempimento altrettanto responsabile dei doveri. Senso dello Stato e senso della legalità comportano rispetto per le proprie istituzioni e per il proprio Paese.

Quando in una nazione sulla cittadinanza prevale l’appartenenza si indeboliscono le virtù civili.

Naturalmente non è mancata in Italia una classe di governo. È mancato invece un sistema consolidato di produzione della classe dirigente, autonomo dagli interessi di parte.

In questa mancanza c’è anche una responsabilità da parte degli intellettuali.

Italo Calvino il 15 marzo 1980 pubblicava su La Repubblica un Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Egli pronosticava per la controsocietà degli onesti la possibilità di sopravvivere solo nelle pieghe della società dominante, guidata dai principi del latrocinio pubblico e privato. Questa controsocietà, concludeva Calvino, “forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa di essenziale per tutti...”.

L’apologo appartiene alle pagine più significative di Italo Calvino non solo per i suoi meriti letterari. Esso è lo specchio del modo in cui la parte migliore della intelligenza italiana ha vissuto, quasi in modo giacobino, la propria estraneità dall’Italia. Quel “senza altra pretesa che di vivere la propria diversità...” disegna anche lo stato d’animo, la condizione spirituale di una grande parte del ceto intellettuale e richiama due giudizi su Enrico Berlinguer all’indomani della sua morte.

Eugenio Scalfari intitolò il suo fondo “Straniero in patria” e Giorgio Bocca lo definì “Antiitaliano”. In Francia lo avrebbero definito un grande francese; in Germania un grande tedesco. Perché non definirlo un Grande Italiano? Perché un onesto non poteva essere definito cittadino della sua patria e italiano per eccellenza?

La questione attiene al modo in cui molti intellettuali italiani, dopo il fascismo, hanno vissuto con orgoglio non la propria appartenenza al Paese ma la propria estraneità. In ciò rafforzati dall’altra estraneità, quella del PCI, che per ragioni storiche e politiche ben conosciute faceva della “diversità” il proprio codice genetico.

Questa diversità politica, che fu anche motivo di orgogliosa educazione civile e fondamento di una rigorosa etica pubblica, fu tradotta troppo spesso dagli intellettuali che alla sinistra facevano riferimento, ed erano la maggior parte, nel sentire l’Italia come altro da sé.

Eppure nulla era più lontano dall’idea che Gramsci aveva del ruolo degli intellettuali.

Questa estraneità ha ritardato la costruzione di una classe dirigente perché ha ostacolato l’affermarsi di un’idea democratica dei valori nazionali e della identità nazionale, senza dei quali è impossibile progettare futuro.

Se non si crede nel proprio paese, infatti, non se ne può costruire il futuro.

Oggi assistiamo a forme inedite di selezione del corpo politico, basate proprio sul rifiuto della figura del “politico professionista”.

Ma è una vecchia illusione reazionaria che si possa governare facendo a meno delle qualità della politica.

Non è possibile. L’esperienza del governo richiede qualità e competenze che si acquistano con la conoscenza del Paese, con la padronanza e il rispetto dei meccanismi istituzionali, con la capacità di ascoltare, di dirigere, di ottenere risultati. Queste qualità si costruiscono; non sono innate.

Per questo, perché i Tesei possano battere il Minotauro, e uscire verso la libertà è necessario pensare ai luoghi di formazione della futura classe dirigente.

Le nostre istituzioni formative e la nostra ricerca non sono adeguate alle necessità. L’Italia destina alla ricerca circa l’1,2% del PIL. Germania e Francia investono più del doppio. Ad ogni ricercatore italiano corrispondono 1,8 ricercatori in Francia e in Gran Bretagna, 3,2 in Germania, 9 in Giappone e 13 negli USA.

Il figlio di un operaio o di un contadino ha venticinque possibilità in meno di laurearsi rispetto al figlio di un laureato. Questa è l’intollerabile discriminazione sulla quale bisogna operare per non accumulare ingiustizie sociali, umiliazioni, per non far perdere al nostro Paese migliaia di giovani intelligenze che hanno il solo torto di essere nate in una famiglia povera.

Essere di sinistra vuol dire combattere e vincere questa e le altre iniquità sociali.

Altrimenti la sinistra non serve.

Dobbiamo costruire e recuperare. Ci serve voglia di futuro. Senza desiderio di futuro non esiste classe dirigente degna di questo nome.

Abbiamo bisogno di pensiero strategico. Il pensiero occasionale aiuta solo nel quotidiano, è come l’appiglio incerto in montagna, che ti serve per un momento soltanto e se ci fai troppo affidamento ti ritrovi malconcio. Ci servono chiodi d’acciaio e corde robuste; ci servono tutto il nostro coraggio e tutta la nostra volontà.

Dobbiamo moltiplicare le sedi nelle quali si possano formare con continuità e con parità di condizioni di accesso le classi dirigenti del nostro Paese per domani e dopodomani.

Occorre suscitare nella scuola, per docenti e studenti, la cultura della qualità e dell’eccellenza con incentivi e riconoscimenti che stimolino le capacità individuali ed aiutino a riconoscere i segni della disponibilità allo studio e al sacrificio per il risultato.

Ma nel frattempo?

L’Italia non è priva di competenze, di capacità professionali, di spirito di sacrificio. In alcuni settori, civili e militari, disponiamo di vere e proprie punte di eccellenza. Chi ha responsabilità politiche deve avere il coraggio di esporre pubblicamente la necessità di dare obbiettivi e valori costitutivi a coloro che hanno queste competenze e queste capacità per farli sentire classe dirigente nazionale.

Una classe dirigente deve ispirarsi a due valori fondamentali: l’adesione ad un’etica pubblica e la capacità di costruire futuro.

L’etica pubblica comporta responsabilità, senso dello Stato, competenza ed onestà.

Il senso di responsabilità è la coerenza tra doveri e comportamenti.

Il senso dello Stato comporta la netta distinzione tra la sfera del pubblico e quella del privato.

La competenza comporta non la conoscenza diretta di tutto ciò che è utile conoscere per dirigere, cosa che è praticamente impossibile, ma la capacità di mantenere un rapporto permanente con gli specialisti dei settori di interesse.

L’onestà è un preciso dovere di chi appartiene alla classe dirigente in un Paese democratico. La crisi che ha investito l’Italia negli ultimi anni ha rivelato una crisi delle etiche pubbliche, ma anche una preoccupante corruzione delle etiche dei privati. É evidente infatti che non ci sono corrotti se non ci sono corruttori.

Per troppo tempo una parte considerevole, anche se non maggioritaria, della società italiana ha ritenuto che l’onestà delle classi dirigenti fosse una variabile priva di effetti sul piano dei risultati. I risultati, invece, li abbiamo letti nelle sentenze di Milano e di Palermo.

La capacità di costruire futuro è legata innanzitutto alla fiducia nel proprio Paese. Su questa base si costruiscono il primato della scuola e della formazione, la capacità di indicare le certezze fondamentali per i cittadini e per le imprese, la capacità di tutelare i diritti delle generazioni future, la capacità di motivare coloro che lavorano attorno ad un progetto facendoli sentire partecipi e protagonisti della realizzazione.

Una classe dirigente non si costruisce all’ombra dell’egualitarismo che porta a straordinarie ingiustizie perché fa andare avanti solo coloro che hanno forti protezioni di tipo familistico, economico, sociale o clientelare. Occorre che tutti abbiano pari opportunità di partenza. Poi chi avrà più capacità, più desiderio di conoscere e di affermarsi, percorrerà più strada e servirà con responsabilità maggiori il proprio Paese. Il riconoscimento del merito e la cultura della flessibilità non sono trucchi. Sono gli strumenti con i quali la politica costruisce una giustizia sociale concreta, non ideologica.

Una classe dirigente deve sapere dire i “no” necessari. Non tutto ciò che si può fare materialmente, è lecito o moralmente compatibile con i diritti degli altri. Chi dirige deve sapersi assumere anche la responsabilità di porre limiti, cominciando ad osservarli per primo.

Una classe dirigente deve avere il coraggio dell’utopia. Non parlo delle mete irrealizzabili, che hanno già generato menzogne e disastri. Parlo dell’utopia strategica, quella delle impossibilità relative e delle emancipazioni necessarie.

Parlo della capacità di guardare un metro oltre l’orizzonte, solo un metro. Ma il confine tra l’orizzonte e quel metro in più separa ineluttabilmente quelli che hanno paura di pensare da quelli che hanno il coraggio di vivere, quelli che amministrano da quelli che governano.

Una classe dirigente si ispira ai valori della Repubblica. Quella italiana è l’unica Repubblica nata da una guerra al nazifascismo. Chi combatté per la Repubblica italiana non volle soltanto abbattere la monarchia. Volle ripristinare nella nazione italiana alcuni valori che costituiscono nella storia europea degli ultimi due secoli, dopo la rivoluzione francese, l’essenza dell’essere repubblicani. Essere repubblicani vuol dire avere la necessità della regola, il senso della continuità dei valori civili fondamentali nello scorrere delle generazioni, la religione del servizio che si ha il dovere di rendere ai cittadini. Significa essere laici e rispettosi delle opinioni altrui. Ripudiare le contese ideologiche e affrontare la battaglia delle idee. Credere che il futuro è dentro le nostre mani e che ogni generazione si legittima nel giudizio della storia per quello che riesce a consegnare alle generazioni future. Noi ci legittimeremo non sulla base degli applausi che riusciremo a scambiarci, ma per ciò che riusciremo a consegnare a quelli che verranno dopo di noi.

Questa sostanza della Repubblica è stata per troppo tempo trascurata. Nell’opera di rifondazione del sistema politico e dei suoi valori costitutivi è necessario riaffermare il valore propositivo e dinamico della forma repubblicana dello Stato come punto qualificante della nostra identità nazionale e come carattere essenziale di una nuova etica pubblica e di un nuovo modo di intendere la cittadinanza.

Bisognerà, con prudenza e con rispetto per chi dissente, agevolare la ricostruzione di una storia unica della nostra Repubblica, senza omissis e senza vendette, nella quale tutti possano riconoscersi.

Cesare Pavese concludendo ”La casa in collina”, un lungo racconto scritto tra il settembre 1947 e il febbraio 1948, che ha come scenario la guerra di Resistenza, scrive, mentre guarda il cadavere di un militare nazifascista:

“Ora che ho visto cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero”.

Pavese aveva intuito che la guerra civile sarebbe proseguita con altri mezzi nei decenni successivi, come poi è stato con le stragi terroristiche e gli omicidi politico-mafiosi. Ora, superato il bipolarismo, ed i suoi tragici condizionamenti, l’unico modo per conquistare la piena autonomia rispetto al passato è raccontare tutto il passato con pienezza di verità, senza buchi, considerandolo nel bene e nel male una parte della storia d’Italia. Poi sui singoli fatti ogni cittadino, ogni parte politica, ogni storico, confermerà o darà il suo giudizio e le sue valutazioni, in piena tolleranza e libertà.

Teseo fu aiutato da Arianna. Chi aiuterà i Teseo del terzo millennio? Arianna, nel mito, rappresenta la forza dei valori umani, quelli non eroici, ma essenziali per vivere e combattere. Sono i valori delle donne, che consentono a noi uomini di non essere macchine, che ci consentono di essere padri, figli, fratelli, mariti, compagni.

Quelli che ci consentono, più semplicemente, di essere uomini.

La nostra è la sfida al labirinto, contro la resa al labirinto.

Noi legheremo insieme competenza ed onestà, noi intrecceremo coraggio ed amicizia, noi guarderemo alle generazioni future e alla solidarietà.

Noi ci stiamo impegnando per costruire istituzioni politiche che aiutino la vita quotidiana dei cittadini, invece che renderla più difficoltosa come oggi spesso avviene. Noi lavoreremo perché tutte le forze politiche, dalla sinistra alla destra possano partecipare alla costruzione delle regole e dei limiti della competizione politica.

Infine. Siamo in cammino e non siamo arrivati. È vero.

Ma quanta strada abbiamo percorso e in quanto poco tempo.

In mezzo a noi e alle mie spalle ci sono Tesei coraggiosi e Arianne intelligenti.

Ce ne resta ancora molta di strada.

Ma andremo avanti.

Perché abbiamo passione politica e voglia di combattere per gli stessi ideali che ci hanno lasciato le donne, gli uomini, i partiti che hanno costruito l’Italia repubblicana e libera e che oggi, credo, potrebbero essere orgogliosi di queste donne, di questi uomini, di questo partito.